Hammamet

di Emanuele Di Nicola
Hammamet di Gianni Amelio

Per affrontare un film come Hammamet bisogna partire da una premessa fondamentale: non c’è giudizio nell’opera di Gianni Amelio. Gli ultimi giorni di Craxi, incarnato mimeticamente in Pierfrancesco Favino, non passano sui carboni ardenti dell’assoluzione né della condanna, quindi non è opportuno cercare l’una o l’altra, e tantomeno condannare il film per un presunto cerchiobottismo che è nella testa di chi guarda. Come sempre l’errore che può avvenire nel confronto con l’opera è non vedere ciò che sta sullo schermo, ma piuttosto riferirsi alle proprie aspettative personali che vivono in un terreno extracinematografico. È poi normale che un film su Bettino Craxi riaccenda il dibattito sulla sua figura controversa, ma proprio per questo occorre sondare con attenzione il famoso “specifico filmico”, senza farsi distrarre dal rumore di fondo.

Quello che inscena il regista calabrese, prima di tutto, non è un film su Craxi ma sulla sua fine, sull’ultimo frammento della vita: non a caso si chiama Hammamet, titolo-luogo del periodo esiziale che diventerà anche la sua tomba. Il politico in azione si vede solo nella prima sequenza, peraltro magistrale, nel congresso vinto del Partito socialista dove già affiorano i germi della caduta: qui per l’unica volta troviamo un Craxi arrogante, che silenzia il confronto con Vincenzo (Giuseppe Cederna), carattere in cui si riconosce l’ex ministro Vincenzo Balzamo, socialista pentito frustrato dal leader che gli oppone l’evidenza del denaro («Non ti piace la vita comoda?»). È questa la sola occasione in cui Craxi assomiglia ai personaggi de Il Regno di Rodrigo Sorogoyen, politici corrotti che trattano tra loro in un gioco di pesi e contrappesi, intenti a negare l’ovvio, salvarsi o trascinare giù tutti insieme. Poi inizia un altro un film.

Craxi, chiamato solo il presidente (ma sia lui che gli altri sono facilmente riconoscibili), è già in Tunisia. Introdotti dal piano sequenza dei bambini africani che corrono, arriviamo alla sua villa: è bella ma non sfarzosa, come gli fanno notare, perché contiene un elemento decadente, qualcosa che non torna, una luce fioca o una spiaggia sporca. Si tratta di un luogo che prelude al dissolvimento. È qui che si apre la Totentanz di Bettino Craxi, la danza del socialista con la morte: al contrario di Mitterand ne Le passeggiate al campo di Marte di Robert Guédiguian, un altro socialista alla fine, Bettino è però tormentato. Se entrambi i presidenti si trovano a scrutare il mistero della dipartita “con piccoli occhi mortali”, l’italiano deve fare i conti con una materia complessa e non riconciliata. Viene circondato dalla figlia Anita (Livia Rossi), nella realtà Stefania ma qui omonima della figlia di Garibaldi, che come Bettino “fu ferito ad una gamba”; dalla moglie senza nome (Silvia Cohen), che guarda vecchi film e cerca di alleviare la sofferenza del marito evocando il passato; soprattutto da Fausto (Luca Filippi), figlio di Vincenzo che è venuto a portare un messaggio post-mortem a Bettino e con lui instaura il rapporto più stretto, posizionandosi in veste di alter ego registico che filma il videoracconto del protagonista. Sono sporadiche le comparse del figlio (Alberto Paradossi), dell’ex rivale di partito (Renato Carpentieri) e dell’amante (Claudia Gerini) che interviene nello spazio di un addio. Il padre si mostra in sogno, nell’ultimo struggente ruolo di Omero Antonutti.

Craxi malato vive e ricorda: mangia cibo vietato, scherza col nipote, fa i conti con se stesso e il mondo intorno. A tratti prova ancora a comandare, a dirigere le vite degli altri: quanti figli fare, come trattare un bambino. Ma la partita si gioca soprattutto nella sua testa: non a caso il racconto si apre con una visione o un ricordo, un bimbo che spacca il vetro con la fionda. È il “primo errore” del giovane Bettino, piccolo irrequieto che scaglia la prima pietra perché non è senza peccato, presagio dei massi rotolati nell’età adulta. Hammamet è un film mentale: si svolge nella psiche del protagonista e la dispiega nel confronto con sé e gli altri, che a vari livelli sono sue emanazioni, dalla figlia orgogliosa e tenace al nipote fragile, passando per la figura di Fausto che da Craxi è profondamente segnata e per questo vuole ucciderlo. Bettino fa autoscrittura: definisce se stesso, si difende, dà la sua versione. A tradirlo è l’immagine mentale che gli appare, come nel fondamentale risveglio dal sogno: l’uomo ha sognato di trovarsi ancora in Parlamento ma, dopo il discorso inquisitore di un giudice, è finalmente riuscito a spiegarsi e tutti gli danno ragione. Mentre lo racconta alla figlia si commuove: così getta la maschera, e quelle lacrime diventano immediatamente significative di un desiderio inconscio che attesta la voglia di tornare, di essere compresi ma è anche un’implicita ammissione di responsabilità. Il sogno ha tradito l’apologia di Craxi. Ecco perché il film a cui Hammamet sembra più avvicinarsi è Providence di Alain Resnais: nel capolavoro del 1977 lo scrittore malato Claude Langham aspettava i figli nel suo castello, in attesa della morte. Nel frattempo scriveva il suo racconto mentale, un romanzo psichico in cui ha ragione sempre lui, e torto gli altri, tranne poi venire smentito all’ultima sequenza. Senza paragoni con il magistero del francese, così è anche per il Craxi di Amelio, costretto in un luogo finale: Hammamet è la sua Providence, il terreno ultimo in cui immaginare una storia. Una versione parziale e non definitiva.

Nella sceneggiatura scritta con Alberto Taraglio, poi, la complessità craxiana viene ulteriormente sfaccettata dalla resa del suo pensiero politico, stratificato e profondo: l’ex leader riflette sulla trasformazione linguistica del popolo che diventa gente, prefigurando un’epoca post-ideologica che conduce direttamente all’oggi, alla fine dei partiti e l’inizio dei populismi; respinge “la lealtà degli stupidi”, mettendo in dubbio il presente nutrito di esecutori e yes men, rivendicando un tempo in cui il pensiero critico era il presupposto e il confronto con l’altro la prassi da coltivare con cura. Nell’intricata tela narrativa non tutto è in quadro, alcuni stralci suonano pleonastici, il personaggio interpretato da Luca Filippi non convince fino in fondo. Così come discutibile è la coda finale sul “segreto di Craxi”, che nel racconto già era stato ampiamente restituito: d’altronde Amelio ci aveva regalato la notevole ripresa sulla spiaggia davanti al carro armato, in cui Bettino espone “la verità” ma noi non la sentiamo. La prova che la verità è inconoscibile.

Hammamet si offre quindi come un racconto aperto, ed è proprio questa la sua forza: non chiudere la questione ma anzi riproporla, pensarla, metterla sul tavolo davanti agli occhi. In tal senso contiene una lezione di complessità contro la semplificazione del presente e della Storia. Non è un film impeccabile, ma conferma Gianni Amelio come un regista importante del nostro cinema: uno che preferisce la tormentata domanda alla facile risposta.

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Gianni Amelio Pierfrancesco Favino Luca Filippi Livia Rossi Claudia Gerini Renato Carpentieri Omero Antonutti 126 minuti
Italia
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Piccole Donne

di Veronica Vituzzi
Piccole donne - recensione film Greta Gerwig

Jo, Meg, Amy, Beth. Bastano questi quattro nomi a evocare tutto un mondo narrativo, costellato dai desideri e dalle personalità delle quattro sorelle March, che vivono la loro adolescenza all’ombra della Guerra di secessione americana in attesa del padre partito per il fronte. Quattro caratteri usciti dalla penna di Louise May Alcott, cosi noti nell’immaginario culturale che è facile descriverli per stereotipi: Meg è la ragazza bella e a modo, Amy la bimbetta capricciosa e petulante che vuol diventare artista, Beth la sorella amorevole, sensibile e timida, e Jo, il didietro della gonna bruciato, le dita sporche d’inchiostro per il continuo scrivere, i modi bruschi e i sogni di gloria è semplicemente Jo, affamata di vita, la ribelle che si taglia i capelli corti per non chiedere soldi alla zia ricca e antipatica, che rifiuta il matrimonio vantaggioso con l’amico di infanzia Laurie, che sogna un’esistenza libera e indipendente.

Nel 1994 usciva per la regia di Gillian Amstrong una delle migliori trasposizioni di Piccole donne (e Piccole donne crescono, il secondo volume della serie, che termina col matrimonio di Jo), corredata da un cast strepitoso (Winona Ryder, Christiane Bale, Claire Danes, Kirsten Dunst, Susan Sarandon tra gli altri) per un adattamento fedele e sensibile del romanzo della Alcott: scrupoloso nel descrivere tutti gli episodi salienti della saga, benché centrato sull’evoluzione spirituale di Jo, il film rimane ancora oggi l’adattamento perfetto per godersi sullo schermo la storia delle quattro sorelle. Come una sorta di evoluzione dal passato, la medesima produttrice della pellicola del 1994, Denise Di Novi, torna al testo per produrre la versione di Greta Gerwig, ma è subito chiaro che ci troviamo di fronte a qualcosa di radicalmente diverso. E d’altra parte, che senso avrebbe avuto oggi fare un altro Piccole donne, col rischio di ripetersi e di proporre per il grande schermo una copia di un film già ben diretto 25 anni fa? Pertanto diremmo subito che il film di Gerwig non racconta la storia di Piccole Donne: piuttosto ci ragiona su, decostruendolo in una riflessione sull’autorialità che parte da Jo per arrivare a Louise May Alcott, finché non è chiaro che la regista sta parlando anche di sé stessa.

Per prima cosa Gerwig struttura la narrazione entro una serie di flashback, poi decide di aumentare il margine di attenzione sui personaggi di Meg ed Amy, solitamente messi in ombra dall’imponente personalità di Jo: la prima viene seguita nella sua vita matrimoniale da adulta col buono e povero John Brooke, mentre la seconda diviene una sorta di deuteragonista del racconto, a suo modo tanto desiderosa di successo e vita quanto la ribelle sorella maggiore, con cui intrattiene un affettuoso ed eppur complesso antagonismo fraterno. Jo vuole scrivere e ci riuscirà, mentre Amy vorrebbe dipingere ma rinuncia perché priva di talento; Jo vuole andare in Europa, Amy ci andrà; Jo è il primo amore di Laurie, ma è Amy che finirà per sposarlo.

Dare maggiore spazio ai singoli personaggi significa aumentare i dettagli, ed è importante perché il racconto della Alcott nasconde dietro la patina di storia di formazione moralistica e di buoni sentimenti un non detto che tracima dai dialoghi e dagli episodi apparentemente innocenti che essa racconta. Questo non detto può essere tradotto con una sola parola: rinuncia. La crescita morale delle quattro sorelle, a parole improntata sui valori della bontà, della pazienza, e del perdono, è di fatto un’educazione alla rassegnazione che è sia invisibile sia assai concreta, ed è basata su un continuo compromesso fra ciò che si desidera e ciò che la società permette loro come donne. In Piccole donne il raggiungimento reale delle proprie aspirazioni si rivela un ripiego ben più modesto: Meg deve accettare una vita faticosa e carica di privazioni; Amy abbandona i propri sogni di artista; Jo pubblica un solo libro per poi sposarsi e metter su famiglia. Tutte vivono la gioia di accasarsi con l’uomo giusto, ma per il resto abbandonano i sogni della giovinezza. Perfino Beth, che in fondo voleva solo stare a casa con la propria famiglia, finisce per morire e diventare nel ricordo un piccolo santino amorevole.

Tutto riguarda il grande tabù del denaro, in mancanza del quale bisogna adattarsi affidandosi alle cure degli uomini. «Natale non sarà Natale senza qualche regalo» dice Jo all’inizio del romanzo, e così è la vita senza soldi propri, soldi guadagnati per se stesse e la propria famiglia: l’unica soluzione è trovare un buon partito (perché solo le donne ricche, come la bisbetica zia March, possono permettersi di morire zitelle), tutto il resto è assai disdicevole perché a voler una vita migliore, a sognare esperienze e cose che necessitano di una minima sicurezza economica si va contro un’etica che propugna la povertà e la privazione, nascoste sotto le spoglie della temperanza e dell’umiltà, come filosofie dell'essere persone perbene. Greta Gerwig propone in quest’ottica alcuni episodi dei libri facilmente travisabili come lezioni morali, per cui Meg deve imparare a essere meno capricciosa e non spendere soldi per sé, Amy deve capire che perde tempo a dipingere, e Jo, che scrive sotto pseudonimo racconti d’avventura per soldi, deve vergognarsene e retrocedere prima verso racconti più educativi e dopo, come tutte, sposarsi. Basterebbe una sola dolcissima scena a spiegare questo filo conduttore della loro giovinezza e vita adulta, ovvero quando Jo piange, nascosta in un angolo, non per i motivi “giusti” (il padre ferito al fronte), ma per qualcosa di apparentemente frivolo la cui privazione è sembrata cosi giusta che ora sembra stupido lamentarsene: i propri capelli, tagliati e venduti per aiutare la madre a raggiungere il marito in ospedale.

Non è un caso che di fronte una vita adulta così implicitamente amara venga voglia di rinchiudersi entro la famiglia e il candido mondo dell’infanzia, cosicché nel momento di massima disperazione, morta la sorella, a Jo non resta che tributarle un omaggio tornando alla memoria di un tempo che non si sapeva, malgrado la guerra, sereno e protettivo. Dietro Josephine March c’è Louise May Alcott, che aveva quattro sorelle, di cui una morta in gioventù, e che perse tutti i capelli a causa di una febbre tiroidea mentre prestava servizio come infermiera durante la guerra: ma Louise non poteva raccontare direttamente la propria storia, così l’adattò ai gusti dell’epoca, in modo però da far trasparire in ogni pagina edificante questa sottintesa verità di tutte le rinunce che ogni donna doveva alla società dell’epoca. Agli insegnamenti morali non mancò di accompagnare gli istintivi impulsi vitali dei suoi personaggi, di volta in volta colte da desideri egoistici, capricci viziati, rancori furiosi, enormi sogni frustrati e infiniti sensi di colpa per i propri pensieri, nonché continui propositi di diventar migliori per aiutare gli altri e accettare il peso dell’esistenza senza lamenti.

Greta Gerwig racconta con grazia e sentimento tutto ciò, lasciando emergere in superficie la dolorosa constatazione della rinuncia come stile di vita femminile, ma con un atto rischiosissimo mette in scena il finale di Piccole donne e allo stesso tempo lo riscrive, permettendo a Jo/Louise di entrare in scena e ammettere gli obblighi morali cui fu sottoposta nella scrittura: Jo si sposa col bravo e povero professor Bhaer, ma Louise, che non sì sposò e che non smise mai di scrivere, accetta di far sposare la propria eroina, fino ad allora riottosa al matrimonio, per poter pubblicare il proprio romanzo e diventare finalmente una scrittrice famosa. Alla fine infatti la vera storia raccontata fra le righe di Piccole donne e riportata in primo piano nel film è proprio quella di Louise, che riesce a inseguire il proprio sogno e non si piega al dovere di una vita già decisa in partenza; ed è anche quella di Greta Gerwig, che lotta per affermarsi a Hollywood come regista e artista in un mondo che le lascerebbe volentieri maggiore spazio come musa.

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Greta Gerwig Saoirse Ronan 135 minuti
USA 2019
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La ragazza d’autunno

di Arianna Pagliara
La ragazza d'autunno di Kantemir Balagov

Classe 1991, il russo Kantemir Balagov con due soli lungometraggi si è già aggiudicato due premi FIPRESCI, rispettivamente a Cannes 2017 con l’esordio Tesnota e a Cannes 2019 con La ragazza d’autunno, premiato qui anche per la Miglior Regia - sezione Un Certain Regard e poi accolto con entusiasmo al Torino Film Festival 2019 (Premio Migliore attrice a entrambe le protagoniste Viktorija Mirošničenko e Vasilisa Perelygina).

Il lavoro di Balagov si presenta, fin qui, come indagine lucidissima fortemente e sapientemente ancorata alla storia e al presente, sviluppata all’interno di quadri socio-politici nitidamente delineati. Nel primo film la grande Storia – i conflitti etnici del Caucaso Settentrionale – filtra attraverso le vicende del singolo, con il racconto del rapimento di una giovane coppia ebrea a Nal'čik (città d’origine del regista). Nel secondo, ambientato negli anni Cinquanta a Leningrado, Balagov restituisce due ritratti femminili vividi e complessi, che si fanno efficacemente emblema di una realtà più ampia soprattutto nel momento in cui vengono messe in evidenza le difficoltà e gli svantaggi, angosciosi e drammatici, peculiari della condizione femminile in un panorama già desolante e devastato come quello della Russia post-bellica.

La protagonista Ija è una giovane donna psicologicamente sofferente per i traumi vissuti in guerra; lavora in un ospedale, dove si prende cura degli ex-combattenti. Il piccolo Pashka, che ama come un figlio, è la sua gioia, il motivo per guardare avanti oltre il grigiore e la freddezza di una quotidianità sconfortante. Ma Ija lo perderà proprio quando la sua amica  Maša, madre del bambino, tornerà dal fronte a reclamarlo. A quel punto Maša, segnata come e più di Ija dalle ferite della guerra, nello spirito e soprattutto nel corpo, pretenderà dalla sua amica il figlio che lei non è più in grado di avere.

Nel delineare questo rapporto d’amicizia dai risvolti ambigui, dove a una certa rancorosa volontà di prevaricazione si intreccia, dall’altra parte, un bisogno d’amore che sfiora l’autoimmolazione, Balagov ha una sicurezza da maestro insolita per la sua giovane età. Mai didascalico, mai prevedibile, il regista fa passare attraverso piccoli dettagli – un gesto, un’azione ripetuta ossessivamente, l’espressione di un viso – tutta una serie di nevrosi, desideri inconfessati e sentimenti inespressi.

Notevole è poi il lavoro sul corpo della protagonista Ija (Viktoria Miroshnichenko): silenziosa, vulnerabile, capace solo di amore, è inadeguata al presente squallido e violento che la opprime, e questa sua inadeguatezza, questa sua non assimilabilità, si fa segno fisico di diversità attraverso quell’altezza spropositata (già nel titolo originale, “spilungona”) che rende la sua bellezza bizzarra agli occhi degli altri. Pallida, quasi esangue, Ija sembra voler rifiutare la femminilità - che tuttavia il suo corpo possiede – per proteggere se stessa, camuffandola in una gestualità insicura, che arriva fin quasi, a tratti, a una chiusura che è autistico ripiegamento nel sé, a una pietrificazione di sensi e sguardo generata, forse, dall’orrore del mondo.

Soprattutto, però, Balagov – che si è formato presso la scuola di cinema di Alexander Sokurov – è un artista del colore, qui all’opera con una tavolozza di verdi profondi e pastosi e di gialli luminescenti e trasparenti, per dare a ogni primo piano tridimensionalità e a ogni interno matericità e atmosfera, per far sentire l’odore della solitudine che satura le stanze e il freddo delle strade innevate. Penombre e colori debordanti, quasi acidi, sono insomma la Russia malandata e stremata di Ija e Maša; solo in un passaggio del film - che segna la momentanea uscita al di fuori del mondo ristretto delle protagoniste - nell’immensa, elegante villa del ricco Saša, la luce perde le sue note oro e giallastre per ripulirsi in un candore più latteo, quasi a cercare un segno cromatico per significare un’alterità (economica, sociale) che per le due donne è, in fondo, inarrivabile.

Designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani SNCCI, La ragazza d’autunno è un film profondo, intimo e assieme politico: una pagina di Storia e assieme una storia di disperazione e amore, dove il raffinato lavoro sulla forma restituisce corpo e peso alla sostanza del discorso.

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Kantemir Balagov Viktoria Miroshnichenko Vasilisa Perelygina Andrey Bykov Igor Shirokov Konstantin Balakirev 130 minuti
Russia, 2019
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The Lighthouse

di Giorgio Sedona
Lighthouse di Robert Eggers

"Should pale death with treble dread, Make the ocean caves our bed, God who hear'st the surges roll, Deign to save our suppliant soul."

Lì dove allo sguardo è proibito di vedere c’è il cinema di Robert Eggers. L’opera seconda del regista è il naturale prolungamento di un percorso cinematografico iniziato con il precedente The Witch. Location e storie di folklore adiacenti sia geograficamente, dai boschi del New England ai marosi della Nuova Scozia, il passo è breve; sia tematicamente, storie di un territorio in espansione che nascono dai margini della fede, dalle streghe di terra alle streghe di mare: le sirene. Storie oscure quelle di Eggers che con The Lighthouse si affidano alla certezza della mitologia. Se nel primo film la storia di folklore manteneva dei richiami religiosi e popolari, culturalmente bassi, qui la mitologia classica legata alla figura di Promoteo diventa la base sulla quale si tiene tutta l’architettura narrativa. Il lento ed inersorabile declivio verso la follia, dal sonno della ragione alla brama di visione nella luce, e il lavoro di Eggers d’impedimento, e creazione della suspense nascente dalla negazione della vista, ammalia le atmosfere di aspettative inquietanti. Il guardiano del faro, ultima luce nelle tenebre, fuoco della ragione sul confine della follia, come Prometeo incatenato e vinto è pasto di fegato per i gabbiani. Un finale già scritto nelle spirali del fato e nel marmo del canone classico.

Padrone dell’accumulo visivo a sostegno del tipico finale ascensionale, Eggers, dimostra una capacità di pulizia geometrica dell’inquadratura e controllo della messa in scena di maniacale virtù. Due figure, statuarie e tragiche, due guardiani, il vecchio e il nuovo, la divinità e l'iniziato, Willem Dafoe e Robert Pattinson, e il loro lento esaurimento delle capacità razionali scosse dalla follia esterna del mare, dal richiamo del selvaggio, dallo scontro verbale tra due generazioni. Un futuro costretto dalla volontà di conoscenza a un obbligo di visione, pedina inconsapevole del proprio tragico destino. Un passato che conserva la fede irrazionale verso il mondo in sé e che perdendo spalanca l’abisso verso il mondo senza di noi (E.Thacker, Tra le ceneri di questo pianeta), architrave culturale a sostegno e difesa della sottrazione dell’umano dal mondo.

L’oscurità, il selvaggio, il sortilegio, il mare, la malia, definizioni di processi dell’irrazionale che tentano di sovvertire il sistema razionale, illuminante e illuministico, del mondo occidentale; scaglie di buio assimilabili dall’architettura razionale dell’immagine di Eggers. Ed è proprio in questa dialettica tra la sulfurea nube esterna dell’irrazionale e la geometria adamantina dell’immagine di Eggers (ulteriormente corazzata dal formato 4:3) che si mostra il punctum di tutta la capacità ammaliante del suo cinema. Un cinema che stuzzica la visione mostrando sbirciate di una rivelazione (un evento celato, un finale emozionale) recisa dallo sguardo, estromessa dalla visione, un’immagine-tabù illuminante, faro e luce per il salto nell’abisso della sottrazione dell’umano, un cinema che si aggrappa al penultimo frame prima della soglia tra la ragione e l'abisso.

Boredom makes men to villains”… è la noia che rende gli uomini cattivi, come nell’incompiuto racconto di Poe, e di cui The Lighthouse mantiene le stesse premesse nel film, è la calma piatta ad anticipare la tragica fine di ogni uomo di mare. La bonaccia, il demone più crudele del mare, rivive nella narrativa di Conrad, di Golding, di Hodgson come noia, puntello affilato, che bagna di alcol i discorsi dei due guardiani mentre all’esterno il mare urla sputando ondate di sale e rimorsi. Il senso di colpa dell'omicidio rimosso, e coincidente con la fuga sul faro di Ephraim Winslow, crea un legame con il peccato originale nella definizione della figura del giovane rinnegato al cospetto della visione della luce, il perdente al cospetto della voluttà della conoscenza. Un sovvertitore che cede all’abbaglio del proprio destino in una fine tanto tragica quanto mitica. Continuità con The Witch manifestata anche dal fondale interpretativo dato ai 4 quattro elementi, se la terra e l’aria erano le caratteristiche delle streghe del New England, l’acqua e il fuoco fanno da guida alla narrazione degli eventi del faro. Elementi che catalizzanno le forze irrazionali divampando in visioni metafisiche. Visioni di sirene, di bare, di tronchi, sabbatiche visioni da dentro la luce del faro riprese con la lente anamorfica dell’irrazionale, focale di congiunzione tra i punti focali del New England e di Cape Forchu. Ambientazioni, che in una tipologia di cinema tanto fedele al dettaglio scenografico e attento a qualsiasi squilibro di messa in scena, risultano essere di fondamentale rilevanza.

La difficoltà è nel ripetersi e Eggers supera a pieni voti la prova dell’opera seconda. Ulteriore conferma di un cinema di genere horror americano in piena salute, dimostrando, nelle personalità autoriali dei suoi tre portabandiera, Eggers, Aster e Peele una crescita autoriale replicata e pienamente consapevole del mezzo espressivo.

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Robert Eggers Willem Dafoe Robert Pattinson 110 minuti
Stati Uniti
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The Farewell - Una bugia buona

di Fiaba Di Martino
Farewell - recensione film - Lulu Wang

Da noi è approdato nel periodo delle calde sale natalizie e dei buoni sentimenti (nonostante di questi ultimi sia teso a rivelare la simulazione), ma a inizio 2019 The Farewell – Una bugia buona è stato il pupillo del Sundance. Non a sorpresa, perché l’opus numero due della cinese naturalizzata statunitense Lulu Wang aveva tutte le carte in regola per figurare come ultimo gioiellino prefabbricato del canone istituito dal festival, tra vaghe stramberie e una lunatica malinconia di fondo, al netto – per nostra fortuna – di una certa ruffianeria (quella, per intenderci, di un Captain Fantastic o di un Lady Bird, che dal Sundance non passò ma che di Sundance profumava dalla prima all’ultima inquadratura). Tuttavia, di una strumentazione utile per andare oltre questa patina trita il film ne beneficiava.

Adattato da un breve testo autobiografico del 2016, What You Don’t Know, andato in onda nel programma radiofonico This American Life, The Farewell è la rielaborazione di un segmento d’esistenza di Wang. Che qui è Billi (interpretata da Awkwafina, ultimo caso di comedian che goes drama), cinese trasferitasi da piccola coi genitori a New York da Changchun, circa-trentenne intercettata in un momento antipatico della propria vita: aspirante scrittrice, la sua domanda per la Guggenheim è stata respinta ed è finanziariamente a secco, sul collo il fiato dell’affittuaria. Ciliegina sulla torta marcia, viene casualmente a sapere che a Nai Nai (la veterana Shuzhen Zhao), la nonna rimasta in Cina, restano pochi mesi di vita e che l’intera famiglia Wang ha scelto di tenerglielo nascosto, organizzando un abborracciato matrimonio come scusa per darle l’ultimo addio. In tutta fretta Billi raggiunge i genitori e l’affollato parentado a Changchun, trovandosi smarrita nei contorni di un paese in cui da tempo non ha più un posto, e stretta nelle maglie decisionali di una famiglia che non permette alla sua voce contraria di avere un peso, un ruolo, una forza risolutiva.

Proprio il fatto che la protagonista, dunque la portatrice del punto di vista che seguiamo e dei sentimenti in cui c’immedesimiamo, venga ripetutamente schiacciata, silenziata, isolata in un angolino osservativo, che per l’intera durata del film rimanga impotente, passiva, è l’idea più interessante di Wang (Lulu), ma il punctum centrale della vicenda è la forbice tra i due punti di vista in collisione – quello privato e personale di Billi contro quello familiare e “collettivo” dei Wang –, prospettive antitetiche che riflettono la differenza più universale tra l’approccio occidentale (dove ognuno è responsabile di sé, autonomo nella propria libertà di scelta) e quello orientale (dove una persona fa parte di un tutto, e a quel tutto spetta condividere il dolore di uno). Ebbene è questa forbice che la regista non indaga mai nel profondo, evitando di entrare nella natura delle differenze, rimanendo  proprio come Billi (ma senza il suo “alibi”, l’imbavagliamento prescritto da volontà esterne e altrui) discostata dalle scenette che snocciola, contemplando l’ambiente quasi con timidezza, sbirciandolo, cogliendone frammenti di superficie. Come una malinconica visita guidata da uno sguardo occidentale, anzi, meglio, americano, a raccogliere da dietro un vetro curiosi souvenir di un luogo altro, impenetrabile, mantenuto a distanza di sicurezza.

Oltre la frustrazione malcelata e di tanto in tanto sfogata da Billi, v’è insomma poco altro, quantomeno ai nostri occhi, agli occhi di un film che preferisce un territorio di visione e narrazione rincuorante, conciliatorio senza affondi critici (la conversazione a tavola su vizi e virtù degli Usa vs Cina ne è esempio perfetto: ondivaga e leggera). Fra qualche lacrima, simpaticheria, quadretti minimal e una chiusa volutamente sottotono, The Farewell scivola via tenendo a bada la complessità e preferendole un’esile, inoffensiva delicatezza.

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Lulu Wang Awkwafina Zhao Shuzhen Kong Lin X Mayo 98 minuti
Cina, USA 2019
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Che fine ha fatto Bernadette?

di Samuel Antichi
Che fine ha fatto Bernadette - recensione film Linklater

Dopo aver riflettuto, con Last Flag Flying, intorno alla commemorazione e al superamento del lutto attraverso un viaggio fisico ed esperienziale, che porta i personaggi a rimettere in discussione il proprio trascorso unendo e collegando i frammenti del passato, Richard Linklater adatta il bestseller firmato nel 2012 da Maria Semple, Che fine ha fatto Bernadette?.

La protagonista del racconto è Bernadette Fox (Cate Blanchett) casalinga stanca, sociopatica, agorafobica, depressa con problemi di insonnia mai integratasi realmente nella vita di quartiere. Dietro un apparentemente perfetto scenario familiare, il rapporto di coppia e il rapporto con la figlia-migliore amica, Bernadette non sembra aver instaurato alcun legame amicale. L’unica figura con cui si confida e si sfoga è Manjula, un’assistente virtuale indiana dietro cui si cela una minaccia molto pericolosa. Il carattere estremamente schivo e gli occhiali che nascondono così spesso parte del volto mascherano una delusione professionale avvenuta in passato, un rimosso che Bernadette ha obliato rifugiandosi nella vita casalinga che però chiaramente non l’appaga. La donna sembra trascurare qualunque rapporto con il mondo esterno rifiutando di affrontare e rielaborare il proprio trascorso, dimensione che viene resa esplicita – metaforicamente e non – dal momento in cui un enorme quantità di rovi sembra minacciare la stabilità della propria casa, un’abitazione ormai vuota e fredda sul punto di crollare. Anche in questo caso, come nel film precedente, sarà un viaggio, che inizialmente doveva essere familiare per poi trasformarsi in percorso intimo e introspettivo, a permette a Bernadette di ritrovare sé stessa. La protagonista, che in realtà si scopre essere un brillante architetto, tra i migliori della sua generazione, ritrova la sua vena creativa, dunque confidenza e sicurezza dei propri mezzi nel momento in cui esce dall’ombra del marito, così come dal ruolo esclusivo di madre-moglie.

Dietro ad una narrazione piuttosto prevedibile e di chiara lettura, Linklater affronta nuovamente il tema della maternità, la problematicità di alcune scelte, le opportunità ma anche le inevitabili rinunce e sacrifici. Bernadette, che sembra essere colpita dai dubbi e timori che attanagliavano anche Patricia Arquette in Boyhood – così come da una crisi di mezza età simile a quelle vissute dal coach di baseball in Bad News Bears - Che botte se incontri gli Orsi o l’insegnante di School of Rock compie un ulteriore percorso di crescita ritrovando la propria espressione di sé, rielaborando e superando il trauma passato.

Uno degli elementi più interessanti del film risulta essere la rappresentazione e restituzione del passato della protagonista a partire da differenti fonti, come le testimonianze dei colleghi, presentate in forma di mockumentary, estratte da un video di presentazione sulla carriera di Bernadette, su cui si imbatte inavvertitamente la donna in rete e in seguito la figlia. I diversi livelli di sedimentazione che frammentano il racconto, andando a significare la molteplicità di strati, fanno trasparire un’impossibilità nel restituire tratti univoci della protagonista. La moltitudine di sfaccettature provoca spaesamento e stato di incertezza nello spettatore. Solo nel finale i tasselli andranno a formare un mosaico, tuttavia, omogeneo, ristabilendo una dimensione convenzionale che l’attitudine discorsiva, così come la natura del personaggio cercavano di eludere.

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Richard Linklater Cate Blanchett Billy Crudup Kristen Wiig Laurence Fishburne 104 minuti
USA 2019
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Ritratto della giovane in fiamme

di Veronica Vituzzi
Ritratto della giovane in fiamme - Celine Sciamma recensione film

Arrivata alla sua quarta pellicola Celine Sciamma conferma un peculiare interesse per il senso narrativo dello sguardo umano nel cinema, così come è espresso dai suoi personaggi che subiscono o si ribellano alla dimensione sociale dominante che le opprime. Già in Tomboy e Diamante Nero la regista francese aveva descritto ragazze che, per un momento, riuscivano a eludere le esigenze imposte al loro ruolo femminile da una società patriarcale. In Ritratto di una giovane in fiamme, nella Francia della fine del 1700 la pittrice Marianne si vede commissionato un inedito incarico: deve ritrarre in un dipinto Heloise, giovane promessa sposa restia a un matrimonio imposto dalla madre, e altrettanto ostile verso ogni tentativo di posare per un quadro destinato al futuro marito. Pertanto Marianne dovrà comportarsi da amica con la ragazza e osservala abbastanza da imprimersi i suoi tratti nella memoria per poi disegnarli una volta rimasta sola.

Heloise rifiuta di sottomettersi a uno sguardo di possesso che la spoglia del suo carattere e cancella ogni aspirazione personale, ma gli occhi di Marianne, che nelle loro conversazioni si voltano verso di lei in brevi occhiate fisse, divengono per la ragazza uno strumento per essere vista davvero e poter così iniziare lei stessa a guardare la pittrice, in un disvelarsi reciproco tramite la scoperta dei rispettivi lineamenti, gesti e mimiche abituali.  L’artista tramuta la propria visione in un’epifania d’amore, si scopre innamorata di Heloise e come lei priva di vere alternative: è sì libera del peso di un matrimonio obbligato, e lavora per mantenersi, ma la sua apparente maggiore indipendenza si limita al suo essere invisibile, puro occhio che osserva e descrive senza far notare la propria presenza, un anonimato culturale che ha poi contraddistinto la stragrande maggioranza delle sue colleghe dell’epoca. L’amore la costringe a farsi modella e oggetto del desiderio, uno sguardo artistico che diviene sguardo d’amore, liberatore ed emancipante, ma destinato alla sconfitta, come quello di Orfeo verso Euridice, narratole da Heloise.

La coppia si ama sotto lo sguardo candido e muto della serva della casa, che non chiede e non giudica, perfettamente cosciente del suo ruolo subordinato, ma che pur tuttavia rifiuta decisamente una gravidanza indesiderata e si sottopone a un aborto clandestino. Lo sguardo dell’amore diviene per entrambe un’esperienza di libertà, ma nel cinema di Celine Sciamma la gabbia della struttura sociale può allentare ma non sciogliere i nodi morali che istituiscono i ruoli e i doveri dei sessi. La lotta dei suoi personaggi è per un maggior spazio privato entro un perimetro che non può però mai venir meno del tutto. Lo status quo non viene mai scalfito, solo rivelato nella sua struttura oppressiva, pertanto ogni ribellione non può essere radicale né esplicita, solo attuata in forma di potenti parentesi di autodeterminazione: Heloise e Marianne troveranno sollievo e sfogo nella memoria futura del sentimento e degli atti d’amore condivisi, scavando entro l’armatura della propria funzione sociale temporanei rifugi spirituali dove potersi esprimere liberamente, anche solo permettendosi di guardare e pensare, pur senza agire.

Le opere di Celine Sciamma mettono in mostra le manifestazioni delle sue protagoniste come reazioni improvvise e inaspettate di indipendenza, ricorrentemente espresse tramite il potere eversivo del sentimento amoroso. Come sempre questo comporta la rottura del rigido controllo imposto al corpo, che si emancipa nel movimento. Siano la corsa o la danza o l’atto frenetico dell’amore ad agitarne i personaggi inquieti, la volontà di liberazione e l’oppressione sociale convivono in un equilibrio incerto: e se la prima non può vincere la seconda, questa non può annullare l’istintivo movimento umano verso la propria felicità, che può tradursi anche solo nell’ammissione a sé stessi dell’esistenza di desideri propri.

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Celine Sciamma Noémie Merlant Adèle Haenel Valeria Golino Luàna Bajrami 119 minuti
Francia 2019
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Atlantique

di Elvira Del Guercio
Atlantique - recensione film Mati Diop netflix

Lo sguardo di Mati Diop verso l’Atlantico, l’Atlantique, dal titolo della sua opera prima, nella strettissima relazione che intercorre tra l’individuo e l’altro – e l’ambiente, in questo caso ostile, sia in mare che sulla terraferma – non può che essere iniettato di quel particolare sentire le cose del mondo, i ricordi, la pelle, le ferite, che tanto l’avvicina alle coordinate del cinema di Claire Denis. L'ascendenza della regista francese è evidente nella contemplazione ravvicinata dei corpi, nei primissimi piani e nel calore emanato da certe inquadrature e sequenze, rese infinite e sospese, come il passaggio iniziale di Atlantique, in cui il campo-controcampo spezzato dal passaggio di un autobus, mentre Ada e Suleiman si guardano, ricorda, negli umori e nel clima, la sequenza della panetteria in Nenette et Boni o quella di Notre-Dame in Trouble every day: la stessa dilatazione dell’immagine e del suo effetto sconfinante.

Diop parte da queste premesse per raccontare una storia di perdita e fantasmi, i fantasmi degli uomini insepolti nei mari e nell’oceano che riprendono vita nei corpi delle loro mogli, “possedendoli” per tornare a esigere il debito non pagato di un padrone locale. L'anima di Suleiman si materializza nel corpo di quell’ispettore di polizia che crede sia ancora vivo, che proprio lui abbia appiccato l’incendio in casa di Omar, il riccastro che Ada avrebbe dovuto sposare; ma quell’incendio si rivelerà poi essere una maledizione, la materializzazione di una colpa, o meglio di un senso di colpa atavico, trovando, Atlantique, un’assonanza con un altro titolo importante di quest’anno: Zombi Child di Bertrand Bonello, entrambi visioni che filtrano la Storia. Nel suo cinema i corpi messi in scena sono sempre dimidiati, ce n'è uno carnale, plastico, visibile e un altro fantomatico, che si ri-assembla nel corso del tempo, qui rievocando, da parte della protagonista, la brutalità dello schiavismo, reso dal cineasta francese attraverso una lente deformante, quella del genere e della riproposizione dell'immaginario zombie. Il ricordo dello schiavismo di cui fu vittima il suo lontano zio “ritorna” più di cinquant’anni dopo nelle vesti di un anatema che avrebbe condannato la ragazza a vivere nel suo medesimo stato di trance, non-morta come i personaggi di Atlantique.

Costretti a transitare, quindi, attanagliati in limbi di attese, ricerche – il desiderio della Spagna, la speranza che un giorno, non appena approdati, questi uomini avrebbero chiamato le proprie care – che quasi mai si realizzano, alla stregua dei rifugiati di Transit di Christian Petzold. Altro film sulla migrazione continua dell’anima, ancor prima del corpo: mai stabili, mai sicuri dei luoghi e delle persone. In questi anni cruciali in cui non molto spesso è stato raccontato il dramma delle migrazioni e delle morti nel mare (togliendo qualche produzione documentaria), Diop rifugge da ogni genere di vittimismo e commiserazione, rappresentando l’evento in forma metonimica, di continui richiami ed eco, tra la detective story, l’immissione naturale dell’elemento sovrannaturale e quasi orrorifico che ci riporta a Denis, e la classica storia d’amore da melò.

Ma Atlantique è soprattutto una storia di rivalsa. Ada avrebbe dovuto essere la promessa sposa, vergine, di Omar e nonostante le sue compagne l’avessero ammonita, ricordandole la difficoltà estrema dell’essere sola «là fuori», la ragazza non rinuncia all’amore né a quel che ne rimaneva nella sua memoria, evadendo ostinata dagli obblighi di classe e dalla sua condizione di subalternità. La storia d’amore di Ada e Suleiman sopravvive nella forza eternatrice dell’immagine e alla fine – dopo l’atto d’amore consumato tra le mente e il corpo – prende coscienza di sé e della propria esperienza: Ada è il futuro, padrona di sé e di tutto ciò che deciderà di essere.

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Mati Diop Ibrahima Mbaye Abdou Balde Mame Bineta Sane 104 minuti
Belgio, Francia, Senegal 2019
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Pinocchio

di Giorgio Sedona
Pinocchio di Matteo Garrone

Approdo finale di un percorso indirizzato verso la purezza del sentimento nella fiabistica italiana che ha portato Matteo Garrone a misurarsi con il cuore della tradizione favolistica nazionale, dapprima adattando Il racconto dei racconti di Basile, proseguedo poi con la cronaca nera di Dogman virata in tonalità fin troppo concilianti per una storia tanto torbida, giungendo infine all’opera che più di tutte ci rappresenta: Pinocchio di Carlo Collodi. Non c’è opera migliore per ampliare il bestiario sociale di Garrone. Esseri antropomorfi, lumache e grilli parlanti, come orchi e negromanti, come giannizzeri e nani, il mondo cinematografico di Garrone è un ricettacolo di meraviglie per le quali la metamorfosi ovidiana non si è ancora del tutto conclusa, ancora in trasformazione per risultare di essere solo entità di carta e fantasia, e che continuano a possedere un apparato cardiaco nel quale domina il cuore dell’umanità. Dal carattere antologico di Basile, mantenendo sempre, e ancor prima di giungere a Il racconto dei racconti, la struttura evolutiva e narrativa classica proppiana, Garrone volge la fiaba umana, e il suo cinema, all’inseguimento del viaggio dell’eroe dal sentimento puro verso i confini dell’avventura. Che siano giganti di borgata, draghi, ideali sociali di successo che possono far vivere la realtà come un finto reality, o che siano gatti e volpi, o paesi di balocchi immaginari, gli impedimenti che la purezza del cuore umano deve affrontare sono prove attraverso le quali misurare l’idealismo della bontà d’animo; narrazioni che esigono di consumarsi in un happy ending anche in quei casi in cui la fedeltà narrativa avrebbe imposto un finale più amaro. Ed è proprio questa amarezza, propria della favolistica di fine ottocento, e che ancora conserva l’oscurità del tratto romantico tanto da essere stata inclusa da Collodi stesso nella proposta fatta al suo editore – nella volontà di terminare a metà la fiaba dapprima pubblicata a puntate su il Giornale per i bambini con l’impiccaggione di Pinocchio – é proprio questo senso di vuoto romantico che svanisce nella magia del caparbio burattino mosso dalla purezza emotiva, un seme di bontà in un terreno affamato e macilento, fino al ricongiungimento con il suo creatore Geppetto. Pinocchio è la favola che più appartiene all’Italia, caratterizzante di ogni italiano, mosso dalla bontà e indotto al raggiro dal contesto sociale, povero e ruffiano, un disperato e romantico eroe degli stracci. E’ l’anima di una nazione a uscire dal legno grezzo, e Garrone, artista che sa come si lavora con la plasticità del grottesco, avvezzo alla macchiettistica di costume, estrapola dal legno l’immagine idilliaca, e pura, dell’italianità.

Conducendo la narrazione in location fedelmente selezionate nelle bellezze paesaggistiche nostrane (dalla Basilicata alle colline toscane) e lasciando al dialetto la sfumatura geolocalizzatrice della recitazione, Garrone con il suo Pinocchio mostra l’Italia intera. Un’Italia, da fine ‘800 alla contemporaneità, dove non è difficle riconoscere gli esiti di una formazione sociale volta alla chimerica meta del paese dei balocchi (finto quanto un reality), a dispetto della fatica e del lavoro. Caratteristica quest’ultima fondante dell’appartenenza di una Nazione come la nostra dove l’individuo è portato a sopravvivere, lavorando o immaginando una soluzione alternativa alla fatica. Se la realtà dei primi film cede il passo all’immaginazione, caratterizzando una filmografia in lenta metamorfosi, Pinocchio per Garrone è l’apice della trasfigurazione, è il cuore dell’anima grottesca, è il primo (e finora unico) personaggio ad aver raggiunto la forma finale, un essere di legno, carta e cuore, definitivamente immaginario, un burattino che diventa bambino  in carne ed ossa restando pur sempre nei vincoli della fiaba, un ideale puro sviscerato da un contesto immaginario. Il cinema ha raggiunto la sua piena metaformosi e forma finale, il pescivendolo napoletano e il De Negri sono usciti dal bozzolo della realtà trasformandosi in lepidotteri in grado di volare sospinti dalla bontà d'animo e dalle loro buone intenzioni; è l’italiano stesso a essere uscito dalla pupa del proprio paese ed essersi inalzato come individuo umano.

E’ nei personaggi secondari non inclusi nella trasposizione, nelle modifiche sceneggiaturiali, nelle selezioni di materiale da includere o meno che si definisce l’intera operazione garroniana. La volontà di non far tornare nel finale Lucignolo oramai mutato in ciuchino e divenuto di proprietà del contadino, simbolo della schiavitù non sublimata dallo studio e dalla conoscenza, è una scelta molto indicativa sul messaggio che Garrone vuole dare al suo Pinocchio. Quest’ultimo burattino senza fili, privo quindi di un legame che lo assoggetti alla realtà, anima pura e avventuriera - “l’avventuriero è dentro di noi, e lotta per noi contro l’uomo sociale che siamo costretti ad essere” (Bolitho, Dodici contro gli Dei, Atlantide 2019) - che nel finale si assoggetta solo al suo creatore, fuggendo dalla fine tragica di ogni avventura. Pinocchio che nella versione di Garrone risulta mancante del suo contraddittorio, Lucignolo, bambino con fili, oramai schiavo della sua egoistica istintività, avventuriero che ha concluso la sua avventura: “Ad attendere gli avventurieri c’è una tragedia più sottile della rovina, di una vecchiaia di stenti, della miseria, del disprezzo. C’è la condanna a cessare di essere un avventuriero. La sua legge morfologica vuole che, dopo tutta la strada fatta per diventare una farfalla, sia condannato al culmine del suo sviluppo a trasformarsi in bruco” (Bolitho). Proprio questa mancanza nel finale spiega con decisione sia la forza sia la debolezza dell’operazione del regista. Escludendo dal suo adattamento la ricomparsa finale di Lucignolo esclude dalla fiaba la morale sociale che più rappresenta la fiaba stessa, e se da un lato aumenta il carattere immaginario di Pinocchio, andando al cuore del personaggio, dall’altra ne esclude le connessioni con una realtà che non si palesa più come ammonimento. La sensazione di leggerezza che rimane post visione deriva proprio dalla scelta di aver raschiato via le scorie dal reale, in una mutazione definitiva, giungendo unicamente nel mondo delle fiabe e dei balocchi. Il raggiungimento del cuore del personaggio, e il realizzare con amore una trasposizione cinematografica della fiaba di Collodi, concede a Garrone di chiudere una parentesi del suo cinema, un percorso necessario per il compimento della sua cinematografia, ma che non aggiunge nulla alla tradizione favolistica su Pinocchio. Se Comencini aveva colto l’anima pura del bambino dalla miseria di un intero Paese mantenendo della fiaba una derivazione sociale (utile allo scopo la sua indagine sociale della serie tv I bambini e noi), Garrone leviga il legno dagli avanzi che lo trattengono nell’impasto della realtà, e a metamorfosi conclusa, ci concede un Pinocchio atomizzato nella sua bontà, un personaggio puramente di carta e fantasia, buono per un pubblico di innocenti.

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Matteo Garrone Roberto Benigni Federico Ielapi Gigi Proietti Rocco Papaleo Massimo Ceccherini 125 minuti
Italia, Gran Bretagna, Francia 2019
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Hagazussa: A Heathen’s Curse

di Gian Giacomo Petrone
Hagazussa - a heathen’s curse - recensione film feigelfeld

I film spartiacque abitano i confini fra epoche che essi stessi hanno concorso a determinare, creando nuovi mondi iconici, inedite mappe del visibile. The Witch: A New-England Folktale di Robert Eggers presenta proprio tali caratteri, collocandosi fra i titoli odierni più noti e riusciti nello sfruttare le possibilità offerte dal mezzo cinematografico per celebrare il rito della (rappresentazione della) paura, attraverso il realismo della messa in scena, in assenza totale del ricorso a qualsivoglia soluzione spettacolare e infine rigettando la stragrande maggioranza della produzione horror coeva. Inoltre, tutt’altro che in subordine, il lavoro di Eggers ha il merito di focalizzarsi sulla componente mitica della Storia, sulle idiosincrasie e i fantasmi che proliferano nell’immaginario popolare, indagandone la scaturigine ancestrale e soprattutto risvegliando l’interesse registico e critico per quel filone, trasversale a diverse cinematografie ed epoche, definibile come folk-horror.

Hagazussa: A Heathen’s Curse dell’austriaco Lukas Feigelfeld, fin dal titolo (il termine alto-tedesco “Hagazussa” – da cui i più moderni “Hexe” per strega ed “Hexer” per stregone – indicava in origine il sapiente, in seguito colui/colei che praticava sortilegi o possedeva l’arte della divinazione), muove i propri passi sul sentiero che Eggers ha reso nuovamente visibile, sia nell’urgenza di far riaffiorare, tramite lo scavo storico-antropologico del passato, alcune delle angosce primordiali e delle conseguenti superstizioni di cui si è nutrito l’uomo (occidentale) nel corso dei secoli, sia nella propensione ad aderire allo spirito appunto di tale passato, attraverso la messa in scena. Hagazussa mette in immagini una dolorosa vicenda di solitudine e abiezione sullo sfondo delle Alpi austriache nel XV secolo, nel contesto di una minuscola e isolata comunità montana, in cui le pratiche del cristianesimo si fondono sincreticamente con antiche credenze pagane.

Fulcro del racconto è Albrun (Celina Peter da bambina, Aleksandra Cwen da adulta), da cui si dipartono e verso cui convergono pressoché tutti i vettori di senso di un film in cui la presenza muliebre è egemone, mentre quella maschile risulta quasi sempre una mera appendice. Escluse alcune immagini di raccordo in apparenza puramente denotative, e tuttavia potentemente connotative nello sviluppare l’atmosfera di minaccia e solitudine voluta dal regista, in cui a dominare è l’incombente natura alpestre, selvaggia, indifferente e priva di presenza umana, la narrazione è focalizzata sul personaggio principale, sul suo punto di osservazione degli accadimenti, sulle sue reazioni emotive. A scandire la progressione degli eventi provvedono i quattro capitoli in cui è suddiviso il film (“ombra”, “corno”, “sangue”, “fuoco”), principi-simboli di una liturgia pagana, anziché mere denominazioni di segmenti narrativi. Hagazussa può infatti essere letto come il  rito iniziatico di una donna bandita dalla propria comunità in quanto ritenuta strega, e costretta a comprendere l’essenza della propria condizione senza ausili esterni, bensì unicamente tramite la natura e la sua costitutiva conflittualità fra principi opposti, essendo invece il versante umano caratterizzato da un Male endemico, contagioso e unilaterale. Infatti, se la natura è dispensatrice di vita e morte, nutrimento e malattia, riparo e intemperie, senza connotazioni morali, l’umanità descritta da Feigelfeld (in questo, forse debitore di suoi compatrioti come gli scrittori Bernhard e Jelinek, o come i registi Haneke e Seidl) è sentina di depravazioni, violenza, crudeltà, pregiudizi o, nella migliore delle ipotesi, di gelida impassibilità. Mentre la peste da cui è affetta la madre di Albrun (Claudia Martini) – quando questa è ancora bambina – è traccia di inevitabili processi naturali, il morbo psicotico di cui si fa portatrice la crudele Swinda (Tanja Petrovsky), molti anni dopo, è al contrario indice di aberranti elaborazioni di tipo culturale, essendo ella alla ricerca di prove della stregoneria praticata da Albrun. Il vile tradimento di Swinda nei confronti di quest’ultima, dopo un affettuoso approccio amicale, conduce a un altro tipo di contagio, forse più esiziale di qualsiasi patologia fisica, visto che porterà Albrun a trasformare irreversibilmente la propria psiche e a rifugiarsi nell’unico ruolo sociale rimastole, quello di strega. In una sorta di contrappasso, Albrun avvelenerà la fonte principale di acqua potabile della comunità che l’ha respinta, attraverso la diffusione volontaria di una nuova pestilenza: molti suoi concittadini subiranno la medesima sorte a cui era stata condannata la madre, abbandonata da tutti per paura del morbo, ma soprattutto per il suo essere così difforme – senza marito e madre di una ragazzina, esattamente come Albrun anni dopo – dalle regole della collettività. Nel finale, Albrun lascerà alle spalle definitivamente quel che resta del villaggio e, insieme alla piccola figlia, si abbandonerà a una comunione allucinatoria con il bosco e le montagne circostanti, riscoprendo ancora una volta quanto sia difficile la vita, stupefacente la natura nelle sue mutevoli sfumature, facile ma mai indolore la morte.

Feigelfeld sviluppa una partitura visiva fitta di segni e simboli, ipnotica e ossessiva, pregna di un onirismo trionfante e tuttavia “realistico”, punteggiata a tratti da un tedesco biascicato e arcaico, ritmata dalle impressionanti e arcane sonorità dei greci Mohammad (noti anche come MMMD): una sorta di danse macabre di cui è arduo decifrare il codice, vista la rarità dei dialoghi e l’assenza di qualsiasi sottolineatura didascalica. Ecco allora che l’oscurità del senso diviene il senso dell’oscurità, l’unico modo per delineare l’enigma – della vita, della morte, dell’essere delle cose, del Bene e del Male, di un passato storico divenuto mito, leggenda – è lasciarlo inespresso. Un film crudele e magnetico come pochi.

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Lukas Feigelfeld Aleksandra Cwen Celina Peter Claudia Martini Tanja Petrovsky 102 minuti
Austria, Germania 2017
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