Chiara Ferragni - Unposted

di Emanuele Di Nicola
Chiara Ferragni Unposted

C’è un momento, in Chiara Ferragni - Unposted, in cui cade il velo sulla sostanza del film e un’immagine diventa improvvisamente significativa, in sé e per sé, senza bisogno di altro. Si tratta dell’ennesima prova vestito che l’influencer deve sostenere in vista di un evento: l’abito, composto di vetri incastonati, si rivela troppo rigido e la ragazza non riesce a piegare un braccio. Per un istante Chiara resta così, con un arto a metà, sospeso nel vuoto e poi il film continua per la sua strada. Perché il documentario di Elisa Amoruso, regista che frequenta il reale attraverso l’esteriore - come conferma il successivo Bellissime -, offre due livelli di lettura: il primo è palese, ovvero il pedinamento della celebrità Chiara Ferragni e il racconto della sua storia secondo lei. La protagonista si mostra “come tu mi vuoi”, porgendo allo sguardo alcuni lati e omettendone altri, come viene proprio teorizzato dalla coppia Ferragni-Fedez quando riflette sull’opportunità di non condividere tutto (niente di strano: avviene in ogni doc su un personaggio famoso). La regista la asseconda: Amoruso la segue strategicamente con l’obiettivo di corteggiare il fanbase della influencer, e anche questo è legittimo, oltre che riuscito come attesta il clamore al Festival di Venezia, l’incasso in sala e ora le visualizzazioni sulla piattaforma di Amazon Prime Video.

C’è poi una seconda chiave, in questo film di 85 minuti, che si insinua più sotterranea e dislocante: quella racchiusa dentro l’immagine. Ferragni si è fatta da sola, ci viene spiegato, è oggi un’imprenditrice miliardaria perché ha saputo magistralmente sfruttare blog e social network, è stata pioniere e viene studiata ad Havard, ha molti collaboratori ma non deve nulla a nessuno («Solo io ho creato me stessa»). Inoltre è una grande esperta di moda, come Anna Wintour de Il diavolo veste Prada «con un’alzata di sopracciglio può cambiare un’intera collezione autunno-inverno». È bella, ha una bella famiglia, parla italiano e inglese, è molto educata e non dice mai parolacce. Ma c’è qualcosa che non torna. Un elemento che si nasconde dentro le inquadrature e a intervalli irregolari affiora: «I miei follower saranno fieri di me», sostiene Chiara mentre si fa un piercing, oppure «non si può essere sempre un personaggio vincente», mentre il montaggio la mostra sulla spiaggia intenta a evitare le onde. Dice proprio così: personaggio.

E allora ecco improvvisamente emergere, in modo quasi subliminale, la consapevolezza che si sta recitando: la prova è nell’allestimento del matrimonio, che viene interpretato come in un set, con tanto di reazione prevista nella mente di chi guarda (Fedez le sussurra nell’orecchio, e lei: «La gente capirà che mi dici una cosa dolce»). È chiaro: siamo nella messinscena. La rimozione scientifica di ogni forma di autenticità non avviene qui, è già successa molto prima dell’inizio del film e noi la stiamo solo guardando: è sottintesa e si applica a tutto senza eccezioni, dalla felicità alla malinconia passando per la commozione, «spero di piangere in modo carino». Il meccanismo non prevede un privato, ogni cosa - selezionata - viene esposta e postata su Instagram, compreso un figlio neonato come novello Little Miss Sunshine.

Unposted si presenta quindi come un documentario paradossale, che smentisce l’essenza stessa del genere: se storicamente il doc si lancia all’inseguimento della realtà, qui al contrario vuole catturare la finzione. Chiara Ferragni si scrive da sola e conduce l’auto-rappresentazione in abisso: la rappresentazione di sé avviene attraverso un film girato da un altro, in una dinamica non lontana da quella cara a Tom Cruise, che della saga Mission: Impossible ha fatto la quintessenza del suo ego, riuscendo a tematizzare il proprio superomismo in modo a tratti mirabile. Ma Chiara non è così: a volte ha uno sguardo vuoto, fa una recita perenne, una continua messa in posa. I suoi fan sembrano scritti da John Waters: sono meno belli e meno ricchi di Chiara, appena parlano capiamo che non ce la faranno. Il selfie è la dittatura a cui si tende. Il vestito-armatura si fa metafora tangibile di uno stato e di un mondo. Così Ferragni, che si propone «della stessa sostanza dei sogni», inconsapevolmente scivola nell’incubo. E Unposted diventa un saggio preterintenzionale sull’immagine di oggi: un film che fa paura, molta paura, e non certo per una posizione tristemente moralista ma perché riguarda il presente, cosa siamo qui e ora, consegnati a un’immagine virtuale e avvolti nella recita senza fine.

«I had a Monica Bellucci dream», dice Gordon Cole (lo stesso David Lynch) nel geniale episodio 14 di Twin Peaks: The Return. Cole incredibilmente ha sognato un personaggio vero e lo ha riconosciuto, seppure vivendo in un universo di finzione. Una Monica che non è Monica, naturalmente: un’attrice che interpreta se stessa in un racconto inventato mantenendo il suo vero nome. Si parva licet, allo stesso modo è la nostra protagonista: alla fine di Unposted possiamo dire “I had a Chiara Ferragni dream”, abbiamo sognato una ragazza reale che si interpreta all’interno di una storia finta. Ma il cinema si vendica, e lei viene tradita dall’immagine. 

Etichette
Categoria
Elisa Amoruso Chiara Ferragni Fedez 85 minuti
Italia
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Pastrone!

di Donato Guida
Pastrone! di Lorenzo De Nicola

Nel suo documentario Il mio viaggio in Italia (1999), Martin Scorsese ripercorre la storia del cinema italiano non solo per condividere con gli spettatori una riflessione sui registi e i film che hanno influenzato la sua arte, ma anche per svelare i sentimenti e le emozioni che questi hanno suscitato in lui. Parlando di Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone, scritto da Gabriele D’Annunzio, Scorsese ricorda di come sia rimasto sopraffatto dalle immagini e dall’espressività del film, come se avesse “scoperto una porta segreta che conduce al cuore dell’antichità, osservando quello che sembrava essere un notiziario dell’antica Roma”.

Il suo regista, Giovanni Pastrone, è indissolubilmente legato alla storia del Cinema, non solo italiano, ma mondiale! Questo assunto, seppure impegnativo, lascia intuire solo in parte quanto grande e pregna di eventi significativi sia stata la vita dell’autore piemontese. Un contabile nativo di Asti che, dalla fine dell’800, si è scoperto prima scienziato, poi musicista, quindi regista di opere colossali, infine medico.

Quanto realmente sappiamo oggi di Pastrone? Cosa ci resta di lui, al di là delle note opere che lo hanno reso un pioniere della settima arte? Come ha portato avanti la sua vita dopo essersi lentamente allontanato dal mondo del cinema che, dopo averlo osannato, gli ha imposto di seguire la nuova rotta americana dettata da Griffith?

Il regista Lorenzo De Nicola risponde a tutte queste domande nel suo documentario Pastrone!, nato dal casuale ritrovamento di un manoscritto autobiografico dello stesso regista piemontese, dall’ambiguo titolo Virus et Homo, all’interno del quale egli racconta in modo minuzioso gli eventi più emblematici della propria vita. A questo diario, De Nicola affianca le testimonianze, dirette e indirette, di diversi personaggi (critici cinematografici, architetti, storici, pazienti, familiari), permettendo così allo spettatore di conoscere questa complessa figura in senso sia artistico che storico.

Pastrone è stato costantemente guidato da un’enorme curiosità intellettuale; un pensatore, un ricercatore, un creatore che, animato da un’intima voglia di sapere, non si limitava a una visione superficiale dell’arte, ma ne scopriva i segreti più profondi, per poi reinventarla.

Il personaggio che emerge dal documentario di De Nicola è quello di un artista mai succube dei vincoli sociali, ma fermo nelle proprie convinzioni. Obbligato, a un certo punto, a modificare quell’idea di cinema da lui stesso creata e definita, sceglie di allontanarsene per immergersi (pensiero, anima e corpo) nel mondo della medicina. Questa parte della sua vita, finora poco conosciuta, emerge qui prepotentemente, a sottolineare ancora una volta la sua perseveranza. Iniziando come autodidatta, Pastrone approfondisce a tal punto la conoscenza medica da riuscire a mettere a punto un macchinario innovativo in grado di curare alcune forme tumorali.  Tante le testimonianze di pazienti curati (comprovate da lettere, indagini e certificati medici) e forte il dispiacere del regista di non vedere mai riconosciuto il suo contributo dalla comunità scientifica.

In occasione del sessantennale della morte di Pastrone (27 giugno 1959), il documentario di Lorenzo De Nicola, prodotto da Clean Film in collaborazione con Lab80, è stato presentato alla XVIII edizione del Rome Indipendent Fil Festival (vincitore del premio Miglior Documentario italiano) e sarà distribuito nelle sale cinematografiche nel 2020.

Il regista firma un’opera corale: coinvolge diversi interpreti, registra testimonianze, introduce documenti inediti e amalgama questi materiali eterogenei con la profonda voce fuori campo di Fabrizio Bentivoglio che, interpretando il regista di Asti, rilegge le parti più significative della sua autobiografia.

“La vita, come il cinema, è un fenomeno elettrico”: questa frase potrebbe racchiudere l’intera poetica di Pastrone. Un’elettricità costantemente presente nel suo operato, con la quale ha saputo e voluto immergersi totalmente in tutti i suoi campi d’azione.

Il documentario di De Nicola svincola definitivamente Pastrone da ogni etichetta (contabile, regista, produttore, musicista, scienziato, medico) e gli restituisce quel grande merito che, in vita, non gli è stato riconosciuto: quello di essere considerato non soltanto un grande regista ma, in senso più ampio, uno dei grandi protagonisti del ‘900.

Categoria
Lorenzo De Nicola 90 minuti
Italia, 2019
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Dentro di te c'è la terra

di Carmen Albergo
Dentro di te c'è la terra - recensione film Terlizzi

Dopo Dei, esordio al cinema di finzione, Cosimo Terlizzi torna al video-diario, riprova di come questa forma di racconto, spontanea e fuggevole identifichi, senza soluzione di continuità, la propria cifra bio-autoriale, il talento senza fronzoli, di portarsi in equilibrio sull'aporia inesplicabile di ordinario e prodigioso che ci circonda.

Dentro di te c'è la terra, presentato nella sez. Onde del 37mo TFF, tappa dopo tappa, porta avanti il progetto di farsi "strada di casa", in continuità con le parentesi di viaggio e le svolte di vita avviate da Folder, passando per L'uomo Doppio. On the road introspettivo, dove "strada" sta per relazioni fisiche, virtuali e ancestrali, e "casa" sta per brevi soste, esplorazioni, studio per un film. In questo caso, con particolare sguardo al film che sarà Dei, di cui porta inscritte molte premesse sin dall'incipit, su tutte le ripetute riprese di amici addormentati e loro risvegli (topos delle vicende del protagonista Martino) nonché l'impresa di risanare un dialogo con la natura, "nostra dimora comune", che non sia una vuota eco, né sciocca imitazione. Il regista invita lo spettatore stesso a rin-tracciare un personale percorso di riflessioni, a rivenire in questo suo zibaldone, un suggerimento, un pretesto, che capo della matassa dispieghi un filo di Arianna e conduca fuori dal dedalo di disastri socio-ecologici, ipocrisie e debolezze del quotidiano.

Questo l'esercizio di video-annotazione, che Terlizzi interpreta in prima persona, avvalendosi della scrittura a mano, insolita per l'ormai diffusa percezione touch screen o da tastiera. In soggetiva, appunta di suo pugno, sulle pagine di un taccuino, pensieri (come titoli di testa e di coda, capitoli tematici) suggestioni, interpellazioni dirette allo spettatore-interlocutore fuori campo che ripercorrere con lui situazioni e incontri. Così più che dall'avvicendarsi degli eventi esposti, l'intimità del mettersi a nudo, pare quasi scaturire direttamente da quel corsivo che solca la carta, da quella lettera A disgrafica, tracciata alla stesso modo di una Z, che dall'impulso del cervello al gesto della mano, ricalca memorie di una vita intera. Può dirsi lo stesso dei mille selfie compulsivi scattati con perfezione fotogenica dalla giovane amica di passaggio sull'isola di Alicudi? Cosa potrà conservare la sua mente di quella serialità estemporanea di pose stagliate su panorami mozzafiato? Eppure anche lei "aggiunge storie al proprio diario"!. E se non fosse per quella stessa leggerezza digitale, neppure il regista potrebbe ricevere la traduzione di una inscrizione araba che come un monito misterioso campeggia sulla parete della casa delle vacanze. Per questo, lo scarto tra le cose è sempre posto senza giudizio, anche quando incolmabile, come il confronto tra la ragazza e un giovane isolano, guarda caso sulle parole forse più abusate e risemantizzate di questo millennio: Amicizia e Spreco. L'incomunicabilità allora pare un abisso, per chi avulso per scelta dall'universo social di followers e likes, ostenta con maggior orgoglio i piedi nudi martoriati dal paesaggio impervio e ancora si esprime in termini di fiducia da guadagnare e coltivare. Nell'epoca del culto e flusso imperante delle immagini, qualcuno ancora si specchia nella terra che calpesta. Per Terlizzi il passo è davvero breve.

Se già da La benedizione degli animali, l'artista , pur figlio ipertecnologico dei suoi tempi, si mostrava creatura nel creato, per ridimensionare l'uomo e il suo dominio, in questo suo ultimo lavoro di ricerca preliminare sui miti greci ed altre visioni rituali antropomorfiche, giunge a porsi il dubbio che a fondare la presunzione umana di soggiogare la terra ci sia l'antico fraintendimento dell'uomo plasmato ad immagine di Dio. Perfettamente in linea con le interpretazioni teologiche di con-creaturalità e quasi parafrasando l'intramontabile Preghiera semplice, nel microcosmo della propria lamia brindisina, Terlizzi sembra davvero farsi umile "strumento" di dedizione e convivenza incontaminata, quando senza violazione ascolta e cura le piantagioni in dialogo tra loro, sì da attrarre utili insetti; quando asseconda l'istinto solidale, anziché quello predatorio, tra cani, gatti e galline, o quando insegna ad un giovane africano ad "in-telligere" le parole in lingua italiana e la nostra cultura popolare.

Così questo diario di ispirazioni creative, lungi dal dirsi conclusivo nella parabola artistica dell'uomo-autore, è esso stesso terra prospera, semina del futuro. Si rivolge e consegna ad un bambino, nuovo Adamo fatto di terra e speranza, che schiude gli occhi al giorno, confidando le domande eterne "Chi sei tu?", "Che ci fai qui?". La purezza della risposta è il miracolo che per fortuna la vita ancora non ci nega!

Categoria
Cosimo Terlizzi Cosimo Terlizzi Damien Modolo Martina Catalfamo 83 minuti
Italia, Svizzera 2019
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

American Horror Story - 1984

di Irene De Togni
American Horror Story 1984 recensione serie tv murphy

Al nono capitolo dell’antologica American Horror Story, Ryan Murphy torna a confrontarsi con il sottogenere dell’horror più amato (e più usurato), memore delle due stagioni di quel gioiellino comedy horror che è stato il suo Scream Queens – che riusciva a tenere insieme in perfetta armonia le esigenze di divertissement, estetica citazionista e critica sociale del Murphy più genuino. Autore prolifico e fedele a uno stile ormai noto, lo showrunner corre, forse, il rischio di non sorprendere più con il suo gusto postmoderno per il livellamento e la rilettura che fa dell’ambientazione di Camp Redwood un non-luogo estremamente capiente, dinamico e democratico dove possono coabitare, senza troppi sforzi di sospensione dell’incredulità, gli slasher di Scream Queens, Halloween e Venerdì 13, gli echi di Bava e Argento e, non ultimo, l’approccio metatestuale di Scream.

A partire da un’unità di luogo (il campo estivo scenario di massacri passati, presenti e futuri) e di logica narrativa (che nello slasher si nutre della tensione fra inseguitore e vittime), la trama di 1984 – come spesso accade nelle stagioni di AHS – si fa calderone di citazioni e ammiccamenti a clichéé visivi e tematici del cinema d’orrore, e di riscritture di vari segmenti narrativi più o meno legati al tema centrale, con l’intento, si direbbe quasi, di allargarne la struttura spesso piuttosto scheletrica (o meglio essenziale) per arricchirla di un contesto più ampio. Operazione probabilmente non necessaria ma che permette alla serie di dilungarsi a piacimento su alcuni tratti tipici del racconto: l’omicidio letto come la punizione divina per una trasgressione sessuale, sviluppato in un vero e proprio discorso sul fanatismo religioso legato al sistema educativo grazie alla figura di Margaret Booth, avvicinandosi così ad un certo filone più o meno recente del cinema queer (La diseducazione di Cameron Post, Gonne al bivio); la figura dell’assassino seriale, inserita in un discorso sulla psicopatologia criminale abbastanza in voga nella serialità recente (Mindhunter, Killing Eve, le due stagioni di American Crime Story dello stesso Murphy) così come nel cinema (La casa di Jack, C’era una volta a… Hollywood, per citare i più autoriali) e indirizzata verso alcuni dei percorsi tracciati dai sequel di Scream riguardo il fanatismo e il mimetismo sociale (si pensi alle sottotrame a tema mediatico che ruotano attorno a Mr. Jingles o al Night Stalker); la final girl sfaccettata e frammentata nei personaggi di Margaret Booth, prima, e nel binomio Brooke Thompson e Rita, poi, usata come occasione per discutere le diverse esperienze di elaborazione del trauma subito, fra il desiderio di tornare nei luoghi fisici o figurati del trauma per estinguerlo o sublimarlo e quello, contrario, di allontanarlo.

Tuttavia, gli elementi più interessanti restano sicuramente quelli metanarrativi che la serie dedica allo slasher stesso, alle sue tendenze ultracitazioniste e, per esteso, a una certa mania passatista del cinema di genere (e non solo), qui simbolizzata dall’ossessione per gli anni Ottanta (gli eighties nell’universo di American Horror Story). Con l’avanzare degli episodi, Camp Redwood si trasforma progressivamente in un purgatorio dal fascino disturbante e perturbante i cui ospiti rimangono intrappolati nel sogno etereo di vivere eternamente in un’epoca morta. Murphy non è sicuramente il primo ad aver notato come lo slasher stia, da tempo, facendo fatica a disfarsi di quella postura autoriflessiva e autoreferenziale consolidatasi dopo la parabola esplicitante della saga Scream – e ancor più dopo la dissezione chirurgica del genere operata da Quella casa nel bosco. 1984 suggerisce, allora, una via d’uscita dall’impasse a cui sembrava essere arrivato il genere, facendo compiere allo slasher stesso un discorso critico sul proprio passatismo, sulla sua ossessione per la ripetizione e la metatestualità, e sfruttando i codici propri dell’horror per dare dimensione estetica e sensibile a questa stessa ossessione così che la prospettiva di un’eterna ambientazione anni Ottanta assuma, ora, la forma di una circolarità spaventosa, angosciante e inadempiente.

Al di là dello stile e del gusto chiaramente postmoderni di American Horror Story, su cui spesso si ha la tendenza ad appiattire ogni sorta di considerazione riguardo il lavoro di Murphy, 1984 ci pone infatti davanti a una problematizzazione di questo meccanismo nostalgico che porta, forse allo svilupparsi di una sensibilità, perlomeno estetica, che sia nuova e capace di cogliere l’orrore insito al suo interno. I teenager intrappolati in un eterno campo estivo, o il falso lieto fine di Mr. Jingles ricongiunto alla madre e al fratellino morti, si accostano facilmente al motivo della casa delle bambole nello Sharp Objects di Jean-Marc Vallée, ai passaggi più orrorifici della seconda stagione di Killing Eve, alla casa dell’infanzia dell’horror dramma familiare Hill House, tutte narrazioni che fanno dei rimandi nostalgici al passato dei simboli spaventosi.

Il purgatorio di Murphy, seppur in costante dialogo con il “San Junipero” di Black Mirror (anche quest’ultimo, fra l’altro, ambientato durante gli anni ‘80) e con il recente filone dell’existential comedy (da The Good Place a Forever, perché questa nona stagione, forse più delle altre, è una comedy-horror) più che all’espediente narrativo che permette di giocare liberamente sulla variazione sul tema, sembra, allora, più interessato a farsi scenario di una sensibilità nuova che si sta sviluppando nei confronti di una ripetizione che somiglia sempre di più a una stagnazione e a una tortura, e verso una fascinazione per il passato sempre più artificiosa e claustrofobica

Etichette
Categoria
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

The Deuce - La via del porno

di Diego Del Pozzo
The Deuce - simon pelecanos hbo recensione serie tv

La spettrale versione di Blondie della traditional song di fine Ottocento The Sidewalks of New York, che fa da straziante commento musicale alla passeggiata in flash-forward, lungo la Deuce del maggio 2019, di un Vincent Martino invecchiato e appesantito dallo scorrere del tempo, funge da epilogo perfetto per quella magnifica tragedia in tre atti che è The Deuce – La via del porno (The Deuce, 2017-2019, HBO), con la quale David Simon e George Pelecanos tornano a raccontare da par loro l’inarrestabile dominio del Capitale sui corpi e sui luoghi della contemporaneità.

Prima dell’epilogo ambientato nel 2019, sorta di Spoon River del terzo millennio col personaggio interpretato da James Franco che ritrova uno dopo l’altro tutti coloro che il tempo gli ha portato via, le tre stagioni della serie coprono un arco temporale che inizia nel 1971, prosegue nel 1978 e culmina nel 1985 della splendida annata conclusiva. I due scrittori e showrunners utilizzano la lente interpretativa del sesso e della pornografia per costruire, attraverso questo quindicennio decisivo, un agghiacciante apologo sulle trasformazioni economico-urbanistiche e socio-culturali di una tra le aree urbane più fortemente simboliche dell’intera civiltà occidentale: la Deuce appunto, cioè quel tratto della 42esima strada nei pressi di Times Square, nel cuore di Manhattan, un autentico boulevard of broken dreams oggi affollatissimo luogo-chiave del neo-turismo di massa globalizzato dopo che, fino a metà anni Ottanta del Novecento, aveva invece definito la propria malfamata ma vitalissima identità intorno a una brulicante umanità fatta di prostitute e protettori, baristi e artisti, poliziotti più o meno corrotti e mafiosi non sempre di primo livello, punk e filosofi, sottoproletari alla ricerca di un sogno americano sfuggente per definizione.

La stagione inaugurale della serie porta lo spettatore direttamente in strada, sui marciapiedi della Deuce d’inizio anni Settanta dominata dai papponi afroamericani e piena di ragazze che, per sopravvivere o tentare una svolta, provano a lasciare i marciapiedi per avvicinarsi alla nascente e ancora artigianale industria del porno. Nel 1978 della seconda annata, invece, il cinema per adulti vive il suo boom, si trasforma in fenomeno economico e di costume e anche tra le ragazze della Deuce c’è chi diventa una star, come la fragile e tormentata Lori Madison interpretata dalla bravissima Emily Meade, oppure la ben più matura e sicura di sé Candy-Eileen (Maggie Gyllenhaal, forse al ruolo della vita), che da attrice scopre una vocazione per la regia sempre più totalizzante.

La stagione finale, quindi, si apre a Capodanno del 1985, con Vincent e la sua compagna, la volitiva Abby Parker di Margarita Levieva (terzo vertice del triangolo di protagoniste femminili Candy-Abby-Lori), ormai diventati punti di riferimento sempre più centrali per l’intera comunità della Deuce, sia nel loro storico bar, l’Hi-Hat, sia negli altri locali gestiti per conto della mafia, con la quale fa affari anche il gemello di Vincent, lo scapestrato e immaturo Frankie Martino, anch’egli interpretato da un virtuosistico James Franco, cimentatosi con buoni esiti anche alla regia in quattro episodi. Intorno a loro ruota una micro-comunità viva e credibile, che si muove coerentemente con quella che è la visione corale della serialità di David Simon, capace peraltro, anche in quest’occasione come già nelle opere passate (dall’epocale The Wire fino alla springsteeniana Show Me a Hero), d’immergersi con efficacia nei gangli delle istituzioni statunitensi per raccontarne dal di dentro il funzionamento e svelarne cinismo e ipocrisia, incarnati in The Deuce dal personaggio di Gene Goldman (l’ottimo Luke Kirby), il funzionario comunale che per conto del sindaco Ed Koch si occupa della riqualificazione della 42nd Street.

È la gentrificazione, bellezza! E tu non ci puoi far niente! Sì, perché The Deuce – soprattutto nella sua stagione conclusiva – dice la parola forse definitiva sul mondo (in questo caso, il cuore e l’anima di New York) trasformato in Mega-Disneyland globale e globalizzata, costi quel che costi, anche calpestando corpi umani sempre più ridotti a merce e marchiati a fuoco con le lettere sgargianti e terribili delle insegne pubblicitarie, capaci di annullare la poesia oscura della notte in un eterno giorno illuminato al neon; e, addirittura, giocando talmente sporco da utilizzare strumentalmente l’alibi della presunta emergenza sanitaria legata all’insorgere dell’Aids per riconvertire a metà anni Ottanta la Deuce e Times Square all’edilizia commerciale di lusso, con l’obiettivo di trasformarle in una sorta di parco divertimenti per turisti compulsivi.

La consueta raffinatezza della scrittura audiovisiva di Simon e Pelecanos (e di Richard Price, Megan Abbott, Lisa Lutz e dei tanti altri narratori di rango coinvolti nello story department; ma anche di registi dotati ed empatici come Alex Hall, Roxann Dawson, Michelle MacLaren, Tanya Hamilton, Susanna White) sa rendere indimenticabili i tanti personaggi che attraversano le tre stagioni della serie, soprattutto – va evidenziato – quelli femminili, ai quali spesso è affidato il punto di vista di un racconto che, come in poche altre occasioni nella serialità contemporanea, riesce a bilanciare tra loro l’approfondimento psicologico dei caratteri, l’intreccio tra micro-storie intime e quotidiane, l’evoluzione del macro-contesto storico-sociale e la contaminazione tra generi narrativi “forti” come il crime-noir, il melò, il dramma d’impegno civile e la ricostruzione d’epoca.
Al tempo stesso, come sempre nelle serie di Simon, The Deuce può essere letta come uno straordinario viaggio nella popular music a stelle e strisce, compiutamente inserita nei meccanismi della narrazione e utilizzata per accompagnare i personaggi e sottolineare i mutamenti del mondo nel quale essi agiscono. Così, fin dai titoli di testa, l’itinerario d’autore procede da Curtis Mayfield (prima stagione) a Elvis Costello (la seconda) fino all’inevitabile Blondie di Dreaming, opening song della terza stagione, amaramente collegata al requiem finale di The Sidewalks of New York non a caso reinterpretata per l’occasione proprio da Debbie Harry e, sui titoli di coda, alla sontuosa Assume the Position di Lafayette Gilchrist, costante sonora delle tre stagioni capace di rimandare direttamente a The Wire e di caricare, ancora una volta, l’America di Simon e Pelecanos di un mood inquietante e minaccioso.

Etichette
Categoria
David Simon George Pelecanos Maggie Gyllenhaal James Franco Gbenga Akinnagbe Margarita Levieva Emily Meade Lawrence Gilliard Jr. 3 stagioni e 25 episodi
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

I Trapped The Devil

di Mattia Caruso
I Trapped The Devil - recensione film lobo

Il Diavolo, certamente. O perlomeno questo racconta al fratello Matt (A.J. Bowen) l'instabile e problematico Steve (Scott Poythress) a proposito dell'identità del suo misterioso prigioniero, chiuso dietro una miriade di croci e lucchetti nello scantinato di casa.
Parte da un'intuizione semplicissima I Trapped The Devil, un'idea essenziale quanto risaputa cui l'esordiente Josh Lobo riesce però a dare una forma inedita, costruendovi tutt'attorno un piccolo horror dall'atmosfera e dai ritmi ben calibrati, che gioca con l'ambiguità e la paranoia e fa dell'esiguità di mezzi il suo principale punto di forza.

Perché se è vero che l'idea del Male imprigionato, magari nello scantinato di una vecchia casa di famiglia, non è certo cosa nuova nel nostro immaginario seriale e cinematografico, da Ai confini della realtà (l'episodio Ululati nella notte) fino a Castle Rock, passando per La Casa, è interessante come tale spunto venga declinato e plasmato da Lobo in un prodotto perfettamente in sintonia con il gusto di certo cinema horror indipendente contemporaneo. È così che un'intuizione a misura di serie antologica viene dilatata dal regista esponenzialmente, mettendo in scena, assieme a immancabili trovate espressive tipicamente indie, un senso di attesa e di inquietudine opprimenti e mantenendo fino all'ultimo un'ambiguità di fondo fondamentale per la riuscita dell'operazione.

In linea con la tendenza di prodotti simili, impegnati a suggerire l'orrore piuttosto che a mostrarlo, I Trapped The Devil si affida così quasi interamente alle sue atmosfere cupe (intervallate dalle immancabili luci di qualche addobbo natalizio), a interpreti in parte (su cui spicca l'ossessivo Steve di Poythress) e a quel senso di angoscia costruito inquadratura dopo inquadratura, capace di delineare, con pochi tratti e suggestioni, un male senza contorni ne confini.
E se la risoluzione finale arriva repentina e forse in modo troppo grossolano, togliendo in parte forza a quell'attesa costruita a regola d'arte nei minuti precedenti, resta innegabile la cura formale e il tocco di un regista capace di imbastire una vicenda di ossessione, senso di colpa e morte partendo da poco più di un pretesto, da poco più di un'immagine iconica e terribile impressa nel nostro immaginario, e da quella sottile ambiguità tra paranoia e orrore che da sempre sottende.

Categoria
Josh Lobo A. J. Bowen Scott Poythress Susan Burke Jocelin Donahue 82 minuti
USA 2019
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Le Mans '66 - La grande sfida

di Matteo Marescalco
Le Mans '66 - Recensione Film Mangold

A pensarci bene, la prima resa dei conti in Le Mans '66 – La grande sfida non poteva che avvenire durante una notte bagnata da una pioggia torrenziale e illuminata dalla sfrigolante elettricità di lampi e fulmini. Dentro la sua Ford GT40, Ken Miles si appresta a raggiungere la sua rivincita e a sognare un'altra vita, alla ricerca di quel momento in cui la macchina diventa senza peso e tutto svanisce.

Lo spettro di Michael Mann si aggira al di là delle soglie del visibile e lo sguardo del regista di Heat – La sfida e di Blackhat è condensato nelle opposte metodologie che caratterizzano i modi di agire di Enzo Ferrari e di Henry Ford II. Il primo è un artigiano che crede negli uomini e, di conseguenza, nell'umanizzazione delle macchine; per il secondo, invece, dev'essere l'umano a raggiungere il grado di perfezione e di infallibilità delle costruzioni macchiniche. Tra loro, si collocano Carroll Shelby e Ken Miles che, proprio per Ford, proveranno a dar vita ad un'auto (e ad uno sguardo) che riesca ad abbattere il controllo e le regole disumanizzanti dell'ingegneria meccanica, ponendo al centro del loro progetto la libertà della carne e del corpo umano.

Il cuore di quest'ultimo film di James Mangold consiste in uno spiccato interesse per il confronto umano, alla cui base c'è un costante rispecchiamento tra opposti. Da un lato, come già detto, Enzo Ferrari e, dall'altro, Henry Ford II. D'altronde, il film mette anche a confronto due icone del cinema quali Christian Bale e Matt Damon, il mago del trasformismo per eccellenza, in grado di dar vita a performance fisiche puntualmente diverse tra loro, e il ragazzo della porta accanto, sempre uguale a sé. Al di là del semplice gioco di corteggiamenti tra opposti, si ha la sensazione che il tessuto classico del film si strappi e riveli sé stesso come base di partenza per una struttura a cerchi concentrici in grado di riverberare influenze sempre più ampie. Nello scontro tra le due coppie di uomini, che incarnano diverse concezioni della vita, si riassume tutto l'universo e la forza mitopoietica di un cinema in grado di riflettere sulla propria leggendaria iconografia.

In Le Mans '66, infatti, la tradizione del decoupage classico e di una struttura narrativa in tre atti convive con la costruzione moderna di personaggi irrisolti, le cui traiettorie elettriche vitali sono continuamente minacciate da pericolosi virus. Dopo aver vinto la 24 Ore di Le Mans, Shelby è all'apice del successo ma il suo trionfo è immediatamente seguito da una notizia devastante: i medici comunicano all'intrepido texano che, a causa di una grave patologia cardiaca, non potrà mai più prendere parte a corse automobilistiche. Così, l'uomo dalle risorse illimitate si reinventa un lavoro come progettista e venditore di automobili in un magazzino di Venice Beach, insieme ad un team di ingegneri e meccanici di cui fa parte l'irascibile collaudatore Ken Miles, asso del volante ma brusco nei modi, arrogante e poco incline al compromesso. Lo scontro tra i due è tutto giocato sul confronto tra la fisicità dell'azione - di cui è depositario il corpo di Miles - e l'invasiva presenza delle parole, che, invece, sono l'asso nella manica di Shelby. Un percorso parallelo a quello compiuto da Ford e Ferrari e che si sviluppa lungo le stesse direttive: il primo assiste alle gare soltanto di rado, non parla con i piloti, si serve sempre della mediazione di una gerarchia esecutiva e rappresenta l'idea di un cinema che nega le peculiarità del singolo; il corpo del secondo, invece, non disdegna la fabbrica né tanto meno i circuiti automobilistici e incarna un atto di resistenza classica.

Con lo sviluppo del racconto, il film inizia a liberarsi dagli stretti legami delle parole e a lasciar parlare le semplici immagini. È il montaggio a farsi carico del compito di inseguire gli scattanti flussi lasciati dalle vetture, come fossero lampi elettrici troppo veloci per essere colti dall'occhio umano. Proprio in questo contesto di velocità impossibile da seguire, lo sguardo di Miles sopravvive più a lungo del solito su un ultimo tramonto, come a voler rivelare la consapevolezza della caducità dell'esistenza. Il prezzo da pagare per il raggiungimento della libertà è altissimo e la fuga è impossibile da agguantare. Ciò che resta, allora, è soltanto uno sguardo di lancinante sofferenza che relega i corpi romantici negli angoli più estremi e remoti, dissolvendoli nel fuori campo dell'altrove.

Categoria
James Mangold Christian Bale Matt Damon Jon Bernthal Caitriona Balfe Tracy Letts Remo Girone 152 minuti
USA 2019
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Innocenti Bugie

di Saverio Felici
Innocenti Bugie - recensione film Mangold

Nella seconda metà degli anni 2000, James Mangold è ormai avviato a ricollocare definitivamente il proprio ruolo professionale all'interno dell'industria. L'ex giovane autore dei circuiti Sundance, regista di Cop Land e Dolly's Restaurant, è oggi un implacabile regista su commissione, orgogliosamente al servizio di major e star, amministratore diligente di budget che, a inizio carriera, gli sarebbero probabilmente bastati per girare quindici film. L'ultimo Quel Treno Per Yuma, progetto personale cullato per almeno un decennio, non è andato bene; il western del 2007 rappresenta a oggi forse l'ultimo lavoro pienamente autoriale per il regista, chiamato da allora a “scontare il debito” mettendo il proprio talento con gli attori a disposizione dei grandi studios. Il successivo Innocenti bugie è dunque il classico spec-script da vecchia Hollywood; quel tipo di sceneggiature “acquistate” a scatola chiusa dalle major presso autori freelance, e messe da parte a maturare in attesa che si palesi il cast artistico opportuno per entrare in produzione. Il copione originale è da tempo a prendere polvere sulle scrivanie Sony, e dopo anni di development hell e decine di riscritture, firme, adattamenti e correzioni, trova finalmente in Mangold il regista designato. Con l'arruolamento di Tom Cruise (la presenza del quale è sufficiente a trasformare una produzione a budget medio in potenziale blockbuster estivo), Knight and Day assume la sua forma definitiva: da rom-com per signore, a kolossal d'azione per un pubblico trasversale e distribuzione imponente.

Come Mangold, Cruise è un altro grande nome bloccato in una sorta di guado di metà carriera. Nei quattro anni precedenti le sue uniche uscite si sono rivelate il pesantissimo flop di Leoni per agnelli, e l'altrettanto sottostimato Operazione Valchiria di Singer. Crisi d'identità a parte, Cruise è ancora un nome in grado di spostare milioni; l'intento del progetto Innocenti bugie è quello di riportarlo alle origini, quando era il fidanzatino action d'America, prima di Scientology e dei divorzi. Il puzzle si completa dunque con Cameron Diaz, e il film parte con il folle budget di 125 milioni di dollari e un deciso cambio di rotta in direzione Mission Impossible in rosa. I precedenti illustri si sprecano: da True Lies a Guardia del corpo, da All'inseguimento della pietra verde fino a mezza filmografia di Harrison Ford. Praticamente, è un tipo di film che si gira da sé.

Giocare con l'immagine pubblica del proprio attore in relazione al protagonista interpretato è sempre stato il trucco scoperto nel cinema di Mangold. Con Innocenti bugie, il regista si trova per le mani una potenziale bomba inesplosa: la più grande star del pianeta, al minimo storico di gradimento e stabilità mentale. Il film del 2010 affronta a viso aperto questo non detto: il suo eroe è dunque una sorta di versione inquietante di Ethan Hunt - schizzato, mezzo psicolabile, ben poco rassicurante. Pressoché la maniera in cui era visto Cruise stesso, nel periodo della disgraziata ospitata tossica da Oprah Winfrey, dei deliri misticheggianti, delle feroci parodie di South Park e Scary Movie vari. Seppur raccontata attraverso gli occhi di June/Diaz, la storia della ragazza della porta accanto precipitata al centro di un intrigo internazionale da un agente rogue mezzo pazzo viene declinata allora secondo le maschilissime dinamiche del maschilissimo cinema di Mangold. Knight and Day è tutto, al cento per cento un film di Tom Cruise. Brilla finché c'è lui a cannibalizzarlo (la prima parte), e cala come ne diminuiscono le scene (il debole terzo atto).

Rispetto agli importanti modelli produttivi citati, Innocenti bugie soffre giusto uno script visibilmente riscritto all'infinito, prevedibile in ogni svolta e battuta, sospeso tra mille spunti senza nessuna direzione particolare (a fine film non si è capito molto dei personaggi, delle loro interazioni né del loro percorso personale). E pur non brillando neanche nell'azione su larga scala (mai stato il pane di Mangold), nel complesso vince comunque. La meccanica “pazzo scocciato + ragazza acqua e sapone” è indovinata, e la chimica tra i due protagonisti fa il resto. Tom è una bomba, Diaz regge il suo ruolo tipico con l'aria di divertirsi il giusto, Mangold scompare tra le righe: tiene il volante della screwball comedy con esplosioni, e conduce la nave in porto a occhi chiusi.
Il film con il budget più alto e probabilmente meno personale nella carriera del regista segnerà dunque un lieto fine per tutti i partecipanti in gioco. Lanciato in pieno periodo estivo, Knight and Day è un trionfo: Cruise sarà riabilitato, e riprenderà in mano con successo l'amatissima saga di Mission Impossibie; Diaz infilerà una piccola sequenza di ruoli e successi clamorosi, fino all'altrettanto clamoroso ritiro del 2014. James Mangold erediterà il franchise di Wolverine, più nelle sue corde, destinato a rappresentarne lo spartiacque decisivo nell'ultima fase di carriera.

Categoria
James Mangold Tom Cruise Cameron Diaz Viola Davis Paul Dano Peter Sarsgaard 110 minuti
USA 2010
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

I giorni e le opere

di Arianna Pagliara
I giorni e le opere, Francesco Dongiovanni

Il padre stesso degli dei

volle che non fosse facile la via della coltivazione, e per primo mosse

con arte i campi, aguzzando la mente degli uomini con le preoccupazioni

e non permise che il suo regno giacesse in un pesante torpore.

 

Allora si affermarono il ferro rigido e la lama della stridula sega

E sorsero le varie Arti. La dura fatica

e il bisogno assillante delle difficoltà vinsero ogni cosa.

(Virgilio – Georgiche)

 

Tra le parole di Virgilio in apertura, che suonano quasi come un monito, e il riferimento al poema di Esiodo suggerito dal titolo, in questo spazio chiaramente definito non tanto in senso argomentativo quanto per una determinata prospettiva di sguardo, sta la vita di Peppino Maiullari, stanno i suoi (lunghi) giorni e le sue (tante) opere: nella campagna tra Altamura e Matera, paesaggio ampio e brullo di cui l’ultimo film di Francesco Dongiovanni restituisce la quiete, i colori e i suoni assieme allo spirito profondo.

Una stalla scalcinata, qualche ulivo, un muretto di pietre bianche costruito a secco, e quel silenzio dolce e confortante della campagna fatto di tanti piccoli rumori, vicini e lontani: un cane che abbia fuori campo (a chi, a cosa?), il muggito di una mucca, lo stridere di un cancello di ferro che si chiude. Peppino, che per tutto il film non dirà una parola e non guarderà mai in macchina, quasi a negare la presenza dell’occhio registico che capta ogni suo movimento, è sempre, perennemente, all’opera: il suo tempo è quello dei suoi animali (mucche, pecore, asini, cavalli, maiali), appartiene, in un certo senso, a loro.

Campi lunghi, fissi come quadri, come se la macchina da presa sostasse in ascolto di un qualche respiro segreto della terra. Un cane riposa all’ombra di un trattore, un cavallo mastica il suo fieno senza fretta, Peppino trascina la carriola sul terreno pietroso e le nuvole si addensano nel cielo.

I giorni e le opere è probabilmente il lavoro più minimalista e asciutto del regista pugliese, registrazione nuda e cruda di uno stato di cose che esistono, potremmo dire, quasi al confine tra una dimensione e un'altra, un prima e un dopo; la vita solitaria (ma la solitudine non è isolamento) di Peppino è una resistenza del passato nel presente, spartana, dignitosa, composta, in un certo senso incorrotta, non rispetto a una ipotetica modernità da rigettare, ma piuttosto rispetto a una certa etica del lavoro che si traduce, infine, in un approccio peculiare del sentire, del pensare, del vivere. E il ritmo della sua quotidianità, apparentemente placido ma di fatto rigoroso, coincide con quello del racconto, con lo sguardo di Dongiovanni sulla materia filmica, qui assolutamente coerente con i suoi precedenti documentari: l’esordio Densamente spopolata è la felicità (2011), forse il più affine, come orizzonte, a I giorni e le opere; ma anche Elegie dall’inizio del mondo – uomini e alberi, dal taglio quasi etnografico, Giano (2014) e Anapeson (2015) riflessioni evocative e nostalgiche che fanno dialogare misteriosamente luoghi e memorie, tempo e spazio.

Guardare un film come questo, che in nome di una purezza estetica e linguistica rifiuta ogni possibile compromesso, significa rieducare lo sguardo attraverso il tempo, laddove i movimenti di macchina impongono soste che implicano alla visione di scendere in profondità, per raccogliere i dettagli, per ripensare non solo il senso delle immagini ma quello dell’atto stesso del guardare. Se tutto questo fosse un mero esercizio stilistico – e non lo è, perché la bellezza di quello che vediamo è sempre così realisticamente sporca, dimessa, imperfetta – il discorso esaurirebbe il suo senso sul piano, pure importantissimo, della ricerca formale; ma la presenza viva del protagonista ricongiunge, mirabilmente, il piano astratto con quello concreto, per ribadire che il sentire è il vivere.

Categoria
Francesco Dongiovanni 72 minuti
Italia, 2019
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

1992, 1993, 1994 – Incontro con gli autori

di Rosario Gallone
Sky 1994 serie tv

Saremmo disonesti se non riconoscessimo che la serialità italiana ha cominciato ad adeguarsi a standard internazionali nel momento in cui Sky ha deciso di investire nel genere. Da Romanzo criminale a Gomorra passando per Il miracolo, la rete satellitare ha indicato una via per percorrere la quale anche le reti generaliste hanno dovuto invertire la rotta (si pensi a Non uccidere, che con la trilogia formata da 1992, 1993 e 1994 condivide il regista Giuseppe Gagliardi, o a Rocco Schiavone e La mafia uccide solo d’estate). In questo panorama, 1992 nel 2015 si affacciò sugli schermi piuttosto in sordina (ponendosi sulla scia del clamore suscitato dal Gomorra di Sollima), rimbalzando nei social più per lo sbeffeggiante hashtag #daunideadistefanoaccorsi che per le sue qualità narrative. Che già c’erano, confermate nella seconda stagione ed esplose in una terza di grande eco mediatica e critica. Gli autori di questo exploit sono Alessandro Fabbri, Ludovica Rampoldi e Stefano Sardo che lavorano in perfetta armonia da La doppia ora di Giuseppe Capotondi (e oltre a 1992/1994 hanno scritto Il ragazzo invisibile e Il ragazzo invisibile – Seconda generazione di Gabriele Salvatores). Abbiamo intervistato Stefano Sardo (sarà indicato con le iniziali St. S., perché S.S. non fa un grande effetto) e Alessandro Fabbri (A.F.).

Dalla prima alla terza stagione, il destino di questa serie sembra aver seguito quello del credit “da un’idea di Stefano Accorsi”, da meme hashtag ironico che accompagnava 1992 alla considerazione “ah però questo Stefano Accorsi” di 1994. Avete avuto anche voi questa sensazione? E come siete stati coinvolti nel progetto? Vi ha contattati Stefano Accorsi dopo aver avuto l’idea?

St.S. – La sensazione è che la gente abbia avuto bisogno di tempo per capire il valore di questa operazione. 1992 era troppo ambiziosamente fuori dagli schemi per il panorama tv nazionale e ha diviso, prevedibilmente, ma poi il pubblico ha familiarizzato con la formula e in 1994 sono arrivati grandi elogi. Accorsi andò da Wildside nel 2011 dicendo che bisognava raccontare il ventennio 1990-2000 dalla parte di chi aveva vinto, “la peggio gioventù”. Era un’idea ancora piuttosto astratta, un’intenzione editoriale. Quando lui e Lorenzo Mieli, il produttore, ci chiesero di provare a svilupparla noi inventammo tutti i personaggi e soprattutto decidemmo di focalizzarci su un passo da serie invece che da mini-serie, come implicitamente suggeriva l’intenzione di Stefano. Decidemmo di dedicare ogni stagione a un anno solamente, invece che farne una sul ventennio. Insomma, senza nulla togliere alla spinta di Stefano, l’invenzione creativa è stata sulle nostre spalle. Lui è stato una sponda ideale nel processo ma dopo tutto il lavoro fatto devo ammettere che tutta quell’enfasi sul “da un’idea di” qualche volta ci ha fatto un po’ arricciare il naso.
A.F – Vero quello che dici: sebbene i risultati siano stati buoni fin da 1992 in termini di ascolti e di diffusione all’estero – la serie è stata venduta in circa 100 Paesi fin dalla prima stagione – anche noi abbiamo sentito che la percezione del pubblico e della critica (italiana, tengo a sottolineare) è cambiata anno dopo anno, arrivando a un più alto apprezzamento nella terza e ultima stagione. Credo che i motivi siano due: da una parte il pubblico ha “digerito” il concept, il nostro raccontare la storia d’Italia in un modo mai sperimentato prima; dall’altra, in 1994 abbiamo osato di più in termini di stile e struttura e questa scelta è stata premiata. È stato un bel finale per un viaggio iniziato nel 2011, quando ad Accorsi venne l’idea di raccontare gli ultimi vent’anni di storia del nostro Paese dal punto di vista dei vincenti, di chi aveva dominato l’Italia, ovvero il Centro-Destra. Si trattava di un’intenzione editoriale molto eccitante che Stefano ci propose insieme a Lorenzo Mieli, il produttore. A quel punto la palla passò a noi. E ci venne l’idea-chiave: non raccontare un intero ventennio, ma comprimere il tempo in un racconto anno per anno, nel triennio di rivoluzione che segnò il passaggio da Prima a Seconda Repubblica. Il sogno era riuscire a scrivere l’intera trilogia e se ci siamo riusciti è anche grazie alla fiducia che Wildside e Sky ci hanno dato.

La libertà creativa che traspare da 1994 rappresenta una novità sia rispetto al panorama della fiction italiana, sia alle precedenti due stagioni più vincolate alle vicende dei personaggi, con la Storia a fare da sfondo. In 1994, invece, la Storia si riprende il posto che le spetta e i personaggi diventano pedine. L’approccio alla materia è stato diverso dalla prima all’ultima stagione?

A.F. – L’approccio alla materia è stato lo stesso, inizialmente: solo che, in corso d’opera, abbiamo messo un altro vestito addosso allo stesso corpo, per così dire (e si tratta di un vestito parecchio diverso). C’era il desiderio comune, condiviso da noi, dalla produzione e dal network, di alzare l’asticella, rinnovando la forma del racconto per sorprendere il pubblico e continuare a divertirci senza adagiarci su schemi già rodati. Ci abbiamo provato e 1994 è il risultato. Ma in quest’ultima stagione non mi sembra che i personaggi diventino pedine, anzi sono ancora di più al centro del racconto rispetto a prima, la formula a “episodi verticali” ci ha permesso di andare più a fondo nell’esplorazione della loro psicologia e del loro destino. Forse gli eventi storici risaltano di più perché questa formula li valorizza maggiormente, così come i personaggi.
St.S. – Non sono d’accordo che la Storia sia stata rimessa davanti ai personaggi. Anzi la formula a mono-personaggio di 1994 ci ha permesso forse di raccontare più a fondo i nostri eroi di finzione, approfondendo le loro storie in episodi dedicati. Questa volta abbiamo scelto pochi momenti per raccontare un anno cruciale, ricchissimo di fatti importanti, e questo ha dato risalto ai singoli momenti scelti, è vero, ma sempre attraverso il punto di vista dei nostri personaggi. Forse ci ha avvantaggiato il fatto che senza Bibi e Pastore si è ridotto col tempo il parco personaggi. Sulla libertà è stata decisiva la spinta dell’editoriale di Sky e di Wildside, sono stati loro i primi a dirci di osare qualcosa di nuovo.

In generale l’Italia ha sempre fatto fatica a fare i conti con la propria Storia, nella finzione come nella realtà. Voi, con la chiusura/cesura di 1994, avete avuto il coraggio di rivelare che la Storia attuale è figlia di quella di 25 anni fa, giusto?

St.S. Nel Paese più vecchio del mondo c’è un senso di immobilità inesorabile, in cui passato e presente a volte si confondono. Ci ha sorpreso a volte, mentre scrivevamo, vedere come la Storia si ripresentasse identica, trasformata in farsa, magari. A volte l’intenzione di citare il presente in filigrana era voluta, a volte l’effetto si è creato da sé, involontariamente. Quello che possiamo dire è che ci siamo presi delle libertà, nel trattare la Storia romanzandola, molto inusuali per le consuetudini del nostro audiovisivo.
A.F. – Credo che i semi del presente siano sempre nel passato. E questo, a livello di politica, è più vero che mai in Italia. L’Italia non fa i conti col passato: forse perché ne ha troppo alle spalle, un boccone talmente denso e pesante che ha rinunciato a digerirlo. Si tratta di uno dei temi entrati naturalmente nella serie, perché nasce dalla realtà delle cose. La storia continua a riproporsi, le risonanze tra l’oggi e quello che è accaduto 25 anni fa sono indubitabili. In questo, come narratori, l’Italia ci ha aiutato (come cittadini è un altro discorso…): immaginando la storia, abbiamo sempre sentito di toccare materia ancora viva e attuale.

L’apporto di tre nomi importanti del giornalismo, Aldo Cazzullo, Marco Damilano e Filippo Facci, è stato sicuramente importante. Come funzionava il rapporto con loro? Li consultavate a sceneggiatura completata o prima?

A.F. – Con loro, a dire il vero, non ci sono stati numerosi incontri, ma il loro apporto è stato prezioso per inquadrare alcuni eventi e illuminare momenti storici a livello di politica e di cronaca giudiziaria, soprattutto quando stavamo ideando la storia cercando, come sempre, di far collimare linee personali dei personaggi con fatti storici: la fase del soggetto di serie.
St.S. – Facci l’abbiamo incontrato una volta per 1993 ed è stato utile, per 1994 devo ammettere non l’abbiamo mai veramente sentito. Cazzullo non l’abbiamo mai incontrato, ricordo che ci mandò una mail di commenti. Marco Damilano è stato quello più partecipe, ma in tutta onestà parlando in generale si può dire che sono stati poco presenti tutti e tre, e dicendolo non credo che nessuno di loro sentirebbe sminuito il suo apporto. Erano dei numi tutelari, dei depositari del racconto dei fatti che potevamo consultare, un’opportunità a cui ricorrere. Se non l’abbiamo fatto di più forse è perché ormai conoscevamo la materia molto a fondo.

Le ispirazioni sono alte: dal walk&talk di matrice sorkiniana del primo episodio all’ormai celebre quinto episodio, un vero e proprio film a parte, l’equivalente dell’episodio musical ricorrente nella serialità americana. Prima che autori sarete spettatori, fan. Quali sono le vostre serie preferite, del passato e del presente?

St.S. – Io parlo per me. Fra le serie USA che mi hanno appassionato di più metto Mad Men numero uno, poi Breaking Bad, The Shield, Lost. Tra le recenti mi piacciono Euphoria, Billions, Halt & Catch Fire, Bojack Horseman e Fleabag.
A.F. – Le serie del passato più o meno recente che resteranno sempre nel mio cuore sono Mad Men, Breaking Bad, Boss (misconosciuta, ingiustamente!), The Shield, Twin Peaks: al di là del genere in cui si collocano e della quantità d’ispirazione che mi hanno dato, queste gemme dimostrano quanto coraggiose, innovative ed esaltanti possano essere le narrazioni seriali; diciamo che mi hanno convinto che, se vuoi essere un narratore oggi e vuoi raggiungere un vasto pubblico, le serie sono la forma principale con cui misurarsi. Tra le più recenti, sono impazzito per Mindhunter. E poi Succession. E The Crown.

Una curiosità: in nessuna stagione compare Gianfranco Fini e/o Alleanza Nazionale. È stata una scelta narrativa dettata da ragioni legali o un sofisticato escamotage per sancirne, a conti fatti, l’irrilevanza storica?

A.F. – No, nessun escamotage, abbiamo sentito fin dall’inizio che i personaggi che volevamo raccontare erano legati ai mondi di Forza Italia e della Lega, e siamo andati avanti così. Non c’è mai stato un motore di giudizio politico a innescare le nostre scelte.
St.S. – Quando scegli quale storia raccontare fai una scelta precisa, arbitraria e autoriale. La nostra scelta ci ha portato a non avere lo spazio per raccontare gli ex fascisti, ma non perché irrilevanti. Anzi, erano un territorio di racconto umano e politico molto interessante. Solo che avevamo ormai un’altra direzione e siamo rimasti fedeli a quella.

Come lavorate in gruppo? C’è un headwriter tra voi o un totale equilibrio nei ruoli?

St.S. – Totale equilibrio. Discutiamo tantissimo, poi ci dividiamo a scrivere, poi ci ritroviamo insieme a rileggere e correggere. Per questa stagione ci siamo divisi i personaggi e le puntate, pur firmando tutti assieme come nelle altre. Ma non ti dirò chi ha scritto cosa.
A.F. – Confermo. La fase centrale del lavoro è proprio quando siamo fisicamente insieme nella stessa stanza: tutto nasce dal nostro parlare insieme. Per settimane, mesi. Poi ci dividiamo i compiti di scrittura. E rileggiamo di nuovo tutti insieme.

E il rapporto coi registi? Siete stati chiamati a intervenire anche nel corso delle riprese?

A.F. – Sì, siamo stati sul set fin dalla prima stagione, in veste di produttori creativi oltre che di sceneggiatori. E sul set il nostro lavoro è andato in connubio con quello dei registi: Giuseppe Gagliardi che ha fatto un lavoro di grande personalità, secondo me, fin dalla prima stagione, determinando con intuito e precisione la “bibbia visiva” della serie; Gianluca Jodice che ha fatto la seconda regia in 1992, mettendo in scena molto bene pezzi di racconto importanti; e la new entry di 1994, Claudio Noce, che ha arricchito la serie col suo stile, in quest’ultima annata dove rinnovare e variare erano, come detto, i primi diktat artistici. Il nostro ruolo, sul set, era tutelare il senso del racconto e la coerenza dello sviluppo dei personaggi, in un confronto diretto e continuo sia coi registi che con gli attori, con cui, spesso, si è lavorato fino all’ultimo minuto sulla scrittura di scena. E’ stato intenso e meraviglioso perché c’era sempre la sensazione che tutti ce la stessero mettendo tutta. E perché, live, tre mestieri diversi ma necessari l’uno all’altro convivevano e si contaminavano a vicenda.
St.S. – Giuseppe, avendo fatto tutte e tre le stagioni, è quello che ci conosce meglio, con lui abbiamo un metodo di lavoro molto fluido e rispettoso. Coi tempi di ripresa serratissimi della tv, gli autori sul set servono a controllare che il racconto non perda dei pezzi importanti, e che i personaggi vivano al di fuori della pagina scritta. Per questo abbiamo sviluppato un dialogo importante con tutti i nostri meravigliosi attori.

Le scelte musicali sofisticatissime, a parte quelle diegetiche, appartengono a voi (visto che uno di voi è anche un noto musicista: Stefano Sardo, leader dei Mambassa n.d.r.) o sono dei registi Giuseppe Gagliardi e Claudio Noce?

St.S. – La maggior parte delle canzoni erano in sceneggiatura. In effetti forse conta il fatto che ero un musicista ma anche che essendo il più vecchio dei tre ero un compratore di dischi assiduo in quegli anni là: per questo ho fatto un po’ da consulente musicale non accreditato della serie. Preparavo una playlist spotify per ogni stagione, buttando dentro tutti i pezzi più belli dell’anno, poi man mano che scrivevamo andavamo a scegliere il brano giusto per ogni sequenza importante da quelle playlist. Ogni tanto Ludo suggeriva un pezzo, altre idee sono arrivate da Giogiò Franchini (Sunrise di Lanegan è un’idea sua) o da Claudio Noce, per le loro puntate. Giuseppe Gagliardi mi ha convinto a fare l’unica eccezione alla regola ferrea della serie (solo canzoni uscite nell’anno del titolo): in 1994 c’è The Universal dei Blur che è del ’95, ma stava troppo bene in quella scena. Ci sono anche rimpianti: canzoni che abbiamo a lungo inseguito senza successo, tipo quelle degli Oasis.

E ora l’equivalente per un’intervista di un finale telefonato: a cosa state lavorando?

A.F. – Noi tre abbiamo un progetto comune che dovremmo iniziare a sviluppare presto, un thriller intitolato Nemesi pieno di colpi di scena che ci piace moltissimo, prodotto da Indigo. Poi ognuno di noi ha i suoi bei progetti solisti. Io ho creato un’altra serie, un legal intitolato Il Processo diretto da Stefano Lodovichi, con Vittoria Puccini e Francesco Scianna, che sta per andare in onda su Mediaset. Sono al lavoro una serie per Sky tratta da un romanzo di grande successo (non posso ancora dire quale:) e sto per iniziare lo sviluppo di una serie internazionale per Amazon.
St.S. – Io da tempo sto lavorando a una serie period-horror italo-tedesca, che si chiama WOLFSBURG, un progetto a cui tengo tantissimo.

Etichette
Categoria
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima
Iscriviti a