The Farewell - Una bugia buona

di Fiaba Di Martino
Farewell - recensione film - Lulu Wang

Da noi è approdato nel periodo delle calde sale natalizie e dei buoni sentimenti (nonostante di questi ultimi sia teso a rivelare la simulazione), ma a inizio 2019 The Farewell – Una bugia buona è stato il pupillo del Sundance. Non a sorpresa, perché l’opus numero due della cinese naturalizzata statunitense Lulu Wang aveva tutte le carte in regola per figurare come ultimo gioiellino prefabbricato del canone istituito dal festival, tra vaghe stramberie e una lunatica malinconia di fondo, al netto – per nostra fortuna – di una certa ruffianeria (quella, per intenderci, di un Captain Fantastic o di un Lady Bird, che dal Sundance non passò ma che di Sundance profumava dalla prima all’ultima inquadratura). Tuttavia, di una strumentazione utile per andare oltre questa patina trita il film ne beneficiava.

Adattato da un breve testo autobiografico del 2016, What You Don’t Know, andato in onda nel programma radiofonico This American Life, The Farewell è la rielaborazione di un segmento d’esistenza di Wang. Che qui è Billi (interpretata da Awkwafina, ultimo caso di comedian che goes drama), cinese trasferitasi da piccola coi genitori a New York da Changchun, circa-trentenne intercettata in un momento antipatico della propria vita: aspirante scrittrice, la sua domanda per la Guggenheim è stata respinta ed è finanziariamente a secco, sul collo il fiato dell’affittuaria. Ciliegina sulla torta marcia, viene casualmente a sapere che a Nai Nai (la veterana Shuzhen Zhao), la nonna rimasta in Cina, restano pochi mesi di vita e che l’intera famiglia Wang ha scelto di tenerglielo nascosto, organizzando un abborracciato matrimonio come scusa per darle l’ultimo addio. In tutta fretta Billi raggiunge i genitori e l’affollato parentado a Changchun, trovandosi smarrita nei contorni di un paese in cui da tempo non ha più un posto, e stretta nelle maglie decisionali di una famiglia che non permette alla sua voce contraria di avere un peso, un ruolo, una forza risolutiva.

Proprio il fatto che la protagonista, dunque la portatrice del punto di vista che seguiamo e dei sentimenti in cui c’immedesimiamo, venga ripetutamente schiacciata, silenziata, isolata in un angolino osservativo, che per l’intera durata del film rimanga impotente, passiva, è l’idea più interessante di Wang (Lulu), ma il punctum centrale della vicenda è la forbice tra i due punti di vista in collisione – quello privato e personale di Billi contro quello familiare e “collettivo” dei Wang –, prospettive antitetiche che riflettono la differenza più universale tra l’approccio occidentale (dove ognuno è responsabile di sé, autonomo nella propria libertà di scelta) e quello orientale (dove una persona fa parte di un tutto, e a quel tutto spetta condividere il dolore di uno). Ebbene è questa forbice che la regista non indaga mai nel profondo, evitando di entrare nella natura delle differenze, rimanendo  proprio come Billi (ma senza il suo “alibi”, l’imbavagliamento prescritto da volontà esterne e altrui) discostata dalle scenette che snocciola, contemplando l’ambiente quasi con timidezza, sbirciandolo, cogliendone frammenti di superficie. Come una malinconica visita guidata da uno sguardo occidentale, anzi, meglio, americano, a raccogliere da dietro un vetro curiosi souvenir di un luogo altro, impenetrabile, mantenuto a distanza di sicurezza.

Oltre la frustrazione malcelata e di tanto in tanto sfogata da Billi, v’è insomma poco altro, quantomeno ai nostri occhi, agli occhi di un film che preferisce un territorio di visione e narrazione rincuorante, conciliatorio senza affondi critici (la conversazione a tavola su vizi e virtù degli Usa vs Cina ne è esempio perfetto: ondivaga e leggera). Fra qualche lacrima, simpaticheria, quadretti minimal e una chiusa volutamente sottotono, The Farewell scivola via tenendo a bada la complessità e preferendole un’esile, inoffensiva delicatezza.

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Lulu Wang Awkwafina Zhao Shuzhen Kong Lin X Mayo 98 minuti
Cina, USA 2019
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Che fine ha fatto Bernadette?

di Samuel Antichi
Che fine ha fatto Bernadette - recensione film Linklater

Dopo aver riflettuto, con Last Flag Flying, intorno alla commemorazione e al superamento del lutto attraverso un viaggio fisico ed esperienziale, che porta i personaggi a rimettere in discussione il proprio trascorso unendo e collegando i frammenti del passato, Richard Linklater adatta il bestseller firmato nel 2012 da Maria Semple, Che fine ha fatto Bernadette?.

La protagonista del racconto è Bernadette Fox (Cate Blanchett) casalinga stanca, sociopatica, agorafobica, depressa con problemi di insonnia mai integratasi realmente nella vita di quartiere. Dietro un apparentemente perfetto scenario familiare, il rapporto di coppia e il rapporto con la figlia-migliore amica, Bernadette non sembra aver instaurato alcun legame amicale. L’unica figura con cui si confida e si sfoga è Manjula, un’assistente virtuale indiana dietro cui si cela una minaccia molto pericolosa. Il carattere estremamente schivo e gli occhiali che nascondono così spesso parte del volto mascherano una delusione professionale avvenuta in passato, un rimosso che Bernadette ha obliato rifugiandosi nella vita casalinga che però chiaramente non l’appaga. La donna sembra trascurare qualunque rapporto con il mondo esterno rifiutando di affrontare e rielaborare il proprio trascorso, dimensione che viene resa esplicita – metaforicamente e non – dal momento in cui un enorme quantità di rovi sembra minacciare la stabilità della propria casa, un’abitazione ormai vuota e fredda sul punto di crollare. Anche in questo caso, come nel film precedente, sarà un viaggio, che inizialmente doveva essere familiare per poi trasformarsi in percorso intimo e introspettivo, a permette a Bernadette di ritrovare sé stessa. La protagonista, che in realtà si scopre essere un brillante architetto, tra i migliori della sua generazione, ritrova la sua vena creativa, dunque confidenza e sicurezza dei propri mezzi nel momento in cui esce dall’ombra del marito, così come dal ruolo esclusivo di madre-moglie.

Dietro ad una narrazione piuttosto prevedibile e di chiara lettura, Linklater affronta nuovamente il tema della maternità, la problematicità di alcune scelte, le opportunità ma anche le inevitabili rinunce e sacrifici. Bernadette, che sembra essere colpita dai dubbi e timori che attanagliavano anche Patricia Arquette in Boyhood – così come da una crisi di mezza età simile a quelle vissute dal coach di baseball in Bad News Bears - Che botte se incontri gli Orsi o l’insegnante di School of Rock compie un ulteriore percorso di crescita ritrovando la propria espressione di sé, rielaborando e superando il trauma passato.

Uno degli elementi più interessanti del film risulta essere la rappresentazione e restituzione del passato della protagonista a partire da differenti fonti, come le testimonianze dei colleghi, presentate in forma di mockumentary, estratte da un video di presentazione sulla carriera di Bernadette, su cui si imbatte inavvertitamente la donna in rete e in seguito la figlia. I diversi livelli di sedimentazione che frammentano il racconto, andando a significare la molteplicità di strati, fanno trasparire un’impossibilità nel restituire tratti univoci della protagonista. La moltitudine di sfaccettature provoca spaesamento e stato di incertezza nello spettatore. Solo nel finale i tasselli andranno a formare un mosaico, tuttavia, omogeneo, ristabilendo una dimensione convenzionale che l’attitudine discorsiva, così come la natura del personaggio cercavano di eludere.

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Richard Linklater Cate Blanchett Billy Crudup Kristen Wiig Laurence Fishburne 104 minuti
USA 2019
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Ritratto della giovane in fiamme

di Veronica Vituzzi
Ritratto della giovane in fiamme - Celine Sciamma recensione film

Arrivata alla sua quarta pellicola Celine Sciamma conferma un peculiare interesse per il senso narrativo dello sguardo umano nel cinema, così come è espresso dai suoi personaggi che subiscono o si ribellano alla dimensione sociale dominante che le opprime. Già in Tomboy e Diamante Nero la regista francese aveva descritto ragazze che, per un momento, riuscivano a eludere le esigenze imposte al loro ruolo femminile da una società patriarcale. In Ritratto di una giovane in fiamme, nella Francia della fine del 1700 la pittrice Marianne si vede commissionato un inedito incarico: deve ritrarre in un dipinto Heloise, giovane promessa sposa restia a un matrimonio imposto dalla madre, e altrettanto ostile verso ogni tentativo di posare per un quadro destinato al futuro marito. Pertanto Marianne dovrà comportarsi da amica con la ragazza e osservala abbastanza da imprimersi i suoi tratti nella memoria per poi disegnarli una volta rimasta sola.

Heloise rifiuta di sottomettersi a uno sguardo di possesso che la spoglia del suo carattere e cancella ogni aspirazione personale, ma gli occhi di Marianne, che nelle loro conversazioni si voltano verso di lei in brevi occhiate fisse, divengono per la ragazza uno strumento per essere vista davvero e poter così iniziare lei stessa a guardare la pittrice, in un disvelarsi reciproco tramite la scoperta dei rispettivi lineamenti, gesti e mimiche abituali.  L’artista tramuta la propria visione in un’epifania d’amore, si scopre innamorata di Heloise e come lei priva di vere alternative: è sì libera del peso di un matrimonio obbligato, e lavora per mantenersi, ma la sua apparente maggiore indipendenza si limita al suo essere invisibile, puro occhio che osserva e descrive senza far notare la propria presenza, un anonimato culturale che ha poi contraddistinto la stragrande maggioranza delle sue colleghe dell’epoca. L’amore la costringe a farsi modella e oggetto del desiderio, uno sguardo artistico che diviene sguardo d’amore, liberatore ed emancipante, ma destinato alla sconfitta, come quello di Orfeo verso Euridice, narratole da Heloise.

La coppia si ama sotto lo sguardo candido e muto della serva della casa, che non chiede e non giudica, perfettamente cosciente del suo ruolo subordinato, ma che pur tuttavia rifiuta decisamente una gravidanza indesiderata e si sottopone a un aborto clandestino. Lo sguardo dell’amore diviene per entrambe un’esperienza di libertà, ma nel cinema di Celine Sciamma la gabbia della struttura sociale può allentare ma non sciogliere i nodi morali che istituiscono i ruoli e i doveri dei sessi. La lotta dei suoi personaggi è per un maggior spazio privato entro un perimetro che non può però mai venir meno del tutto. Lo status quo non viene mai scalfito, solo rivelato nella sua struttura oppressiva, pertanto ogni ribellione non può essere radicale né esplicita, solo attuata in forma di potenti parentesi di autodeterminazione: Heloise e Marianne troveranno sollievo e sfogo nella memoria futura del sentimento e degli atti d’amore condivisi, scavando entro l’armatura della propria funzione sociale temporanei rifugi spirituali dove potersi esprimere liberamente, anche solo permettendosi di guardare e pensare, pur senza agire.

Le opere di Celine Sciamma mettono in mostra le manifestazioni delle sue protagoniste come reazioni improvvise e inaspettate di indipendenza, ricorrentemente espresse tramite il potere eversivo del sentimento amoroso. Come sempre questo comporta la rottura del rigido controllo imposto al corpo, che si emancipa nel movimento. Siano la corsa o la danza o l’atto frenetico dell’amore ad agitarne i personaggi inquieti, la volontà di liberazione e l’oppressione sociale convivono in un equilibrio incerto: e se la prima non può vincere la seconda, questa non può annullare l’istintivo movimento umano verso la propria felicità, che può tradursi anche solo nell’ammissione a sé stessi dell’esistenza di desideri propri.

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Celine Sciamma Noémie Merlant Adèle Haenel Valeria Golino Luàna Bajrami 119 minuti
Francia 2019
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Atlantique

di Elvira Del Guercio
Atlantique - recensione film Mati Diop netflix

Lo sguardo di Mati Diop verso l’Atlantico, l’Atlantique, dal titolo della sua opera prima, nella strettissima relazione che intercorre tra l’individuo e l’altro – e l’ambiente, in questo caso ostile, sia in mare che sulla terraferma – non può che essere iniettato di quel particolare sentire le cose del mondo, i ricordi, la pelle, le ferite, che tanto l’avvicina alle coordinate del cinema di Claire Denis. L'ascendenza della regista francese è evidente nella contemplazione ravvicinata dei corpi, nei primissimi piani e nel calore emanato da certe inquadrature e sequenze, rese infinite e sospese, come il passaggio iniziale di Atlantique, in cui il campo-controcampo spezzato dal passaggio di un autobus, mentre Ada e Suleiman si guardano, ricorda, negli umori e nel clima, la sequenza della panetteria in Nenette et Boni o quella di Notre-Dame in Trouble every day: la stessa dilatazione dell’immagine e del suo effetto sconfinante.

Diop parte da queste premesse per raccontare una storia di perdita e fantasmi, i fantasmi degli uomini insepolti nei mari e nell’oceano che riprendono vita nei corpi delle loro mogli, “possedendoli” per tornare a esigere il debito non pagato di un padrone locale. L'anima di Suleiman si materializza nel corpo di quell’ispettore di polizia che crede sia ancora vivo, che proprio lui abbia appiccato l’incendio in casa di Omar, il riccastro che Ada avrebbe dovuto sposare; ma quell’incendio si rivelerà poi essere una maledizione, la materializzazione di una colpa, o meglio di un senso di colpa atavico, trovando, Atlantique, un’assonanza con un altro titolo importante di quest’anno: Zombi Child di Bertrand Bonello, entrambi visioni che filtrano la Storia. Nel suo cinema i corpi messi in scena sono sempre dimidiati, ce n'è uno carnale, plastico, visibile e un altro fantomatico, che si ri-assembla nel corso del tempo, qui rievocando, da parte della protagonista, la brutalità dello schiavismo, reso dal cineasta francese attraverso una lente deformante, quella del genere e della riproposizione dell'immaginario zombie. Il ricordo dello schiavismo di cui fu vittima il suo lontano zio “ritorna” più di cinquant’anni dopo nelle vesti di un anatema che avrebbe condannato la ragazza a vivere nel suo medesimo stato di trance, non-morta come i personaggi di Atlantique.

Costretti a transitare, quindi, attanagliati in limbi di attese, ricerche – il desiderio della Spagna, la speranza che un giorno, non appena approdati, questi uomini avrebbero chiamato le proprie care – che quasi mai si realizzano, alla stregua dei rifugiati di Transit di Christian Petzold. Altro film sulla migrazione continua dell’anima, ancor prima del corpo: mai stabili, mai sicuri dei luoghi e delle persone. In questi anni cruciali in cui non molto spesso è stato raccontato il dramma delle migrazioni e delle morti nel mare (togliendo qualche produzione documentaria), Diop rifugge da ogni genere di vittimismo e commiserazione, rappresentando l’evento in forma metonimica, di continui richiami ed eco, tra la detective story, l’immissione naturale dell’elemento sovrannaturale e quasi orrorifico che ci riporta a Denis, e la classica storia d’amore da melò.

Ma Atlantique è soprattutto una storia di rivalsa. Ada avrebbe dovuto essere la promessa sposa, vergine, di Omar e nonostante le sue compagne l’avessero ammonita, ricordandole la difficoltà estrema dell’essere sola «là fuori», la ragazza non rinuncia all’amore né a quel che ne rimaneva nella sua memoria, evadendo ostinata dagli obblighi di classe e dalla sua condizione di subalternità. La storia d’amore di Ada e Suleiman sopravvive nella forza eternatrice dell’immagine e alla fine – dopo l’atto d’amore consumato tra le mente e il corpo – prende coscienza di sé e della propria esperienza: Ada è il futuro, padrona di sé e di tutto ciò che deciderà di essere.

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Mati Diop Ibrahima Mbaye Abdou Balde Mame Bineta Sane 104 minuti
Belgio, Francia, Senegal 2019
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Pinocchio

di Giorgio Sedona
Pinocchio di Matteo Garrone

Approdo finale di un percorso indirizzato verso la purezza del sentimento nella fiabistica italiana che ha portato Matteo Garrone a misurarsi con il cuore della tradizione favolistica nazionale, dapprima adattando Il racconto dei racconti di Basile, proseguedo poi con la cronaca nera di Dogman virata in tonalità fin troppo concilianti per una storia tanto torbida, giungendo infine all’opera che più di tutte ci rappresenta: Pinocchio di Carlo Collodi. Non c’è opera migliore per ampliare il bestiario sociale di Garrone. Esseri antropomorfi, lumache e grilli parlanti, come orchi e negromanti, come giannizzeri e nani, il mondo cinematografico di Garrone è un ricettacolo di meraviglie per le quali la metamorfosi ovidiana non si è ancora del tutto conclusa, ancora in trasformazione per risultare di essere solo entità di carta e fantasia, e che continuano a possedere un apparato cardiaco nel quale domina il cuore dell’umanità. Dal carattere antologico di Basile, mantenendo sempre, e ancor prima di giungere a Il racconto dei racconti, la struttura evolutiva e narrativa classica proppiana, Garrone volge la fiaba umana, e il suo cinema, all’inseguimento del viaggio dell’eroe dal sentimento puro verso i confini dell’avventura. Che siano giganti di borgata, draghi, ideali sociali di successo che possono far vivere la realtà come un finto reality, o che siano gatti e volpi, o paesi di balocchi immaginari, gli impedimenti che la purezza del cuore umano deve affrontare sono prove attraverso le quali misurare l’idealismo della bontà d’animo; narrazioni che esigono di consumarsi in un happy ending anche in quei casi in cui la fedeltà narrativa avrebbe imposto un finale più amaro. Ed è proprio questa amarezza, propria della favolistica di fine ottocento, e che ancora conserva l’oscurità del tratto romantico tanto da essere stata inclusa da Collodi stesso nella proposta fatta al suo editore – nella volontà di terminare a metà la fiaba dapprima pubblicata a puntate su il Giornale per i bambini con l’impiccaggione di Pinocchio – é proprio questo senso di vuoto romantico che svanisce nella magia del caparbio burattino mosso dalla purezza emotiva, un seme di bontà in un terreno affamato e macilento, fino al ricongiungimento con il suo creatore Geppetto. Pinocchio è la favola che più appartiene all’Italia, caratterizzante di ogni italiano, mosso dalla bontà e indotto al raggiro dal contesto sociale, povero e ruffiano, un disperato e romantico eroe degli stracci. E’ l’anima di una nazione a uscire dal legno grezzo, e Garrone, artista che sa come si lavora con la plasticità del grottesco, avvezzo alla macchiettistica di costume, estrapola dal legno l’immagine idilliaca, e pura, dell’italianità.

Conducendo la narrazione in location fedelmente selezionate nelle bellezze paesaggistiche nostrane (dalla Basilicata alle colline toscane) e lasciando al dialetto la sfumatura geolocalizzatrice della recitazione, Garrone con il suo Pinocchio mostra l’Italia intera. Un’Italia, da fine ‘800 alla contemporaneità, dove non è difficle riconoscere gli esiti di una formazione sociale volta alla chimerica meta del paese dei balocchi (finto quanto un reality), a dispetto della fatica e del lavoro. Caratteristica quest’ultima fondante dell’appartenenza di una Nazione come la nostra dove l’individuo è portato a sopravvivere, lavorando o immaginando una soluzione alternativa alla fatica. Se la realtà dei primi film cede il passo all’immaginazione, caratterizzando una filmografia in lenta metamorfosi, Pinocchio per Garrone è l’apice della trasfigurazione, è il cuore dell’anima grottesca, è il primo (e finora unico) personaggio ad aver raggiunto la forma finale, un essere di legno, carta e cuore, definitivamente immaginario, un burattino che diventa bambino  in carne ed ossa restando pur sempre nei vincoli della fiaba, un ideale puro sviscerato da un contesto immaginario. Il cinema ha raggiunto la sua piena metaformosi e forma finale, il pescivendolo napoletano e il De Negri sono usciti dal bozzolo della realtà trasformandosi in lepidotteri in grado di volare sospinti dalla bontà d'animo e dalle loro buone intenzioni; è l’italiano stesso a essere uscito dalla pupa del proprio paese ed essersi inalzato come individuo umano.

E’ nei personaggi secondari non inclusi nella trasposizione, nelle modifiche sceneggiaturiali, nelle selezioni di materiale da includere o meno che si definisce l’intera operazione garroniana. La volontà di non far tornare nel finale Lucignolo oramai mutato in ciuchino e divenuto di proprietà del contadino, simbolo della schiavitù non sublimata dallo studio e dalla conoscenza, è una scelta molto indicativa sul messaggio che Garrone vuole dare al suo Pinocchio. Quest’ultimo burattino senza fili, privo quindi di un legame che lo assoggetti alla realtà, anima pura e avventuriera - “l’avventuriero è dentro di noi, e lotta per noi contro l’uomo sociale che siamo costretti ad essere” (Bolitho, Dodici contro gli Dei, Atlantide 2019) - che nel finale si assoggetta solo al suo creatore, fuggendo dalla fine tragica di ogni avventura. Pinocchio che nella versione di Garrone risulta mancante del suo contraddittorio, Lucignolo, bambino con fili, oramai schiavo della sua egoistica istintività, avventuriero che ha concluso la sua avventura: “Ad attendere gli avventurieri c’è una tragedia più sottile della rovina, di una vecchiaia di stenti, della miseria, del disprezzo. C’è la condanna a cessare di essere un avventuriero. La sua legge morfologica vuole che, dopo tutta la strada fatta per diventare una farfalla, sia condannato al culmine del suo sviluppo a trasformarsi in bruco” (Bolitho). Proprio questa mancanza nel finale spiega con decisione sia la forza sia la debolezza dell’operazione del regista. Escludendo dal suo adattamento la ricomparsa finale di Lucignolo esclude dalla fiaba la morale sociale che più rappresenta la fiaba stessa, e se da un lato aumenta il carattere immaginario di Pinocchio, andando al cuore del personaggio, dall’altra ne esclude le connessioni con una realtà che non si palesa più come ammonimento. La sensazione di leggerezza che rimane post visione deriva proprio dalla scelta di aver raschiato via le scorie dal reale, in una mutazione definitiva, giungendo unicamente nel mondo delle fiabe e dei balocchi. Il raggiungimento del cuore del personaggio, e il realizzare con amore una trasposizione cinematografica della fiaba di Collodi, concede a Garrone di chiudere una parentesi del suo cinema, un percorso necessario per il compimento della sua cinematografia, ma che non aggiunge nulla alla tradizione favolistica su Pinocchio. Se Comencini aveva colto l’anima pura del bambino dalla miseria di un intero Paese mantenendo della fiaba una derivazione sociale (utile allo scopo la sua indagine sociale della serie tv I bambini e noi), Garrone leviga il legno dagli avanzi che lo trattengono nell’impasto della realtà, e a metamorfosi conclusa, ci concede un Pinocchio atomizzato nella sua bontà, un personaggio puramente di carta e fantasia, buono per un pubblico di innocenti.

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Matteo Garrone Roberto Benigni Federico Ielapi Gigi Proietti Rocco Papaleo Massimo Ceccherini 125 minuti
Italia, Gran Bretagna, Francia 2019
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Hagazussa: A Heathen’s Curse

di Gian Giacomo Petrone
Hagazussa - a heathen’s curse - recensione film feigelfeld

I film spartiacque abitano i confini fra epoche che essi stessi hanno concorso a determinare, creando nuovi mondi iconici, inedite mappe del visibile. The Witch: A New-England Folktale di Robert Eggers presenta proprio tali caratteri, collocandosi fra i titoli odierni più noti e riusciti nello sfruttare le possibilità offerte dal mezzo cinematografico per celebrare il rito della (rappresentazione della) paura, attraverso il realismo della messa in scena, in assenza totale del ricorso a qualsivoglia soluzione spettacolare e infine rigettando la stragrande maggioranza della produzione horror coeva. Inoltre, tutt’altro che in subordine, il lavoro di Eggers ha il merito di focalizzarsi sulla componente mitica della Storia, sulle idiosincrasie e i fantasmi che proliferano nell’immaginario popolare, indagandone la scaturigine ancestrale e soprattutto risvegliando l’interesse registico e critico per quel filone, trasversale a diverse cinematografie ed epoche, definibile come folk-horror.

Hagazussa: A Heathen’s Curse dell’austriaco Lukas Feigelfeld, fin dal titolo (il termine alto-tedesco “Hagazussa” – da cui i più moderni “Hexe” per strega ed “Hexer” per stregone – indicava in origine il sapiente, in seguito colui/colei che praticava sortilegi o possedeva l’arte della divinazione), muove i propri passi sul sentiero che Eggers ha reso nuovamente visibile, sia nell’urgenza di far riaffiorare, tramite lo scavo storico-antropologico del passato, alcune delle angosce primordiali e delle conseguenti superstizioni di cui si è nutrito l’uomo (occidentale) nel corso dei secoli, sia nella propensione ad aderire allo spirito appunto di tale passato, attraverso la messa in scena. Hagazussa mette in immagini una dolorosa vicenda di solitudine e abiezione sullo sfondo delle Alpi austriache nel XV secolo, nel contesto di una minuscola e isolata comunità montana, in cui le pratiche del cristianesimo si fondono sincreticamente con antiche credenze pagane.

Fulcro del racconto è Albrun (Celina Peter da bambina, Aleksandra Cwen da adulta), da cui si dipartono e verso cui convergono pressoché tutti i vettori di senso di un film in cui la presenza muliebre è egemone, mentre quella maschile risulta quasi sempre una mera appendice. Escluse alcune immagini di raccordo in apparenza puramente denotative, e tuttavia potentemente connotative nello sviluppare l’atmosfera di minaccia e solitudine voluta dal regista, in cui a dominare è l’incombente natura alpestre, selvaggia, indifferente e priva di presenza umana, la narrazione è focalizzata sul personaggio principale, sul suo punto di osservazione degli accadimenti, sulle sue reazioni emotive. A scandire la progressione degli eventi provvedono i quattro capitoli in cui è suddiviso il film (“ombra”, “corno”, “sangue”, “fuoco”), principi-simboli di una liturgia pagana, anziché mere denominazioni di segmenti narrativi. Hagazussa può infatti essere letto come il  rito iniziatico di una donna bandita dalla propria comunità in quanto ritenuta strega, e costretta a comprendere l’essenza della propria condizione senza ausili esterni, bensì unicamente tramite la natura e la sua costitutiva conflittualità fra principi opposti, essendo invece il versante umano caratterizzato da un Male endemico, contagioso e unilaterale. Infatti, se la natura è dispensatrice di vita e morte, nutrimento e malattia, riparo e intemperie, senza connotazioni morali, l’umanità descritta da Feigelfeld (in questo, forse debitore di suoi compatrioti come gli scrittori Bernhard e Jelinek, o come i registi Haneke e Seidl) è sentina di depravazioni, violenza, crudeltà, pregiudizi o, nella migliore delle ipotesi, di gelida impassibilità. Mentre la peste da cui è affetta la madre di Albrun (Claudia Martini) – quando questa è ancora bambina – è traccia di inevitabili processi naturali, il morbo psicotico di cui si fa portatrice la crudele Swinda (Tanja Petrovsky), molti anni dopo, è al contrario indice di aberranti elaborazioni di tipo culturale, essendo ella alla ricerca di prove della stregoneria praticata da Albrun. Il vile tradimento di Swinda nei confronti di quest’ultima, dopo un affettuoso approccio amicale, conduce a un altro tipo di contagio, forse più esiziale di qualsiasi patologia fisica, visto che porterà Albrun a trasformare irreversibilmente la propria psiche e a rifugiarsi nell’unico ruolo sociale rimastole, quello di strega. In una sorta di contrappasso, Albrun avvelenerà la fonte principale di acqua potabile della comunità che l’ha respinta, attraverso la diffusione volontaria di una nuova pestilenza: molti suoi concittadini subiranno la medesima sorte a cui era stata condannata la madre, abbandonata da tutti per paura del morbo, ma soprattutto per il suo essere così difforme – senza marito e madre di una ragazzina, esattamente come Albrun anni dopo – dalle regole della collettività. Nel finale, Albrun lascerà alle spalle definitivamente quel che resta del villaggio e, insieme alla piccola figlia, si abbandonerà a una comunione allucinatoria con il bosco e le montagne circostanti, riscoprendo ancora una volta quanto sia difficile la vita, stupefacente la natura nelle sue mutevoli sfumature, facile ma mai indolore la morte.

Feigelfeld sviluppa una partitura visiva fitta di segni e simboli, ipnotica e ossessiva, pregna di un onirismo trionfante e tuttavia “realistico”, punteggiata a tratti da un tedesco biascicato e arcaico, ritmata dalle impressionanti e arcane sonorità dei greci Mohammad (noti anche come MMMD): una sorta di danse macabre di cui è arduo decifrare il codice, vista la rarità dei dialoghi e l’assenza di qualsiasi sottolineatura didascalica. Ecco allora che l’oscurità del senso diviene il senso dell’oscurità, l’unico modo per delineare l’enigma – della vita, della morte, dell’essere delle cose, del Bene e del Male, di un passato storico divenuto mito, leggenda – è lasciarlo inespresso. Un film crudele e magnetico come pochi.

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Lukas Feigelfeld Aleksandra Cwen Celina Peter Claudia Martini Tanja Petrovsky 102 minuti
Austria, Germania 2017
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Thunder from the Sea

di Andrea Giangaspero
thunder from the sea - recensione film

Nel buio imperscrutabile di una collina, la camera di Yotam Ben-David non fa nulla per assistere il nostro occhio di spettatori e facilitarne la visione, lasciandoci spaesati e liberi di rintracciare da soli qualche segno, forse il movimento di un corpo che potrebbe esserci, o magari no. E in questa oscurità, in cui si distinguono quasi soltanto le sagome degli alberi e le sonorità proprie di uno spazio naturale, quando ci accorgiamo per davvero della figura di qualcuno che si porta in avanti tra i cespugli, abbiamo l’impressione che una primissima adesione alla materia filmica sia già avvenuta. Come se la nostra rapida introiezione in uno spazio che non conosciamo ci abbia spinto ad analizzare puntigliosi l’immagine per contravvenire al nostro spaesamento, al nostro stato di inadeguatezza. Senza alcuno sforzo apparente, il regista israeliano ottiene tutta l’attenzione che cercava già con la scena di apertura al film, Thunder From the Sea, premiato con il Laceno d’oro alla 44esima edizione del festival avellinese.

In questa spazialità notturna e confusa, quasi scoordinata, localizzati soltanto dalla striscia luminosa d’un paio di scarpe da ginnastica e da una (improbabilmente funzionante) insegna al neon gettata tra i cespugli, i giovani Udi, Doron e Dekel si danno appuntamento per fumare narghilè e per raccontarsi episodi pescati casualmente dalle proprie memorie. Parlano in particolare di omosessualità (la loro), di violenza irreprimibile per vendicare un tradimento amoroso, ma pure accennano ad argomentazioni vagamente teoriche e complesse che a un tratto ritagliano, da un richiamo di riflessione sugli ebrei aschenaziti dell’Europa orientale, un principio di considerazione sull’etica dello stato israeliano. Parlano con la naturalezza propria di una sceneggiatura che conosce e si alimenta dei sentieri intricati che mappano le geografie di queste giovani anime. Nella ripartizione non sistematica dei primi piani innocentemente sorridenti dei personaggi, rischiarati soltanto dalle luci cangianti dei neon, si definisce il loro bisogno di confinamento protetto, la necessità d’uno spazio personale, intimo, che rifugga dalle turbolenze di Tel Aviv e che custodisca i loro segreti, altrimenti inconfessati. L’autenticazione di sé e l’intimità del messaggio possono essere esperite soltanto all’interno di questa bolla, di un’alterità non localizzabile che ovatta e attutisce la minaccia esterna. Eppure, quantunque ci si allontani, le avvisaglie del pericolo e del suo sconfinamento non tardano a manifestarsi, e questo Ben-David lo sa bene.

L’ululato del coyote intercetta e interrompe per un attimo la confessione di una triste memoria, quella della fucilazione di un bambino appena sfiorata. Il cielo già scuro si veste di un nembo che richiama da lontano la possibilità di una tempesta. Persino la collera attraversa quest’isolamento, minacciando di disintegrare le maglie di un rapporto creduto solidissimo. E se una violenza impensata può inopinatamente deflagrare, ricorre a sedarla, almeno per questa volta (sembra voler comunicare il regista israeliano), l’intesa coordinata di un triplice sguardo tra i compagni, retaggio di un rapporto saldato lungamente negli anni. Quanto ancora si può sfuggire alla minaccia di un tempo che si consuma inesorabile e cancella le polveri di una fratellanza, l’illusione di un’età da viversi ancora innocentemente? C’è forte coesione nell’opera vincitrice del Laceno d’oro, in cui traspare efficacemente tutt’una tensione espressiva necessaria a instillare cautamente questa domanda, assecondando il lento incedere di una tempesta, primo piano per primo piano, avvisaglia per avvisaglia. Alla fine, quasi con la percezione di una umana protervia, il tuono prorompe stentoreo a farsi presenza e a rompere l’attesa del titolo, ponendo una cesura al sogno della giovinezza.

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Yotam Ben-David Dekel Hanuni Udi Brinder Doron Ben-David Ron Galantai 45 minuti
Francia 2018
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3 From Hell

di Jacopo Bonanni
3 From Hell - recensione film rob zombie

«Hello America, did you miss me?» sembra la sardonica dichiarazione di intenti, rilasciata ai tabloid da una delle tante rockstar redivive, prima di tornare a calcare i palchi dopo anni di silenzio, e in certo senso è proprio così, quando a pronunciarla è un personaggio partorito dall’immaginazione distorta dell’eclettico musicista e cinefilo Rob Zombie. Tuttavia, in questo caso, la missione del regista non è quella di resuscitare la sua storica band, i White Zombie, ma la sanguinaria Famiglia Firefly, protagonista indiscussa di questo 3 From Hell, terzo atto dell’iconica saga cinematografica aperta da La casa dei 1000 corpi.

Quattordici anni fa l’ultimo fortunato episodio, La casa del diavolo, dove credevamo di averli dati per morti e sepolti sulle note dei Lynyrd Skynyrd, ritroviamo il clan dei reietti del diavolo: Capitan Spaulding  (Sid Haig), Otis (Bill Moseley) e Baby (Shery Moon), nelle vesti di “rockstar del male” stile Charles Manson, alle prese con il “prezzo” della notorietà; prima dietro le sbarre di un carcere di massima sicurezza, poi lungo le strade del Messico. Sopravvissuti, disorientati ma soprattutto invecchiati, i celebri assassini, dopo una sbrigativa evasione, vengono scaraventati di nuovo su una decapottabile in fuga attraverso l’America, mentre una schiera di fan li osanna come eroi della controcultura hippy e una gang di grotteschi luchadores – vedi The Haunted World of El Superbeasto – li attende in cerca di vendetta.

3 From Hell vorrebbe essere un sorta di viaggio a ritroso – intrapreso da Zombie – alla riscoperta delle proprie radici e degli antichi fasti, dopo l’immeritato flop de Le streghe di Salem  e la tiepida accoglienza riservata al suo ultimo lavoro, 31: un’occasione preziosa per rispolverare il “fuoco sacro” degli esordi, dirigendo un film “sporco e cattivo” degno di quella saga che gli era valsa il titolo di Quentin Tarantino del cinema horror. Invece, ci ritroviamo davanti a una riunione di famiglia che dovrebbe essere a colpi di proiettili e invece spara a salve. Infatti nonostante il prologo intrigante, incentrato sulle vicissitudini carcerarie di questi antieroi in preda ormai a un delirio di onnipotenza, funzioni, dando la possibilità a Zombie di dimostrare, ancora una volta, la sua innata abilità nel ricreare le atmosfere, gli umori e le contraddizioni della summer of love dei serial killer, una volta entrati nel vivo dell’azione, quando il film dovrebbe decollare, si perde completamente il senso dell’orientamento. Per gran parte della pellicola giriamo a vuoto intorno ad un susseguirsi di azioni, di luoghi, di circostanze che per quanto avvincenti – poche – e ben  girate – la maggior parte – restano comunque sconnesse tra di loro e prive di qualsiasi fondamento concettuale. Soltanto l’agognato duello all’ultimo sangue tra le due fazioni di criminali, i luchadores capitanati dal leader Aquarius e la banda Firefly, riesce di colpo a catturare l’ attenzione degli spettatori, giusto il tempo necessario per assistere allibiti ai titoli di coda finali.

È difficile credere che dietro quest’operazione ci sia la mano del regista che nel 2003, sulle orme di Tobe Hooper,  aveva esordito con un piccolo cult come La casa dei 1000 corpi : un greatest hits di morte e follia dai ritmi sincopati e dai colori sgargianti, capace di scartavetrare la sensibilità del pubblico in sala grazie a una dose massiccia di violenza, sadismo e autoironia. Parliamo dello stesso autore che poi, due anni più tardi, sarebbe riuscito a bissare il successo con uno spietato road-movie, elevando una tribù di redneck psicotici al rango di “Santi Fuorilegge”, accanto a nomi del calibro di Jesse James e Sundance Kid. Lo sottolineiamo perché in questo 3 From Hell, che dovrebbe chiudere idealmente la trilogia, non c’è traccia di nessuno di questi elementi. Tutta l’operazione ha soltanto il retrogusto amaro di un innocuo déjà-vu, infarcito di facce già viste, di battute già masticate, di bossoli già esplosi. Perché non bastano le strizzate d’occhio a Sam Peckinpah (Il mucchio selvaggio) e  Walter Hill (Ricercati: ufficialmente morti), le guest-star di rito (Danny Trejo, Jeff Philip Philps) o le consuete gemme musicali di sottofondo (In-a-gadda-da-vida degli Iron Butterfly) a salvare il film dal suo nemico più grande: la prevedibilità.

A risentire di questo generale clima di stanchezza sono anche le interpretazioni dei tre protagonisti che, orfani della carismatica figura di Sid Haig – scomparso all’inizio delle riprese – più che dei “reietti” assomigliano agli “scarti” del diavolo: una sorta di suicide squad in salsa spaghetti-western. Bill Moseley è ridotto a recitare la parodia di se stesso, mentre la new entry Richard Brake, nei panni del fratellastro Foxy, ha l’ingrato compito di colmare il vuoto siderale lasciato dall’assenza improvvisa di Capitan Spaulding. L’unica eccezione è Baby, il personaggio di Shery Moon, che perfettamente a suo agio nel ruolo di folle amazzone schizofrenica, scatena tutto il suo potenziale distruttivo regalandoci l’interpretazione più originale e adrenalinica di un film che si lascia vedere ma si finisce inevitabilmente per dimenticare.

In definitiva, possiamo dire che il gioco è bello quando dura poco e quello di 3 From Hell dura anche troppo. Perché per quanto possa sembrare entusiasmante all’inizio tornare sul “luogo del delitto” e ritrovare delle vecchie conoscenze, quando si arriva all’esasperazione ci si deve fermare, tornare seri, altrimenti il rischio è quello di farsi del male. La nostra speranza è che Rob Zombie riesca a siglare presto un longevo patto con il diavolo, altrimenti difficilmente riuscirà a ottenere indietro l’ispirazione perduta.

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Rob Zombie Sheri Moon Zombie Sid Haig Bill Moseley Richard Brake 115 minuti
USA 2019
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Santa Subito

di Carmen Albergo
santa-subito-recensione film Piva

Santa Subito, film vincitore della Festa del Cinema di Roma 2019, rielabora la storia di una vocazione di fede e di una accettazione impossibile, che non è soltanto la rassegnazione ad una morte annunciata, quanto la necessità e il coraggio di affrontare il presente. Subito. L'opera è infatti dedicata a chi sopravvive e convive con la perdita, gomito a gomito col senno di poi.

Il salernitano Alessandro Piva, già legato alla rappresentazione del territorio e del sottobosco barese, porta sul grande schermo la memoria della poco più che ventenne Santa Scorese, studentessa e attivista cattolica, assassinata nel 1991 dopo tre anni di molestie da parte di un uomo con conclamate turbe psichiche, ossessionato dalla religione. Una memoria che, da un lato impossibilitata a rivendicare un'adeguata risoluzione giudiziaria (non essendo all'epoca ancora configurabile il reato di stalking) e dall'altro già sottoposta all'inchiesta per beatificazione, attende di proseguire l'iter di canonizzazione.

Il film raccoglie le voci e i volti, i luoghi e i ricordi dei membri della famiglia Scorese, degli amici di Santa, dei sui padri spirituali, delle missionarie, le cui orme aveva deciso di seguire, soprattutto sfoglia e recita le pagine dei suoi diari, attraversa e libera i pensieri e le profonde riflessioni, le paure e i desideri. Le parole, i silenzi e gli amari sorrisi marcano lo strappo tra il prima e il dopo l'inizio di quel calvario: il prima di un'adolescente determinata e solare, animata da entusiasmo e volontà di condivisione e il dopo di una giovane donna braccata nella quotidianità e messa alla prova nel momento più intenso della propria devozione. Il momento in cui comprendeva che se non sapeva innamorarsi di un essere umano, non poteva innamorarsi di Dio.

La visita degli anziani genitori nel cimitero quasi deserto e la sedia vuota nel portico parrocchiale, che danno avvio al film, annunciano l'incolmabile vuoto lasciato da Santa all'interno della comunità che la vide crescere, ma non lasciano che il racconto esordisca in sordina, ecco avanzare una donna sicura nel passo, serena nel volto, è Rosa Maria, sorella maggiore di Santa. Tra tutti coloro che si avvicenderanno, sarà lei a reggere le fila dolorose dei discorsi sparsi e ad affermare con compassionevole lucidità la verità sottesa al perdono: questa storia ha due vittime, Santa e il suo persecutore, un uomo totalmente instabile, abbandonato a se stesso dalle istituzioni di assistenza, nonostante le ripetute denunce. Di quest'uomo appariranno, una sola volta e per pochi secondi, dettagli del viso frammentato, forse ripresi da un ritaglio di giornale di cronaca nera, a voler programmaticamente eludere la tentazione di far deviare il racconto nel suo inferno.

Perché a dispetto del climax di ascendente tensione che Piva ha saputo costruire col montaggio serrato, Santa Subito muove un trasporto e una commozione liberatoria, che toglie il fiato, ma per consegnarci ad un respiro di stupore ben più vasto. In una estetica tradizionale, composta dalla galleria di testimonianze integrata da materiali d'epoca degli anni '80, il regista cala in modo magistrale simboli e metafore funzionali alla narrazione visiva, caricando di pathos anche il paesaggio e le mura domestiche. Se le riprese dal basso dei tralicci della ferrovia che rigano il cielo simulano l'andirivieni dal passato, un fulmine a ciel sereno sulla città vecchia e lo zoom sull'oblò della lavatrice sconquassato dalla centrifuga precipitano lo spettatore verso il tragico epilogo, più di mille ricostruzioni. Epilogo che, come premesso, non si arresta alla perdita di Santa, ma che il film trascina sui titoli di coda, citando l'allarmante dato statistico per cui in Italia ogni 72 ore una donna è vittima di femminicidio.

Prodotto e distribuito da Fondazione con il Sud e Seminal Film, Santa Subito è approdato al cinema nella formula film-evento. Particolare menzione merita inoltre la mobilitazione di U.C.C.A. (Unione Circoli Cinematografici Arci) che in contemporanea all'uscita in sala e in collaborazione con l'associazionismo locale, ha patrocinato nel borgo d'origine della famiglia Scorese, sprovvisto di cinema locale, ben una settimana di proiezioni e matinée scolastici. Subito.

 

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Alessandro Piva Piero Scorese Angela Dachille Rosa Maria Scorese 60 minuti
Italia 2019
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Cena con delitto – Knives Out

di Mattia Caruso
Knives Out - recensione film johnson

Il whodunit ai tempi di Donald Trump. Invito a cena con delitto riveduto e corretto nell'era del nazionalismo, delle fake news e dell'immigrazione. È questo il mondo in cui si trovano a vivere, a punzecchiarsi e, all'occorrenza, a pugnalarsi alle spalle i "Dieci piccoli indiani" di Cena con delitto – Knives Out, membri di una famiglia (i Thrombey) arricchitasi coi romanzi gialli del patriarca e ora principali sospettati della misteriosa morte di quest'ultimo.
Parte dalla più classica delle premesse il personale omaggio di Rian Johnson a un genere che pareva avesse fatto ormai il suo tempo e che invece torna dimostrandosi materia viva e malleabile per costruire un meccanismo spettacolare perfetto e, allo stesso tempo, per imbastire una divertita quanto feroce critica all'America di oggi.

Nello svelamento di un caso mano a mano sempre più intricato e cervellotico c'è infatti ben più di un divertissement fine a se stesso, quasi come se i componenti di quella famiglia, con le loro mezze verità e (soprattutto) menzogne, i loro segreti, i loro depistaggi e le loro differenti versioni dei fatti, rappresentino tutti i vizi di un sistema parassitario pronto a divorare se stesso, il sunto di un paese meschino, egoista e narcisista anche e soprattutto quando si professa l'opposto.
Una teoria di personaggi e volti che si condensa e riassume in un cast all star, dove il Male di un'intera Nazione si nasconde dietro un'ipocrisia di facciata e perbenismo (non è un caso che uno dei personaggi peggiori sia proprio l'ex Capitan America Chris Evans), e l'unico argine alla sua avanzata si può trovare, al massimo, in un bizzarro ed elegante detective privato (un Daniel Craig quasi parodia del suo Bond), pronto a svelare, tra omaggi a Poirot e (perché no?) a Colombo, l'inettitudine, la venalità e il cannibalismo delle classi più abbienti.

Dopo il suo discusso, e per certi versi rivoluzionario, penultimo capitolo di Star Wars, Gli ultimi Jedi, Johnson continua la propria personale destrutturazione di generi e immaginari andando, proprio come il suo detective, contro tutto e tutti, trasformando il più classico dei gialli in un rompicapo dove verità e menzogna si incrociano e intrecciano fino allo sfinimento, tra indizi, false piste, flashback rivelatori e colpi di scena, restituendo la radiografia di un paese allo sbando, perso nei suoi vizi e nei suoi peggiori egoismi.
La soluzione (o la salvezza), allora, in questo gioco al massacro che non risparmia nessuno – dall'alt-right ai troll di internet, dai liberal ai nazionalisti – non può che trovarsi, forse, all'esterno, magari riassunta nella figura dell'infermiera ecuadoregna (o era venezuelana?) interpretata da una bravissima Ana de Armas, immigrata dal buon cuore letteralmente incapace di mentire, che conquista il capofamiglia e sovverte uno status quo parassitario e degenerato, pronta a riscriverne regole e dinamiche. A modo suo.

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Rian Johnson Daniel Craig Chris Evans Ana de Armas Jamie Lee Curtis Michael Shannon Don Johnson Toni Collette Christopher Plummer 130 minuti
USA 2019
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