La renna bianca

di Gian Giacomo Petrone
La renna bianca - recensione film blomberg

Terra ai confini del mondo, la Finlandia trabocca di miti e leggende che, a livello letterario, trovarono nel Kalevala – il poema epico composto da Elias Lönnrot nella prima metà dell’Ottocento, sulla scorta di racconti e saghe tradizionali finlandesi, careliane, lapponi, estoni – la più grandiosa e compiuta sistemazione. È curioso rilevare come Lönnrot fosse un uomo di scienza (medico e botanico), oltre che un umanista, e come la sua impresa filologica fosse evidentemente animata non solo da propositi poetico-letterari, bensì anche da un criterio storico-antropologico.
Sul versante della produzione cinematografica finlandese, si può notare, almeno agli inizi, una certa contiguità teorica col lavoro di Lönnrot. Infatti, nel primo ventennio del Novecento a prevalere fu l’approccio documentaristico, soprattutto nella figura del regista Sakari Pälsi, in grado di anticipare alcuni temi e stilemi dei fondamentali lavori di Robert J. Flaherty degli anni Venti e Trenta. Non è probabilmente peregrino affermare, quindi, che la dimensione epica delle narrazioni filmiche folk provenienti dalla “Terra dei mille laghi”, più che aderire alla costruzione tipica del cinema di finzione tout court, si sia giovata sovente della veri(dici)tà impressa sui luoghi e sui volti senza tempo delle persone che li abitano, da un reale costitutivamente leggendario.

La renna bianca (conosciuto anche col fuorviante titolo Il bianco pastore di renne) si colloca esattamente al confine fra cinema-verità etnografico e cupo dramma psicologico, e trae la propria forza proprio da tale dicotomia. Il regista Erik Blomberg, non a caso, proviene dal documentario, ma le sue immagini sono circonfuse di una potenza espressiva che travalica i confini del reale, pur restandovi saldamente ancorate; una potenza espressiva che, peraltro, non passò inosservata né a Cannes né negli USA, dove il film ricevette – l’anno successivo alla sua uscita, datata 1952 – importanti premi e un riconoscimento internazionale che tuttora gli consente di preservarsi dalle secche di un immeritato oblio. Blomberg scrive la sceneggiatura a quattro mani con la moglie Mirjami Kuosmanen, che interpreta anche la protagonista Pirita, e la mano femminile si può avvertire distintamente nel tratteggio di un personaggio estremamente articolato come quello della donna-renna stregata, che mette a repentaglio l’equilibrio della società di appartenenza, venendone respinta.

In un minuscolo villaggio lappone, in un imprecisato punto temporale del Medioevo, si intrecciano le vicende collettive di una comunità di cacciatori e allevatori con quelle personali di una donna, Pirita, animata da un fiero spirito indipendente e dall’insopprimibile urgenza di affermare la propria soggettività come volontà e desiderio, tuttavia senza smarrire mai del tutto il senso di appartenenza al suo popolo. Come in ogni fiaba che si rispetti, perché La renna bianca è soprattutto una meravigliosa fiaba nera e tragica, la donna ricorrerà alla magia per realizzare i propri disegni, e da questa otterrà un dono che si configurerà irreversibilmente come una condanna.

Pubblico e privato, religione cristiana e antiche credenze sami, maschile e femminile, uomo e natura, ma soprattutto Legge e Desiderio sono i duali tematici che innervano il racconto filmico e innescano l’evoluzione drammaturgica al cui centro ritroviamo Pirita, la donna che riceverà, dopo un cruento rituale sacrificale, il talento funesto di essere concupita da tutti gli uomini del villaggio, ma domata da nessuno (nonostante il suo amore per il marito Aslak, interpretato da Kalervo Nissilä), diventando una sorta di donna-vampiro, una mortale donna-renna, ibrido mostruoso e nondimeno conturbante. Sotterraneamente il film è percorso dall’ulteriore duale conflittuale fra totem e tabù, che costituisce il fulcro attorno a cui ruotano gli altri e da cui essi traggono le proprie motivazioni profonde. La comunità sami raffigurata è imbevuta di atavici principi morali e religiosi pre-cristiani (essendo i rituali cristiani una sorta di appendice pubblica della vita sociale) e trova nella figura della renna il coagulo fatato della propria armonia. L’animale in questione è fonte di soccorso e sostentamento sia da viva sia da morta, ed è perciò sacro, al servizio di un popolo che se ne prende cura. In un’area consacrata della tundra che circonda il villaggio è situato infatti un simbolo totemico, alla cui sommità è collocato il teschio di una renna. Nel momento stesso in cui Pirita sopprime un cucciolo bianco di renna di fronte all’idolo, per portare a compimento il rituale che modificherà la propria natura e il proprio destino, ella a un tempo infrange il tabù dell’intangibilità del sacro, uccidendo l’animale per scopi difformi da quelli che ne sanciscono il ruolo nella comunità, e disonora il totem, invocandolo per realizzare i propri scopi personali, in conflitto coi precetti pubblicamente accettati. Un altro e definitivo tabù verrà quindi infranto – a partire dall’empio atto primigenio della donna – con l’omicidio, a cui seguiranno i primi cenni di disgregazione della comunità, la cui armonia potrà essere ripristinata solo con la dissoluzione dell’elemento perturbatore. Non va dimenticata, inoltre, la peculiare importanza simbolica della renna bianca (animale evidentemente raro), uno dei cui esemplari veniva immolato dai sami a Beaivi, la divinità solare, durante il cerimoniale del solstizio d’inverno. Oltre a ciò, il fatto stesso che Pirita si trasformi, nei momenti di trance/possessione, in una renna bianca, esattamente come quella da lei uccisa, indica la pena di un beffardo contrappasso.

Un ulteriore e determinante punto di forza della pellicola si situa nel visivo, da cui emanano tutta la potenza e il senso dei duali in conflitto. L’elemento verbale dialogico è puramente residuale, giacché la costruzione visiva, l’impianto gestuale e recitativo, la magnifica colonna sonora di Einar Englund (con rimandi a Sibelius, ma anche ai grandi compositori russi del Novecento) sono perfettamente calibrati per esprimere le passioni e delineare i tratti salienti (anche e soprattutto emotivi) del territorio, unitamente alle attività degli uomini che lo abitano. La progressione narrativa trae vigore non tanto dai conflitti fra i personaggi, bensì dalla sinergia fra documentazione socio-antropologica e costruzione finzionale di taglio espressionista, in cui è la luce ad aprire o chiudere il paesaggio, a tracciarne i rilievi e sfumarne i contorni, donando tono e atmosfera alla lotta fra l’uomo e una natura magnifica ma annichilente. È la luce, ancora e infine, a duellare col volto di Mirjami Kuosmanen/Pirita, conferendogli armonia o dissonanza in mille sfumature chiaroscurali e geometriche, esprimendo tutta la gamma psicologica ed emotiva della donna, quasi senza bisogno di recitazione. Un cinema di confine, in tutti i sensi, che abita un altro tempo, il tempo della magia.

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Erik Blomberg Mirjami Kuosmanen Kalervo Nissilä Åke Lindman 67 minuti
Finlandia 1952
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Volevo nascondermi

di Pietro Lafiandra
Volevo nascondermi - recensione film diritti germano

Tutto passa sul corpo di Elio Germano, tutto passa sul corpo di Toni Ligabue: i germi, la neve, le percosse, le carezze, le mani di una donna mentre prova a placare la rabbia che cova dentro il pittore.
Nella sua prima metà, Volevo nascondermi sembra filtrato dallo spioncino che lo stesso Ligabue si costruisce sotto la coperta con cui prova a celarsi al mondo, la fessura attraverso la quale guardare questo stesso mondo abbattersi sulla propria pelle senza leggerezza, proprio come le sculture zoomorfe che il pittore lancia fuori dalla finestra in uno dei tanti, repentini scatti d’ira che lo caratterizzavano. Ecco, fin qui quello di Giorgio Diritti è un film epidermico, è un film animale, un film di pelle e di bestie, di superfici e punti di contatto, è un film né sul dentro e né sul fuori, ma sul loro rapporto, su quella sottile linea che queste due dimensioni media. Da qui, l’indugiare della macchina da presa sulle asperità del volto di Elio Germano (vincitore dell’Orso d’argento come miglior attore al Festival internazionale del cinema di Berlino), sulle sue mani tremanti, sulla sua cifosi, sul suo dondolare ossessivo.

Poi una seconda parte dimessa, edulcorata, in cui il regista, nel fornire lo spaccato di un mondo di provincia, quello di un paesino sulle rive del Po (quasi) privo di ogni conflitto, pare volersi assestare su quanto costruito nella prima parte, senza (e questo è un fattore positivo) indulgere al facile patetismo né a una grezza scopofilia, al contempo, però, abbandonando quegli elementi  che facevano del film qualcosa di più della semplice ricostruzione di una vita: il lavoro sul corpo rachitico di Ligabue lascia spazio alla rappresentazione della rete sociale, un microcosmo idilliaco e apparentemente utopico che, pur guardando al corpo di Ligabue come all’Altro, al Diverso, sembra, in fondo, sempre accettarlo, redimendo non tanto i protagonisti stessi, quanto gli spettatori commossi, che, inevitabilmente, finiscono per guardare con empatia distaccata, benevolenza e compassione al pittore e a chi se ne prende cura, e con rancore a chi, volontariamente o meno, lo umilia.

L’intento di Diritti è chiaro, lo dice lui stesso: «come per ogni uomo nella vita, è capitato anche a Toni di sentirsi inadeguato, sbagliato, sconfitto e il primo istinto anche per lui in quei momenti è stato il desiderio di nascondersi, di uscire dal mondo. Rileggendo il percorso della sua vita, appare evidente quanto il suo essere visto come "diverso" sia l'origine di molte delle sue sofferenze ma anche il nucleo generativo della sua identità artistica e del suo successo» (fonte: Film Tv). È proprio nella prima ora di film che quest’intento si compie, e vi risiede il grande merito di Volevo nascondermi, quello di mettere al centro dell’opera una dimensione che il cinema italiano ha spesso allontanato se non addirittura rifiutato: la dimensione del corpo, il corpo che si contorce, che si piega, il corpo che soffre. Il regista de L’uomo che verrà non è interessato alla linearità narrativa, né alla pedissequa ricostruzione di una vita, né, tantomeno all’uso della macchina-cinema per tentare di riprodurre una visione, una precisa estetica (operazione delicata e dai risultati spesso artificiosi, come dimostra il recente Van Gogh - Sulla soglia dell’eternità di Julian Schnabel); piuttosto sembra voler insinuare la macchina da presa all’interno delle pieghe di quel «siamo tutti animali», battuta cardine di Ligabue, pronunciata in sordina, ma che sembra avere il sapore di una nenia che torna e ritorna nella mente del pittore e che si erge a sunto di un’intera poetica, fatta di tigri feroci e uccelli rapaci, di corpi deformi e di volti inumani e che, in particolar modo, permette al regista di lavorare sul concetto di Diversità, attraverso l’analogia e la simmetria tra il corpo umano e quello animale.

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Giorgio Diritti Elio Germano Oliver Ewy Orietta Notari 120 minuti
Italia 2020
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Servant

di Saverio Felici
Servant recensione serie tv Apple Tv+

Apparsi con un certo clamore nel ventaglio di titoli sul biglietto da visita della Apple TV+, i dieci episodi di Servant sono prima di tutto un sondaggio. Non (ancora) un racconto organico, ma una rosa di opzioni, un accumulo di spunti stilistici e tematici che solamente in seguito andranno a costituire il plot a lungo termine del progetto. M. Night Shyamalan, co-creatore, regista e produttore esecutivo assieme allo scrittore Tony Basgallop, ha già rivelato di aver lavorato con in testa solo avvio e conclusione (col senno di poi, la metodologia di produrre film partendo dai finali ne spiegherebbe la scanzonata carriera). Alla Apple è stato venduto appena il titolo e la prima mezzora; il blasone degli autori è bastato per ottenere l'ok. 
Servant conterà idealmente 60 episodi per sei stagioni; la prima di queste è un pilot di cinque ore, e sarà il responso pubblico a decidere lungo quali dei mille sentieri aperti si proseguirà. Se una notte d'inverno una tata infernale: tante serie, tanti film e tante storie si diramano a partire dalla scena di apertura. In un turbinio di sbalzi di tono da far girare la testa, Shyamalan e Basgallop provano ad affrontarli tutti.

Di cosa parla, Servant? Di vivi e morti, di lutto e amore, di crescere e invecchiare, di matrimonio, solitudine, dolore, religione, cucina, carne e digitale, schermi e coltelli,  culle e cineprese. Potenzialmente, di tutto, e in ogni maniera. E pensare che viene introdotto con l'economia visiva di un kammerspiel: dramma da camera, un appartamento, un gruppo ristretto di personaggi di classe media, il dialogo come motore. Qui, le maschere in scena sono quelle dei coniugi Dorothy (Lauren Ambrose, vera star) e Sean Turner (Toby Kebbell), neo-genitori della upperclass continentale americana. Lei reporter per servizi di costume, lui chef e personaggio tv in orrendi simil-Masterchef. Vivono in una bellissima casa a tre piani a Filadelfia. Dietro le tendine, l'incubo: il piccolo Jericho, primogenito dei due, è morto a tredici settimane di vita in circostanze misteriose. Dorothy è bloccata nel diniego del trauma, che ha rimosso; Sean, in accordo con il cialtrone e cocainomane fratello di lei Julian (Rupert Grint scatenato, che a dieci anni dall'addio a Ron Wesley si riscopre aspirante Steve Buscemi), le ha messo in braccio una reborn doll: inquietante e uncanny pupazzo umanoide, oggetto transitorio rappresentante il neonato scomparso, che dovrà accompagnare la madre nell'accettazione del lutto negato. Ma il lutto fatica a manifestarsi, e Dorothy è ora convinta che la bambola sia davvero suo figlio. Il già precario equilibrio deraglierà con l'arrivo a casa della tata Leanne (Nell Tiger Free), misteriosa ragazza del Wisconsin senza passato. Una Mary Poppins delle praterie, religiosa, vergine, emersa dal nulla, forza motrice violenta dell'assurdo.

Presentandosi sotto una veste, Servant cambia pelle a più riprese nel corso dei suoi dieci episodi, sfuggendo sistematico ad ogni forma di catalogazione. Difficile dire se si tratti di scelta stilistica o procedere a tentoni, e facile anzi che tale schizofrenia susciti più un indecifrabile fastidio che fascinazione. Che cos'è, in fondo? Parte come un dramma in interni e luci buie, prende una svolta da giallo con indagine, devia in black comedy all'inglese per un paio di episodi, cambia prospettiva continuamente, accumula metafore e chiavi di lettura, si riavvolge nello psicodramma domestico, e nel finale si rivela per ciò che da Shyamalan ci aspettavamo fin dall'inizio: un fantasy puro.
Dopo una falsa partenza lunga due terzi del ciclo, il dramma dei Turner appare allora come mero pretesto, e Servant rilancia i suoi sviluppi futuri verso una possibile grande saga fantastica shymalaniana: con superpoteri, magia, allegorie, predestinazione, e metanarrativa. Si presenta come un film di Haneke o di Von Trier, gioca al gatto e al topo con le aspettative, e chiude (o meglio, inizia) come fosse Carnivale. L'epica southern gothic dai toni apocalittici si mangia la storia privata, e ciò che verrà dopo è a questo punto imponderabile.

Parlare di Servant è per ora un processo alle intenzioni. La prima stagione pianta misteriosi semi destinati a maturare solamente tra altri dieci, o venti o trenta episodi ancora. Quello che si vede ora fa molto ridere, inquieta abbastanza, non commuove granché e dice poco o nulla sui duecento temi tirati in ballo in “appena” cinque ore. Shyamalan-autore è presentissimo, ed è difficile stabilire dove finisca il suo apporto e inizi quello dell'effettivo autore Basgallop, professionista tv britannico e scrittore degli episodi. Nel suo sardonico mettere in crisi i due imbecilli maschietti di casa (il cuore è iper-femminile: altro nodo importante), la serie riaccende la componente umoristica emersa nei recenti exploit del regista americano, quando incrociando orrore e cringe (personaggi incomprensibili che si comportano in maniera assurda davanti agli esterrefatti protagonisti) aveva dato il massimo in film come Split e The Visit. I quattro episodi finali virano invece verso i temi e le suggestioni di Unbreakable; lì un po' di brillantezza si perde, complice l'arrivo prepotente in scena di alcuni personaggi cliché a turbare l'equilibrio miracoloso dei quattro lead. Resta un gran divertimento fino alla fine, fruibile come una commedia dark con attori incredibili e senza un finale. Per un'analisi esauriente, se ne parlerà fra tre o quattro stagioni.

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M. Night Shyamalan Lauren Ambrose Nell Tiger Free Toby Kebbel Rupert Grint 1 stagione da 10 episodi
USA 2019
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See

di Mattia Caruso
See - recensione serie tv apple knight

Se puoi vedere, guarda. Se puoi guardare, osserva. Si apriva con questa citazione Cecità di José Saramago, un romanzo con cui See, una delle serie di punta della nuovissima piattaforma streaming Apple TV+, pare avere più di un debito, a partire dalla semplice quanto anomala intuizione che ne sta alla base. Se dalla serie creata da Steven Knight (Peaky Blinders, Taboo) qualcuno si fosse infatti aspettato la riproposizione dell'ennesimo immaginario post-apocalittico, potrebbe esser rimasto deluso. Perché uno degli aspetti più felici di See è proprio quello di aver saputo imprimere una nuova direzione alla propria distopia, dando vita a un universo incontaminato e suggestivo sorprendentemente lontano, almeno nelle premesse, da qualsiasi altro esempio del genere.

Nel mondo di Baba Voss (Jason Momoa) e compagni, un mondo in cui da secoli, in seguito a un'epidemia, l'umanità vive nella più completa cecità (tanto da considerare la vista un'eresia), c'è infatti tutto lo straniamento e il fascino per una realtà irrimediabilmente altra, terribilmente lontana dalla nostra esperienza, anche di spettatori. Una premessa anomala e affascinante cui Knight, coadiuvato alla regia dal Francis Lawrence di Hunger Games, decide di contrapporre però il più classico dei viaggi di formazione, un'odissea dove il post-apocalittico incontra il fantasy puro, tra guerrieri leggendari, regine folli e bambini dotati del dono più grande ma anche più pericoloso che in quel mondo si possa immaginare: la vista.

Se nel paese dei ciechi l'orbo è re, i piccoli Kofun e Haniwa, così come Jermamarel, il misterioso uomo che ha dato loro la vita (e la capacità di vedere) per poi sparire, non possono che essere degli dei, benevoli o malevoli sta a loro deciderlo o, al limite, al loro padre adottivo, Baba Voss (un Momoa che a tratti ritrova il Khal Drogo di Game of Thrones e il Conan di Conan the Barbarian), capo tribù dal passato oscuro deciso ad accompagnare i figli verso il loro destino, senza per questo far dimenticare loro compassione e umanità, educandoli a saper guardare e osservare prima ancora che, banalmente, vedere.
È così che See, episodio dopo episodio, dà vita al suo mondo carichissimo di idee, suggestioni e temi ricorrenti (dalla religione al pregiudizio, dal fanatismo alla disabilità), a tratti perdendosi e girando a vuoto, a tratti chiedendo al suo pubblico una sospensione dell'incredulità pericolosamente alta (certe trovare sono oggettivamente poco plausibili per un mondo di non vedenti). Punti deboli in parte riscattati da personaggi azzeccati (uno su tutti, la spiritata Queen Kane di Sylvia Hoeks), da sequenze d'azione ben coreografate e coinvolgenti e da ambientazioni e paesaggi (quasi) incontaminati, inevitabile monito ecologista di un mondo dove la vista è peccato originale, hybris manifesta di un'umanità responsabile del proprio tracollo. Un dono e insieme una maledizione che va quindi prima di tutto compreso, indirizzato, padroneggiato.

L'ennesima storia di grandi poteri e grandi responsabilità, dunque? Forse. Eppure, al di là di scontati rimandi e di una vicenda che, progredendo su binari più classici e ben rodati, rinuncia in parte alla propria specificità, è innegabile la forza evocativa di un prodotto imperfetto come See, la sua carica mitica e la sua tensione morale, quel fascino che solo le storie con un'idea forte e suggestiva alle spalle ci sanno ancora regalare.

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Steven Knight Jason Momoa Sylvia Hoeks Alfre Woodard Nesta Cooper Archie Madekwe Christian Camargo 1 stagione da 8 episodi
USA 2019
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Days

di Emanuele Di Nicola
Days - Rizi tsai ming-liang recensione film

«Questo film è volutamente senza sottotitoli». Poche inquadrature, camera fissa, piani sequenza. A sette anni da Stray Dogs Tsai Ming-liang torna alla finzione pura con Days (Rizi), in concorso alla Berlinale 2020. Una storia semplice: l’incontro erotico tra due uomini. Il più ricco Kang (Lee Kang-sheng, attore prediletto e amico del regista) e il giovane povero Non (Anong Houngheuangsy), che si prostituisce in stanze d'albergo. Un “breve incontro” a cui prelude e segue la quotidianità dei due: l'uno vive in una grande casa con un'ampia vetrata da cui vede la città, l'altro in un piccolo appartamento a Bangkok dove cucina cibo tradizionale. Tutto qui.

Alla base c'è probabilmente un dato autobiografico: lo stesso Tsai, nel precedente Afternoon, conversando proprio con Lee Kang-sheng raccontava i suoi incontri sessuali con uomini. Che qui rimette in scena. Nel corso del tempo il suo cinema si asciuga sempre di più, si fa maggiormente essenziale e francescano: da una parte in Days scorrono temi di tutta la sua filmografia, basti pensare alla figura omosessuale in cerca di incontri di Vive l'amour, o al malessere de Il fiume che qui si ritrova nelle sedute di terapia di Kang, oppure ancora alla tradizione dei vegetali di Stray Dogs. Ma il suo cinema è ormai evoluto, cambiato. È diventato senza parole: non c'è più bisogno del dialogo per costruire una storia, qui il verbo è ridotto al minimo (e perlopiù convenevoli), il gesto cinematografico rinuncia all'orpello del parlato.

Nella prima parte i due uomini sono ripresi in montaggio alternato - seppure congelato - nel loro quotidiano. Come sempre, il sublime piano fisso di Tsai è un invito a prendersi il tempo opportuno per guardare: l’occhio scruta dentro l'inquadratura, è chiamato a sostenerla, gradualmente vi entra per farne parte, in una delle forme più rare di partecipazione all'esperienza cinematografica. Poi Kang e Non si incontrano. I percorsi paralleli si incrociano. Qui il regista inscena la lunga sequenza del massaggio, una ripresa potenzialmente infinita che si colloca tra i vertici del suo cinema: Non esegue il massaggio su Kang, lo tocca, le sue mani che scorrono sul corpo sono un elemento sessuale, ma anche una forma suprema di cura dell'altro. Anche per questo, nel compiersi della scena, lentamente si esce dal rapporto tra cliente e prostituto e c'è il rischio che si affacci il sentimento. Nel film, e in particolare in quel massaggio, c'è tutta la pulsione scopica insita nella natura stessa del cinema, ma c'è anche dell'altro: Tsai inquadra il corpo in modo erotico, ma anche ascetico. Coniuga voyeurismo e buddismo, perché nei nudi che si toccano fino all'orgasmo di Kang c'è perfino qualcosa di sacro.

L'atto decisivo arriva però alla fine del massaggio: Kang regala a Non un carillon che riproduce il motivo di Luci della ribalta di Charlie Chaplin. Lo stesso che chiudeva I don't want to sleep alone, un altro film sulla cura del prossimo. Dopo l'incontro i due uomini tornano alle loro vite. Ma non propriamente, non esattamente: Kang si risveglia nell'inquadratura fissa del suo volto che attesta il formarsi delle lacrime. Non per strada ascolta ancora il carillon, ma il suono viene coperto dai rumori delle macchine. La città copre le luci. Kang e Non tornano ad essere due solitudini, ma forse qualcosa è rimasto. Tsai Ming-Liang: ancora oggi uno dei migliori cinema possibili.

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Tsai Ming-liang Lee Kang-sheng Anong Houngheuangsy 127 minuti
Taiwan 2020
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Dickinson

di Irene De Togni
Dickinson - recensione serie tv apple tv plus

Fra le proposte della nuova piattaforma streaming Apple Tv+, Dickinson si presenta come una commedia storica pensata per un pubblico adolescenziale. La serie ruota intorno alle vicende di una giovane Emily Dickinson, dipinta in modo volutamente anacronistico come un’adolescente moderna alle prese con famiglia, amici, amori, aspirazioni professionali e con tutto il pacchetto di situazioni previste da un classico teen drama. Si tratta di uno show che si vorrebbe (ed è sicuramente così che viene descritto dalla maggior parte del discorso promozionale e mediatico) irriverente e rivoluzionario ma verso cui, in realtà, l’occhio dello spettatore televisivo, così come cinematografico, è già da tempo bendisposto grazie alla lunga serie di sforzi di rimodellamento e allargamento della rappresentazione televisiva fatti negli ultimi anni.

Girls, il dramedy per eccellenza con protagonista una giovane aspirante scrittrice che filtra e rielabora attraverso la scrittura la storia del proprio quotidiano, seguito dal più recente Jane the Virgin fanno, in modo più o meno esplicito, da modello alla costruzione del personaggio di Emily, anche se qui la scrittura sembra farsi più attributo del personaggio che essenza. Gli episodi sono generalmente ispirati ad alcuni componimenti della poetessa, costruendovisi intorno in modo un po’ posticcio, e l’interpretazione televisiva del letterario spesso coincide con la semplice operazione di mettere in scena il pretesto aneddotico che spingerà di volta in volta Emily a mettersi a scrivere. Della scrittura viene abbracciato, forse, in questo senso, più l’immaginario che spesso circonda gli adolescenti che vi si appassionano, specie se donne. Ed è così che lo show curato da Alena Smith si impegna a ridare colore al topos della ragazzina stralunata, fantasiosa, affascinata da un’altra profondità rispetto a quella delle questioni più pratiche e convenzionali, avvicinando la Emily di Dickinson agli universi narrativi dalle atmosfere dark e magiche di Le terrificanti avventure di Sabrina e Hill House (quest’ultima se consideriamo la rivalutazione degli ultimi anni dell’opera di Shirley Jackson colma di adolescenti distratte e sognanti, in contatto con una regione oscura dell’esistenza).

Vi è sicuramente un riferimento all’ondata di lavori soprattutto cinematografici (ma anche accademici) che incoraggiano un ripensamento del ruolo e della presenza femminile nel letterario (una lista esaustiva dei film usciti negli ultimi anni sarebbe troppo lunga, basti citare il bellissimo Piccole donne di Greta Gerwig), un legame che prende la forma della riflessione storica insita al period drama e diventa facilmente occasione polemica o critica rispetto a oppressioni, incomprensioni od omissioni di diverso genere a danno delle donne da parte del discorso dominante. La scelta di esplicitare la natura erotica del rapporto di Dickinson con la cognata, sostenuta da alcuni accademici e fonte di ispirazione per diverse riletture letterarie o cinematografiche, rientra sicuramente in questo quadro. Citiamo, ad esempio, la raccolta di poesie Taking Off Emily Dickinson's Clothes di Billy Collins e due adattamenti cinematografici concentrati sulla relazione della Dickinson con Susan Huntington Gilbert Dickinson: A Quiet Passion del 2016 e Wild Nights with Emily del 2018. La novità della serie Apple Tv+ sta nel raccontare la relazione in tutta la sua incompatibilità con la norma dell’epoca ma attraverso i toni intensi, spensierati e smemorati dell’adolescenza.

E sono probabilmente questi toni leggeri e irriverenti che la serie si preoccupa di esibire in più occasioni che l’avvicinano all’atteggiamento che show (pur decisamente più solidi) come True Blood e The Magicians mostrano verso il genere d’origine e il suo immaginario, dove l’attenzione, lontana dall’accuratezza storico-letteraria, è rivolta invece verso le forme e i modi di rappresentazione e percezione di alcuni personaggi letterari o appartenenti alla cultura generale. Questo senza contare altre somiglianze con le due serie citate, come la leggerezza liberatoria dei toni con cui si parla di sessualità, l’apertura al queer e l’evidente portata metaforica del discorso principale della serie. La sessualizzazione e la “poppizzazione” fatta per le figure del vampiro o del mago ora viene riservata alla ragazza solitaria con vocazione letteraria. Operazione incoraggiata anche dalla critica americana, specie su Vulture, che soprannomina il personaggio “Sexy Dickinson.” La Emily di Dickinson è un’adolescente capricciosa, eccitata, curiosa, appassionata, disobbediente che ha una relazione con la ragazza del fratello, che si traveste da uomo per andare ad assistere a una conferenza scientifica dove le donne non sarebbero ammesse, che si fa di oppio alle feste organizzate in casa in assenza di genitori e fuma in una carrozza con la morte interpretata da Wiz Khalifa.

Lo show Apple Tv+, a seconda dei punti di vista, risulta molto sconsiderato o molto pigro ma è, in ogni caso, molto furbo se non altro per la trasparenza dei propri anacronismi e del proprio target. La portata critica della ricostruzione storica è semplicemente suggerita e le potenzialità storiche, sociali e letterarie dell’universo che ruota intorno alla figura di Emily Dickinson usate a fini in un certo senso semplicemente scenografici per rendere più accessibile (leggasi più “sexy”) il personaggio a un pubblico giovane cui viene regalata una period comedy perlomeno moderna e distesa.

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Alena Smith Hailee Steinfeld Jane Krakowski Toby Huss 1 stagione da 10 episodi
USA 219
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Mai raramente, a volte sempre

di Emanuele Di Nicola
never rarely sometimes always hittman recensione film

Come si racconta un aborto oggi, lontano dal banale e dal retorico, semplicemente mettendo in scena lo stato delle cose? Risponde la regista Eliza Hittman, tradizionalmente amata dal Sundance, che arriva in concorso alla Berlinale 2020 con Mai raramente, a volte sempre (Never Rarely Sometimes Always), prodotto tra gli altri da Barry Jenkins. La storia è quella della diciassettenne Autumn (Sidney Flanigan), una giovane come tante che all’inizio del racconto si ritrova già incinta, senza che ci sia dato conoscere la dinamica. L’unica depositaria della sua sincerità è la cugina Skylar (Talia Ryder), adolescente esattamente come lei che decide di sostenerla e aiutarla. L’interruzione di gravidanza a diciassette anni è però illegale in Pennsylvania senza il consenso dei genitori: così Autumn e Skylar intraprendono un viaggio su treni e pullman, nella forma del classico road movie americano, pericolante e di fortuna, per ottenere il proprio obiettivo.

Eliza Hittman ribadisce la sostanza del suo cinema, dopo il precedente Beach Rats che raccontava di un ragazzo di oggi, con la famiglia che vuole trovargli una fidanzata mentre lui preferisce incontri gay con uomini maturi. Il cuore della regista è dunque nell’indagine sulla sostanza nascosta dietro l’apparenza. Anche Autumn, con quel suo nome autunnale, deve “fare finta” perché sa che la sua condizione non verrebbe appoggiata dai genitori: può contare solo sulla cugina in veste di aiutante, fino alla tenera scena in cui lei bacia un ragazzo – per ottenere un biglietto di ritorno – ma in realtà con una mano libera stringe le dita dell’amica.

Il racconto si forma gradualmente con sensibilità e spessore, puntando sulle giovani attrici ottimamente dirette (la loro prova è praticamente pari merito) e tirando fuori l'ipotesi migliore dal suo impianto indie: posta la premessa, con la protagonista che tenta un maldestro aborto homemade, subito si entra immersivamente nell’intreccio, si segue la parabola di Autumn che è semplicemente una piccola storia possibile, quindi diviene anche nostra. Non si costringa però Eliza Hittman nel recinto della “regista femminista”: il punto è nel racconto avvolgente, che non contiene una presa di posizione esplicita. Il vero dato politico sta da un'altra parte: le peripezie delle ragazze per interrompere la gravidanza diventano gradualmente una metafora della difficoltà di abortire ancora oggi, e dunque del problema di autodeterminarsi e decidere sul proprio corpo. Si può fare, sembra dire il film, ma al costo di un tormentato road movie. Al risultato concorre il volto di Sidney Flanigan, sfuggente e non interpretabile, che riesce a celare il proprio sentire interiore fino alla costruzione della scena madre.

La sequenza arriva sottovoce, di nuovo senza urla né eccessi: una dottoressa interroga Autumn per un test che si rende necessario prima di ogni aborto, con risposte a crocette, e la giovane deve scegliere tra le varie opzioni: “Mai Raramente Qualche volta Sempre”. Ecco il senso del titolo. Qui Hittman punta la cinepresa sul viso di Flanigan, in un lungo piano sequenza che non concede controcampo. La realtà della sua situazione esplode sommessamente, ma in modo quasi insostenibile. Le quattro opzioni sono il simbolo di una scelta imposta, mai pienamente libera, che bisogna combattere come fa la regista: attraverso la forza di una storia.

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Eliza Hittman Sidney Flanigan Talia Ryder Théodore Pellerin Ryan Eggold Sharon Van Etten 101 minuti
UK, USA 2020
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Les sel des larmes

di Emanuele Di Nicola
Le sel des larmes - recensione film garrell

Un ragazzo vede una ragazza alla fermata del bus. In un campo-controcampo si avvicina per chiedere informazioni, si presenta, le chiede di uscire. Inizia così il film di Philippe Garrel, Le sel des larmes, in concorso alla Berlinale 2020. Un inizio limpido, che già dice tutto su quanto stiamo per vedere: il racconto non si riferisce al contemporaneo né all'intorno, ma risponde solo al “mondo Garrel”. Un universo che il cineasta ha costruito in cinquant'anni di cinema, con regole soltanto sue: qui si può conoscere una ragazza alla fermata, rivedere una ex e subito farci l'amore. Il mondo garelliano in bianco e nero si fa sempre più stilizzato e archetipico: è ancora una volta un mondo-cinema.

Il protagonista è Luc (Logann Antuofermo), giovane falegname aspirante intagliatore di ebano, e il suo movimento sentimentale. Incontra tre donne, la giovane araba Djemila, la vecchia fiamma Geneviève (una magnifica Louise Chevillotte) e l'infermiera Betsy. Il rapporto più profondo e toccante è con l'anziano padre interpretato da André Wilms, un uomo che non ha potuto studiare e quindi proietta su di lui le proprie aspirazioni. Passando all'ebano Luc forse si può innalzare, da “proletariato” può diventare “borghesia”. È un ragazzo frivolo e irresponsabile, ma forse è anche una parte di noi tutti.

«Esiste davvero il vero amore?» si chiede la voce fuori campo, che si esprime solo per frasi singole e avvolgenti. Garrel ha il coraggio di porre questa domanda oggi, nel 2020, nel suo “world apart” ostinatamente retrò. Così Luc sceglie o non sceglie per codardia, fugge la responsabilità di un figlio, intavola un triangolo alla Jean Eustache: e così il cineasta lo dipinge con la morbidezza delle sue dissolvenze, con il bianco e nero di Renato Berta e le note di piano di Jean-Louis Aubert, con i confronti sentimentali strappacuore e la sua messinscena di retroguardia. Ma attenzione: è forse mai passato il cinema? Certamente no ed è questo che Garrel ci mostra, il gesto cinematografico in sé, che si sostanzia nella magnifica scena del ballo sulle note di Fleur de ma ville dei Telephone, una danza tipica del regista - come This time tomorrow in Les amants reguliers - che i personaggi ballano fuori tempo. Appunto: il film segue un movimento tutto suo, senza concessioni all'oggi, e attraverso di esso Garrel continua a danzare. Fino allo struggente finale, che dopo molte oscillazioni sentimentali ritorna al rapporto padre-figlio: la chiusura suggerisce la vera essenza del “sale delle lacrime”, splendido titolo, indicando dove sta davvero l'elemento del pianto e del rimorso. Impossibile non pensare al rapporto tra Philippe Garrel e suo figlio Louis. Ma qui il Garrel regista è in entrambi, sia nel padre che nel figlio: unendo le due metà sembra di trovare la storia della sua vita e il senso del suo essere cineasta.

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Philippe Garrel Oulaya Amamra André Wilms Souheila Yacoub Logann Antuofermo 100 minuti
Francia 2019
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Undine

di Emanuele Di Nicola
Undine - Petzold recensione film

Undine si apre con il ribaltamento radicale della scena dell'addio: Johannes ha lasciato la sua donna e dovrebbe andarsene, ma non può farlo, se si alzerà da quel tavolino lei lo ucciderà. Perché Undine (Paula Beer) non è una ragazza, ma una creatura mitologica del folklore, una leggenda del mare, che Christian Petzold riporta in vita cinematografica dopo il Neal Jordan di Ondine.

Undine rivive oggi a Berlino, trent'anni dopo la caduta del Muro, ed è una storica che fa la guida turistica: non è un caso se di mestiere racconta il presente, evocando il passato socialista e la riunificazione tra Est e Ovest. Proprio qui, in una città prima divisa e in un centro urbano monstre segnato dal sincretismo di tanti stili disomogenei, può ancora esistere un mito. D'altronde la messinscena della “stessa storia” si addice a Petzold, regista dei doppi e ritorni, hitchcockiano, di donne che vivono più volte, come in Phoenix: in tal senso duplice è anche la natura di Undine, all'apparenza donna ma in realtà essere prestato alla comunità umana, solo temporaneamente. Fatto di reiterazioni è anche il discorso visivo: inquadrature che tornano, movimenti di macchina ripetuti, come quello angolare che conduce al bar in cui Johannes è prima presente, poi assente, poi presente di nuovo.

Undine trova un nuovo amore in Christoph (Franz Rogowski), subacqueo per i bacini idrici. All'insegna dell'acqua: il colpo di fulmine è la distruzione di un acquario, in cui Christoph è presente sotto forma di statuetta, che percorrerà l'intreccio in modo sciamanico (la sua rottura ha un preciso significato). Si sviluppa quindi il mito dell'Ondina, sia tragico che romantico, con la creatura che dovrà annegare un uomo per far riemergere l'altro. Petzold lo interpreta con sguardo iperrealista, fortemente connotato nello spazio-tempo berlinese, in cui le parentesi immaginifiche vivono naturalmente nella realtà, che non si piega ad esse ma anzi le ingloba e contiene. Il mito è ancora possibile.

Ecco allora che i segni e le figure della storia vengono anticipate a livello concreto e plausibile, come nell'enorme pesce gatto che è il primo “mostro marino” incontrato dal protagonista, preludio del mostro d'amore. Che ha il volto dell'attrice prediletta Paula Beer, ancora magnifica, illeggibile nel suo viso “disumano”, che compare e scompare come negli eterni ritorni del precedente Transit, film liminare e pieno di usci/confini come questo. Beer era anche al centro di Frantz di Francois Ozon: perché Christian Petzold è l'Ozon del cinema tedesco; seppure nelle dovute differenze, come lui è regista dal realismo pericolante, portatore di un'ipotesi surreale che si fa anche politica. Petzold con Undine crede nei draghi a Berlino oggi.

Ma il senso del film non si limita certo al racconto. È una splendida parabola visiva nutrita di sequenze subacquee, in cui il cineasta si esalta, citando perfino L'Atalante e provocando fertili connessioni tra la vita "sotto" e la vita "sopra". Undine compie il suo gesto d'amore e orrore ed è costretta a inabissarsi di nuovo. Christoph per immergersi indossa uno scafandro: è dentro quell'armatura androide che ritrova l'amore perduto, fuori dalla società degli uomini e lontano dalla superficie. Quando alla fine Christoph fa la sua scelta inevitabile, tornando a galla, invece la cinepresa esegue il movimento contrario, l'inquadratura di Petzold a pelo d'acqua gradualmente si inabissa: perché noi siamo dalla parte di Undine.

Categoria
Christian Petzold Paula Beer Franz Rogowski Anne Ratte-Polle Jacob Matschenz 90 minuti
Francia, Germania 2020
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Succession

di Attilio Palmieri
Succession - recensione hbo

Immaginate una serie sul capitalismo, fatta di tutte persone bianche e ricche che parlano di finanza e che, sorprendentemente, fa ridere come poche altre cose al momento in televisione. Sembra impossibile, perché sulla carta dal punto di vista del plot Succession è il classico prestige drama che racconta il dramma di una famiglia dalla struttura fortemente piramidale, il cui patriarca è nella fase calante sia del suo impegno professionale che della sua esistenza, dando così il via alla successione. Nel passaggio dalla teoria alla pratica però, la serie trasmessa da HBO si dimostra uno dei prodotti più divertenti degli ultimi anni, senza per questo togliere nulla alla profondità tragica che viene messa in scena, anzi esaltandola grazie a una varietà di registri che lascia stupefatti.

Non si tratta di una sola caratteristica, non c’è una peculiarità specifica che fa di Succession uno show così interessante e così unico nel panorama contemporaneo, ma di un crogiolo di qualità che si incrociano tra loro in maniera perfetta e che danno vita a qualcosa di insolito e in grado di piacere a tutti nonostante un tema di partenza abbastanza ostico. Innanzitutto c’è il talento dello showrunner Jesse Armstrong, sceneggiatore che ha all’attivo produzioni di qualità e molto acute come The Thick of It e che qui riesce a intrecciare i conflitti familiari con una riflessione sul capitalismo estremamente pregnante, senza che nessuno di due prevalga sull’altro ma facendo in modo che i due livelli si alimentino a vicenda. Il tutto è realizzato adottando un registro che fonde un’attitudine da documentario volta a riportare in superficie le principali disfunzionalità del mondo della finanza con uno spirito quasi satirico, che nella realizzazione di ritratti esagerati (ma non troppo) affonda la lama dell’analisi sociale e antropologica di un mondo di privilegiati che si stanno mangiando il pianeta (e in questa scelta è facile ritrovare il peso di Will Ferrell e Adam McKay, tra i produttori esecutivi della serie).

La complessità narrativa di Succession è amplificata da un cast che dimostra di aver capito perfettamente il senso dell’operazione e che in due stagioni ha saputo interpretare un gruppo di personaggi disperati, cinici, autoironici, dispotici, vendicativi, tragici e violenti con un’intensità e una credibilità che raramente si vedono in televisione. Brian Cox è la star della serie, un corpo attoriale iconico che veste i panni di questa sorta di Rupert Murdoch finzionale facendone emergere tutta l’arroganza, incarnando il simbolo di una generazione di conquistatori che hanno prosperato in un mondo in cui se partivi con buone basi economiche e avevi la voglia di affermarti potevi diventare un dominatore, e che oggi non hanno alcuna intenzione di lasciare il loro trono a figli e nipoti (in senso generazionale, i loro discendenti biologici sono milionari) sempre più in difficoltà.

Jeremy Strong interpreta Kendall, non il figlio maggiore ma quello che si dimostra fin da subito più dotato, più portato a ricevere la legacy del padre perché maschio e perché più inquadrato degli altri, destinato a prendere le redini della famiglia ma anche torturato da questo scenario e quindi sopraffatto da pressioni indicibili, oltre che dalle cattiverie che quotidianamente subisce dal padre.
Uno dei personaggi più originali è Roman , figlio minore della famiglia splendidamente interpretato da Kieran Culkin. L’eccentrico attore offre una performance strepitosa, nella quale inserisce probabilmente anche una nota biografica in quanto non certo il più famoso dei fratelli Culkin, almeno fino a un po’ di tempo fa. Roman infatti è il meno considerato dei personaggi per quanto riguarda le vicende di tipo ereditario, è lo scapestrato della famiglia, ma anche il simbolo che le pecore nere non esistono ma vengono create in quel perverso e tossico laboratorio che è la famiglia, in cui le pressioni dei padri ricadono sui figli con effetti disastrosi e ciascun carattere reagisce a proprio modo per difendersi, che sia essendo iper performativi o mandando in vacca tutto. La sua “follia” è un aspetto molto importante di Succession, perché nonostante a prima vista il suo personaggio possa sembrare troppo sopra le righe rispetto agli altri, quell’attitudine finisce per essere uno degli elementi più realistici del racconto, perché dietro alle situazioni comiche di cui Roman è protagonista si nasconde una persona in costante sofferenza e incredibilmente frustrata.
Il personaggio più interessante, però, è probabilmente Siobhan (Sarah Snook), unica figlia femmina della famiglia, donna dall’ostinazione inesauribile, intelligente ed estremamente furba che, crescendo in un mondo di maschi rapaci, ha dovuto costruire attorno a se una corazza fatta di doppio gioco, obiettivi chiari e armi affilate di ogni genere. Il suo è uno dei personaggi femminili più complessi degli ultimi anni, una donna capace intelligente e consapevole delle difficoltà di affermarsi in un contesto sessista e misogino, ma anche certa del proprio valore e determinata da asfaltare tutti per raggiungere i propri obiettivi, tanto da relegare a una posizione di totale subordinazione tutto ciò che pertiene alla sfera affettiva.

Pur volendo parlare esplicitamente al pubblico di HBO (e in Italia di Sky Atlantic) abituato alle serie “di qualità” che assomigliano al cinema, Succession è uno show che solo in superficie ha queste sembianze, che si traveste da prestige drama in maniera ingannevole per poi rivelare la sua natura di comedy satirica, perfetta per mettere in evidenza la volgarità e la violenza di un certo tipo di persone, il loro privilegio e la cattiveria di determinati comportamenti, con un linguaggio che spesso ricorda molto di più The Office o Parks and Recreation che True Detective.

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Brian Cox Jeremy Strong Kieran Culkin Sarah Snook 2 stagioni per 20 episodi
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