Cosmopolis

di Matteo Berardini
Cosmopolis - recensione film Cronenberg DeLillo

Pubblicato nel 2003, Cosmopolis di Don De Lillo è un romanzo scritto sul tessuto cicatriziale di ferite ancora di là da venire, una profezia racchiusa nel momento eterno che intercorre tra il movimento del braccio, lo sferrare rapido il colpo del coltello e l’aprirsi silenzioso della carne, purpurea promessa di rivoluzioni in lento avvicinamento. È un processo di riconoscimento nevrotico e indolente, l’attestazione dei limiti e forse della propria morte da parte di un sistema ritenutosi autonomamente infallibile. Era ed è la fine del mondo, pronta e perfetta per rivivere nelle mani del regista canadese: Cosmopolis di David Cronenberg è una lapide di celluloide, è la tomba del futuro.

Eric Packer (un Robert Pattinson inquietante e sotto le righe, all’altezza di un ruolo non facile) è un po’ il Leopold Bloom del 21° secolo, protagonista e vittima di un’autoimposta odissea lunga un sol giorno, nella quale cercherà di attraversare una Manhattan densa di incontri e ostacoli per giungere al suo obiettivo, tagliarsi i capelli. Erick del resto ha tutto quello che può desiderare tranne la capacità di desiderare ancora; figlio di un mondo solo accidentalmente coincidente col nostro, incarna in sé tutti i tratti e gli umori del neocapitalismo occidentale, compresa una magnetica e tendenziale deriva verso l’autodistruzione. Squalo di Wall Street e ricco a dismisura, Eric vive di respiri finanziari, legge e interpreta un mondo di numeri e valori e informazioni che manipola e trasforma «in qualcosa di orribile»; è alienato e disumanizzato e la sua sconnessione dal reale è quella dell’intero sistema capitalistico, che nella sua fame onnivora e metastatica ha infettato il tempo con il denaro, rovesciando le equazioni e liberando una corsa sfrenata che ha scambiato i centri di potere, facendo decadere l’uomo e la parola a favore degli oggetti e delle astrazioni. Non a caso a scandire la giornata rappresentata da Cosmopolis ci sono due minacce mortali; la prima è quella incarnata da Benno Levin (un Paul Giamatti che arriva all’ultimo, chiude il film nei suoi venti minuti di dialogo e lo marchia a fuoco, in tutta la sua splendida schizoide inadeguatezza), alter ego di Eric, scarto di sistema che ha preso eccessivamente coscienza di sé; la seconda è la manovra finanziaria dello stesso Eric, che rivela via via la sua natura suicida. Lo Yuan, la moneta cinese che continua a salire mandando così in briciole il patrimonio finanziario del magnate, è il manifestarsi concreto della fine di un’era, l’impertinente bussare di un nuovo futuro che nasce dall’imprevedibilità e straccia ogni splendido incubo che avevamo potuto immaginare su di esso. Non a caso nel confronto finale sarà Benno stesso a mostrare a Eric come la contraddizione e il limite del controllo assoluto fossero già presenti e intrinseci nel suo corpo, nell’asimmetricità della loro prostata, opposta per antonomasia al dittatoriale monopolio della mente.
Rispetto a De Lillo, al suo Eric Cronenberg non risparmia nulla, non offre appigli; il percorso fatto in macchina e gli incontri di cui è costellato sono le tappe di un processo di annichilimento esistenziale, ma se lo scrittore offre al suo squallido personaggio uno spiraglio di verità – il sesso con l’altrimenti intoccabile moglie, quella Elise Shifrin che compare puntualmente per le strade della città riproponendo ogni volta la propria natura catartica di purezza irraggiungibile – il regista lo depaupera ancor di più, accentuando con la semplice rappresentazione visiva la natura grottesca e assurda del suo potere. Cosmopolis è una farsesca sciarada sui limiti del controllo umano.

Scorrendo la sua filmografia appare evidente come Cronenberg si muova a suo agio nella transcodificazione di opere letterarie; a oggi almeno otto sono i film che derivano da racconti, romanzi o graphic novel pre-esistenti, e con molti di essi il risultato è stato superlativo (Crash, Spider, Il pasto nudo, A History of Violence). Allo stesso tempo Cosmopolis offriva una componente assolutamente inedita per il regista canadese, il denaro, tema finanziario e filosofico che attraversa molti dei dialoghi del film e genera di fatto l’intera vicenda. Abitato fino all’estremo da questi e altri discorsi, Cosmopolis è un film che si presuppone di portare con sé nella celluloide tutta la potenza dei simboli che vivevano nella carta di De Lillo, trasfusi in un copia-incolla tanto chirurgico quanto rischioso. Diverse sono le occasioni in cui il regista ha affermato che il vero motivo per cui aveva accettato di lavorare alla trasposizione erano stati i fulminanti dialoghi del romanzo, e non a caso questi sono riportati con fedeltà quasi assoluta nella sceneggiatura, firmata di suo pugno. Un tipo di transcodificazione estremamente rischioso questo, che infatti ad un primo livello di lettura del film appare insufficiente. Fin dai primi istanti è evidente la scelta di Cronenberg di calcare il carattere di immedesimazione proprio del romanzo, eliminando ogni punto di vista esterno e rendendo l’ipertecnologica limousine di Eric a tutti gli effetti la sua mente; seduto sul suo argenteo trono di pelle e metallo levigato, il dio del mondo occidentale riceve uno ad uno gli spettri che lo abitano e lo seguono, relegando l’interazione con il mondo reale alle figure agitate che si muovono oltre il vetro, o dentro lo schermo. E’ pura osservazione Eric, uno sguardo che si divide tra la piena incuranza e la curiosità tormentata di chi è escluso dai luoghi che cerca di scoprire, e come lui anche i suoi ospiti non possono che rimanere intrappolati in digressioni filosofiche mentre fuori il mondo esplode, si sgretola e dà fuoco, e lo spettro di ciò che era si aggira sotto forma di un topo. E’ un luogo abitato da parole, Eric, discorsi che paiono azzoppare la possibile visionarietà di un film che rimane invece rigidamente ancorato alla propria dimensione letteraria; ad aspettarsi ad esempio  la disamina tra corpi e macchine di Crash si rimane delusi, le curve e cavità sinusoidali della limousine ci sono, ma lo sguardo che si poggia su di esse non è più escavatore e morboso ma apparentemente arreso alla fusione: la macchina è Eric.

E’ quindi un mondo di parole Cosmopolis, dotato solo di poche ma fondanti soluzioni di aperta traduzione filmica, ma lo spiazzamento dovuto a quest’estrema – forse eccessiva – fedeltà alla genesi letteraria nasconde in realtà un’altra dimensione funerea, un occulto mondo di morte che nasce dalla fedeltà linguistica per trovare da essa origine e in essa giustificazione. Per comprenderlo basti tornare all’ opposto A Dangerous Method, incentrato sull’ambivalente potere guaritivo e infettivo del linguaggio. «Lo sanno che stiamo portando loro la peste?» dice Freud a Jung al momento di sbarcare in America, palesando la natura pandemica della «talking cure». E’ la parola a collegare e legittimare entrambe le pellicole, ma se in una essa era organismo vivo e carico di potenzialità nella seconda è ritratta sul punto di perdere ogni suo potere significante. Pur parlando in continuazione i personaggi di Cosmopolis raramente si capiscono, la maggior parte delle volte tirano dritti come linee parallele e quando effettivamente discorrono capita spesso che uno sia in ritardo sull’altro, che le parole si perdano e sia necessario ripeterle. «Fammi stare zitta» ripete più volte la mercante d’arte interpretata da Juliette Binoche; «Non ci capisco niente» recita Vija Kinski, l’analista di teorie; Eric stesso si interroga sul valore dei termini in lenta estinzione, mentre è una parola ad attivare la pistola di Torval e uccidere. È la parola la grande vittima di Cosmopolis, la sua fine come mezzo di comunicazione e veicolazione di concetti, perché in qualsiasi mondo si viva, per quanti siano i soldi che si spendono, un significante non può sopravvivere al proprio significato. Cosmopolis è la tomba del linguaggio.

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David Cronenberg Robert Pattinson Paul Giamatti Juliette Binoche Sarah Gadon Mathieu Amalric Kevin Durand Samantha Morton 108 minuti
Canada, Francia 2012
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Oltre le nuvole, il luogo promessoci

di Alessandro Gaudiano
Oltre le nuvole - recensione film Shinkai

Il nostro viaggio a ritroso nell’immaginario visivo e sentimentale di Makoto Shinkai culmina con un’opera enigmatica, a sua volta frutto di idee e ispirazioni lungamente meditate, fin dai suoi primi cortometraggi. Oltre le nuvole, il luogo promessoci è un atlante sentimentale ed esistenziale che, al netto di alcuni tratti stilistici e narrativi ancora non del tutto maturi, contiene in nuce l’intera poetica del suo autore.

Innanzitutto, Oltre le nuvole è una struggente poesia dedicata alla giovinezza. La breccia per uscire dal quotidiano, questa volta, è il desiderio di volare e di riportare in vita un arnese da guerra dal fascino leonardesco. Hiroki e Takuya sono all’ultimo anno di scuola media e, nel tempo libero, lavorano in un'industria bellica per acquistare il necessario alla riparazione del vecchio drone militare che hanno scoperto per caso. A loro si aggiunge la compagna Sayuri e il comune desiderio di spiccare il volo è il collante di un’estate senza tempo, calda nei colori e nelle emozioni.

Come spesso accade con Shinkai, sono le immagini e le tavolozze cromatiche a parlare: in questo caso, un paesaggio collinare lussureggiante, acque profonde che lambiscono le tracce della vita umana. Soprattutto, è un orizzonte dominato dal profilo sublime di una torre che, in lontananza, si slancia verso il cielo. Completano il quadro una serie di virtuosismi stilistici e giochi di luce che riportano lo sguardo dal contenuto alla forma con cui viene portato alla vita. Lo stile dell’autore è inconfondibile nella sua sovrabbondanza di dettagli e nella mimesi del linguaggio cinematografico che si esprime in lens flare, bokeh e altri giochi visivi. A questa estate tinta di nostalgia segue una separazione e una disillusione. Ma il passato non è mai del tutto estinto, e dei legami della giovinezza restano le tracce indelebili. A questo bivio, Shinkai sceglie di imboccare la strada dell’(u)topia romantica e della poesia del cinema come sogno, apertura all’impossibile e all’altrove.

La misteriosa torre edificata nell’isola di Ezo (Hokkaido) è il monumento a un Giappone alternativo a quello uscito dalla seconda guerra mondiale e all’ingombrante abbraccio dell’Occidente; è un abisso storico che minaccia, con la sua radicale alterità, di inghiottire il mondo al di qua della soglia. Verso la torre sono tese le traiettorie dei tre protagonisti legati da una promessa che non ha bisogno di ragioni. Nelle sue trame simboliche e nelle sue metafore visive, Oltre le nuvole si rivela come una potente macchina desiderante volta verso l’Altrove, come e più che in ogni altra opera dell'autore. Il suo sguardo obliquo e mediato è la condizione senza la quale tale sincerità non sarebbe possibile. La natura di questa torre cosmica è volutamente aperta: portale per una dimensione parallela, arma di guerra, spazio del sogno, chiave per avere una seconda possibilità e ricominciare da capo.

Ricominciare. Correggere errori irrevocabili e traiettorie già segnate, come quelle che incanalano l’energia dell’adolescenza nella rigida intelaiatura della vita adulta. Ne Il crisantemo e la spada, Ruth Benedict ipotizzava la duplice natura dell’identità giapponese, tesa tra l’inestinguibile nostalgia dell’infanzia (il luogo della libertà, senza la vergogna e il senso del dovere che sono la base della società) e l'inflessibile durezza dell’età adulta, il giogo del dovere. La forza di questa nostalgia è ciò che sembra avere spinto le prime opere di Makoto Shinkai verso la fantascienza e le sue vertigini. Ed è, forse, ciò che attrae e conquista gli spettatori italiani quanto quelli dell’Estremo Oriente: questo atlante delle emozioni e questa nostalgia ci dicono qualcosa di famigliare. Il volo di Oltre le nuvole, la catabasi di Agartha o l’oasi urbana de Il giardino delle parole sono forme di trasporto nel senso affettivo del termine: per riprendere la definizione Treccani, un «impeto, moto irresistibile, intenso stato emozionale». Al di là della destinazione, è il trasporto a costituire il cuore del cinema di Shinkai: che la destinazione, in fondo, sia solo un colossale McGuffin non è poi rilevante.

Conta, invece, che il viaggio sia un percorso per rendere possibile l’impossibile; per far toccare, per un attimo,mondi paralleli e fatalmente destinati a non incontrarsi mai. Quando, infine, l’incontro avviene, crisantemo e spada si confondono: il tempo si piega su se stesso e la prosa cinematografica si cristallizza nel puro tempo della poesia. Il tempo, sembra dirci Shinkai, è una ferita che si può rimarginare solo nei territori di confine.

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Makoto Shinkai 91 minuti
Giappone, 2004
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Su "Bianco", di Bret Easton Ellis

di Emanuele Di Nicola
Bianco di Bret Easton Ellis

Da sempre la provocazione fa parte del gesto cine-letterario, è una costola di esso, esiste e basta, in senso non giudicante ma connotativo del termine. Ogni tempo ha i suoi provocatori: lo era a metà Ottocento Charles Baudelaire, costretto a ritirare sei poesie de I fiori del male per oltraggio alla morale pubblica; lo era a metà Novecento Vladimir Nabokov, con il divieto di Lolita imposto per due anni dal governo francese; lo è oggi Michel Houellebecq, che in Sottomissione immagina la vittoria del Partito islamico alle elezioni e in Serotonina racconta un uomo depresso che “sta morendo di tristezza”. Lo è Lars von Trier - piaccia o meno - che nei suoi ultimi film (Nynphomaniac e La casa di Jack: la storia di una ninfomane e la storia di un serial killer) inscena riflessioni teoriche sulle modalità di raccontare, e viene dunque equivocato. Anche Bret Easton Ellis è un provocatore. Non c’è niente di strano: più che limitarsi alla confezione (la provocazione, appunto) diventa quindi particolarmente importante la pratica dell’analisi minuziosa, dello sforzo per entrare nello specifico, della lettura riga a riga per confrontarsi con “cosa ci sta dicendo”.

Bianco è ipertrofico e denso di piste. Il nuovo libro di Bret Easton Ellis (Einaudi, pag. 280, euro 19) spiazza fin dal genere, perché rifiuta ogni etichetta: tra autobiografia e saggio, è una mescola di esperienze personali ellisiane e divagazioni sul mondo intorno. Il nostro. A partire dal titolo: ufficialmente ispirato a The White Album di Joan Didion (la raccolta di saggi preferita di Ellis), rimarca naturalmente lo statuto di uomo bianco di 55 anni in America oggi, ma Bianco è anche un colore. Quello della pagina bianca che lo scrittore confessa candidamente, dopo l’ultimo romanzo Imperial Bedrooms del 2010 (e in vista del prossimo che stavolta “potrebbe” scrivere); ma anche il colore mancante al nostro tempo, intriso di tonalità accese (il blu di Facebook, il rosso del sangue) oppure di nero, che del bianco è il contrario. Ellis vuole raffreddare la situazione, “imbiancarla”, uscire dalla semplificazione e parlare a mente fredda. Secondo lui.

Lo stato della narrativa ellissiana lo ha certificato tre anni fa la serie The Deleted (2016), da lui scritta e diretta: la storia di un gruppo di ragazzi che bevono, si drogano, fanno sesso recitando sempre nudi, talmente fuori tempo e luogo che diventava una riflessione formale sulla morte del narratore, sull’impossibilità di rifare una storia che è sempre la stessa storia. Una logica conseguenza della sceneggiatura di The Canyons scritta per Paul Schrader nel 2013, messinscena terminale sulla fine del cinema. I gusci vuoti delle ultime figure ellisiane segnalano con chiarezza il target a cui sono rivolti: occhi appassionati del meccanismo, innamorati della fine. Non può allora stupire che anche Bianco si muova sul piano formale, ovvero parta dalla forma per arrivare alla sostanza dei problemi e sviscerarli senza pietà, con sguardo fieramente soggettivo. «Non ho mai ceduto alla tentazione di dare al mio pubblico ciò che potevo immaginare desiderasse: il pubblico ero io e scrivevo per soddisfare me, e per alleviare il mio dolore».

Il libro si apre allora con una lucida ricognizione sui social network, che nell’illusione di aumentare la libertà di espressione al contrario la comprimono e riducono al silenzio: «Tutto ciò sarebbe stato impensabile dieci anni prima – l’idea che un’opinione potesse diventare qualcosa di sbagliato – ma in una società inferocita e polarizzata c’era chi veniva bloccato a causa delle proprie opinioni, e perdeva follower perché veniva percepito in modi che potevano essere inesatti (...). Come se nessuno sapesse più distinguere un essere umano da una serie di parole digitate su un touchscreen». In cambio l’era social ci ha consegnato una perenne autoscrittura di sé, la costruzione continua del proprio brand, la rappresentazione artigianale dell’ego: siamo tutti diventati attori, dice Ellis, stiamo sempre recitando. La rincorsa all’immagine migliore da postare conduce sotterraneamente al discorso sulla fruizione della cultura, con la tecnologia che rende disponibile tutto e subito, e di fatto lo sminuisce: «Il problema di stoppare un film comprato da Apple dopo dieci minuti, o di non ascoltare per intero una canzone su Spotify non si poneva nemmeno – perché farlo, dopo aver preso l’auto per raggiungere il cinema Sherman su Ventura Boulevard, la libreria Crown a Westwood, il negozio della Tower Records su Sunset Boulevard, l’edicola di Laurel Canyon?». Adesso invece «l’assenza di investimento appiattisce ogni cosa». Sapete chi la pensa allo stesso modo? I vampiri analogici in Solo gli amanti sopravvivono di Jim Jarmusch, mostri che ascoltano vinili per la lentezza della cultura, per la bellezza del gesto.

È pieno di cinema, Bianco. Ellis per tirare i suoi fili spesso ricorre a film, li recensisce, vi riflette sopra, li prende a esempio per visioni del mondo: come nell’ampio spazio dedicato al racconto dell’omosessualità oggi, postilla della lunga polemica dello scrittore, gay dichiarato, contro le associazioni Lgbt per i diritti civili. L’autore stronca Moonlight di Barry Jenkins: qui il gay viene visto come Elfo Magico (geniale definizione ellisiana), una vittima al quadrato senza problematicità e asessuata, che è anche nero, insomma un personaggio in favore del pubblico. Al contrario di Weekend di Andrew Haigh il quale, a suo avviso, mostra i gay come mai prima: due ragazzi normali che si incontrano, fanno sesso e si innamorano nell’arco di un fine settimana. Due come tutti. A Ellis si potrebbe rispondere che Moonlight non cerca la verosimiglianza, non si riferisce alla realtà ma piuttosto alla letteratura, evocando perfino l’imprescindibile romanzo queer La statua di sale di Gore Vidal.

Ma non è importante rispondere ad Ellis, e qui c’è il nocciolo della questione: lo scrittore nei vari capitoli critica il movimento femminista, la superiorità morale della sinistra su Trump, i millennial che definisce Generazione Inetti, l’horror come «metascherzo postmoderno» ormai troppo didascalico rispetto agli anni Settanta («Da dove arrivavano i poteri di Carrie White? Non c’erano risposte, proprio come nella realtà»). Il punto è che non occorre essere d’accordo con Bret Easton Ellis, parzialmente o su tutto, perché a rilevare davvero è il suo metodo: Bianco non fa proselitismo, non vuole convincere ma contiene una lezione di libero pensiero. Dice quello che pensa Bret, alla sua maniera ed esagerando, quando segnala il rischio della deriva orwelliana: l’unico possibile “messaggio” è uscire dal recinto dell’opinione precostituita per costruirsi la propria. Ricordarsi che l’ideologia non riassume la complessità dell’uomo. Tornare a giudicare l’arte con la lente dell’estetica e non della politica. Citando Springsteen: guardate l’opera d’arte, non l’artista.

E se guardiamo Bianco vediamo (anche) grande letteratura. Ellis descrive il burnout dell’attore Charlie Sheen, perso tra alcool, droga e prostitute, fino al licenziamento dalla popolare sitcom Due uomini e mezzo, per poi ritrovarsi nelle interviste televisive sostenute con disturbante onestà: «Sheen stava facendo saltare in aria il mito secondo cui gli uomini superavano la ricerca adolescenziale del piacere, perché i fugaci fremiti di quel sogno non si esaurivano mai». A proposito del sogno e della sua distruzione, nelle pagine aleggia sempre l’ombra di American Psycho, il capolavoro del 1991 portato sullo schermo nel 2000 da Mary Harron, incapace di restituirne la complessa grandezza (ma gli adolescenti negli Usa ad Halloween si vestono ancora da Christian Bale con l’impermeabile trasparente insanguinato). Ebbene, lo yuppie psicopatico Patrick Bateman appartiene agli anni Ottanta ma si addice al nostro tempo: Ellis lo immagina mentre rimorchia su Tinder e posta gli addominali su Instagram. Nel narcisismo del presente Bateman è il selfie definitivo.

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Cop Land

di Saverio Felici
Cop Land - Recensione film Mangold

Pochi film sono capaci di riecheggiare il proprio periodo di realizzazione come Cop Land. Erano gli anni di Tarantino, del neo-noir, e dell'improvviso interesse dell'industria americana nei confronti dei giovani geni o presunti tali del cinema indipendente.
Dai circuiti dei festival USA degli anni 90 sarebbero stati lanciati nel giro di poco tempo decine dei futuri campioni del mainstream, forgiatisi alla corte del Sundance di Redford e presto corteggiati dalle innamoratissime major.
Con l'Europa (Cannes in particolare) era una gara continua alla scoperta della next big thing, del wonder boy, degli eredi dell'ormai stanca e omologata generazione della New Hollywood. In un simile contesto, il giovane James Mangold si era giocato alla grande la sua carta d'esordio con Dolly's Restaturant, praticamente un compendio di tutto quell'immaginario creativo: tra Soderbergh, Van Sant, Coen bros e tanto noir, il film del 1995 aprì al trentaduenne regista le porte degli studios, ansiosissimi di investire su un nuovo possibile fenomeno. A prenderlo a bordo fu ovviamente la Miramax di Harvey Weinstein, mecenate e guru produttivo di un'intera generazione di registi ancora oggi in comprensibile difficoltà al momento di ricordarne l'apporto.

Lo sviluppo di Cop Land seguì al millimetro il copione del periodo: regista giovane del circuito indie, crime low-budget, voglia di guardare ai “generi” degli anni '70 con rinnovato sguardo autoriale. Per partire, mancava solo il grande attore in parziale declino, magari con la voglia di rimettersi in gioco con un personaggio in antitesi alle sue corde. A prendersi il ruolo di Henry Heflin non furono però John Travolta o Dennis Hopper, ma Sylvester Stallone.
Mentre il pubblico USA riscopriva la figura dell'Autore da festival, il campione dell'immaginario eighties non poteva che passarsela male. Toppati film fino a cinque anni prima infallibili (Dredd, Daylight, persino l'Assassins di Richard Donner), intrappolato in una fase personale a metà tra la fine del gradimento popolare e la riscoperta critica che sarebbe arrivata nel decennio successivo, Stallone si scoprì per la prima volta in vena di sperimentalismi. Nacque da qui il personaggio forse più alieno della sua carriera.
La presenza di Sly nel ruolo del protagonista è il colpo del campione di Cop Land. Mangold costruisce saggiamente l'intero film sulla distruzione del simbolo-Stallone: non solo grasso ma stupido, lento, persino mezzo sordo e maltrattato senza ritegno dalla pur sentimentalissima sceneggiatura dello stesso regista. Il suo Heflin (Heflin come Dan, protagonista di quel Treno per Yuma che l'eclettico autore già allora non vedeva l'ora di rifare) è Sly, nel più tipico esempio di “sovrapposizione” di cui è storicamente capace l'attore newyorkese. A disagio tra i poliziotti “bravi” (ma ambigui e malvagi) della city, lui, cretino del New Jersey con la pancia e il lavoro d'archivio nella suburbia, sarà costretto ad affrontare la propria codardia per denunciare una rete di colleghi corrotti.

La soggezione mista a voglia di rivalsa e forse anche ad un po' di rancore che Heflin prova nei confronti dell'NYPD, non era forse molto diversa da quella di Stallone stesso per quegli Dei dello schermo che lo circondano sul set di Cop Land. Eroi della critica e dell'Academy, sempre premiati, sempre arrivati davanti a lui nella vita e nella carriera, e con i quali Mangold lo spinge ora per la prima volta a confrontarsi. Per una sorta di congiunzione astrale, Cop Land si ritrova infatti ad avere forse il cast più clamoroso di quella stagione. Robert De Niro (il De Niro anni '90, quando con Al Pacino e Jack Nicholson ogni film era una gara di overcacting a distanza), Ray Liotta e ovviamente Harvey Keitel, simbolo e patrono di quella nuova scuola indie-noir e molto probabilmente l'attore americano più decisivo del decennio. Non solo: Peter Berg (a proposito di futuri campioni del mainstream), Robert Patrick, mezzo cast dei Sopranos. Letteralmente un dream team. Tutti al servizio di Sylvester Stallone, eroico e patetico protagonista working class, con la gobba e senza muscoli.

Rivisto oggi, oltre che un dramma impeccabile al quale il tempo ha meritatamente fatto giustizia (a parte quell'idea di scioglimento finale risolto a cannonate), Cop Land è quindi la foto ricordo di una stagione. Dallo script all'estetica, dai dialoghi al malinconico mood, il secondo film di Mangold è testimone di quella particolare stagione di divismo crime, quando gangster e sbirri con i baffi erano al centro delle urgenze creative: un'ondata (ri)partita con Scorsese e cavalcata da un'intera generazione di esordienti, che proprio con Cop Land avrebbe regalato gli ultimi fuochi al poliziesco classico prima di vederlo risprofondare nel sottobosco del dtv. Un palco stellare per le ultime grandi interpretazioni di metà del cast coinvolto, alle ultime chiamate prima dei fatidici sessant'anni e il diradarsi dei ruoli da protagonisti. James Mangold, con la luce negli occhi di chi è al secondo film e può finalmente fare ciò che vuole, guarda alle pellicole che amava da bambino, spiana la strada ad una carriera divisa tra il racconto popolare americano (il western, l'hard-boiled) e il veicolo per divi, fa un film nato vecchio e per questo bellissimo ancora oggi.

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James Mangold Sylvester Stallone Robert De Niro Harvey Keitel Ray Liotta Peter Berg Annabella Sciorra 104 minuti
USA 1997
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Doctor Sleep

di Giacomo Calzoni
Doctor Sleep

Shining (1980) non aveva bisogno di un Doctor Sleep (2019), così come Kubrick non ha certamente bisogno di un Mike Flanagan. Nonostante sia logico e prevedibile che la macchina del marketing debba per forza di cose muoversi nella direzione opposta, insistendo quindi sul rapporto narrativo consequenziale tra le due opere, Doctor Sleep non è il sequel di Shining, o quantomeno non lo è nel significato più comune che si attribuisce al termine. Piuttosto ne è figlio, con tutto l’universo di pensieri, sentimenti e parole che un’affermazione del genere porta con sé: e di padri e figli il film di Flanagan è colmo quasi fino a scoppiare, sotto molteplici punti di vista.

Forse era davvero necessario l’input di un altro padre (Spielberg e la sorprendente sequenza di Ready Player One) per sancire definitivamente il passaggio dello Shining di Kubrick da film a opera/mondo, vero e proprio luogo dell’immaginario da cui partire di nuovo per scrivere e filmare una realtà nuova. Per raccontare l’amore. In un’epoca dove tutto viene serializzato e riproposto all’infinito, è fin troppo facile (e avvilente) fraintendere gli ultimi trenta minuti di Doctor Sleep e la ricomparsa dell’Overlook Hotel come l’ennesima concessione a un pubblico pigro e viziato, che non aspetta altro di ritornare in maniera coatta e forzata a quello che già conosce. Ma Kubrick non è materiale da fan service, e figurarsi se a Flanagan interessa sporcarsi le mani con la blasfemia, oppure limitarsi banalmente al concetto di omaggio fine a se stesso. Non utilizza la CGI per riappropriarsi di volti ormai invecchiati o addirittura defunti ma li reimmagina, con un effetto stordente e al contempo innegabilmente coraggioso, prendendosi i suoi rischi per emanciparsi, allontanarsi sempre e comunque dal fantasma del capostipite.

Perché Doctor Sleep è innanzitutto un grande film sulle distanze, sul movimento, sul perpetuo avvicinarsi degli opposti (anche in termini libro/film); è un film sul volo (esattamente come lo era un altro grande sequel “impossibile”, L’esorcista II – L’eretico di John Boorman), dove a una parte iniziale che si sposta nel tempo (1980, 2011, il presente) segue un lungo blocco centrale che si muove nello spazio, da uno Stato all’altro dell’America, per seguire il peregrinare del Nodo alla ricerca di giovani ragazzi dotati di Luccicanza dei quali nutrirsi. E questo spostamento trova sempre una convergenza attraverso un gesto purissimo, che sia una dissolvenza - quante ce ne sono nel film? – oppure un controcampo, strumenti semplici e antichissimi che si fanno immediatamente cinema, in barba alle nuove tecnologie che rendono sempre più complicata la missione del Nodo (internet, cellulari e Netflix [!], citati esplicitamente nei dialoghi).

Sono distanze che si annullano perché arriva sempre il momento in cui doverci fare i conti («Hai un ultimo debito da pagare», dice il fantasma di Halloran a Danny prima di dirgli addio), quel momento in cui tutti noi dobbiamo ritornare all’Overlook Hotel, e non stupisce che Flanagan posticipi il più possibile quest’incontro, quasi volendo prima raccontare un altro film: come già nella serie Hill House – alla quale Doctor Sleep è legatissimo – i fantasmi diventano la nostra memoria, il collante del nostro vissuto, sono i padri che hanno perso la propria battaglia (Jack Torrance) e i figli che diventano padri a loro volta (il rapporto tra il protagonista e la giovane Abra) per sopperire alle mancanze di chi è venuto prima. È un film pieno di morti eppure gonfio di amore e di cuore, come nella migliore tradizione kinghiana, e non è un caso che il suono più ricorrente in colonna sonora sia quello di un battito; perché, come suggerisce la scena finale, di quei morti abbiamo bisogno tutti, per vivere veramente.  

E quando infine viene affrontato il “padre” Shining e tutti i fantasmi vengono liberati, Flanagan effettua la riconciliazione definitiva, forse la più difficile di tutte, quella tra l’universo letterario e quello cinematografico: regalando all’Overlook quell’epifania di fuoco e fiamme voluta da King ma sempre negata da Kubrick.

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Mike Flanagan Ewan McGregor Rebecca Ferguson Kylieg Curran Bruce Greenwood Cliff Curtis Henry Thomas 153 minuti
USA 2019
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L'età giovane

di Alessandro Gaudiano
l'età giovane – recensione film dardenne

L'età giovane nasce come un'opera ambiziosa negli obiettivi e nello sguardo: calarsi nella vita di un tredicenne musulmano cresciuto nel Belgio contemporaneo e negli esiti drammatici della sua radicalizzazione è compito da far tremar le vene e i polsi. I fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne hanno accolto la sfida ma, al netto del risultato, risulta difficile spiegarsi come sia possibile che il film sia stato premiato all'ultimo Festival di Cannes con una delle statuette più ambite (miglior regia).

Il giovane Ahmed (il titolo originale del film è proprio Le jeune Ahmed) ha una madre con problemi di alcolismo e un cugino morto nel nome del fondamentalismo islamico. Indottrinato dall'imam locale, Ahmed tenta di uccidere la propria maestra di scuola, colpevole di voler insegnare la lingua araba moderna invece che dedicarsi al Corano. L'attentato fallisce e Ahmed viene condannato a seguire un percorso di riabilitazione nelle strutture dei servizi sociali.

L'età giovane è un film tremendamente controllato, quasi reticente: allontana e rinchiude la trama in una gabbia formale che sembra avere perso la capacità di partecipare, compatire, abbracciare il mondo della vita. Siamo lontanissimi da Rosetta, o anche dal pregevole Due giorni, una notte: la danza del pedinamento dardenniano, qui, si inceppa in un formalismo che, al di là delle intenzioni dei due autori, tradisce una certa confusione d'intenti. Il risultato è un'opera rigida e sbrigativa, un esercizio di stile che vuole raccontare la più classica delle storie di ribellione giovanile senza mai entrare in un corpo a corpo con le specificità del contesto. Cosa hanno da dire, i due autori, sulla riabilitazione giovanile? Qual è la loro voce sul disorientamento di un ragazzo in una famiglia e in una società che non sanno come accoglierlo e come erodere la sua disperazione?

Fondamentalismo e complessità interculturali si perdono nella parabola di un romanzo di formazione che procede a tappe forzate e nel cui svolgimento emergono ulteriori criticità di scrittura. La traiettoria di Ahmed è quella di un tradimento originario, un viaggio nel purgatorio riabilitativo e un pentimento tardivo e immeritato. Purtroppo, il racconto non sembra mai adattarsi a questa architettura di fondo. Integralismo religioso, conflitti famigliari, solitudine ed elaborazione del lutto sono tanti tasselli macinati dal meccanismo narrativo con sconcertante disinvoltura. Non si spiegherebbe, altrimenti, il vistoso rallentamento della storia nel secondo e nel terzo atto, durante i quali i medesimi due temi (il "finto" pentimento di Ahmed e una improbabile storia d'amore) vengono ripetuti e dilatati, senza apprezzabili risultati a livello narrativo o visivo.

In questa difficoltà a ripensare i propri strumenti di messa in scena e di lettura del reale, troviamo i limiti di un cinema come quello dei fratelli Dardenne e, per esteso, una certa idea di cinema d'autore come iterazione di uno sguardo che "funziona" e scarsamente propenso a mettere tra parentesi i propri assunti rassicuranti. Privato degli strumenti per mettere in crisi se stesso, questo approccio rischia di sfociare in esiti sterili o, peggio, nella banalizzazione di un mondo di complessità crescente. Mai come oggi abbiamo bisogno di punti di vista ponderati, critici, illuminanti. Per tutti questi motivi, occasioni perse come L'età giovane hanno un gusto particolarmente amaro.

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Jean-Pierre Dardenne Luc Dardenne Idir Ben Addi Claire Bodson Victoria Bluck 90 minuti
Belgio, Francia, 2019
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Viaggio verso Agartha (I bambini che inseguono le stelle)

di Matteo Marescalco
Viaggio verso Agartha - Recensione Film Shinkai

Giunto al suo terzo film, in Viaggio verso Agharta (I bambini che guardano le stelle), Makoto Shinkai ha dato vita a un'opera-mondo in grado di sintetizzare tutte le suggestioni che popolano densamente il suo corpus autoriale.

Ancora una volta, è un oggetto desueto dello scenario reale a fornire il punto di partenza da cui ogni storia dell'animatore giapponese si dipana. Stavolta tocca ad una radio, ultimo dono paterno alla figlioletta prima della sua morte. Asuna è una ragazzina che vive con la madre infermiera, spesso assente per via dei turni in ospedale. Durante il tempo libero, la piccola sognatrice si reca in un luogo segreto sulle montagne per ascoltare i programmi radiofonici e avere la sensazione che il padre sia ancora presente. Un giorno la radio trasmette una strana musica che affascina Asuna a tal punto da spingerla a provare la risintonizzazione su quella misteriosa stazione. Il singolare evento, però, non si ripeterà più. Tuttavia, questo è soltanto il preludio a una serie di eventi ai confini della realtà che porteranno la ragazzina a contatto con Shun, un suo coetaneo proveniente da Agartha, il mitico mondo sotterraneo di cui tutte le culture narrano racconti fantastici da secoli. Quando Shun viene ritrovato morto e una misteriosa organizzazione militare fa di tutto per raggiungere il portale che conduca ad Agartha, Asuna ed il suo insegnante Ryuji partiranno alla ricerca del regno nascosto con l'obiettivo di scovare il suo segreto più misterioso.

La carriera cinematografica di Makoto Shinkai è totalmente schizofrenica e variegata, capace di dar vita a poesie sentimentali da 63 minuti che provano a sottrarre la felicità agli artigli predatori dello scorrere del tempo e a opere bigger than life di oltre 2 ore che portano in scena i sogni smarriti che non siamo stati in grado di lasciare andare. Viaggio verso Agartha dipana un vertiginoso melodramma a partire dalla morte violenta di una creatura fantastica che sembra uscita dal mondo di Hayao Miyazaki. Abbandonata la linearità minimalista di 5 cm al secondo - elegia malinconica sulla transitorietà dei sentimenti e sui luoghi dell'anima destinati a custodire gli amori a cui non abbiamo mai detto addio (e che, quindi, siamo destinati a perdere quotidianamente) - e la (futura) conciliazione catartica e sintetica di Your Name., Shinkai edifica un dedalo di percorsi e di sguardi che si perdono e si ricongiungono. Il suo cinema è stato sempre una questione di mancanze e separazioni, lotte contro il tempo e unioni, scandite dai segreti insondabili e fantastici della Natura.

È proprio l'inequivocabile fede di Shinkai nei confronti della naivete dei sentimenti a restituire personaggi che si rincorrono e si aspettano, inseguendo un amore (ir)raggiungibile, magari soltanto sognato. Pur proiettato verso lo spazio, in modo romantico e sognatore, il regista nipponico è ancorato alla realtà, come dimostrano sottotraccia Your Name e questo Viaggio verso Agartha, che riflettono sulla memoria storica del Giappone e sulle cicatrici impresse sul suo corpo sociale. Lo spettro della morte e il peso della quotidianità si riverberano nelle ambientazioni fotorealistiche e ricche di dettagli, caratterizzate da cromatismi meno accesi e brillanti rispetto alle tavole dello Studio Ghibli, referenza primaria - ai limiti del plagio - in buona parte del percorso artistico di Shinkai. Nonostante un gigantismo che, a tratti, rende complesso I bambini che guardano le stelle e ne logora la potenza delle immagini attraverso un'esagerata verbosità, il film merita ogni atto d'amore possibile da parte dello spettatore, che si troverà a vivere il mito di Orfeo ed Euridice inserito in un contesto privo di tempo e capace di cristallizzare e rendere coese spinte sentimentali e suggestioni magmatiche che trasformano il lavoro di Shinkai in una materia viva ed estremamente pulsante.

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Makoto Shinkai 116 minuti
Giappone 2011
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The Lodgers – Non infrangere le regole

di Gian Giacomo Petrone
The lodgers - recensione film o'malley

Alla sua seconda prova nel lungometraggio horror, l’irlandese Brian O’Malley prende nettamente le distanze dal suo esordio del 2014, Let Us Prey, per cimentarsi con suggestioni e obiettivi del tutto diversi. The Lodgers – Non infrangere le regole gioca infatti la carta del gotico classico, abbandonando la virulenza del precedente lavoro senza sottrarsi però, almeno in parte, alle aspirazioni etico-filosofiche (il Male, la scelta, la volontà, la natura umana) che lo caratterizzavano. Entrambi i titoli risultano costruiti in forma di claustrofobico kammerspiel, con i rispettivi protagonisti intenti a fronteggiare delle minacce senza nome che, più che dall’esterno, sembrano provenire dalla propria interiorità. Nondimeno, in Let Us Prey O’Malley sembrava concentrarsi troppo sulla dimensione allegorica del plot e sui temi, appesantiti da talora grevi ricognizioni di carattere morale, a discapito dello sviluppo narrativo e delle psicologie dei personaggi; in The Lodgers riesce invece a sfumare la dimensione simbolico-allegorica della vicenda, focalizzando la propria attenzione sulla messa in scena e sulle figure centrali del racconto, potendosi giovare anche di una location autenticamente da brividi, l’irlandese Loftus Hall, anche a tutt’oggi fonte inesauribile di sinistre leggende locali.

Tenendo come riferimento principe Il giro di vite di James, assieme al corrispettivo filmico Suspense (1961) di Clayton, The Lodgers sciorina a piene mani pressoché tutti i topoi ricorrenti della ghost story classica: dall’antica casa infestata all’atavica maledizione, dal conflitto fra luce e tenebre a quello fra vita e morte. Due gemelli, Rachel (Charlotte Vega) ed Edward (Bill Milner), per sopravvivere fino alla maggiore età, sono costretti alla reclusione all’interno della magione avita, seguendo alcune rigide regole che impediscono loro di fuggire dalle mura maledette, mentre gli spettri dei loro antenati, tutti morti suicidi, li sorvegliano. All’alone morboso di cui è impregnata la vicenda si aggiunge una pesante tara ereditaria: senza eccessivi dettagli didascalici, la regia allude alla possibilità che la continuità della stirpe che possiede (in tutti i sensi) l’edificio sia garantita dall’incesto, probabile innesco anche della maledizione.

O’Malley non sembra tuttavia accontentarsi del già ampio orizzonte tematico abbracciato e sceglie di ambientare gli accadimenti a cavallo fra la fine degli anni dieci e l’inizio dei venti del secolo scorso, quando il primo conflitto mondiale era appena terminato, ma la terra d’Irlanda stava combattendo la propria guerra più importante, quella d’indipendenza dalla Gran Bretagna (1919-1921). Ecco allora che i drammi personali dei protagonisti sfiorano la Storia (che peraltro rimane sullo sfondo, più evocata che espressa), e in particolare il desiderio di Rachel di fuggire dal meccanismo perverso inscritto nel proprio destino sembra collegarsi idealmente con l’ansia di indipendenza del proprio paese, oltre a delinearsi come emblema di emancipazione femminile (in Irlanda, è proprio del 1918 l’estensione del diritto di suffragio alle donne). A fare da controcanto alle istanze e alla natura di Rachel si situa Edward, maschio malaticcio e legato alla tradizione, alla casa, in breve a un mondo morente. Un terzo fondamentale polo del film è costituito da Sean (Eugene Simon), reduce mutilato della grande guerra e innamorato di Rachel: figura di confine fra la vita (la giovinezza, l’amore) e la morte (la guerra, la menomazione), ma anche fra l’appartenenza alla comunità cui fa ritorno e il rifiuto di quest’ultima a riaccoglierlo (esattamente come i due ragazzi reclusi), avendo egli militato nelle file degli odiati britannici, sarà proprio lui a costituire un’insperata via di fuga per la ragazza, pur dovendo mettere pesantemente a repentaglio la propria incolumità. Infine, come in ogni ghost story che si rispetti, la dimora teatro della gran parte delle vicende, assieme al parco e al lago palustre che la circondano e isolano, è il vero protagonista aggiunto e onnipervasivo degli accadimenti, nonché il regno assoluto dei morti, ancora padroni dei vivi e dei loro destini.

L’incognita di ricadere nella ridondanza e nella retorica presenti in Let Us Prey era consistente, così come l’azzardo di rimanere ancorati di nuovo a un orizzonte di idee seducenti, anteponendole al visivo, alla messa in scena, al profilo dei personaggi. Eppure, in The Lodgers O’Malley dimostra di avere metabolizzato i limiti dell’esordio, evitando concioni moraleggianti e concentrandosi finalmente sulle immagini, sugli spazi, sulle figure centrali della narrazione, non in quanto meri termini di un’equazione, bensì come soggettività complesse. Una complessità peraltro articolata dall’espressione dei volti, dalla postura dei corpi, dagli sguardi, più che dalle parole.

Il difetto capitale di Let Us Prey, vale a dire l’assenza di dicotomie creatrici di senso che non fossero dominate dall’elemento dialogico, viene superato in The Lodgers attraverso il dualismo conflittuale fra ambienti, fisionomie, caratteri, motivazioni, che trova una riuscita sintesi, a livello iconico, nella lotta fra luce e oscurità. Nonostante i palesi intenti simbolici di cui è imbevuto il film, il cui effetto è ovviamente quello di trascendere l’oggetto o il soggetto che ne è latore, O’Malley riesce a infondere profondità e inquietante dinamismo ai luoghi e vita ai personaggi – su tutti quelli di Rachel e Sean – grazie al lavoro sui chiaroscuri e sui corpi/volti. Quindi, è il visivo a configurarsi come fonte del racconto, non viceversa, e conseguentemente il senso (letterale o trasfigurato) di ciò che è mostrato si dispone armonicamente nelle immagini senza precederle o fagocitarle.

Il gotico si pasce di ombre, contrasti, atmosfere brumose, attese, e The Lodgers ripone la propria forza proprio in questi elementi, sfumando l’urgenza della comprensione dei fatti nella patina visuale, cromatica ed emotiva che li circonda.

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Brian O’Malley Charlotte Vega Bill Milner David Bradley Eugene Simon 92 minuti
Irlanda 2017
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Il giardino delle parole

di Davide Di Giorgio
Il giardino delle parole - recensione film shinkai

C'è uno spazio reale, concreto, da cui ogni storia di Makoto Shinkai naturalmente si dipana: uno scenario urbano, ritratto con particolare realismo e cura del dettaglio. Poi c'è un altrove, un luogo ideale, quello in cui si annidano i sentimenti e le emozioni dei suoi personaggi, evocate quasi sempre da un elemento terzo. Ne Il giardino delle parole sono le scarpe che il giovane Takako vuole imparare a creare per una futura attività di calzolaio. Quell'oggetto, di uso così comune, non è soltanto il collante fra lo stesso Takako e la più matura Yukino, di 12 anni più grande, con cui il giovane si ritrova nello spazio verdeggiante iscritto nella città: è una sorta di surrogato per le parole non dette, i gesti non consumati fra i due e riflessi dalla forza rigogliosa dell'ambiente circostante, in una dinamica fatta allo stesso tempo di essenzialità e grande spinta emotiva. Attorno alle scarpe ruotano infatti lievi scambi di impressioni e la condivisione di elementi concreti (il cibo, i disegni del ragazzo, i piedi della donna che fanno da modello per nuove creazioni). Poi, a partire da questi elementi, disposti con essenzialità tipicamente nipponica, si irradia una geografia emotiva che non mancherà di costituire l'ennesima esplorazione dell'autore sulle conseguenze dei legami, sulla loro forza nel qui e ora, ancor più se messa a confronto con lo scorrere del tempo.

Il giardino delle parole è, in questo senso, un lavoro di snodo nella carriera di Shinkai, ancora ammantato di quell'aria malinconica e problematica che aveva costituito l'ossatura dei primi lavori, ma già più avviato verso una estroflessione emotiva che porterà i futuri protagonisti di Your Name. e La ragazza del tempo – Weathering With You a cercare di superare le barriere che li inchiodano ai loro microcosmi e a quel mondo così duro eppure così importante per definire le loro vite e i loro caratteri. Sono personaggi giovani, investiti del compito più grande di loro di disegnare una nuova mappa di sentimenti in una realtà che sta cambiando e si proietta in avanti, ma sembra come scavare una distanza fra i singoli. Anche per questo Il giardino delle parole sembra quasi voler recuperare una dimensione artigianale, è un lavoro di cesello, miyazakiano, come quel gesto di creare le scarpe che sembra un’ideale continuazione del lavoro di liutaio bramato da Seiji, il protagonista maschile de I sospiri del mio cuore di Yoshifumi Kondo (scritto appunto da Hayao Miyazaki).

Perché in fondo questo rapporto oltre le barriere della concretezza di cemento, iscritto tra il verde quasi abbacinante delle foglie del parco/giardino, reca con sé difficoltà ancora non bagnate di caratura fantastica, ma ugualmente enormi per le barriere imposte dalla differenza d'età e di ruolo: lei è adulta, lui adolescente, e al contempo lei è insegnante e lui studente. Shinkai non nasconde le implicazioni più complesse di un simile rapporto, ma le usa in senso non moralistico, come base per una nuova ricognizione sulla comunicazione fra due universi costretti, malgrado la reciproca affinità, a dover mantenere la loro distanza. Tanto più vicini quanto sono obbligati a restare lontani, ma comunque capaci di descrivere un momento comune, tutto loro, sotto lo sguardo mutevole di una città che si ritaglia oasi di verde come quel giardino stretto fra i palazzi in metallo e cemento.

Anche per questo il film ha una qualità soffusa, onirica, e emana una dolce concretezza del rapportarsi all'altro che contiene in nuce già le svolte più ottimistiche delle recenti derive. È un film solare, Il giardino delle parole, complesso nonostante la breve durata (circa 45 minuti), capace di usare in senso espressivo il colore e i giochi di luce con una maturità che è quella di un autore acclarato e pronto alle sfide successive. Anche per questo, nella calma rasserenante del giardino, si consuma un tumulto emotivo ben rappresentato dai capricci del tempo, con quell'acqua che richiama già la pioggia perenne di Weathering With You: sempre presente, dapprima in modo più discreto e poi via via sempre più forte, l'acqua permette infatti il passaggio dal tono più “fiabesco” e ideale della prima parte a quello più impetuoso e “reale” della seconda, ribadendo la natura inafferrabile eppure presente di quell'insieme di regole sociali e emotive in cui si muovono i suoi personaggi per affermare la propria personalità.

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Makoto Shinkai 46 minuti
Giappone 2013
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Fractured

di Mattia Caruso
Fractured - recensione film anderson

Ha qualcosa della promessa non mantenuta, la carriera di Brad Anderson. Un percorso iniziato col botto, con un piccolo film (Session 9) claustrofobico e perturbante e, piano piano, smarritosi negli stessi ingranaggi del suo cinema, in un gusto derivativo e sempre più autoriferito che ha trasformato ben presto l'autore statunitense in niente più che un buon mestierante; il regista perfetto, forse, per un film targato Netflix e per un'offerta horror spesso e volentieri ancora prigioniera di stilemi del passato, con tutti i luoghi comuni e le problematiche del caso.

Che quello del regista fosse un cinema chiuso in sé stesso e nei suoi riferimenti, d'altronde, si poteva già intuire sin dai tempi de L'uomo senza sonno, un cinema sempre e comunque giocato all'insegna dell'ambiguità tra realtà e allucinazione, con Hitchcock come (inarrivabile) nume tutelare e un meccanismo narrativo, tra manie complottistiche e colpi di scena, destinato a ripetersi fino allo sfinimento.
Non poteva che essere un'altra manifestazione di questo eterno ritorno, allora, Fractured, piccolo thriller ospedaliero dal sapore più che mai paranoico, che non solo riassume in sé temi, figure e costrutti ricorrenti dei film precedenti del regista, ma ne rappresenta uno sfacciato calco, la copia carbone perfetta di uno stesso, identico film archetipico. Un film fatto di traumi fisici ma anche, e soprattutto, mentali, come quelli di cui è vittima Ray (Sam Worthington), padre terrorizzato dall'eventualità di non saper proteggere la propria famiglia, di non essere all'altezza dell'eroe che i suoi cari vorrebbero che fosse. Riflessioni tutt'altro che banali (basti pensare a quello che ne ha fatto Ruben Östlund con Forza maggiore) che Anderson chiude però a forza in una confezione, dalla messa in scena all'estetica da home video, risaputa e fin troppo convenzionale, che sbandiera i suoi riferimenti (uno su tutti, Shutter Island) e i suoi temi più cari (la deriva psicofisica del middle class man, spesso e volentieri tormentato dal peso di un passato con cui non riesce a venire a patti), senza aggiungere niente di nuovo.

E se la nemmeno troppo velata critica al sistema sanitario americano avrebbe potuto colpire nel segno se indirizzata con più attenzione, certo non aiuta alla riuscita dell'operazione la scelta di Worthington come protagonista, in un ruolo forse troppo impegnativo per le sue corde e per quel volto granitico lontano anni luce dalle sfaccettature di un personaggio spezzato, costantemente in bilico tra sanità e follia, paranoia e senso di giustizia. Contrapposizioni insanabili all'interno delle quale si delinea il gioco di Anderson, intento, con la consueta padronanza di mezzi e spazi, a ribaltare, ancora una volta, prospettive e punti di vista, senza però accorgersi degli evidenti limiti di un meccanismo ormai prevedibile, punto di arrivo di un cinema e di una carriera che non hanno più niente da dire.

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Brad Anderson Sam Worthington Lily Rabe Stephen Tobolowsky Adjoa Andoh 100 minuti
USA 2019
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