Il lago delle oche selvatiche

di Andrea Giangaspero
Il lago delle oche selvatiche -Diao-Yinan-03

Sotto la pioggia battente, un orologio avvolto sul polso di una mano, marchiata da un piccolo tatuaggio e con le nocche imbrattate di sangue, mostra l’ora al suo possessore. Tutt’intorno a quest’attesa grava un senso di sonnolenta desertificazione, il silenzio immoto di un quartiere provinciale della cui precedente industrializzazione permane solo lo scheletro dei grigi edifici ormai diroccati, proiettati verso l’alto. In questo spazio, il gangster Zhou Zenong attende che si presenti la moglie a cui chiedere e insieme offrire soccorso, ma al suo posto si presenta un’altra donna, Liu Aiai, una delle Bathing Beauties, circolo di prostituzione che popola le spiagge e le località del Wild Goose Lake (Il lago delle oche selvatiche del titolo). Ma quest’aura di mistero, che ammanta la parte iniziale del film di Diao Yinan, viene subito meno, interrotta da un flashback che sgretola la linearità della sintassi: nel tentativo di sedare i tumulti sanguinosi tra un gruppo criminale e il proprio, Zenong finisce per sparare e uccidere accidentalmente un poliziotto, mobilitando la caccia all’uomo da parte delle forze dell’ordine che, mettendo in palio 300mila yuan per la sua cattura, assicurano pure la partecipazione delle gang locali. La sola disposta ad aiutare Zenong è Aiai, che in accordo con questi muove per farlo consegnare alla polizia dalla moglie, così che le due donne possano accaparrarsi la cifra in palio e cominciare una nuova vita in libertà.

La classicità del noir di Diao Yinan si fa da qui già evidente. Pare, del resto, che il regista recuperi il motivo e i caratteri incipitari di Fino all’ultimo respiro, sottraendovi l’operazione godardiana dello smantellamento del genere e della sua mescolanza con altri, e procedendo a mantenere la sua struttura tipica. Accanto alla tipizzazione del noir, vi è parimenti l’evidenza di un inquadramento sociale proprio del modo di fare cinema di tanta parte della Sesta Generazione Cinese, a partire dalle figure di Lou Ye (Summer Palace, Teatro Lyceum) e Bi Gan (Kaili Blues, Long Day’s Journey into Night), fino al richiamo più immediato della filmografia di Jia Zanghke, che più degli altri catalizza le curiosità della scena internazionale sul Cinema Cinese. Ma l’uniformità, la costanza di tale intendimento sociale si ripete nello stesso Diao, che già e appena più efficacemente l’aveva sondata in Fuochi d’artificio in pieno giorno (Orso d’Oro alla Berlinale del 2014), rischiando la prevedibilità della sua lettura e una certa inflessione verso la maniera. Così, nell’accerchiamento tra la brutalità della polizia e gli inseguimenti in moto dei criminali, anch’essi già tipici dell’ultimo Cinema Cinese, tra i movimenti avviliti di chi partecipa a una danza comune nell’orbita vuota della provincia e le ormai iconiche, luride tavole calde decorate di chincaglie pacchiane in cui si consumano soltanto noodles, si descrive l’ineluttabilità tragica del destino di Zenong. Col recupero di questi elementi – divenuti ormai catalogo da cui attingere – che contestualizzano la difficoltà, le storture della scena socio-economica della Cina continentale, ci accorgiamo da subito che non c’è scappatoia alcuna per questo povero diavolo: dalla volontà di trascinarsi nell’indolenza, Zenong è stato a sua volta trascinato in un vicolo cieco. La sua figura antieroica brancola nel buio, annaspa inutilmente in vista d’una salvezza da ricercarsi a causa di un dramma involontario. E tuttavia non è da questo inficiata la visione.

Per quanto l’intricata matassa narrativa dei continui capovolgimenti di fronte e fazioni si presenti di difficile scioglimento, il suo svolgimento è reso fluido per i puntuali accorgimenti formali ed estetici che la descrivono. Non è una novità che il gusto compositivo delle immagini di Diao sia di gran pregio. Il gioco di associazioni chiaroscurali già proprio di Fuochi d’artificio in pieno giorno qui s’attesta ancora più palesemente nella costante proposizione di illuminazione al neon che opera una ritenzione dell’oscurità, nega cioè l’inghiottimento nel buio della provincia industrializzata e della sua veste funerea e fatiscente. Il motore di Zenong è dunque decorato con neon rossi così da offrirci l’unica visibilità possibile della sua fuga alla cieca nella notte, sotto la pioggia battente: di qui, la sua ellissi visiva, causa dello sparo che ferisce a morte il poliziotto, diventa la nostra ellissi. Ancora, le scarpe luminose degli agenti di polizia disegnano traiettorie iridescenti, adornando di gusto estetico il moto farraginoso degli inseguimenti. Nondimeno, è la violenza a divenire l’oggetto principale del processo rappresentativo condotto da Diao. La sua brutalità ha sì un carattere ferale, comunicato per esempio nell’associazione visiva tra la gestualità del corpo umano che si prepara a praticarla e le inquadrature sugli occhi degli animali che abitano lo spazio attorno al lago, ma la sua esecuzione è quasi sempre sottratta alla visione. Resta di questa violenza esorcizzata allo sguardo, quindi, la sua stilizzazione formale ed espressiva. All’esaltazione del movimento di macchina, il montaggio sostituisce la sua frammentazione in fotogrammi che rompono il secondo: sono inquadrati così rapide fotografie di stritolamenti, di placcaggi, delle ferite che essi procurano. E anche quando la violenza rompe nel suo parossismo, essa ci è consegnata in forme atipiche, quasi tarantiniane, come accade per la detonazione, stilisticamente efficacissima, del sangue su di un ombrello apertosi dopo aver trafitto un uomo.

Nonostante l'emergere di uno sguardo di maniera, Il lago delle oche selvatiche è un’opera gustosissima con cui si conferma una volta di più la necessità delle attenzioni sull’ultimo Cinema Cinese, che vive ora e qui splendidamente del dialogo tra una propensione alla novità slanciata e bellissima, una componente di costante attenzione sociale, e il recupero di un temperamento atrabiliare verso le tradizioni del paese.

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Diao Yinan Hugh Hu Lun-Mei Kwei Liao Fan Regina Wan 113 minuti
Cina 2019
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Due scatole dimenticate - Un viaggio in Vietnam

di Carmen Albergo
Due scatole dimenticate - Un viaggio in Vietnam di Mangini e Pisanelli

A partire dal cortometraggio precedente Le Vietnam sera libre, Cecilia Mangini e Paolo Pisanelli, uno dei migliori sodalizi registici italiani di cinema non-fiction, proseguono il recupero e la rielaborazione di un inedito reportage della Mangini, allargando però la prospettiva e includendovi il delicato e intimo scandaglio di memoria personale della stessa autrice.

Due scatole dimenticate – Un viaggio in Vietnam non è infatti solo la valorizzazione multimediale (se si tien conto anche della mostra fotografica Cecilia Mangini -Visioni e Passioni, il cui backstage compone i titoli di coda) dell’ambizioso documentario intrapreso da Cecilia Mangini e Lino Del Fra tra il 1965 e il 1966 sulla guerra del Vietnam, progetto che a causa del forzato rimpatrio in Italia per motivi di sicurezza non andò oltre le fasi preliminari dei sopralluoghi sul campo. L’opera è in verità l’intensa rilettura emotiva, filtrata dal senno di poi, delle riflessioni che sottesero quel tempo di viaggio e ricerca e ancora oggi pervadono questo futuro–presente, quasi fossero fantasmi rimossi e irrisolti, in cerca di giustizia e giustificazione per le intenzioni non soddisfatte che ancora custodiscono. Prima che sia troppo tardi.

Molti raccordi tra le sequenze sono girati infatti con effetti distorsivi, quasi onirici, minacciosi buchi neri o varchi virtuali per dimensioni parallele, ma più d'ogni altro risalta il suggestivo dialogo di campo e controcampo ricamato senza soluzione di continuità tra inquadrature d’oggi e materiali di repertorio, come se una moviola ideale rinsaldasse spazi e salti temporali. Va così alternandosi un intreccio di stratificazioni narrative, che vede in superficie la cornice di commento onnisciente della protagonista (tanto il suo rammarico per quello che non è stato, quanto il suo ritrovato entusiasmo per questioni che le restano sempre care, come il ruolo portante delle donne nella società, da contadine a combattenti armate). Segue correlativamente in una immaginaria soggettiva, lo storytelling di istantanee degli straordinari negativi di pellicola ritrovati a distanza di cinquant’anni: scorci di città, porti e risaie, su cui si stagliano i ritagli della vita quotidiana di un popolo intero impegnato a conquistare e difendere con orgoglio la propria indipendenza. Volti, gesti e pose di donne e bambini, la calca della folla impegnata in intrattenimenti di piazza, persino una coppia di innamorati, lì dove tutto parla di distruzione incondizionata, sono accompagnati in voice over dall’interpretazione recitata della prima stesura di sceneggiatura che Lino Del Fra e Cecilia Mangini abbozzarono durante la loro permanenza in Vietnam.

A ciascun livello pare affidato un tenore e un registro distinto di racconto: la selezione e il montaggio dei materiali fotografici giocano con gli zoom sui dettagli e rumori di fondo contestuali, ora per sviare, ora per chiarire i soggetti ripresi, a simulare il difficile sforzo di ricomposizione memoriale; mentre la sceneggiatura recitata svolge una funzione conduttrice melodica, quasi pacificante a dispetto della lotta che va indagando; infine, ma decisamente prioritario nell’economia del film, la dicotomia tra memoria collettiva della Storia (risultante di immaginario, mitizzazione e mediatizzazione) e la memoria individuale (vittima dell’inesorabile età che avanza, per quanto allenata, ragionevole, militante). Una memoria personale che va frantumandosi, confondendosi nella galleria dei ricordi di una vita intera, fosse anche la vita di una testimone diretta e lungimirante della Storia medesima. Dicotomia, aporia, paradosso. Perché più si richiama alla mente l’infanzia lontana più i tasselli tornano indelebili, a tamburo battente, scolpiti nella pietra, al contrario più si risale all’età adulta e alla quotidianità, più tutto si sgretola, come un mandala non destinato a durare.

Il documentario si biforca, dunque, in un doppio diario di guerra vissuto dalla Mangini e riprodotto con Pisanelli. Da un lato il resoconto dei suoi giorni in Vietnam, scampata alle bombe aeree. La guerra Vietnamita, una guerra vinta. Dall’altro il diario di un conflitto in apparenza perso in partenza, la guerra contro le macerie della propria memoria, nonostante la sua casa sembri una trincea di resistenza, stracolma di libri, riviste, dischi, cimeli, catalogazioni cronologiche e geografiche, appigli pronti a colpo d’occhio e a portata di mano. Eppure anche in questa casa, vera e propria estensione d’archiviazione esterna, qualcosa ancora sfugge e il caso la fa da padrone, celando e riportando alla luce scatole ignorate e fuori posto. Scatole di scarpe, bottino di guerra, prezioso tesoro, inestimabile eredità per l'ancora poco praticato Cinema di Storia contemporanea, che per nostra fortuna la maestra del documentario italiano ancora non smette di consegnarci a piene mani.

Prodotto da Officina Visioni in collaborazione con Rai Cinema, il film è stato presentato in anteprima internazionale all' IFFR – International Film festival di Rotterdam 2020.

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Cecilia Mangini Paolo Pisanelli 57 min.
Italia 2020
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Birds of Prey e la fantasmagorica rinascita di Harley Quinn

di Matteo Marescalco
Birds of Prey - Recensione film Yan

Poco tempo fa, si discorreva sulla figura di Margot Robbie e sulla sua eterea e sognante Sharon Tate in C'era una volta a...Hollywood. Nel film di Tarantino, l'attrice prestava il proprio volto e la sua leggiadria alla costruzione di una forma d'innocenza che redimesse i ricordi e desse vita a una realtà nuova, liberata dal marchio dell'incubo. In un certo senso, altri due iconici personaggi interpretati dalla Robbie in Tonya e in Birds of Prey e la fantasmagorica rinascita di Harley Quinn si sono mossi sullo stesso binario. Anche Tonya Harding e Harley Quinn infatti hanno perseguito la ricerca di un regno incantato che risolvesse le storture del reale. La prima lo ha fatto nel biopic diretto da Craig Gillespie, attraverso l'instaurazione di un rapporto ludico con lo spettatore basato sulle tecniche del mockumentary e su frequenti rotture della quarta parete; il secondo personaggio, invece, quello della svampita omicida, gioca uno sport totalmente diverso.

Mollata da Joker, Harley Quinn attraversa un momento buio ed è in crisi con il modello di donna che vuole incarnare. Venuto meno il fidanzamento con la nemesi di Batman, la Quinn perde anche la sua protezione e dovrà affrontare tutti i cattivi di Gotham, coalizzatisi per vendicarsi dei torti subiti. Sulle sue tracce si mette una sorta di suicide squad al femminile: un'adolescente cleptomane, un'agente di polizia costretta a subire torti quotidiani da parte dei colleghi uomini, la cantante di un night club, una misteriosa assassina armata di balestra e l'egocentrico boss Black Mask. McGuffin del racconto? Un diamante che tutti quanti vogliono stringere tra le proprie mani.

Birds of Prey è il sequel diretto di Suicide Squad e, oltre che combatterne il testosterone e le scadenti critiche ricevute, vorrebbe aggirare lo snyderismo di fondo del primo periodo del recente DC Extended Universe. Già nel film anarchico e discontinuo messo in piedi da David Ayer, Harley Quinn rappresentava un fenomeno di costume difficilmente controllabile e, quindi, perfetto in vista della svolta Warner, che ha optato per lo scioglimento di un franchise solido e per la realizzazioni di film con relazioni meno vincolanti. D'altronde, lo stesso status del personaggio principale - una donna abbandonata e distaccatasi da un gruppo che, adesso, deve dimostrare a tutti i costi di sapersela cavare da sola - rispecchia la costruzione di un film che cerca in tutti i modi di vendersi come teaser per un progetto successivo.
In primo luogo, è proprio in questo senso che Birds of Prey può considerarsi come un esperimento fallito. Il fatto che al gruppo di mercenarie venga dedicato soltanto il terzo atto, costruzione seminale di un inevitabile sequel, priva gran parte del racconto dei momenti di gruppo - che sono quelli che meglio funzionano e hanno un buon impatto coreografico - e cozza contro le ripetute dichiarazioni della voce narrante di Harley. La contraddizione in termini è anche accompagnata da un'ansia nei confronti dell'azione che precipita più volte in un taglia e cuci funambolico e basato unicamente sul flusso mentale della sua protagonista. Tutti i ralenti, le accelerazioni e i colpi da commedia slapstick sono un riflesso mentale della precaria condizione psicofisica di Harley. Nulla, però, riesce a eguagliare la genuinità e la storta spontaneità di un film quale Suicide Squad, gigante dai piedi d'argilla, contenitore in grado di dar vita a svariate suggestioni cinefile e irruzioni di violenza e disorganizzazione da lasciare esterrefatti. Sembra quasi che sia la ricerca a tutti i costi della confezione autoriale a privare film quali Birds of Prey e Joker della capacità autentica di dialogare con il presente e di dare vita a complessità e contraddizioni interne che ne valorizzino la struttura.

È un vero peccato che la vera anima di un film del genere risieda nell'essere il controcampo di qualcos'altro piuttosto che un vero oggetto originale e grezzo. Lo spettro della normalizzazione è dietro l'angolo e sbatte fragorosamente contro le dichiarazioni di Harley Quinn, convinta davvero di essere diversa da tutti quanti.

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Cathy Yan Margot Robbie Mary Elizabeth Winstead Ewan McGregor Rosie Perez Chris Messina 108 minuti
USA 2020
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I due papi

di Laura Delle Vedove
I due papi - recensione film netflix

Ferdinando Meirelles immagina un incontro tra Papa Benedetto XVI e il Cardinale Bergoglio, nel momento decisivo in cui, ancora, immagina, si scambiano i ruoli, per invertire la Storia. Sotto una spinta progressista e francescana, ci spiega, Bergoglio dimette gli indumenti istituzionali del Sacro Padre per camminare con un paio di scarpe da individuo comune il sentiero tra gli uomini. Il Papa perde la sostanza del Santo, mentre Bergoglio gli si sostituisce, uomo in quanto uomo, eroe civile della sua terra, vento esotico e rivoluzionario. I due si studiano, l’uno (Bergoglio) guarda l’altro con sguardo compassionevole, l’altro (Ratzinger), con distacco e riprovazione. Ma impareranno ad accettarsi e a volersi bene. Questo è quanto.

I due papi non è dissimile dai tanti altri biopic che affollano le nostre “playlist” simpatizzanti per il Cinema anglofono, a volte più cinefile, altre meno. Perché? Se il meccanismo dell’incontro-intervista (qui replicato in forma più biunivoca e meno passiva) mette in moto la praxis della macchina del ricordo e della ricostruzione dei fatti, Meirelles, con i suoi piani sghembi, il montaggio frammentario e a tratti caotico, riesce per qualche tempo a farcelo dimenticare: cioè a farci dimenticare quella sostanziale unità di struttura linguistica che solo per trasformazione assume connotati meno tradizionali. Infatti I due papi porta in scena la storia delle origini dell’Eroe argentino destinato a fare la differenza e a spezzare i legami con il passato conservatore e scolastico dei vertici ecclesiastici. Senza indagarne o sondare le motivazioni, con quell’alone di mistero fumoso che attornia la chiamata di Bergoglio e quel pudore che si vorrebbe metafisico nel ripercorrere la storia di un Uomo. Mentre cresce il Mito si ammorbidisce Ratzinger, giusto per farcelo amare poco prima delle sue veramente rivoluzionarie dimissioni. Bergoglio non capisce, «Gesù non è sceso dalla croce», non è certo venuto meno alla sua fine di martire: un Papa non smette di esserlo perché un’istanza intima ed egoista del proprio Sé ha deciso per lui. Si intuisce che il progressismo bergogliano ha pur sempre un limite – quel giusto limite che ci permette di trovare in lui una condotta, una missione irreprensibile, tutta la moralità di cui la Chiesa ha bisogno. Ecco emergere il peccato, tutto sommato veniale, di Anthony McCarten (a cui si deve il soggetto di questo e altri recenti biopic): I due papi legge la Storia sotto un registro pop – quale in effetti è, nell’immaginario contemporaneo, l’icona di Papa Francesco – procedendo a una santificazione costante e progressiva dell’uomo (semplice, che storce il naso davanti ai canederli dell’austero tedesco) accentuata dal confronto con l’Alterità debole, sorpassata, obsoleta di Benedetto XVI. All’archetipo del Padre si sostituisce quello della Madre, per questo accogliente, limbico, ovviamente mistificato. Ma così facendo si attua una radicalizzata e radicalizzante semplificazione della realtà, per ridurla a due poli estremi dove è più facile comprendere la simpatia, l’affabilità del nuovo candidato al Ruolo – che è persino riluttante, da quanto è modesto – piuttosto che i dogmi scomodi, bui, inudibili del Potere. Resta un film prova della sua Santità, che è già tutta lì, pronta per diventare icastica; nel momento in cui Francesco appare nella vita di Joseph, a quest'ultimo si riavvicina Dio. Ma di spirituale non c’è niente.

Nella visione conciliatoria di una Storia sottile, Ratzinger cade “in vacuo” come oppositivo strumentale, la cui estraneità dal mondo e dalla pragmatica si risolve nella disconoscenza musicale dei Beatles e nella chiusura autarchica nella propria cultura tradizionale. Beatles come simbolo: Bergoglio globalizzato, cosmopolita, pop-olare, unificante, ci distanzia dalla secolarizzazione minacciata dal contemporaneo; Ratzinger emblema del tramonto del Vecchio Mondo, legato a passatismi troppo lenti per correre veloce con l’internet. La contrapposizione ideologica incontra una riduzione del significato plateale e con essa la mortificazione non così velata del bagaglio di studi teologici del Cardinale di cui, ovviamente, non abbiamo più bisogno. Con questo non si vuol ridurre la portata storica del passaggio, né adombrare l’apertura irrimandabile (e incompleta) che ha coinvolto la Chiesa con(testualmente) l’elezione di Bergoglio. Tuttavia, Meirelles e McCarten alla riflessione di una prospettiva inedita preferiscono l’abbraccio caloroso del sempiterno leitmotiv biografico, il “cine-romanzo” che ricalca una storia già conosciuta, sufficientemente immaginaria da convogliarsi verso esigenze di racconto (il doppio, l’anzianità, l’attualità) e sufficientemente verosimile da non darsi in toto alla fanta-storia. E allora il film si può finalmente leggere come una celebrazione, certo monolitica, di Francesco, un para-testo che contribuisce a solidificarne la fama con lo sguardo buono di un Jonathan Pryce vertiginoso (mentre Anthony Hopkins di fatto riabilita l’immagine di Ratzinger con una performance mastodontica). Esigenze di spettacolarizzazione a cui, tuttavia, non perdoniamo l’uso un po’ beota del motivetto di Bella ciao, in odore di sorrentiniani ossimori. Tanto a dirvi: parliamo di tutto e di niente.

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Fernando Meirelles Jonathan Pryce Anthony Hopkins 125 minuti
Argentina, Italia, UK, USA 2019
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L'apprendistato

di Giorgio Sedona
L'apprendistato di Davide Maldi

Seconda parte della trilogia sulla formazione, L’apprendistato di Davide Maldi, è una docufiction dal sapore verghiano. Facendo proprio il processo di definizione del reale, costruito insieme alla realtà documentaria proposta, il lungometraggio accompagna Luca e i suoi compagni nell’arco del primo anno scolastico presso un rinomato istituto alberghiero di Domodossola. E’ ben evidente l’intento di riproposizione del rito di passaggio, il protagonista è in transito da una realtà contadina, dove vige la regola della libertà incondizionata - definita in immagini quali la caccia istintuale e ferina in ambientazione naturalistica - alle regole ferree del collegio risonanti tra le mura dell’istituto, dove imparare l’arte del servizio verso il cliente è anche un portale di accesso alla vita adulta e ai suoi necessari compromessi. Spesso nel film viene richiamata alla disciplina un’istintività cinetica anarchica, caratteristica di un’indole indocile da (co)stringere dentro a una livrea.

L’apprendistato di Luca è l’apprendistato di Maldi, è la stessa volontà di porsi in ascolto di una realtà vissuta in prima persona, internamente al processo e al contesto rappresentato, come spettatore consapevole e partecipante di una crescita, individuale e sociale, da un lato, e come parte attiva di una realtà da dirigere plasticamente dall’altro. Scelta questa che avvicina nelle intenzioni il cinema di Maldi al lavorìo sul (e nel) reale di Minervini. Come la migliore tradizione narrativa verista anche la narrazione di Maldi procede tramite una struttura antifrastica. Le due scene, una in apertura e una in chiusura, che segmentano la messa in scena del collegio - la prima mentre vediamo Luca che inizia a scalare una simbolica salita prima di fare il suo primo ingresso nel collegio, la seconda nell’uso del funzionalissimo sguardo in macchina finale - sospendono il racconto e plasmando il significato ultimo. Non sappiamo, quindi, se l’iniziazione di Luca viene completata, se egli è piegato dalle regole della livrea, o se quest’ultimo, in quel suo ultimo sguardo, schermi il contesto lavorativo tramite una consapevolezza di facciata che nasconde il vero senso anticonformista in lui mai assoggettato, spirito costituente di un’attitudine anarchica. Due parentesi che includono una narrazione definita da tempi didattici ben scanditi, dove ogni passo è un avvicinamento alla consapevolezza dell’età adulta. Tra il lavoro di sala, il lavoro di cucina, lo studio delle lingue e alcune uscite nelle navi da crociera, il gruppo di studenti del primo anno si trova di fronte alla dura gavetta, in un ambiente dove si inizia dal basso, dal pavimento, dalla pulizia del corpo e dell’ambiente. I momenti di fuga per Luca dall’occlusione del collegio sono brevi parentesi notturne, trascinamenti nell’immersione in un mondo fatto di ombre, di figure rapaci imbalsamate come la sua indole indocile, in un chiaroscuro ribelle nel mondo delle regole che dorme. Momenti in cui si fuoriesce dalla regola del rito di passaggio, dall’iniziazione, e ci si lascia trasportare dalla curiosità, dal gioco, da quella spinta infantile e caratteriale che nello sguardo in macchina finale viene assimilato o frainteso.

Iniziata con Frastuono la trilogia dell’iniziazione si aggiunge di un nuovo tassello, definito sull’omologazione societaria dell’individuo adulto rispetto all’energia attitudinale del carattere ribelle. L'apprednistato sa rivolgere allo spettatore molte domande, lasciando spazi aperti all'interpretazione spettatoriale.

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Davide Maldi Luca Tufano Mario Burlone Lorenzo Campani Enrico Colombini Cristian Dellamora 84 minuti
Italia, 2020
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Depraved

di Pietro Lafiandra
Depraved - recensione film frankeinstein fessenden

Come si può, nel 2020 (o meglio, nel 2019, anno di distribuzione del Depraved di Larry Fessenden) rivisitare Frankenstein senza adagiarsi sull’oleografia dei vari Whale, Branagh, Corman, o senza parodiare le versioni pulp di Warhol e Morrissey/Margheriti (Il mostro è in tavola… barone Frankenstein), i cross-over di Franco (Dracula contro Frankenstein), i già ironici film di Mel Brooks (Frankenstein Junior) e Barton (Il cervello di Frankenstein), lo sperimentalismo barocco di Ken Russel (Gothic)? Come si può, soprattutto, dopo che i tentativi più recenti di riproporre l’universo narrativo nato dalla mano di Mary Shelley — da I, Frankenstein a Victor — avevano esplicitato le difficoltà di trattamento di un intreccio ormai radicato nella cultura popolare e saturo di rivisitazioni post-moderne, alcune delle quali già avevano ampiamente destrutturato e rielaborato non solo il materiale originale ma la stessa sensazione di déjà-vu derivatane?

Spostando il fuoco dal contenuto alla forma, ma soprattutto mettendo in discussione l’ontologia del suo stesso lavoro di regista, Fessenden non agisce tanto sulla risposta a queste domande quanto sulla domanda stessa, una domanda che, sintetizzata, suona più o meno così: cosa vuol dire fare un film sul mostro di Frankenstein oggi? Sarebbe a dire: cosa vuol dire essere uccisi e riportati in vita, squartati e ricuciti, fatti a pezzi e ri-assemblati dopo l’avvento dei media digitali? E ancora: non è, forse, che il ruolo del regista sia giunto a collimare in tutto e per tutto con quello chirurgico del dottor. Frankenstein, nel tentativo di riportare (e di mantenere) in vita un corpo (quello filmico) che sembra essere morto (con riferimento all’idea novecentesca di cinema come apparato composto da sala-pubblico-proiettore-schermo) attraverso un patchwork di componenti differenti, un lavoro di taglia e cuci?

Nel film vediamo Adam — l’uomo nuovo e al contempo il Primo uomo — che, ribattezzato dopo essere stato ucciso e successivamente resuscitato da un chirurgo, più volte si vede costretto a contemplare i brandelli della sua nuova identità all’interno di un realtà che, dopo averlo riaccolto tra i vivi, è subito pronta a farlo nuovamente a pezzetti, a frammentarlo, a macellarlo, obbligandolo alla contemplazione narcisistica del suo volto e del suo corpo — vivo o morto che sia — attraverso gli smart-phone, gli schermi, condannandolo così a un limbo di matrioske, di immagini dentro immagini che lo privano di una precisa identità, di un preciso posto nel mondo.
Non è un caso che la nascita forzata di Adam (il verbo fatto carne, il verbo fatto immagine) derivi dalla necessità di colmare un’immagine mancante e inconcepibile, il trauma della morte testimoniata in terza persona da Henry, il moderno dottor. Frankenstein che, reduce della seconda guerra del Golfo, soffre di disturbo da stress post-traumatico e, per curarsi, vuole contrapporre alla non-immagine della morte a cui ha fatto da spettatore l’immagine della vita di cui è stato regista, la nascita di Adam.

Adam non è però solo il protagonista del film, ma è anche il film stesso, un film-Frankenstein che introietta la pluralità di forme che hanno obbligato il cinema a disperdersi per poi ricucirsi in una forma nuova, una forma mostro, per alcuni. All’interno di Depraved convergono infatti, oltre ai precedenti film su Frankenstein e la sua creatura (come nel secondo adattamento di Whale, Adam si mostra desideroso di avere una compagna), anche differenti forme d’immagine, dalle elaborazioni grafiche, forme digitali astratte vicine al cinema sinestetico/cibernetico di Jordan Belson o John Whitney, utili per rappresentare lo stato allucinatorio e l’elaborazione delle informazioni del nuovo cervello di Adam, al materiale d’archivio, le riprese dalle telecamere di sorveglianza che custodiscono la memoria traumatica che sveglia la rabbia del mostro e conduce all’inevitabile finale truculento in cui Adam si ribella al suo stesso creatore, chiudendo un cerchio che lascia lo spettatore con un’ultima domanda: chi è il depravato? Forse, esattamente come accade nel finale del film, il creatore di immagini che le mette al mondo e le lascia vagare per la foresta senza alcuna risposta.

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Larry Fessenden David Call Joshua Leonard Alex Breaux Ana Kayne 114 minuti
USA 2019
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Diamanti grezzi

di Andreina Di Sanzo
Diamanti grezzi - recensione

Introdursi in un film grazie a una colonscopia fa già intuire la stoffa di Josh e Ben Safdie, i fratelli del nuovissimo cinema americano “indipendente” prodotti per questo film da Martin Scorsese e pupilli della casa di produzione del momento, la A24. Al loro terzo lungometraggio, i Safdie Brothers arrivano con una bomba a orologeria, Diamanti grezzi, una corsa turbinosa senza meta in un sottomondo metropolitano vizioso, sporco, avaro. Adam Sandler è Howard Ratner, un gioielliere dipendente dalle scommesse e dal fallimento, innamorato dell’utopia di un lusso scintillante che, in possesso di un opale nero illegalmente importato dall’Etiopia, comincia la sua delirante corsa verso il baratro.

Con Uncut Gems (come vuole il titolo originale) la coppia di registi conferma un cinema frenetico, una ricerca affannosa, che scorre davanti agli occhi dello spettatore e sprofonda nei cunicoli di una roccia o nelle interiora del protagonista, fino al lisergico viaggio di un buco nel cervello. Sandler in stato di grazia, forse mai come qui, impersona l’appesantito gioielliere ebreo che usa lo slang metropolitano, reiterati "fock!" e "waddafock!"  e corre, corre, come un dopplegänger del Connie di Good Time. Ma Ratner non è un salvatore, è votato solo alla propria sconfitta e a distruggere tutto quello che gli è intorno (famiglia, figli, amante), fa sempre la scelta sbagliata perché vuole continuare a scommettere e perdere e rifarlo ancora. Attanagliato dai creditori, diviso tra la famiglia e il desiderio per un’altra donna, Ratner insegue il suo opale nero, in prestito prima al giocatore di basket Kevin Garnett (quello vero!), poi di nuovo tra le sue mani, merce di scambio per redimere la sua disperazione. 

Il grottesco alternato alla violenza, le musiche di Daniel Lopatin, aka Oneohtrix Point Never, quasi a sublimare le caotiche disavventure di un balordo, l’occhio freddo di Darius Khondji a immortalare quei corpi irrefrenabili nella città che non dorme mai. Dopo l’incendiario Heaven Knows What e l’inseguimento psiconauta di Good Time, Josh e Ben Safdie ci danno un’altra grande prova della loro arte. Diamanti grezzi è pura adrenalina, cassavetesiano per ammissione e scorsesiano per retaggio, come possiamo non pensare al ticchettio di Fuori orario o alle violente strade  del cinema di Michael Mann? New York è l’utero che accoglie i suoi bad guys e i registi conoscono bene i sotterranei con i suoi miserabili sbandati, che assicurano il proprio amore tatuandosi un nome su una chiappa.

Nella meravigliosa scena del concerto di The Weeknd, la traiettoria dello sguardo di Howard apparentemente verso il suo oggetto del desiderio, Julia, la sua gemma incarnata, non è altro che uno sguardo allucinato verso la sua fine, consapevole di rincorrere, tra perenni urla, pugni, strattoni, una disordinata conclusione. E allora lunga vita a  questo cinema, libero, focoso e appassionato, lunga vita a una poesia che si trova in un quotidiano lacerato, disperato e tenero, che persino nei titoli di coda ha l’energico guizzo di una sorpresa, un film che non si vorrebbe mai terminare, sequenza dopo sequenza, orgasmo, tachicardia.

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Benny e Josh Safdie Adam Sandler Laikeith Stanfield Julia Fox Eric Bogosian Kevin Garnett 135 minuti
USA 2019
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Caterina

di Arianna Pagliara
Caterina di Francesco Corsi

“Caterina questa tua canzone

la vorrei veder volare

sopra i tetti di Firenze

per poterti conquistare”

 

Francesco De Gregori

 

 

Il regista Francesco Corsi (1980) è co-fondatore di Kiné, interessantissima realtà produttiva della quale in Sotterranei sono già stati recensiti diversi titoli (Il varco, L’uomo con la lanterna, Storie del dormiveglia, Il Principe di Ostia Bronx) premiati in Italia e all’estero, film assolutamente differenti tra loro ma che hanno tuttavia in comune un approccio libero e fecondamente originale e la volontà di esplorare, con curiosità e trasporto, il marginale e il dimenticato, il privato che preme per uscire fuori, le piccole storie che si fanno grandi storie quando viene dato loro il giusto spazio di rappresentazione.

Con Caterina, a partire da lunghe interviste ed eterogenei materiali d’archivio, Corsi vuole restituire la voce a un personaggio importante della scena musicale italiana degli anni Sessanta e non solo. Figlia di un pittore spagnolo e di una scrittrice svizzera, Caterina Bueno nasce a Fiesole nel ’43. Il suo percorso musicale è anzitutto un percorso di ricerca etnomusicologica e, in un certo senso, antropologica: fin da subito inizia a esplorare la campagne toscane, magnetofono alla mano, per parlare con gli abitanti più anziani nel tentativo di tirare fuori – per reinterpretarle e registrarle – canzoni popolari che parlano di politica, lotta sociale, emigrazione e amore (Tutti mi dicon Maremma, La leggera, Italia bella mostrati gentile). Caterina ha pazienza, empatia, volontà di ascolto; per lei lo studio e l’interpretazione della musica popolare non è inerte e meccanico atto di raccolta e archiviazione, ma un lavoro alla cui base sta sempre una certa predisposizione etica e morale.

La cantante, a cui si deve la valorizzazione e la riscoperta di tutto un patrimonio musicale che rischiava, se non l’oblio, la totale ghettizzazione, ha lasciato un archivio sonoro piuttosto ampio anche se non organizzato: al suo interno si muove Corsi, che procede mettendo assieme - in maniera discrezionale, elastica, sciolta - tasselli e frammenti di un discorso che cerca di illustrare senza volerlo esaurire o costringere entro uno spazio determinato. Dunque il racconto filmico non è semplice percorso biografico, ma piuttosto un affettuoso compendio di preziose testimonianze, soprattutto di amici e collaboratori della cantante, che la descrivono come figura privata più che pubblica.

La voce di lei, che ascoltiamo da nastri magnetici incisi in decenni di attività di ricerca e studio, fa da traccia e da collante a materiali audiovisivi differenti: concerti, interviste, partecipazioni a trasmissioni televisive in cui la cantante racconta la sua esperienza in Italia e all’esterno (Stati Uniti, Canada). Dagli anni Sessanta e Settanta, periodo in cui la riscoperta e la rivalutazione del folklore si faceva forte di una dimensione culturale propizia e vivace perché fortemente politicizzata, fino agli anni Ottanta e Novanta, in cui un certo appiattimento in questo senso ha in parte riportato in secondo piano l’interesse verso determinati ambiti culturali e quindi anche musicali, Corsi traccia il percorso di Caterina Bueno con agilità e disinvoltura, rivelando anche l’influenza che la cantante, con la sua determinazione, la sua fermezza e la sua passione, ha saputo esercitare in maniera fertile e costruttiva sui musicisti che hanno incrociato, in maniera più o meno fortuita, la sua strada. Tra questi, un giovane De Gregori che l’accompagnò in tournée come chitarrista, e che le dedicò, più tardi, la nota canzone intitolata con il suo nome

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Francesco Corsi 79 minuti
Italia, 2019
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1917

di Emanuele Di Nicola
1917 di Sam Mendes

Tanto vale dirlo subito: 1917 di Sam Mendes è tecnicamente ineccepibile. Di più: è una visione capace a tratti di evocare “meraviglia”, quella sensazione primitiva del gesto cinematografico che talvolta si rinnova, a intervalli irregolari, in diverso tempo e luogo. Qui accade nella corsa notturna del caporale Schofield (George MacKay) per la città distrutta, illuminata da fuochi e spari, in un paesaggio di rovine bianco e cimiteriale da film di vampiri, che sembra estratto dalla pittura romantica di Caspar David Friedrich. Uno splendore concepito dal direttore della fotografia Roger Deakins, che non è nuovo a questi frammenti: basti pensare alla marcia delle truppe al tramonto in Sicario di Villeneuve, o alla corsa lunare per salvare la bambina ne Il Grinta dei Coen.

Ecco, proprio questa sequenza sintetizza con efficacia il “problema” nel confrontarsi con il film di Mendes, candidato a dieci premi Oscar e favorito nella corsa alla statuetta. Con una storia che si riassume in una frase: nell’anno del titolo i due soldati britannici Schofield e Blake (MacKay insieme a Dean-Charles Chapman) nella Francia del Nord vengono incaricati di consegnare un messaggio che avverte di un attacco imminente dei tedeschi, per salvare la vita a oltre mille uomini tra cui proprio il fratello di Blake. Schofield reincarna la leggenda di Filippide, il militare ateniese nella battaglia di Maratona che corre fino ad Atene per portare l’annuncio della vittoria dei greci sui persiani: al suo contrario però non deve diffondere il trionfo, bensì evitare la strage. Nella sua strada discende negli inferi, metaforicamente ma anche letteralmente, visto che va giù sottoterra, incontra e tocca la devastazione per poi risalire in superficie. Il congegno formale è altrettanto chiaro: Mendes allestisce un finto piano sequenza di circa 119 minuti, che segue il movimento di Schofield dall’inizio alla fine, ovvero dall’ordine impartito da Colin Firth alla lettera ricevuta da Benedict Cumberbatch e lievemente oltre. Non serve soffermarsi sul “trucco” del piano sequenza nell’arco della Storia del cinema, che arriva fino a noi e viene mascherato abilmente da Mendes (ma i maniaci del gioco troveranno gli stacchi di montaggio), tranne che per rilevare come il nume Hitchcock sia risarcito con la citazione a Intrigo internazionale, nella scena dell’aereo che sfiora il protagonista. Ma siamo, appunto, nel gioco cinefilo.

Il lavoro di Deakins racconta invece di una contraddizione alla base di questo film: da una parte rappresenta un episodio della prima guerra mondiale, centrato indubbiamente su due “eroi per caso”, ma calato in una premessa di realismo e iperrealismo, nella concitazione delle trincee, nel fango e nel sangue che genera il conflitto. Soprattutto nella Grande guerra, quella senza bombe atomiche né armi tecnologiche, la guerra dei soldati che strisciano per terra. In tal senso il piano sequenza è la carta per rendere fluido il racconto, impaginarlo senza stacchi, trascinare dentro lo sguardo e non mollarlo, in un flusso ininterrotto di orrore e speranza con il fake sequence shot come mezzo adeguato per restituirlo. Un contesto quindi di rigido realismo. Un fondale in cui si incontrano bovini morti, prova della degradazione dell’uomo che ricade sulle altre specie, come nel quarto episodio della serie Chernobyl con la struggente uccisione degli animali. Dall’altra parte, però, la parabola di 1917 si appoggia palesemente a interventi antinaturalistici: il primo è la colonna sonora di Thomas Newman, che non manca di sottolineare ogni momento di pathos o suspense, alzando e abbassando a piacimento il termometro drammatico; poi c’è la scrittura (Mendes con Krysty Wilson-Cairns), che prevede un’apertura e chiusura circolare, nel mezzo incontri artefatti e troppo costruiti in cerca dell’attimo struggente (l’apparizione della ragazza francese con neonato altrui), situazioni portate all’estremo e risolte all’ultimo secondo, come quella centrale. Nello scenario non aiutano alcune scelte di casting, laddove appare opportuno il volto poco noto nel ruolo principale: allora perché fargli incontrare improvvisamente due divi come Firth e Cumberbatch?

Insomma, gradualmente, nel dipanarsi della vicenda la contraddizione si impone: il naturalismo delle intenzioni va a sbattere contro il calcolo della sostanza. Lo scontro genera una discordanza non fertile, con il famoso “sguardo dello spettatore” che non sa più bene come orientarsi: stiamo vedendo la verità di trincea resa attraverso la forma o la solida retorica del cinema hollywoodiano? Un dubbio indecidibile. E diventa difficile credere alla maratona di Schofield, non certo per una supposta pretesa di realismo (sarebbe assurdo chiederlo in una ricostruzione di finzione), ma per la rottura della sospensione di incredulità, che non è possibile mantenere quando il film stesso è così incerto su dove dirigersi. Da parte sua, il britannico Sam Mendes torna a essere i muscoli di Hollywood ma barcolla come “autore”, la lussuosa commissione resta il suo habitat preferito (e Skyfall il risultato migliore). Volete vedere un altro 1917? Senza andare troppo lontano in quell’anno è ambientato Torneranno i prati, l’ultimo film di Ermanno Olmi prima della scomparsa, che inscena la medesima trincea con un senso di attesa sospeso e frontale, quasi deoliveiriano, scolpito nel ghiaccio. «Siamo sepolti nella neve, anche stanotte ne è caduta tanta e adesso ha uno spessore di quattro metri e mezzo»: ecco una trincea tangibile e allo stesso tempo astratta, sia materica che simbolica senza per forza ricorrere allo stratagemma della forma.

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Sam Mendes George MacKay Dean-Charles Chapman Colin Firth Benedict Cumberbatch Daniel Mays Pip Carter 119 minuti
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Brivido caldo. Una storia contemporanea del neo-noir

di Matteo Berardini
Brivido caldo - recensione libro bocchi

Da una parte all’altra del globo, inseguendo scampoli di cinema e realtà che si scoprono vicine, figlie di una stessa adesione emozionale. Triplo gioco parla con Hong Kong Express, Passion si riflette in Guilty of Romance. E ancora, salti che vanno dalle movenze di Chow Yun-fat a quelle di Alain Deloin, da Lino Ventura a Michael Caine, perché «l’attore non è mai unicamente attore, protagonista di una storia e di una detection, ma rappresenta un’idea», una qualità sentimentale. L’aspetto che più emoziona nella lettura di Brivido caldo. Una storia contemporanea del neo-noir è l’opportunità di seguire un percorso che per corrispondenze e contrasti costruisce una mappa mobile di idee, assonanze, richiami, evitando ogni ricostruzione museale e prassi enciclopedica. Non è intenzione dell’autore, il critico e saggista Pier Maria Bocchi, fare del suo testo un compendio affamato di completezza e indicizzazione assoluta. Piuttosto, Brivido caldo è l’occasione per immergersi nel magma multiforme eppure coerentissimo di un «genere allarme» capace di intercettare, riflettere e manipolare «le questioni più calde della contemporaneità». Smarcandosi dai precetti del mercato e dai dettami dell’industria, Bocchi predilige lo sguardo culturale per indagare i modi in cui il genere si fa «sintomo di una realtà in irrequieta metamorfosi e specchio di una società inevitabilmente e costantemente in crisi», fedele all’idea che «il neo-noir parli una lingua comune, determinata eppure in costante mutamento».

Sul noir, magnifica crisi modernista esplosa dentro le maglie dello studio system, si è scritto moltissimo e ancora si dibatte, ma riguardo la sua storicizzazione, i suoi stilemi più riconoscibili e il suo impatto sul pubblico e l’industria del tempo, le idee e le letture tendono oggi a trovare il loro equilibrio. Occorre allora fare un passo avanti e concentrare lo sguardo sul successivo neo-noir, da interpretare e studiare come genere a sé. La tesi centrale di Brivido caldo riguarda proprio questo passaggio gnoseologico, un cambio di focus che sposta l’attenzione su un fenomeno che altrimenti rischia di essere letto sempre e soltanto attraverso la lente onnicomprensiva del postmoderno. Per Bocchi è limitante e poco utile continuare a leggere il neo-noir come un’evoluzione brillante e autoreferenziale della tradizione noir, di cui estrapola il nero per farne superficie lucida su cui fissare sagome svuotate di senso nate dalla ripetizione e dalla frammentazione del canone classico. Certo, la dimensione cinefila, la rilettura anzitutto linguistica (e quindi mitica) del passato, il lavoro sulla superficie dell’immagine ne fanno un genere canonicamente postmoderno, tuttavia la sua storia trentennale non è quella di un esercizio derivativo figlio dell’evoluzione diacronica ma un sistema-genere tout court, un nuovo modo di articolare un’idea di realtà grazie a una capacità sua, specifica e strettamente contemporanea, di impadronirsi del mondo per raccontarlo. Superato il periodo di massimo splendore degli anni Novanta, ci dice Bocchi, il neo-noir prosegue in piena autonomia «attraverso i luoghi comuni e le dinamiche di un immaginario che si è rilanciato con enfasi […] proprio nel secondo decennio degli anni Duemila, dopo l’abbuffata tarantiniana e un periodo di stasi». Ma, come già specificato, Brivido caldo non vuole ricreare su carta le infinite traiettorie, trasformazioni e filiazioni testuali, non codifica né cristallizza. Piuttosto esplora le possibilità significanti e le reminiscenze emozionali del genere, attraverso pochi capitoli monotematici – colpi ben piazzati aperti ciascuno, con un andamento musicale brillante e sempre utile all’innesco dell’analisi, da una scena tratta da uno dei capolavori di questa storia, Basic Instinct di Paul Verhoeven.
Si susseguono così indagini sulla nuova femme fatale alle prese con l’immaginario de-eroticizzato di oggi, che ne epura la carica sessuale e sovversiva; sui volti e corpi che dialogano a distanza, figli di un «fenomeno non indigeno bensì interculturale e trans-continentale» che oltre la dimensione del mercato si afferma attraverso dinamiche affettive e memoriali, testimoniate da corpi che diventano il luogo in cui si saldano spazio-tempo diversi appartenenti allo stesso immaginario; sugli spazi e luoghi del genere, dettati da nuovi rapporti tra l’illuminazione del contesto e l’opacità essenziale della situazione, una tensione che rende il set «un abito culturale» e manifesta l’emarginazione ontologica del soggetto che insegue una realtà in mutamento; sulla mascolinità in crisi e in generale sulla «gestione del genere come accesso sociale» all’impalcatura di ansie e reazioni che caratterizzano «un riflesso sociale abbandonato a sé stesso che annaspa per trovare una soluzione».

In definitiva Brivido caldo è uno strumento analitico prezioso e assieme un gesto d’amore, un lavoro critico che scava nel contemporaneo e offre generoso letture, idee, connessioni, con una scrittura agile e attenta che cerca e coltiva un dialogo con il lettore, restituendo a una galassia di paradigmi narrativi ed estetici la capacità di non essere solo rielaborazione ma generazione di una grammatica autonoma, «naturalmente derivativa eppure indipendente, in grado per giunta di contaminare altre sintassi e altre narrazioni».

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