L'apprendistato

di Giorgio Sedona
L'apprendistato di Davide Maldi

Seconda parte della trilogia sulla formazione, L’apprendistato di Davide Maldi, è una docufiction dal sapore verghiano. Facendo proprio il processo di definizione del reale, costruito insieme alla realtà documentaria proposta, il lungometraggio accompagna Luca e i suoi compagni nell’arco del primo anno scolastico presso un rinomato istituto alberghiero di Domodossola. E’ ben evidente l’intento di riproposizione del rito di passaggio, il protagonista è in transito da una realtà contadina, dove vige la regola della libertà incondizionata - definita in immagini quali la caccia istintuale e ferina in ambientazione naturalistica - alle regole ferree del collegio risonanti tra le mura dell’istituto, dove imparare l’arte del servizio verso il cliente è anche un portale di accesso alla vita adulta e ai suoi necessari compromessi. Spesso nel film viene richiamata alla disciplina un’istintività cinetica anarchica, caratteristica di un’indole indocile da (co)stringere dentro a una livrea.

L’apprendistato di Luca è l’apprendistato di Maldi, è la stessa volontà di porsi in ascolto di una realtà vissuta in prima persona, internamente al processo e al contesto rappresentato, come spettatore consapevole e partecipante di una crescita, individuale e sociale, da un lato, e come parte attiva di una realtà da dirigere plasticamente dall’altro. Scelta questa che avvicina nelle intenzioni il cinema di Maldi al lavorìo sul (e nel) reale di Minervini. Come la migliore tradizione narrativa verista anche la narrazione di Maldi procede tramite una struttura antifrastica. Le due scene, una in apertura e una in chiusura, che segmentano la messa in scena del collegio - la prima mentre vediamo Luca che inizia a scalare una simbolica salita prima di fare il suo primo ingresso nel collegio, la seconda nell’uso del funzionalissimo sguardo in macchina finale - sospendono il racconto e plasmando il significato ultimo. Non sappiamo, quindi, se l’iniziazione di Luca viene completata, se egli è piegato dalle regole della livrea, o se quest’ultimo, in quel suo ultimo sguardo, schermi il contesto lavorativo tramite una consapevolezza di facciata che nasconde il vero senso anticonformista in lui mai assoggettato, spirito costituente di un’attitudine anarchica. Due parentesi che includono una narrazione definita da tempi didattici ben scanditi, dove ogni passo è un avvicinamento alla consapevolezza dell’età adulta. Tra il lavoro di sala, il lavoro di cucina, lo studio delle lingue e alcune uscite nelle navi da crociera, il gruppo di studenti del primo anno si trova di fronte alla dura gavetta, in un ambiente dove si inizia dal basso, dal pavimento, dalla pulizia del corpo e dell’ambiente. I momenti di fuga per Luca dall’occlusione del collegio sono brevi parentesi notturne, trascinamenti nell’immersione in un mondo fatto di ombre, di figure rapaci imbalsamate come la sua indole indocile, in un chiaroscuro ribelle nel mondo delle regole che dorme. Momenti in cui si fuoriesce dalla regola del rito di passaggio, dall’iniziazione, e ci si lascia trasportare dalla curiosità, dal gioco, da quella spinta infantile e caratteriale che nello sguardo in macchina finale viene assimilato o frainteso.

Iniziata con Frastuono la trilogia dell’iniziazione si aggiunge di un nuovo tassello, definito sull’omologazione societaria dell’individuo adulto rispetto all’energia attitudinale del carattere ribelle. L'apprednistato sa rivolgere allo spettatore molte domande, lasciando spazi aperti all'interpretazione spettatoriale.

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Davide Maldi Luca Tufano Mario Burlone Lorenzo Campani Enrico Colombini Cristian Dellamora 84 minuti
Italia, 2020
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Depraved

di Pietro Lafiandra
Depraved - recensione film frankeinstein fessenden

Come si può, nel 2020 (o meglio, nel 2019, anno di distribuzione del Depraved di Larry Fessenden) rivisitare Frankenstein senza adagiarsi sull’oleografia dei vari Whale, Branagh, Corman, o senza parodiare le versioni pulp di Warhol e Morrissey/Margheriti (Il mostro è in tavola… barone Frankenstein), i cross-over di Franco (Dracula contro Frankenstein), i già ironici film di Mel Brooks (Frankenstein Junior) e Barton (Il cervello di Frankenstein), lo sperimentalismo barocco di Ken Russel (Gothic)? Come si può, soprattutto, dopo che i tentativi più recenti di riproporre l’universo narrativo nato dalla mano di Mary Shelley — da I, Frankenstein a Victor — avevano esplicitato le difficoltà di trattamento di un intreccio ormai radicato nella cultura popolare e saturo di rivisitazioni post-moderne, alcune delle quali già avevano ampiamente destrutturato e rielaborato non solo il materiale originale ma la stessa sensazione di déjà-vu derivatane?

Spostando il fuoco dal contenuto alla forma, ma soprattutto mettendo in discussione l’ontologia del suo stesso lavoro di regista, Fessenden non agisce tanto sulla risposta a queste domande quanto sulla domanda stessa, una domanda che, sintetizzata, suona più o meno così: cosa vuol dire fare un film sul mostro di Frankenstein oggi? Sarebbe a dire: cosa vuol dire essere uccisi e riportati in vita, squartati e ricuciti, fatti a pezzi e ri-assemblati dopo l’avvento dei media digitali? E ancora: non è, forse, che il ruolo del regista sia giunto a collimare in tutto e per tutto con quello chirurgico del dottor. Frankenstein, nel tentativo di riportare (e di mantenere) in vita un corpo (quello filmico) che sembra essere morto (con riferimento all’idea novecentesca di cinema come apparato composto da sala-pubblico-proiettore-schermo) attraverso un patchwork di componenti differenti, un lavoro di taglia e cuci?

Nel film vediamo Adam — l’uomo nuovo e al contempo il Primo uomo — che, ribattezzato dopo essere stato ucciso e successivamente resuscitato da un chirurgo, più volte si vede costretto a contemplare i brandelli della sua nuova identità all’interno di un realtà che, dopo averlo riaccolto tra i vivi, è subito pronta a farlo nuovamente a pezzetti, a frammentarlo, a macellarlo, obbligandolo alla contemplazione narcisistica del suo volto e del suo corpo — vivo o morto che sia — attraverso gli smart-phone, gli schermi, condannandolo così a un limbo di matrioske, di immagini dentro immagini che lo privano di una precisa identità, di un preciso posto nel mondo.
Non è un caso che la nascita forzata di Adam (il verbo fatto carne, il verbo fatto immagine) derivi dalla necessità di colmare un’immagine mancante e inconcepibile, il trauma della morte testimoniata in terza persona da Henry, il moderno dottor. Frankenstein che, reduce della seconda guerra del Golfo, soffre di disturbo da stress post-traumatico e, per curarsi, vuole contrapporre alla non-immagine della morte a cui ha fatto da spettatore l’immagine della vita di cui è stato regista, la nascita di Adam.

Adam non è però solo il protagonista del film, ma è anche il film stesso, un film-Frankenstein che introietta la pluralità di forme che hanno obbligato il cinema a disperdersi per poi ricucirsi in una forma nuova, una forma mostro, per alcuni. All’interno di Depraved convergono infatti, oltre ai precedenti film su Frankenstein e la sua creatura (come nel secondo adattamento di Whale, Adam si mostra desideroso di avere una compagna), anche differenti forme d’immagine, dalle elaborazioni grafiche, forme digitali astratte vicine al cinema sinestetico/cibernetico di Jordan Belson o John Whitney, utili per rappresentare lo stato allucinatorio e l’elaborazione delle informazioni del nuovo cervello di Adam, al materiale d’archivio, le riprese dalle telecamere di sorveglianza che custodiscono la memoria traumatica che sveglia la rabbia del mostro e conduce all’inevitabile finale truculento in cui Adam si ribella al suo stesso creatore, chiudendo un cerchio che lascia lo spettatore con un’ultima domanda: chi è il depravato? Forse, esattamente come accade nel finale del film, il creatore di immagini che le mette al mondo e le lascia vagare per la foresta senza alcuna risposta.

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Larry Fessenden David Call Joshua Leonard Alex Breaux Ana Kayne 114 minuti
USA 2019
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Diamanti grezzi

di Andreina Di Sanzo
Diamanti grezzi - recensione

Introdursi in un film grazie a una colonscopia fa già intuire la stoffa di Josh e Ben Safdie, i fratelli del nuovissimo cinema americano “indipendente” prodotti per questo film da Martin Scorsese e pupilli della casa di produzione del momento, la A24. Al loro terzo lungometraggio, i Safdie Brothers arrivano con una bomba a orologeria, Diamanti grezzi, una corsa turbinosa senza meta in un sottomondo metropolitano vizioso, sporco, avaro. Adam Sandler è Howard Ratner, un gioielliere dipendente dalle scommesse e dal fallimento, innamorato dell’utopia di un lusso scintillante che, in possesso di un opale nero illegalmente importato dall’Etiopia, comincia la sua delirante corsa verso il baratro.

Con Uncut Gems (come vuole il titolo originale) la coppia di registi conferma un cinema frenetico, una ricerca affannosa, che scorre davanti agli occhi dello spettatore e sprofonda nei cunicoli di una roccia o nelle interiora del protagonista, fino al lisergico viaggio di un buco nel cervello. Sandler in stato di grazia, forse mai come qui, impersona l’appesantito gioielliere ebreo che usa lo slang metropolitano, reiterati "fock!" e "waddafock!"  e corre, corre, come un dopplegänger del Connie di Good Time. Ma Ratner non è un salvatore, è votato solo alla propria sconfitta e a distruggere tutto quello che gli è intorno (famiglia, figli, amante), fa sempre la scelta sbagliata perché vuole continuare a scommettere e perdere e rifarlo ancora. Attanagliato dai creditori, diviso tra la famiglia e il desiderio per un’altra donna, Ratner insegue il suo opale nero, in prestito prima al giocatore di basket Kevin Garnett (quello vero!), poi di nuovo tra le sue mani, merce di scambio per redimere la sua disperazione. 

Il grottesco alternato alla violenza, le musiche di Daniel Lopatin, aka Oneohtrix Point Never, quasi a sublimare le caotiche disavventure di un balordo, l’occhio freddo di Darius Khondji a immortalare quei corpi irrefrenabili nella città che non dorme mai. Dopo l’incendiario Heaven Knows What e l’inseguimento psiconauta di Good Time, Josh e Ben Safdie ci danno un’altra grande prova della loro arte. Diamanti grezzi è pura adrenalina, cassavetesiano per ammissione e scorsesiano per retaggio, come possiamo non pensare al ticchettio di Fuori orario o alle violente strade  del cinema di Michael Mann? New York è l’utero che accoglie i suoi bad guys e i registi conoscono bene i sotterranei con i suoi miserabili sbandati, che assicurano il proprio amore tatuandosi un nome su una chiappa.

Nella meravigliosa scena del concerto di The Weeknd, la traiettoria dello sguardo di Howard apparentemente verso il suo oggetto del desiderio, Julia, la sua gemma incarnata, non è altro che uno sguardo allucinato verso la sua fine, consapevole di rincorrere, tra perenni urla, pugni, strattoni, una disordinata conclusione. E allora lunga vita a  questo cinema, libero, focoso e appassionato, lunga vita a una poesia che si trova in un quotidiano lacerato, disperato e tenero, che persino nei titoli di coda ha l’energico guizzo di una sorpresa, un film che non si vorrebbe mai terminare, sequenza dopo sequenza, orgasmo, tachicardia.

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Benny e Josh Safdie Adam Sandler Laikeith Stanfield Julia Fox Eric Bogosian Kevin Garnett 135 minuti
USA 2019
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Caterina

di Arianna Pagliara
Caterina di Francesco Corsi

“Caterina questa tua canzone

la vorrei veder volare

sopra i tetti di Firenze

per poterti conquistare”

 

Francesco De Gregori

 

 

Il regista Francesco Corsi (1980) è co-fondatore di Kiné, interessantissima realtà produttiva della quale in Sotterranei sono già stati recensiti diversi titoli (Il varco, L’uomo con la lanterna, Storie del dormiveglia, Il Principe di Ostia Bronx) premiati in Italia e all’estero, film assolutamente differenti tra loro ma che hanno tuttavia in comune un approccio libero e fecondamente originale e la volontà di esplorare, con curiosità e trasporto, il marginale e il dimenticato, il privato che preme per uscire fuori, le piccole storie che si fanno grandi storie quando viene dato loro il giusto spazio di rappresentazione.

Con Caterina, a partire da lunghe interviste ed eterogenei materiali d’archivio, Corsi vuole restituire la voce a un personaggio importante della scena musicale italiana degli anni Sessanta e non solo. Figlia di un pittore spagnolo e di una scrittrice svizzera, Caterina Bueno nasce a Fiesole nel ’43. Il suo percorso musicale è anzitutto un percorso di ricerca etnomusicologica e, in un certo senso, antropologica: fin da subito inizia a esplorare la campagne toscane, magnetofono alla mano, per parlare con gli abitanti più anziani nel tentativo di tirare fuori – per reinterpretarle e registrarle – canzoni popolari che parlano di politica, lotta sociale, emigrazione e amore (Tutti mi dicon Maremma, La leggera, Italia bella mostrati gentile). Caterina ha pazienza, empatia, volontà di ascolto; per lei lo studio e l’interpretazione della musica popolare non è inerte e meccanico atto di raccolta e archiviazione, ma un lavoro alla cui base sta sempre una certa predisposizione etica e morale.

La cantante, a cui si deve la valorizzazione e la riscoperta di tutto un patrimonio musicale che rischiava, se non l’oblio, la totale ghettizzazione, ha lasciato un archivio sonoro piuttosto ampio anche se non organizzato: al suo interno si muove Corsi, che procede mettendo assieme - in maniera discrezionale, elastica, sciolta - tasselli e frammenti di un discorso che cerca di illustrare senza volerlo esaurire o costringere entro uno spazio determinato. Dunque il racconto filmico non è semplice percorso biografico, ma piuttosto un affettuoso compendio di preziose testimonianze, soprattutto di amici e collaboratori della cantante, che la descrivono come figura privata più che pubblica.

La voce di lei, che ascoltiamo da nastri magnetici incisi in decenni di attività di ricerca e studio, fa da traccia e da collante a materiali audiovisivi differenti: concerti, interviste, partecipazioni a trasmissioni televisive in cui la cantante racconta la sua esperienza in Italia e all’esterno (Stati Uniti, Canada). Dagli anni Sessanta e Settanta, periodo in cui la riscoperta e la rivalutazione del folklore si faceva forte di una dimensione culturale propizia e vivace perché fortemente politicizzata, fino agli anni Ottanta e Novanta, in cui un certo appiattimento in questo senso ha in parte riportato in secondo piano l’interesse verso determinati ambiti culturali e quindi anche musicali, Corsi traccia il percorso di Caterina Bueno con agilità e disinvoltura, rivelando anche l’influenza che la cantante, con la sua determinazione, la sua fermezza e la sua passione, ha saputo esercitare in maniera fertile e costruttiva sui musicisti che hanno incrociato, in maniera più o meno fortuita, la sua strada. Tra questi, un giovane De Gregori che l’accompagnò in tournée come chitarrista, e che le dedicò, più tardi, la nota canzone intitolata con il suo nome

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Francesco Corsi 79 minuti
Italia, 2019
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1917

di Emanuele Di Nicola
1917 di Sam Mendes

Tanto vale dirlo subito: 1917 di Sam Mendes è tecnicamente ineccepibile. Di più: è una visione capace a tratti di evocare “meraviglia”, quella sensazione primitiva del gesto cinematografico che talvolta si rinnova, a intervalli irregolari, in diverso tempo e luogo. Qui accade nella corsa notturna del caporale Schofield (George MacKay) per la città distrutta, illuminata da fuochi e spari, in un paesaggio di rovine bianco e cimiteriale da film di vampiri, che sembra estratto dalla pittura romantica di Caspar David Friedrich. Uno splendore concepito dal direttore della fotografia Roger Deakins, che non è nuovo a questi frammenti: basti pensare alla marcia delle truppe al tramonto in Sicario di Villeneuve, o alla corsa lunare per salvare la bambina ne Il Grinta dei Coen.

Ecco, proprio questa sequenza sintetizza con efficacia il “problema” nel confrontarsi con il film di Mendes, candidato a dieci premi Oscar e favorito nella corsa alla statuetta. Con una storia che si riassume in una frase: nell’anno del titolo i due soldati britannici Schofield e Blake (MacKay insieme a Dean-Charles Chapman) nella Francia del Nord vengono incaricati di consegnare un messaggio che avverte di un attacco imminente dei tedeschi, per salvare la vita a oltre mille uomini tra cui proprio il fratello di Blake. Schofield reincarna la leggenda di Filippide, il militare ateniese nella battaglia di Maratona che corre fino ad Atene per portare l’annuncio della vittoria dei greci sui persiani: al suo contrario però non deve diffondere il trionfo, bensì evitare la strage. Nella sua strada discende negli inferi, metaforicamente ma anche letteralmente, visto che va giù sottoterra, incontra e tocca la devastazione per poi risalire in superficie. Il congegno formale è altrettanto chiaro: Mendes allestisce un finto piano sequenza di circa 119 minuti, che segue il movimento di Schofield dall’inizio alla fine, ovvero dall’ordine impartito da Colin Firth alla lettera ricevuta da Benedict Cumberbatch e lievemente oltre. Non serve soffermarsi sul “trucco” del piano sequenza nell’arco della Storia del cinema, che arriva fino a noi e viene mascherato abilmente da Mendes (ma i maniaci del gioco troveranno gli stacchi di montaggio), tranne che per rilevare come il nume Hitchcock sia risarcito con la citazione a Intrigo internazionale, nella scena dell’aereo che sfiora il protagonista. Ma siamo, appunto, nel gioco cinefilo.

Il lavoro di Deakins racconta invece di una contraddizione alla base di questo film: da una parte rappresenta un episodio della prima guerra mondiale, centrato indubbiamente su due “eroi per caso”, ma calato in una premessa di realismo e iperrealismo, nella concitazione delle trincee, nel fango e nel sangue che genera il conflitto. Soprattutto nella Grande guerra, quella senza bombe atomiche né armi tecnologiche, la guerra dei soldati che strisciano per terra. In tal senso il piano sequenza è la carta per rendere fluido il racconto, impaginarlo senza stacchi, trascinare dentro lo sguardo e non mollarlo, in un flusso ininterrotto di orrore e speranza con il fake sequence shot come mezzo adeguato per restituirlo. Un contesto quindi di rigido realismo. Un fondale in cui si incontrano bovini morti, prova della degradazione dell’uomo che ricade sulle altre specie, come nel quarto episodio della serie Chernobyl con la struggente uccisione degli animali. Dall’altra parte, però, la parabola di 1917 si appoggia palesemente a interventi antinaturalistici: il primo è la colonna sonora di Thomas Newman, che non manca di sottolineare ogni momento di pathos o suspense, alzando e abbassando a piacimento il termometro drammatico; poi c’è la scrittura (Mendes con Krysty Wilson-Cairns), che prevede un’apertura e chiusura circolare, nel mezzo incontri artefatti e troppo costruiti in cerca dell’attimo struggente (l’apparizione della ragazza francese con neonato altrui), situazioni portate all’estremo e risolte all’ultimo secondo, come quella centrale. Nello scenario non aiutano alcune scelte di casting, laddove appare opportuno il volto poco noto nel ruolo principale: allora perché fargli incontrare improvvisamente due divi come Firth e Cumberbatch?

Insomma, gradualmente, nel dipanarsi della vicenda la contraddizione si impone: il naturalismo delle intenzioni va a sbattere contro il calcolo della sostanza. Lo scontro genera una discordanza non fertile, con il famoso “sguardo dello spettatore” che non sa più bene come orientarsi: stiamo vedendo la verità di trincea resa attraverso la forma o la solida retorica del cinema hollywoodiano? Un dubbio indecidibile. E diventa difficile credere alla maratona di Schofield, non certo per una supposta pretesa di realismo (sarebbe assurdo chiederlo in una ricostruzione di finzione), ma per la rottura della sospensione di incredulità, che non è possibile mantenere quando il film stesso è così incerto su dove dirigersi. Da parte sua, il britannico Sam Mendes torna a essere i muscoli di Hollywood ma barcolla come “autore”, la lussuosa commissione resta il suo habitat preferito (e Skyfall il risultato migliore). Volete vedere un altro 1917? Senza andare troppo lontano in quell’anno è ambientato Torneranno i prati, l’ultimo film di Ermanno Olmi prima della scomparsa, che inscena la medesima trincea con un senso di attesa sospeso e frontale, quasi deoliveiriano, scolpito nel ghiaccio. «Siamo sepolti nella neve, anche stanotte ne è caduta tanta e adesso ha uno spessore di quattro metri e mezzo»: ecco una trincea tangibile e allo stesso tempo astratta, sia materica che simbolica senza per forza ricorrere allo stratagemma della forma.

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Sam Mendes George MacKay Dean-Charles Chapman Colin Firth Benedict Cumberbatch Daniel Mays Pip Carter 119 minuti
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Brivido caldo. Una storia contemporanea del neo-noir

di Matteo Berardini
Brivido caldo - recensione libro bocchi

Da una parte all’altra del globo, inseguendo scampoli di cinema e realtà che si scoprono vicine, figlie di una stessa adesione emozionale. Triplo gioco parla con Hong Kong Express, Passion si riflette in Guilty of Romance. E ancora, salti che vanno dalle movenze di Chow Yun-fat a quelle di Alain Deloin, da Lino Ventura a Michael Caine, perché «l’attore non è mai unicamente attore, protagonista di una storia e di una detection, ma rappresenta un’idea», una qualità sentimentale. L’aspetto che più emoziona nella lettura di Brivido caldo. Una storia contemporanea del neo-noir è l’opportunità di seguire un percorso che per corrispondenze e contrasti costruisce una mappa mobile di idee, assonanze, richiami, evitando ogni ricostruzione museale e prassi enciclopedica. Non è intenzione dell’autore, il critico e saggista Pier Maria Bocchi, fare del suo testo un compendio affamato di completezza e indicizzazione assoluta. Piuttosto, Brivido caldo è l’occasione per immergersi nel magma multiforme eppure coerentissimo di un «genere allarme» capace di intercettare, riflettere e manipolare «le questioni più calde della contemporaneità». Smarcandosi dai precetti del mercato e dai dettami dell’industria, Bocchi predilige lo sguardo culturale per indagare i modi in cui il genere si fa «sintomo di una realtà in irrequieta metamorfosi e specchio di una società inevitabilmente e costantemente in crisi», fedele all’idea che «il neo-noir parli una lingua comune, determinata eppure in costante mutamento».

Sul noir, magnifica crisi modernista esplosa dentro le maglie dello studio system, si è scritto moltissimo e ancora si dibatte, ma riguardo la sua storicizzazione, i suoi stilemi più riconoscibili e il suo impatto sul pubblico e l’industria del tempo, le idee e le letture tendono oggi a trovare il loro equilibrio. Occorre allora fare un passo avanti e concentrare lo sguardo sul successivo neo-noir, da interpretare e studiare come genere a sé. La tesi centrale di Brivido caldo riguarda proprio questo passaggio gnoseologico, un cambio di focus che sposta l’attenzione su un fenomeno che altrimenti rischia di essere letto sempre e soltanto attraverso la lente onnicomprensiva del postmoderno. Per Bocchi è limitante e poco utile continuare a leggere il neo-noir come un’evoluzione brillante e autoreferenziale della tradizione noir, di cui estrapola il nero per farne superficie lucida su cui fissare sagome svuotate di senso nate dalla ripetizione e dalla frammentazione del canone classico. Certo, la dimensione cinefila, la rilettura anzitutto linguistica (e quindi mitica) del passato, il lavoro sulla superficie dell’immagine ne fanno un genere canonicamente postmoderno, tuttavia la sua storia trentennale non è quella di un esercizio derivativo figlio dell’evoluzione diacronica ma un sistema-genere tout court, un nuovo modo di articolare un’idea di realtà grazie a una capacità sua, specifica e strettamente contemporanea, di impadronirsi del mondo per raccontarlo. Superato il periodo di massimo splendore degli anni Novanta, ci dice Bocchi, il neo-noir prosegue in piena autonomia «attraverso i luoghi comuni e le dinamiche di un immaginario che si è rilanciato con enfasi […] proprio nel secondo decennio degli anni Duemila, dopo l’abbuffata tarantiniana e un periodo di stasi». Ma, come già specificato, Brivido caldo non vuole ricreare su carta le infinite traiettorie, trasformazioni e filiazioni testuali, non codifica né cristallizza. Piuttosto esplora le possibilità significanti e le reminiscenze emozionali del genere, attraverso pochi capitoli monotematici – colpi ben piazzati aperti ciascuno, con un andamento musicale brillante e sempre utile all’innesco dell’analisi, da una scena tratta da uno dei capolavori di questa storia, Basic Instinct di Paul Verhoeven.
Si susseguono così indagini sulla nuova femme fatale alle prese con l’immaginario de-eroticizzato di oggi, che ne epura la carica sessuale e sovversiva; sui volti e corpi che dialogano a distanza, figli di un «fenomeno non indigeno bensì interculturale e trans-continentale» che oltre la dimensione del mercato si afferma attraverso dinamiche affettive e memoriali, testimoniate da corpi che diventano il luogo in cui si saldano spazio-tempo diversi appartenenti allo stesso immaginario; sugli spazi e luoghi del genere, dettati da nuovi rapporti tra l’illuminazione del contesto e l’opacità essenziale della situazione, una tensione che rende il set «un abito culturale» e manifesta l’emarginazione ontologica del soggetto che insegue una realtà in mutamento; sulla mascolinità in crisi e in generale sulla «gestione del genere come accesso sociale» all’impalcatura di ansie e reazioni che caratterizzano «un riflesso sociale abbandonato a sé stesso che annaspa per trovare una soluzione».

In definitiva Brivido caldo è uno strumento analitico prezioso e assieme un gesto d’amore, un lavoro critico che scava nel contemporaneo e offre generoso letture, idee, connessioni, con una scrittura agile e attenta che cerca e coltiva un dialogo con il lettore, restituendo a una galassia di paradigmi narrativi ed estetici la capacità di non essere solo rielaborazione ma generazione di una grammatica autonoma, «naturalmente derivativa eppure indipendente, in grado per giunta di contaminare altre sintassi e altre narrazioni».

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Dracula (BBC- Netflix)

di Jacopo Bonanni
Dracula - serie netflix bbc moffat gattis

Nell’ambiente culturale dell’Inghilterra vittoriana gli incontri tra celebri scrittori non erano una rarità. Non c’è nulla di strano, dunque, nel fatto che Bram Stoker e Arthur Conan Doyle si conoscessero e si frequentassero. Quello che però risulta interessante constatare sono le analogie dicotomiche che intercorrono tra le loro due creazioni più celebri: da un lato Sherlock Holmes, l’infallibile detective che agisce alla luce della razionalità; dall’altra Dracula, il vampiro immortale che si muove all’ombra della superstizione. Due nasi aquilini, due pallori spettrali, due sguardi penetranti ma soprattutto due solitudini esasperate messe a confronto (Dracula isolato nel suo castello/labirinto, Holmes rintanato nel suo studio/laboratorio) che hanno lasciato un’impronta indelebile nell’immaginario collettivo, riscuotendo consensi da una generazione all’altra di appassionati.
Il gioco di intrecci e di rimandi letterari e cinematografici che vede protagonisti i due personaggi è sterminato. Nella letteratura popolare non sono mancati incontri ufficiali tra i due, come quello suggerito da Laureen D. Eastman nel suo romanzo pastiche Sherlock Holmes vs Dracula (1978), o quello proposto da Fred Saberhagen  in Dossier Holmes-Dracula (1981). Tuttavia spetta  al cinema il merito di aver rafforzato il rapporto di parentela tra Dracula e Holmes. Entrambi rappresentano la quintessenza del cinema stesso perché entrambi non temono l’usura del tempo, guadagnandosi il titolo di icone più longeve ed apprezzate dal pubblico e dai registi – tanto da essere state rappresentate, citate, imitate, omaggiate e parodiate dagli inizi del Novecento fino ai giorni nostri. A tal proposito è curioso notare come alcuni attori abbiano impersonato entrambi i ruoli sullo schermo nel corso della loro carriera. È emblematico il caso di Christopher Lee – il Dracula per antonomasia delle produzioni Hammer – chiamato in seguito dal regista Terence Fisher a interpretare Sherlock Holmes nel film La valle del terrore del 1962. Volendo restare in “famiglia”, lo stesso Peter Cushing, dopo il ruolo di Van Helsing, indosserà i panni del detective in una fortunata serie di telefilm e in due pellicole di successo.
Tutto questo per sottolineare il filo rosso che lega storicamente Holmes e Dracula, sia nella realtà che nella finzione, come se fossero due facce della stessa medaglia. Non si può evocare l’uno senza finire per coinvolgere l’altro. Un destino cui non sono riusciti a sottrarsi neanche i due autori di punta della BBC: Steven Moffat e Mark Gattis, che dopo essersi cimentati in un’audace trasposizione dell’opera di Doyle, hanno applicato lo stesso schema al nuovo adattamento di quella di Stoker. Infatti la coppia di sceneggiatori, sull’onda dell’ottimismo suscitato dal successo di Sherlock – considerata una delle migliori serie inglesi attualmente in circolazione – non ha perso tempo per traslocare da Baker Street in Transilvania, mantenendo fede allo spirito che li ha sempre contraddistinti: la provocazione.

Concepita quasi per  scherzo, dopo uno scambio di battute sul look tenebroso di Benedict Cumberbatch, la serie dedicata alle gesta di Dracula è un salto continuo tra passato e presente, un coito ininterrotto tra tradizione e innovazione, uno sfarzoso luna-park vampiresco che mira a sovvertire, sconvolgere fino a sabotare tutto quello che siamo stati abituati a conoscere sul “Principe delle Tenebre”. Infatti se la maggior parte delle pellicole precedenti, comprese le più dissacranti, cercava, per quanto possibile, di giocare secondo le regole stabilite dal corpus narrativo di Stoker, questa versione le aggira, le corrompe, reinventandole senza dimenticare di omaggiare chi le ha ispirate. Il canovaccio originale è usato solo come pretesto per creare un elseworld, parallelo a quello canonico, che si abbevera alle fonti del culto per fornire al pubblico nuove risposte a vecchie domande.  Per renderlo possibile Moffat e Gattis giocano sporco fin da principio, barando apertamente, come in una partita a scacchi dove, se ti distrai per un attimo, le pedine vengono scambiate sulla scacchiera. Nel corso di questa seconda trasposizione televisiva targata BBC e dedicata al vampiro (la prima risale al 1977), gli autori si divertono a spiazzare continuamente lo spettatore mutando in corso d’opera sia l’ambientazione – dall’incipit gotico al finale contemporaneo – sia i toni – un mix di horror, commedia e poliziesco – sia i connotati dei personaggi, a partire dal protagonista  principale.

Dimenticate il Dracula di Coppola, l’antieroe shakespeariano dall’indole tormentata e romantica con il volto di Gary Oldman, perché quello interpretato superbamente da Claes Bang (The Square), nonostante le apparenze, non potrebbe essere più distante da quanto visto finora. Questo Dracula targato 2020 è un “mostro” moderno e pragmatico, non teme gli specchi, la luce del sole o i paletti di frassino, semmai ne è perversamente affascinato come è altrettanto incuriosito da tutti gli orpelli che la civiltà cerca di utilizzare contro di lui ma che lui riesce a sfruttare a proprio vantaggio. La sua natura narcisista lo spinge ad agire subdolamente, sotto le spoglie del mito, per stabilire con le sue vittime una relazione dai bordi ambigui e sfumati tra simbiosi e parassitismo. Non c’è nulla di nobile nelle motivazioni che lo spingono a raggirare, sedurre e uccidere, soltanto l’esigenza di “vampirizzare” chiunque si infatui di lui, non conta che si tratti di un uomo o di una donna, l’importante è poterne assorbire l’essenza pur di continuare ad alimentare un solipsismo esistenziale che ha ben poco di leggendario. Né sono la prova le tragiche vicende raccontante nei tre macro-episodi che compongono la serie, ognuno dedicato ai malcapitati protagonisti che incrociano Dracula lungo il suo cammino; da Jonathan Harcker (John Heffernan), qui relegato al ruolo di mera comparsa, all’equipaggio inerme del Demeter, fino ad arrivare a Lucy Westenra (Lydia West), la ragazza sedotta e abbandonata dal Conte, dopo essere stata resa sua schiava.
In questo viaggio tra le pieghe del tempo e dello spazio – degno del Doctor Who, altra leggenda inglese reinventata da Moffat – nulla sembra intaccare il “sangue freddo” del vampiro, neanche l’anonimato, al punto da osservarlo nel finale di stagione mentre si aggira indisturbato nella metropoli londinese del ventunesimo secolo, perfettamente a suo agio nei panni del predatore urbano alla prese con speed dating e social network. L’unica minaccia alla sua leggendaria incolumità, fisica e mentale, è rappresentata dalla giovane Agatha Van Helsing (Dolly Wells). È lei il personaggio chiave della storia, il richiamo più esplicito a Sherlock: una suora/detective cinica e irriverente che grazie a una logica ferrea, che la rende parzialmente immune al fascino secolare della figura del vampiro, mette puntualmente in dubbio ogni atavica certezza del protagonista, mostrando alla luce del sole tutta la sua vulnerabilità.

Nel bene e nel male purché se ne parli. È questo il motto dei due autori inglesi con licenza di re-inventare i classici, un atteggiamento dissacrante che è riuscito ad attirare su di sé le ire funeste dei puristi del genere, defraudati da un adattamento schizofrenico che nell’ossessiva ricerca di stupire senza compiacere delude il grande pubblico. A differenza di quanto visto in Sherlock, stavolta Moffatt e Gatis peccano di hybris, soprattutto nella parte conclusiva della storia, dove il clima di tensione iniziale viene incrinato da una gamma di plot-twist di dubbio gusto, sfociando in un finale caotico e sbrigativo che purtroppo non rende giustizia al lavoro svolto dal comparto attoriale. Tuttavia, al netto dei difetti e delle critiche, è ingiusto stroncare in toto un’operazione che per quanto pretenziosa possa sembrare, rimane uno dei tentativi più coraggiosi e inediti di “trasfusione” del mito di Dracula con il suo scomodo bagaglio di sadismo e perversione nella contemporaneità. È vero, si tratta di un antidoto imperfetto ma che cerca pur sempre di correggere l’attitudine malsana del cinema hollywoodiano a rassicurare gli spettatori, banalizzando la letteratura e riducendo le sue icone a formule stereotipate insostenibilmente kitsch e in questo senso il buon sangue (inglese) non mente.

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Claes Bang Dolly Wells Morfydd Clark miniserie da tre episodi
UK 2020
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The Lodge

di Mattia Caruso
The Lodge - recensione film franz e fiala

Una casa isolata, due fratelli vendicativi, una giovane donna instabile e dal passato oscuro. A elencare così immagini e personaggi presenti in The Lodge parrebbe quasi che i registi austriaci Veronika Franz e Severin Fiala non abbiano fatto altro che riadattare, in occasione della trasferta statunitense, il loro precedente lavoro, Goodnight Mommy, apportando variazioni minime per renderlo più adatto alle logiche produttive d'Oltreoceano. D'altronde, in questa storia che parte (ancora una volta) dal trauma e dal lutto per addentrarsi nei territori della follia e dell'orrore, pare innegabile che i temi portanti del precedente film prodotto da Ulrich Seidl (zio di Fiala e marito della Franz) e applaudito nei festival di mezzo mondo siano ancora tutti lì, così come innegabile è il senso di ambiguità perenne che pervade anche questa nuova vicenda.

Ma se Goodnight Mommy era soprattutto un dramma disturbante, una tragedia innestata a forza nelle dinamiche dell'horror, dove la violenza esplodeva in maniera tanto sorprendente quanto destabilizzante, qui, nella cronaca allucinata della convivenza forzata tra due ragazzini e la loro matrigna in una sperduta casa di montagna, i registi sembrano voler diluire in parte la loro vena autoriale abbracciando più compiutamente il genere puro. Ecco che allora le suggestioni, appena suggerite nel film precedente, diventano qui più immediate ed esplicite, dalla storia di fantasmi e case infestate, con annessi echi e rimandi a film recenti come Hereditary di Ari Aster (la casa delle bambole, le dinamiche famigliari), alla collisione di differenti piani di realtà, il tutto a delineare un mondo dove la verità è più che mai incerta, confusa inestricabilmente con l'allucinazione e (forse) con il soprannaturale, in un vortice paranoico dove non si può che dubitare di tutto e tutti.
È proprio attraverso questi continui ribaltamenti di prospettiva, false piste che si perdono in spazi gelidi e paesaggi (interiori?) in bilico tra dimensioni purgatoriali alla The Others e disagio psichico, che lo spettatore viene chiamato in causa, messo al centro di un conflitto in cui non sa più da che parte stare, incapace come i personaggi di distinguere, tra quelle immagini da incubo, ciò che è vero da ciò che non lo è. Nel mezzo di questa indeterminatezza, una casa che è un mondo a parte, uno spazio scandagliato lentamente ma inesorabilmente dai movimenti rigorosi e geometrici della macchina da presa, specchio di una storia cinica e glaciale intrisa di un nichilismo senza speranza.

The Lodge si dimostra così essere un contenitore perfetto per gli incubi ricorrenti dei suoi autori, dal trauma del rimosso alla fascinazione dell'infanzia per il Male, passando per l'assenza assordante di figure paterne. Un impianto magistrale che però resta in bilico tra le esigenze più immediate dell'horror e una visione autoriale non del tutto capace di scendere a compromessi proprio con quel genere cui vorrebbe pienamente aderire.

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Veronika Franz Severin Fiala Riley Keough Jaeden Martell Lia McHugh Alicia Silverstone Richard Armitage 100 minuti
Gran Bretagna, USA 2019
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Padrone dove sei

di Giorgio Sedona
Padrone dove sei di Carlo Michele Schirinzi

“...and every step I take, takes me further from heaven...” Roxy Music, In Every Dream Home a Heartache

Lontano dal paradiso, io ciò che resta del paradiso. In un cielo decadente, in disfacimenti della memoria tattile tra luminose evanescenze di carne. Luoghi di perduti ricordi sessuali, carne, sperma e memoria. Trascinati dai desideri perduti, schiaffeggiati dal padrone più sadico, indifferente e prepotente: il sesso ricordato, immaginato, rimpianto e il suo desiderio inconsumabile, suo più spietato aguzzino. In naufragi e nubrifagi di parole scabrose, (in)difesi sotto tettoie di enunciati troppo strette per le immagini, gabbie di faraday che portano nomi importanti come Bataille, Derrida, Klossowski. Lo sguardo sempre in procinto di sfaldare la pelle per entrare nella carne, per diventare esso stesso carne, godimento, disfacimento. Voyeurismo dell’impulso sessuale scopico, pulsione irrefrenabile che Schirinzi frammenta in immagini ingrandite di frammenti visivi che schizzano tra un taglio e l’altro, fuoriuscendo da ogni fessura del découpage in ingrandimenti di pulsioni erotiche. E se la Madeleine proustiana non fosse solamente un pasticcino commestibile? E se riuscisse comunque a mantenerne la sua funzione, il suo tramite olfattivo, tattile, acustico, continuando a esercitare la sua funzione di soglia cristallizzandosi in immagine-memoria visiva, fulminante, del sesso perduto? E se l’occhio di Bataille prima di diventare uovo fosse stata l’immagine dell’ingallamento?

In un perpetuo ristabilirsi di desideri rimossi, fuggiti, scabrosi (rinconsa a ritroso di quell’interscambiabilità barthesiana definita nella sua Metafora dell’occhio) fino all’inizio primordiale, basica ossessione verso il sesso tra gli intrecci del desiderio masturbatorio, epifanico sguardo disfacente e mortifero: cinema, nella sua più primaria accezione di meccanismo scopico di resistenza alla morte, all’oblio, alla schiavitù sessuale dell’Eros. Referenziale, scabroso, deviato, tattile e tangibile quanto la resistenza dei polpastrelli sui grumi fotografici di un’opera del Bernini. I tre anti-protagonisti di Schirinzi sono fantasmi che vivono di ricordi perduti, corpi persi nelle location abbandonate, scie di carne luminescente che nell’immagine (e nell’immaginazione) sessuale trovano l’unico appiglio di restistenza alla loro traslucida esistenza. Sono fasci di luce in sofferenza, delay di una struggente ballata rock in procinto di perdersi nei propri riverberi, pronti a svanire se incapaci di trovare densità nella loro sessualità condensata, in quell’erotismo che s’incrosta dando loro superficie epidermica (fotografica, audiovisiva) sulla quale (re)esistere.

Sarebbe ben immaginabile leggere nelle pagine de La sinagoga degli iconoclasti di Wilcock il nome di Carlo Michele Schirinzi, posizionato lì tra Carlo Olgiati e Armando Aprile, tra il matabolismo olgiatiano e la fantasmatica esistenza dell’effimero utopista. Il soffio iconoclasta di un solitario, pronto a sgretolare i territori (del suo Sud), la sacralità dell’immaginario iconico e le pagane geografie del corpo desiderante. Padrone dove sei? Dov’è il vettore del moto? Il motore del corpo negli ingranaggi della libido? Un film che rimane negli occhi, un film di tutti e per pochi, che denuda lo sguardo lasciadoci indifesi, nudi e prostrati alla nostra più grande ossessione ed estasi.

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Carlo Michele Schirinzi 82 minuti
Italia, 2019
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Jojo Rabbit

di Matteo Marescalco
Jojo Rabbit - Recensione film Waititi

L'ultima parentesi dal tono indipendente di Taika Waititi, prima della nuova immersione tra i roboanti tuoni Marvel, è, innanzitutto, un film di fantasmi. I vivi e i morti popolano Jojo Rabbit, a partire dalla figura del padre del piccolo protagonista, al fronte senza che giungano sue notizie da tempo, e di Elsa, una ragazzina ebrea che ama il disegno, le poesie di Rilke e il fidanzato partigiano spostatosi a Parigi. La giovane è nascosta in un anfratto del suo appartamento da Rosie, la dolce madre di Jojo e unico essere umano dotato di amore, compassione e senso della vita, quasi come fosse una presenza umbratile anche lei. E, infine, c'è quell'Adolf Hitler partorito dalla mente allineata di Jojo -coniglio, definito dai suoi superiori-, un favoleggiato mostro nell'armadio che rende il sentire del bambino schiavo di definizioni da adulti e opacizza il suo sguardo.

Dopo essere entrato a far parte della Hitlerjugend, Jojo resta coinvolto in un incidente che ne deturpa il volto e lo estromette da compiti impegnativi. Dopo l'incipit frenetico che mette alla berlina l'idiozia e l'ottusità del Gleichschaltung, il film focalizza la sua attenzione sulla figura del giovane protagonista, la cui purezza, nonostante numerose storie mitologiche ed etnografiche sulla mostruosità degli ebrei, rimane pressochè intatta. Nel grigio delle città impoverite e devastate, Waititi porta in scena uno scontro tra i colori brillanti di una menzogna e della speranza, in lotta tra loro per prevalere l'una sull'altra. Da un lato, gli occhi di Jojo e di Yorki, suo unico amico, sono spalancati sul mondo con l'obiettivo di coglierne le tracce reali e di sentirsi coinvolti nel cammino della Storia; dall'altro, il patetismo delle storie che vengono loro raccontate ne obnubilano i pensieri e collocano i bambini in un mondo di mezzo, una sorta di Oz in bilico tra la fiaba e la tragicità ineliminabile della guerra. E, a risultare ancor più potenti di mitologie e narrazioni, questa volta, sono i legami umani, tracce che, se riconosciute e coltivate, possono essere sopite ma mai soffocate.

Le scarpe allacciate, gli occhiolini affettuosi, i gesti colmi d'amore e la singolare relazione stabilitasi tra Jojo e la ragazzina ebrea, ma anche il rapporto con il nemico, consentono al bambino di trovare uno spazio nel mondo che non somigli a una superficiale forma di galleggiamento ma che gli permetta di allontanarsi dal volere collettivo per abbracciare una volontà individuale e più sincera, perché vicina a un afflato autenticamente umano. Attraverso la forma narrativa del coming-of-age, Jojo riconosce le proprie fragilità e insicurezze e impara a fare i conti con i suoi sentimenti repressi, abbracciando forme di esistenza alternative e lontane dal sentire comune. La satira sul fanatismo, quindi, non si limita a decostruire e a mettere alla berlina ma suggerisce anche la possibilità di immaginare un altro futuro, a pochi passi dalla nostra porta(ta).

Quanto detto finora è sufficiente per considerare Jojo Rabbit un'operazione sincera e pienamente riuscita? Non del tutto. Questa scommessa vinta a metà, infatti, cerca di compiacere un po' tutti, anestetizzando la verve dissacrante dei primi 20 minuti attraverso la necessaria irruzione di una lezione morale ed etica che faccia maturare il giovane protagonista. Accontentandosi di lanciare poche stoccate nei momenti di maggiore drammaticità e nella ricerca della non omologazione, il film di Waititi si attesta su binari già ampiamente percorsi e si accontenta della convenzionalità - a partire da una messa in scena che aderisce ai più svogliati canoni da film indipendente. Jojo Rabbit è un gioco scoperto e meccanico che sceglie di abbattere il mostro attraverso la programmaticità di fondo delle dinamiche infantili. Nonostante questi limiti, una parentesi del genere può comunque ritenersi complessivamente riuscita.

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Taika Waititi Scarlett Johansson Taika Waititi Sam Rockwell Roman Griffin Davis Rebel Wilson 108 minuti
Nuova Zelanda, Repubblica Ceca, USA 2019
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