Under the Silver Lake

di Tamara Gasparini
Under the Silver Lake - recensione film Mitchell

David Robert Mitchell, al suo terzo lavoro, firma una versione lisergica e scompaginata di una La La Land dell’immaginario, dove il sogno cede il passo alla paranoia (come nel precedente It Follows) e al grottesco, dove non brillano astri nascenti ma accadono le cose più strane: le persone spariscono come inghiottite dal nulla della città, tra killer di cani, codici da decifrare, fumettisti ossessionati da teorie del complotto, gruppi rock messianici, omicidi e misteriose leggende di donne gufo, il tutto ammantato dalla mondanità scintillante della città degli angeli. È un cinema che saccheggia e rimastica il proprio immaginario e lo sovverte andando alla deriva dentro se stesso, nel fitto intrico di rimandi e giochi cinefili, trappole e scappatoie narrative, minando le basi del genere. L’orizzonte è quello del (neo) noir contemporaneo, da Lynch a Vizio di forma passando per Il grande Lebowski, ma la traiettoria è discontinua e allucinata, senza approdo certo.

Sam (Andrew Garfield) è uno spiantato trentenne, squattrinato e senza lavoro; un disilluso – come in ogni noir che si rispetti – che vive alla giornata in un residence con vista su piscina, dove passa il tempo a osservare con un binocolo ciò che gli accade intorno. La finestra sul cortile è il punto di partenza che apre ad altri mondi e incontra un classico topos noir quando la bionda e fatale vicina di casa, di cui è invaghito, svanisce nel nulla all’indomani del loro incontro, disseminando indizi e innescando una girandola folle di eventi insieme al viaggio di Sam dentro L.A. e i suoi misteri.
Questa detection in realtà è un détournement, una deriva senza capo né coda in un universo di segni e citazioni, tra simulacri e vestigia della vecchia Hollywood, e i riferimenti di una cultura pop che non rimanda ad altro che a se stessa. Il film insomma è una mappa da decriptare, un pedinamento urbano senza bussola, sulle tracce del desiderio e del piacere del racconto, debordante e potenzialmente infinito dentro la Storia del cinema e le storie di una Hollywood di stravaganze e bizzarrie al limite dell’assurdo, dove Mitchell centrifuga candidamente ogni cosa che gli passi per le mani in un continuum di rimediazione dei prodotti culturali: il cinema, la musica, i videogiochi, le graphic novel e tutto l’armamentario culturale di un regista quarantenne cresciuto a cavallo dei 90’s. Da Hitchcock a Super Mario, da Amazing-Spiderman a dive/i del passato… in un frullato pop che ha lo strano sapore del perturbante: familiare e spaventoso, come forgiato nella stessa materia e sullo stesso meccanismo dei sogni. E proprio come nei sogni si gira a vuoto, tra spunti brillanti e scivolate. Mitchell lo sa e come Sam sa di perdersi tra citazioni, omaggi, ossessioni, simboli e codici dentro la città del cinema senza arrivare a cogliere mai il senso ultimo delle cose, come in un divagare febbricitante dentro un immaginario strabordante. Nel ricomporre questo puzzle impazzito si prende non poche libertà e rischi, svelando in ultimo tutta l’inconsistenza di fondo di questo mondo, mostrandone il volto oscuro incarnato dal songwriter, figura senza tempo e senza età, autore occulto di tutte le hits del presente e del passato. Da La Bamba a Smell Like Teen Spirit. Non c’è ribellione, non c’è purezza solo l’evanescenza della cultura pop  contemporanea che ingloba ogni cosa. Anche l'ossessione per i messaggi subliminali contenuti nella comunicazione mediatica (pubblicitaria, cinematografica e soprattutto musicale) si rivelano inconsistenti e vuoti, spunti e pretesti ulteriori per il narrare nel tentativo di sviscerare il mistero che avvolge la città dei sogni.

Mitchell nella sua poetica di ridefinizione e riscrittura dei generi, destrutturandoli e decostruendoli a partire da stereotipi e cliché già dati, si lascia qui sicuramente prendere la mano in una storia frammentata e sconclusionata; affastella un mosaico di rimandi alla cultura pop che finisce con il fagocitare ogni cosa, ogni senso ultimo, anche lo slancio romantico come motore dell’azione. Ma seguirlo in questo delirio stupefacente non lascia inappagati, è la rotta per andare sotto la superficie; permette di spostare ulteriormente lo sguardo per riconfigurare una mappa emotiva delle proprie magnifiche ossessioni in una rimediazione potenzialmente infinita del nostro immaginario.

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David Robert Mitchell Andrew Garfield Jimmi Simpson Summer Bishil Riley Keough Topher Grace 140 minuti
USA 2018
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Alla mia piccola Sama

di Samuel Antichi
For Sama - recensione film

Sono numerosi i documentari, usciti negli ultimissimi anni, che cercano di restituire e portare testimonianza, in “presa diretta”, della guerra civile siriana, immergendo lo spettatore nella tragica realtà che la popolazione è costretta ad affrontare quotidianamente. Il cinema di opposizione al regime, prevalentemente limitato alla forma documentaria, ha ottenuto importanti riconoscimenti all’estero, tra cui candidature all’Oscar per il Miglior Documentario, come nel caso di questo Alla mia piccola Sama (For Sama).

Waad al-Kateab, studentessa siriana residente ad Aleppo dal 2011 al 2016 denuncia il regime di Assad mostrando le violenze e le privazioni a cui sta andando incontro la popolazione. La handycam della giovane serve sia come strumento di documentazione e testimonianza sia per rivendicare libertà politica. Dal momento che le principali agenzie di stampa, i maggiori network di informazione e i giornalisti professionisti sono stati banditi dal paese, i cittadini siriani si sono assunti la responsabilità e l’imperativo di riprendere e denunciare il regime di Assad. Ad emergere in questo scenario è la figura del citizen camera-witness, termine che si riferisce ai dissidenti e agli attivisti politici che, a differenza dei testimoni oculari, i quali in maniera casuale e fortuita assistono a un evento, sono consapevoli dell’importanza e del ruolo che assumono, così come il rischio a cui vanno incontro nel filmare.

Con l’obiettivo di fornire e trasmettere un senso di presenza e autenticità, For Sama adotta alcune delle caratteristiche estetiche e formali proprie del citizen imagery, delineate da Andén Papadopoulos, come l’ipermobilità, l’opacità, la non-narratività e il raw audio. Molte delle immagini realizzate nel film assumono il compito principale di prove fattuali, immagini-prova, immagini-choc, atte a provocare una reazione nello spettatore, a smuovere la coscienza dell’opinione pubblica, cercando di promuovere opere di solidarietà, aiuti umanitari o interventi a livello militare, strumento per indirizzare la rabbia delle vittime del regime verso i responsabili dei soprusi e verso l’immobilismo del mondo esterno. Tuttavia, molto spesso, il soffermarsi della macchina da presa su scene ed episodi strazianti, come un gruppo di uomini stesi a terra privi di vita, uccisi dalle milizie di Assad, o una donna che tiene ancora in braccio il figlio morto a seguito di un bombardamento, rischia di avere un effetto prevalentemente patemico, emozionale, piuttosto che stimolare lo sviluppo di un pensiero critico da parte dello spettatore. La stessa regista si interroga su questo aspetto: «Milioni di persone seguono i miei report ma nessuno interviene contro il regime».

Il grado di spettacolarizzazione e di patemizzazione nella restituzione del dolore, a cui il film va incontro, rischia di non comportare una comprensione più ampia del significato dell’evento e la formazione di un pensiero critico ma indurre prevalentemente sentimentalismo e commozione.  Contrariamente, film come Jellyfish (Khaled Abdulwahed, 2015), Still Recording (Ghiath Ayoub, Saeed Al Batal, 2018) o Autoritratto siriano (Ossama Mohammed, 2014) cercano di proporre un processo di ri-elaborazione delle immagini amatoriali realizzate dai cittadini per documentare gli atti di violenza del regime, riflettendo intorno al loro statuto, al loro valore storico e traumatico, al processo di ri-mediazione e ri-contestualizzazione che questa subisce. Il percorso affettivo ricreato e ricercato in For Sama viene a intensificarsi in alcuni momenti attraverso un rimodellamento finzionale, che si discosta dalla pretesa della restituzione non mediata della realtà filmata, in cui il suono in presa diretta viene sostituito dalla musica drammatica, inserita in modo da poter coinvolgere emotivamente lo spettatore, o attraverso l’utilizzo di riprese aeree effettuate da un drone, atte a fornire una visione estetizzante del paesaggio distrutto dal fuoco del conflitto.

La catastrofe e la violenza, la focalizzazione sulla morte, la tortura, i danni fisici e strutturali mostrati nel film vengono, a ogni modo, alternati con momenti di speranza, rapidi istanti di gioia e festeggiamenti, dal matrimonio della regista con Hamza, un giovane medico, alla nascita della prima figlia, Sama, a cui la madre si rivolge nel corso dell’intero film, così come della seconda, Taima, nel finale. Il film in questo modo riesce a riflettere intorno a uno dei topoi del cinema documentario siriano, ovvero l’infanzia distrutta dalla violenza della guerra. La regista stessa si interroga sulla propria maternità, se sia giusto o meno far crescere dei figli sotto il fuoco del conflitto, aggiungendo uno sguardo e una sensibilità femminile unica all’interno del panorama documentario sulla guerra civile siriana.

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Waad al-Kateab 100 minuti
UK 2019
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Libertà

di Domenico Saracino
 Libertà - recensione documentario Savino Carbone

Chiedetelo a Ken Loach, se può esserci libertà senza lavoro, senza diritti, senza riconoscimento (economico, sociale, umano). O magari a qualche sindacalista che ancora merita questo appellativo, uno alla Di Vittorio, insomma. Al suo esordio nel mondo della regia audiovisiva con un documentario titolato appunto Libertà, Savino Carbone, reporter e fotogiornalista pugliese che da tempo si occupa di migrazioni, marginalità e minoranze sociali presenti nel suo territorio, rigira questo falso dilemma – la cui risposta è di per sé evidente – a B. e C., scappati dal Senegal e dalla Nigeria perché omosessuali e finiti poi in un’Italia che ha smarrito irrimediabilmente la sua natura, costituzionalmente profilata, di “Repubblica fondata sul lavoro”.

Girato nel 2019, al culmine della propaganda salviniana sullo stop ai migranti, le minacce alle Ong e la chiusura ermetica dei confini, Libertà è l’amara costatazione di una doppia emarginazione e di un duplice tradimento: da un lato quello dei paesi natii, con i loro ordinamenti omofobici, in cui l’omosessualità è un “reato punito fino a 5 anni di prigione” (Senegal) o con la reclusione fino a 15 anni per “sodomia e lesbismo” (Nigeria, dove nelle aree dominate dalla sharī‛a si prevede anche la condanna a morte per lapidazione); dall’altro quello dell’Italia, meta di un sogno d’affrancamento, del desiderio di una possibilità di vivere finalmente a pieno la vita, che si rivela poi in tutta la sua illusorietà e impossibilità realizzativa una volta scontratosi con i limiti economici e politici del Belpaese.

In una Bari trasfigurata dal clima di odio e xenofobia, in cui Salvini può permettersi di presentare sotto applausi scroscianti l’abominio dei decreti sicurezza durante il tour per le europee (più di 10mila baresi scrissero il suo cognome sulle schede elettorali nel maggio dello scorso anno), Carbone segue i due protagonisti in un solitario percorso di autonarrazione, tra ricordi di amori perduti, pericoli e sofferenze. Libertà a Bari è solo il nome di un quartiere, e niente più.

Non c’è libertà per la ragazza nigeriana che, non creduta dalla commissione che continua a negarle lo status di rifugiata, vaga per le strade urbane alla ricerca di una condizione di minima felicità (documenti, un lavoro, una fidanzata), né c’è emancipazione alcuna per il giovane senegalese, costretto ad accettare una ignobile condizione di neo-schiavitù nelle campagne del Tacco d’Italia pur di mettere in tasca qualche spicciolo e dimenticare sacrifici e tragedie che ha dovuto affrontare per arrivare dall’Africa in Puglia.

“Libertà è essere felici, vivere come si vuole”, dice ad un certo punto del documentario il protagonista maschile, mai ripreso in pieno volto per poterne tutelare privacy e sicurezza. Ma senza documenti – continua implacabile il suo ragionamento – non si può sperare in un lavoro vero e senza lavoro non si può vivere come si vuole. Quindi non si è liberi. Sono così questi giovani figli d’Africa: intrappolati tra un passato di brucianti ferite e abbandoni e un futuro di affilate incertezze, a metà strada tra quella che potevano chiamare casa e un posto nuovo, migliore, che possa davvero definirsi tale.

In una condizione di precarietà, di non appartenenza così intensa e assoluta non può che svilupparsi un vuoto fatto di passività e perdita delle speranze. Così mentre tutti fanno festa per il Puglia Pride, ad esempio, parlando giustamente di diritti, liberazione e amore, la protagonista femminile del documentario non può che limitarsi ad osservare da lontano, percependo solo un pallido riflesso dell’arcobaleno che riunisce sotto un cielo colorato gli altri partecipanti. A lei non resta che ballare da sola, per dirla con Bertolucci, coi passi che rimbombano nel vano di un grigio e polveroso parcheggio sotterraneo e una canzone intonata da sé, in una delle sequenze più emozionanti di questo esordio, girata con grande cura per i dettagli cromatici da Carbone e dal direttore della fotografia Antonio Valenza.

E sono proprie le canzoni africane, tra nenie e canti religiosi dei paesi d’origine (in wolof, la lingua più diffusa in Senegal, maninka, la lingua dell’Africa Occidentale e pidgin, un idioma frutta della mescolanza di lingue diverse) a custodire ed esprimere la parte più intima dei due rifugiati, la loro nostalgia di casa, il rapporto con la divinità e con la religione, la speranza di un cambiamento. Non è un caso, dunque, che l’autore abbia voluto procedere ad una traduzione e sottotitolazione delle stesse, proprio ad evidenziare un rapporto, quello con la spiritualità (già nella sequenza della chiesa pentecostale di Bari), che resta forse per chi si trova in questo limbo infernale l’unico vero rifugio.

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Savino Carbone 30 minuti
Italia 2019
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La fantastica signora Maisel (terza stagione)

di Elvira Del Guercio
La fantastica signora Maisel - terza stagione

Per Sophie Lennon, nemesi assoluta della fantastica signora Miriam "Midge" Maisel e celebre comica newyorkese, quella che, citando Susie, l’amica e compagna-di-viaggio/manager di Midge, «ci aiutò durante la Depressione...», per far sì che il pubblico rida bisogna dargli la carne, il proprio corpo. Essere lì su quel palco e restituirgli l’idea che hanno di te senza far vedere nient’altro: avere una maschera. E mostrargli la perfezione. Nel corso della storia, il confronto tra le due comiche sarà fondamentale perché Midge potrà vedere al di là di quel corpo camuffato, logoro e consunto, oltre quel canovaccio arido di battute che Sophie Lennon ricicla dalla Grande Depressione agli anni Sessanta, capendo prima di tutto cosa non voler essere: capirà di non voler incarnare un'ideale a cui tendere né la proiezione di uno sguardo dominante sul mondo, con tutte le difficoltà e i rischi che questa scelta comporta.

E infatti, il monologo sprezzante contro Lennon che le costerà il boicottaggio collettivo dei locali del Village e dintorni (e a Lenny Bruce un’esibizione gratuita sul palco del Gaslight per “riabilitare” il nome di Midge) vuole essere una dichiarazione programmatica e artistica in cui è riflessa tutta la prospettiva femminista della stessa Amy Sherman-Palladino, tematizzando alcune delle questioni fondamentali di La fantastica signora Maisel, ovvero il carattere fuorviante dell’apparenza e il problema dello sguardo maschile nell’industria culturale, in questo caso nell’ambito della stand-up comedy degli anni Cinquanta-Sessanta.

Durante i suoi monologhi, Midge riflette su quanto sia faticoso squarciare i veli dell’apparenza e reinventarsi, rinascere “altra” ma rimanere allo stesso tempo sé stessa, fantastica, dopo la crisi, all’indomani della separazione da Joel. O quanto non si riesca né si voglia più fingere di essere chi non si è per compiacere lo sguardo e le aspettative altrui. Che si tratti di un marito, della famiglia o dell’ambiente sociale, nel caso di Midge, alto-borghese, in cui si cresce. Negli anni Sessanta a nessun maschio interessava vedere una donna su un palco né tantomeno una donna su un palco fare stand-up comedy alla maniera irriverente e acuta della signora Maisel. Tutti si stupivano guardandola parlare così liberamente di sé, di famiglia e politica, di sesso, irrigiditi dal fatto che abbia l’ardire di fare battute a sfondo sessuale perfino su suo marito e suo padre. Nessun maschio voleva sentirsi minacciato e messo sotto scacco da questa sua forza.

Nella prima e seconda stagione Palladino si sofferma sulla progressiva costruzione e ri-definizione del personaggio di Midge e sulla creazione della sua identità artistica, di comica, anche e soprattutto con l’aiuto di Susie, entrambe alle prese con un mondo asservito al potere di soli uomini. Susie vive in un bugigattolo, ha pochi soldi e sempre gli stessi vestiti, e tutti la scambiano per uomo. È in un certo senso la sua controparte, una freak e probabilmente unica vera amica nei cui occhi Midge ha il coraggio di riflettersi. Non a caso è stata Susie a coglierne il talento, durante quel primo ebbro e stralunato monologo sul palco del Gaslight, dopo la fuga di Joel e poco prima del giorno in cui tutto avrebbe dovuto essere perfetto: il rabbino, lo Yom Kippur, il matrimonio. Ed è proprio in questa parte della storia che la scelta di Midge comincia a concretizzarsi, dirigendosi sì verso la strada più impervia - All alone, che fa da titolo all’ultima puntata della seconda stagione – ma anche verso quella che le avrebbe permesso di realizzarsi nella sua vocazione artistica. E soprattutto di autodeterminarsi. Continuare ad essere sé stessa, fantastica, senza nessun uomo o delle regole o dei compiti prestabiliti cui adempiere.

Dopo essersi mossa in un territorio per lo più “bianco” e borghese arriva per Midge l’opportunità di confrontarsi con un’altra realtà, e il tour con Shy Baldwin le farà da apripista in questo percorso. Nella terza stagione Midge è sola, sulla strada, con dei figli all’altro capo dello stato da mantenere e per cui dover esserci. Il movimento è alla base di questa parte del racconto poiché non solo lei ma anche Joel e i genitori lasceranno la propria confort zone per provare a orientarsi altrove, come se Palladino esigesse dai suoi personaggi e specialmente da Midge (e forse anche da lei stessa) uno sguardo sulle cose ancora più acuto e che metta quindi in discussione, al vaglio, ciò che gli sta davanti. Ci sono l’ombra del maccartismo, della segregazione razziale e della disillusione collettiva dopo un periodo di grandi promesse – la trattazione del personaggio di Abe Weissmann è in questo senso magistrale, poiché la regista ne rileva e descrive contemporaneamente due dimensioni: quella intima e relativa al progressivo venir meno della sua influenza sui figli e una più lampante, che riguarda la sua posizione da intellettuale in un mondo prossimo a continue mutazioni. Lo stesso problema che potrebbe riguardare Midge se catapultata cinquant’anni dopo. Oggi. Chissà in che modo farebbe ironia su questioni che ancora restano insolute, nonostante sia passato mezzo secolo.

In conclusione possiamo dire che a costituire il moto propulsore della terza stagione di La fantastica signora Maisel sia il bisogno di cambiamento, di trasformazione ancora più radicale, in un modo che però, come vedremo quando dovrà esibirsi allo storico Apollo Theatre di Harlem, non farà brillare la nostra protagonista. Trovandosi di fronte a un pubblico composto interamente da afroamericani, Midge comprenderà lo scarto, la distanza tra i rispettivi orizzonti culturali e sociali e capirà quindi di non poter offrire a queste persone nulla di già detto, di riciclato su un altro pubblico, il suo solito, rendendosi così conto, dopo il colpo di scena finale – come giustamente indica Ilaria Feole nel suo articolo su DINAMOpress – della responsabilità che implica l’essere padroni della parola e del linguaggio sull'altro.

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Amy Sherman-Palladino Daniel Palladino Rachel Brosnahan Michael Zegen Alex Borstein Tony Shalhoub Marin Hinkle 3 stagioni per 26 episodi
USA 2017
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Il lago delle oche selvatiche

di Andrea Giangaspero
Il lago delle oche selvatiche -Diao-Yinan-03

Sotto la pioggia battente, un orologio avvolto sul polso di una mano, marchiata da un piccolo tatuaggio e con le nocche imbrattate di sangue, mostra l’ora al suo possessore. Tutt’intorno a quest’attesa grava un senso di sonnolenta desertificazione, il silenzio immoto di un quartiere provinciale della cui precedente industrializzazione permane solo lo scheletro dei grigi edifici ormai diroccati, proiettati verso l’alto. In questo spazio, il gangster Zhou Zenong attende che si presenti la moglie a cui chiedere e insieme offrire soccorso, ma al suo posto si presenta un’altra donna, Liu Aiai, una delle Bathing Beauties, circolo di prostituzione che popola le spiagge e le località del Wild Goose Lake (Il lago delle oche selvatiche del titolo). Ma quest’aura di mistero, che ammanta la parte iniziale del film di Diao Yinan, viene subito meno, interrotta da un flashback che sgretola la linearità della sintassi: nel tentativo di sedare i tumulti sanguinosi tra un gruppo criminale e il proprio, Zenong finisce per sparare e uccidere accidentalmente un poliziotto, mobilitando la caccia all’uomo da parte delle forze dell’ordine che, mettendo in palio 300mila yuan per la sua cattura, assicurano pure la partecipazione delle gang locali. La sola disposta ad aiutare Zenong è Aiai, che in accordo con questi muove per farlo consegnare alla polizia dalla moglie, così che le due donne possano accaparrarsi la cifra in palio e cominciare una nuova vita in libertà.

La classicità del noir di Diao Yinan si fa da qui già evidente. Pare, del resto, che il regista recuperi il motivo e i caratteri incipitari di Fino all’ultimo respiro, sottraendovi l’operazione godardiana dello smantellamento del genere e della sua mescolanza con altri, e procedendo a mantenere la sua struttura tipica. Accanto alla tipizzazione del noir, vi è parimenti l’evidenza di un inquadramento sociale proprio del modo di fare cinema di tanta parte della Sesta Generazione Cinese, a partire dalle figure di Lou Ye (Summer Palace, Teatro Lyceum) e Bi Gan (Kaili Blues, Long Day’s Journey into Night), fino al richiamo più immediato della filmografia di Jia Zanghke, che più degli altri catalizza le curiosità della scena internazionale sul Cinema Cinese. Ma l’uniformità, la costanza di tale intendimento sociale si ripete nello stesso Diao, che già e appena più efficacemente l’aveva sondata in Fuochi d’artificio in pieno giorno (Orso d’Oro alla Berlinale del 2014), rischiando la prevedibilità della sua lettura e una certa inflessione verso la maniera. Così, nell’accerchiamento tra la brutalità della polizia e gli inseguimenti in moto dei criminali, anch’essi già tipici dell’ultimo Cinema Cinese, tra i movimenti avviliti di chi partecipa a una danza comune nell’orbita vuota della provincia e le ormai iconiche, luride tavole calde decorate di chincaglie pacchiane in cui si consumano soltanto noodles, si descrive l’ineluttabilità tragica del destino di Zenong. Col recupero di questi elementi – divenuti ormai catalogo da cui attingere – che contestualizzano la difficoltà, le storture della scena socio-economica della Cina continentale, ci accorgiamo da subito che non c’è scappatoia alcuna per questo povero diavolo: dalla volontà di trascinarsi nell’indolenza, Zenong è stato a sua volta trascinato in un vicolo cieco. La sua figura antieroica brancola nel buio, annaspa inutilmente in vista d’una salvezza da ricercarsi a causa di un dramma involontario. E tuttavia non è da questo inficiata la visione.

Per quanto l’intricata matassa narrativa dei continui capovolgimenti di fronte e fazioni si presenti di difficile scioglimento, il suo svolgimento è reso fluido per i puntuali accorgimenti formali ed estetici che la descrivono. Non è una novità che il gusto compositivo delle immagini di Diao sia di gran pregio. Il gioco di associazioni chiaroscurali già proprio di Fuochi d’artificio in pieno giorno qui s’attesta ancora più palesemente nella costante proposizione di illuminazione al neon che opera una ritenzione dell’oscurità, nega cioè l’inghiottimento nel buio della provincia industrializzata e della sua veste funerea e fatiscente. Il motore di Zenong è dunque decorato con neon rossi così da offrirci l’unica visibilità possibile della sua fuga alla cieca nella notte, sotto la pioggia battente: di qui, la sua ellissi visiva, causa dello sparo che ferisce a morte il poliziotto, diventa la nostra ellissi. Ancora, le scarpe luminose degli agenti di polizia disegnano traiettorie iridescenti, adornando di gusto estetico il moto farraginoso degli inseguimenti. Nondimeno, è la violenza a divenire l’oggetto principale del processo rappresentativo condotto da Diao. La sua brutalità ha sì un carattere ferale, comunicato per esempio nell’associazione visiva tra la gestualità del corpo umano che si prepara a praticarla e le inquadrature sugli occhi degli animali che abitano lo spazio attorno al lago, ma la sua esecuzione è quasi sempre sottratta alla visione. Resta di questa violenza esorcizzata allo sguardo, quindi, la sua stilizzazione formale ed espressiva. All’esaltazione del movimento di macchina, il montaggio sostituisce la sua frammentazione in fotogrammi che rompono il secondo: sono inquadrati così rapide fotografie di stritolamenti, di placcaggi, delle ferite che essi procurano. E anche quando la violenza rompe nel suo parossismo, essa ci è consegnata in forme atipiche, quasi tarantiniane, come accade per la detonazione, stilisticamente efficacissima, del sangue su di un ombrello apertosi dopo aver trafitto un uomo.

Nonostante l'emergere di uno sguardo di maniera, Il lago delle oche selvatiche è un’opera gustosissima con cui si conferma una volta di più la necessità delle attenzioni sull’ultimo Cinema Cinese, che vive ora e qui splendidamente del dialogo tra una propensione alla novità slanciata e bellissima, una componente di costante attenzione sociale, e il recupero di un temperamento atrabiliare verso le tradizioni del paese.

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Diao Yinan Hugh Hu Lun-Mei Kwei Liao Fan Regina Wan 113 minuti
Cina 2019
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Due scatole dimenticate - Un viaggio in Vietnam

di Carmen Albergo
Due scatole dimenticate - Un viaggio in Vietnam di Mangini e Pisanelli

A partire dal cortometraggio precedente Le Vietnam sera libre, Cecilia Mangini e Paolo Pisanelli, uno dei migliori sodalizi registici italiani di cinema non-fiction, proseguono il recupero e la rielaborazione di un inedito reportage della Mangini, allargando però la prospettiva e includendovi il delicato e intimo scandaglio di memoria personale della stessa autrice.

Due scatole dimenticate – Un viaggio in Vietnam non è infatti solo la valorizzazione multimediale (se si tien conto anche della mostra fotografica Cecilia Mangini -Visioni e Passioni, il cui backstage compone i titoli di coda) dell’ambizioso documentario intrapreso da Cecilia Mangini e Lino Del Fra tra il 1965 e il 1966 sulla guerra del Vietnam, progetto che a causa del forzato rimpatrio in Italia per motivi di sicurezza non andò oltre le fasi preliminari dei sopralluoghi sul campo. L’opera è in verità l’intensa rilettura emotiva, filtrata dal senno di poi, delle riflessioni che sottesero quel tempo di viaggio e ricerca e ancora oggi pervadono questo futuro–presente, quasi fossero fantasmi rimossi e irrisolti, in cerca di giustizia e giustificazione per le intenzioni non soddisfatte che ancora custodiscono. Prima che sia troppo tardi.

Molti raccordi tra le sequenze sono girati infatti con effetti distorsivi, quasi onirici, minacciosi buchi neri o varchi virtuali per dimensioni parallele, ma più d'ogni altro risalta il suggestivo dialogo di campo e controcampo ricamato senza soluzione di continuità tra inquadrature d’oggi e materiali di repertorio, come se una moviola ideale rinsaldasse spazi e salti temporali. Va così alternandosi un intreccio di stratificazioni narrative, che vede in superficie la cornice di commento onnisciente della protagonista (tanto il suo rammarico per quello che non è stato, quanto il suo ritrovato entusiasmo per questioni che le restano sempre care, come il ruolo portante delle donne nella società, da contadine a combattenti armate). Segue correlativamente in una immaginaria soggettiva, lo storytelling di istantanee degli straordinari negativi di pellicola ritrovati a distanza di cinquant’anni: scorci di città, porti e risaie, su cui si stagliano i ritagli della vita quotidiana di un popolo intero impegnato a conquistare e difendere con orgoglio la propria indipendenza. Volti, gesti e pose di donne e bambini, la calca della folla impegnata in intrattenimenti di piazza, persino una coppia di innamorati, lì dove tutto parla di distruzione incondizionata, sono accompagnati in voice over dall’interpretazione recitata della prima stesura di sceneggiatura che Lino Del Fra e Cecilia Mangini abbozzarono durante la loro permanenza in Vietnam.

A ciascun livello pare affidato un tenore e un registro distinto di racconto: la selezione e il montaggio dei materiali fotografici giocano con gli zoom sui dettagli e rumori di fondo contestuali, ora per sviare, ora per chiarire i soggetti ripresi, a simulare il difficile sforzo di ricomposizione memoriale; mentre la sceneggiatura recitata svolge una funzione conduttrice melodica, quasi pacificante a dispetto della lotta che va indagando; infine, ma decisamente prioritario nell’economia del film, la dicotomia tra memoria collettiva della Storia (risultante di immaginario, mitizzazione e mediatizzazione) e la memoria individuale (vittima dell’inesorabile età che avanza, per quanto allenata, ragionevole, militante). Una memoria personale che va frantumandosi, confondendosi nella galleria dei ricordi di una vita intera, fosse anche la vita di una testimone diretta e lungimirante della Storia medesima. Dicotomia, aporia, paradosso. Perché più si richiama alla mente l’infanzia lontana più i tasselli tornano indelebili, a tamburo battente, scolpiti nella pietra, al contrario più si risale all’età adulta e alla quotidianità, più tutto si sgretola, come un mandala non destinato a durare.

Il documentario si biforca, dunque, in un doppio diario di guerra vissuto dalla Mangini e riprodotto con Pisanelli. Da un lato il resoconto dei suoi giorni in Vietnam, scampata alle bombe aeree. La guerra Vietnamita, una guerra vinta. Dall’altro il diario di un conflitto in apparenza perso in partenza, la guerra contro le macerie della propria memoria, nonostante la sua casa sembri una trincea di resistenza, stracolma di libri, riviste, dischi, cimeli, catalogazioni cronologiche e geografiche, appigli pronti a colpo d’occhio e a portata di mano. Eppure anche in questa casa, vera e propria estensione d’archiviazione esterna, qualcosa ancora sfugge e il caso la fa da padrone, celando e riportando alla luce scatole ignorate e fuori posto. Scatole di scarpe, bottino di guerra, prezioso tesoro, inestimabile eredità per l'ancora poco praticato Cinema di Storia contemporanea, che per nostra fortuna la maestra del documentario italiano ancora non smette di consegnarci a piene mani.

Prodotto da Officina Visioni in collaborazione con Rai Cinema, il film è stato presentato in anteprima internazionale all' IFFR – International Film festival di Rotterdam 2020.

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Cecilia Mangini Paolo Pisanelli 57 min.
Italia 2020
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Birds of Prey e la fantasmagorica rinascita di Harley Quinn

di Matteo Marescalco
Birds of Prey - Recensione film Yan

Poco tempo fa, si discorreva sulla figura di Margot Robbie e sulla sua eterea e sognante Sharon Tate in C'era una volta a...Hollywood. Nel film di Tarantino, l'attrice prestava il proprio volto e la sua leggiadria alla costruzione di una forma d'innocenza che redimesse i ricordi e desse vita a una realtà nuova, liberata dal marchio dell'incubo. In un certo senso, altri due iconici personaggi interpretati dalla Robbie in Tonya e in Birds of Prey e la fantasmagorica rinascita di Harley Quinn si sono mossi sullo stesso binario. Anche Tonya Harding e Harley Quinn infatti hanno perseguito la ricerca di un regno incantato che risolvesse le storture del reale. La prima lo ha fatto nel biopic diretto da Craig Gillespie, attraverso l'instaurazione di un rapporto ludico con lo spettatore basato sulle tecniche del mockumentary e su frequenti rotture della quarta parete; il secondo personaggio, invece, quello della svampita omicida, gioca uno sport totalmente diverso.

Mollata da Joker, Harley Quinn attraversa un momento buio ed è in crisi con il modello di donna che vuole incarnare. Venuto meno il fidanzamento con la nemesi di Batman, la Quinn perde anche la sua protezione e dovrà affrontare tutti i cattivi di Gotham, coalizzatisi per vendicarsi dei torti subiti. Sulle sue tracce si mette una sorta di suicide squad al femminile: un'adolescente cleptomane, un'agente di polizia costretta a subire torti quotidiani da parte dei colleghi uomini, la cantante di un night club, una misteriosa assassina armata di balestra e l'egocentrico boss Black Mask. McGuffin del racconto? Un diamante che tutti quanti vogliono stringere tra le proprie mani.

Birds of Prey è il sequel diretto di Suicide Squad e, oltre che combatterne il testosterone e le scadenti critiche ricevute, vorrebbe aggirare lo snyderismo di fondo del primo periodo del recente DC Extended Universe. Già nel film anarchico e discontinuo messo in piedi da David Ayer, Harley Quinn rappresentava un fenomeno di costume difficilmente controllabile e, quindi, perfetto in vista della svolta Warner, che ha optato per lo scioglimento di un franchise solido e per la realizzazioni di film con relazioni meno vincolanti. D'altronde, lo stesso status del personaggio principale - una donna abbandonata e distaccatasi da un gruppo che, adesso, deve dimostrare a tutti i costi di sapersela cavare da sola - rispecchia la costruzione di un film che cerca in tutti i modi di vendersi come teaser per un progetto successivo.
In primo luogo, è proprio in questo senso che Birds of Prey può considerarsi come un esperimento fallito. Il fatto che al gruppo di mercenarie venga dedicato soltanto il terzo atto, costruzione seminale di un inevitabile sequel, priva gran parte del racconto dei momenti di gruppo - che sono quelli che meglio funzionano e hanno un buon impatto coreografico - e cozza contro le ripetute dichiarazioni della voce narrante di Harley. La contraddizione in termini è anche accompagnata da un'ansia nei confronti dell'azione che precipita più volte in un taglia e cuci funambolico e basato unicamente sul flusso mentale della sua protagonista. Tutti i ralenti, le accelerazioni e i colpi da commedia slapstick sono un riflesso mentale della precaria condizione psicofisica di Harley. Nulla, però, riesce a eguagliare la genuinità e la storta spontaneità di un film quale Suicide Squad, gigante dai piedi d'argilla, contenitore in grado di dar vita a svariate suggestioni cinefile e irruzioni di violenza e disorganizzazione da lasciare esterrefatti. Sembra quasi che sia la ricerca a tutti i costi della confezione autoriale a privare film quali Birds of Prey e Joker della capacità autentica di dialogare con il presente e di dare vita a complessità e contraddizioni interne che ne valorizzino la struttura.

È un vero peccato che la vera anima di un film del genere risieda nell'essere il controcampo di qualcos'altro piuttosto che un vero oggetto originale e grezzo. Lo spettro della normalizzazione è dietro l'angolo e sbatte fragorosamente contro le dichiarazioni di Harley Quinn, convinta davvero di essere diversa da tutti quanti.

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Cathy Yan Margot Robbie Mary Elizabeth Winstead Ewan McGregor Rosie Perez Chris Messina 108 minuti
USA 2020
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I due papi

di Laura Delle Vedove
I due papi - recensione film netflix

Ferdinando Meirelles immagina un incontro tra Papa Benedetto XVI e il Cardinale Bergoglio, nel momento decisivo in cui, ancora, immagina, si scambiano i ruoli, per invertire la Storia. Sotto una spinta progressista e francescana, ci spiega, Bergoglio dimette gli indumenti istituzionali del Sacro Padre per camminare con un paio di scarpe da individuo comune il sentiero tra gli uomini. Il Papa perde la sostanza del Santo, mentre Bergoglio gli si sostituisce, uomo in quanto uomo, eroe civile della sua terra, vento esotico e rivoluzionario. I due si studiano, l’uno (Bergoglio) guarda l’altro con sguardo compassionevole, l’altro (Ratzinger), con distacco e riprovazione. Ma impareranno ad accettarsi e a volersi bene. Questo è quanto.

I due papi non è dissimile dai tanti altri biopic che affollano le nostre “playlist” simpatizzanti per il Cinema anglofono, a volte più cinefile, altre meno. Perché? Se il meccanismo dell’incontro-intervista (qui replicato in forma più biunivoca e meno passiva) mette in moto la praxis della macchina del ricordo e della ricostruzione dei fatti, Meirelles, con i suoi piani sghembi, il montaggio frammentario e a tratti caotico, riesce per qualche tempo a farcelo dimenticare: cioè a farci dimenticare quella sostanziale unità di struttura linguistica che solo per trasformazione assume connotati meno tradizionali. Infatti I due papi porta in scena la storia delle origini dell’Eroe argentino destinato a fare la differenza e a spezzare i legami con il passato conservatore e scolastico dei vertici ecclesiastici. Senza indagarne o sondare le motivazioni, con quell’alone di mistero fumoso che attornia la chiamata di Bergoglio e quel pudore che si vorrebbe metafisico nel ripercorrere la storia di un Uomo. Mentre cresce il Mito si ammorbidisce Ratzinger, giusto per farcelo amare poco prima delle sue veramente rivoluzionarie dimissioni. Bergoglio non capisce, «Gesù non è sceso dalla croce», non è certo venuto meno alla sua fine di martire: un Papa non smette di esserlo perché un’istanza intima ed egoista del proprio Sé ha deciso per lui. Si intuisce che il progressismo bergogliano ha pur sempre un limite – quel giusto limite che ci permette di trovare in lui una condotta, una missione irreprensibile, tutta la moralità di cui la Chiesa ha bisogno. Ecco emergere il peccato, tutto sommato veniale, di Anthony McCarten (a cui si deve il soggetto di questo e altri recenti biopic): I due papi legge la Storia sotto un registro pop – quale in effetti è, nell’immaginario contemporaneo, l’icona di Papa Francesco – procedendo a una santificazione costante e progressiva dell’uomo (semplice, che storce il naso davanti ai canederli dell’austero tedesco) accentuata dal confronto con l’Alterità debole, sorpassata, obsoleta di Benedetto XVI. All’archetipo del Padre si sostituisce quello della Madre, per questo accogliente, limbico, ovviamente mistificato. Ma così facendo si attua una radicalizzata e radicalizzante semplificazione della realtà, per ridurla a due poli estremi dove è più facile comprendere la simpatia, l’affabilità del nuovo candidato al Ruolo – che è persino riluttante, da quanto è modesto – piuttosto che i dogmi scomodi, bui, inudibili del Potere. Resta un film prova della sua Santità, che è già tutta lì, pronta per diventare icastica; nel momento in cui Francesco appare nella vita di Joseph, a quest'ultimo si riavvicina Dio. Ma di spirituale non c’è niente.

Nella visione conciliatoria di una Storia sottile, Ratzinger cade “in vacuo” come oppositivo strumentale, la cui estraneità dal mondo e dalla pragmatica si risolve nella disconoscenza musicale dei Beatles e nella chiusura autarchica nella propria cultura tradizionale. Beatles come simbolo: Bergoglio globalizzato, cosmopolita, pop-olare, unificante, ci distanzia dalla secolarizzazione minacciata dal contemporaneo; Ratzinger emblema del tramonto del Vecchio Mondo, legato a passatismi troppo lenti per correre veloce con l’internet. La contrapposizione ideologica incontra una riduzione del significato plateale e con essa la mortificazione non così velata del bagaglio di studi teologici del Cardinale di cui, ovviamente, non abbiamo più bisogno. Con questo non si vuol ridurre la portata storica del passaggio, né adombrare l’apertura irrimandabile (e incompleta) che ha coinvolto la Chiesa con(testualmente) l’elezione di Bergoglio. Tuttavia, Meirelles e McCarten alla riflessione di una prospettiva inedita preferiscono l’abbraccio caloroso del sempiterno leitmotiv biografico, il “cine-romanzo” che ricalca una storia già conosciuta, sufficientemente immaginaria da convogliarsi verso esigenze di racconto (il doppio, l’anzianità, l’attualità) e sufficientemente verosimile da non darsi in toto alla fanta-storia. E allora il film si può finalmente leggere come una celebrazione, certo monolitica, di Francesco, un para-testo che contribuisce a solidificarne la fama con lo sguardo buono di un Jonathan Pryce vertiginoso (mentre Anthony Hopkins di fatto riabilita l’immagine di Ratzinger con una performance mastodontica). Esigenze di spettacolarizzazione a cui, tuttavia, non perdoniamo l’uso un po’ beota del motivetto di Bella ciao, in odore di sorrentiniani ossimori. Tanto a dirvi: parliamo di tutto e di niente.

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Fernando Meirelles Jonathan Pryce Anthony Hopkins 125 minuti
Argentina, Italia, UK, USA 2019
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L'apprendistato

di Giorgio Sedona
L'apprendistato di Davide Maldi

Seconda parte della trilogia sulla formazione, L’apprendistato di Davide Maldi, è una docufiction dal sapore verghiano. Facendo proprio il processo di definizione del reale, costruito insieme alla realtà documentaria proposta, il lungometraggio accompagna Luca e i suoi compagni nell’arco del primo anno scolastico presso un rinomato istituto alberghiero di Domodossola. E’ ben evidente l’intento di riproposizione del rito di passaggio, il protagonista è in transito da una realtà contadina, dove vige la regola della libertà incondizionata - definita in immagini quali la caccia istintuale e ferina in ambientazione naturalistica - alle regole ferree del collegio risonanti tra le mura dell’istituto, dove imparare l’arte del servizio verso il cliente è anche un portale di accesso alla vita adulta e ai suoi necessari compromessi. Spesso nel film viene richiamata alla disciplina un’istintività cinetica anarchica, caratteristica di un’indole indocile da (co)stringere dentro a una livrea.

L’apprendistato di Luca è l’apprendistato di Maldi, è la stessa volontà di porsi in ascolto di una realtà vissuta in prima persona, internamente al processo e al contesto rappresentato, come spettatore consapevole e partecipante di una crescita, individuale e sociale, da un lato, e come parte attiva di una realtà da dirigere plasticamente dall’altro. Scelta questa che avvicina nelle intenzioni il cinema di Maldi al lavorìo sul (e nel) reale di Minervini. Come la migliore tradizione narrativa verista anche la narrazione di Maldi procede tramite una struttura antifrastica. Le due scene, una in apertura e una in chiusura, che segmentano la messa in scena del collegio - la prima mentre vediamo Luca che inizia a scalare una simbolica salita prima di fare il suo primo ingresso nel collegio, la seconda nell’uso del funzionalissimo sguardo in macchina finale - sospendono il racconto e plasmando il significato ultimo. Non sappiamo, quindi, se l’iniziazione di Luca viene completata, se egli è piegato dalle regole della livrea, o se quest’ultimo, in quel suo ultimo sguardo, schermi il contesto lavorativo tramite una consapevolezza di facciata che nasconde il vero senso anticonformista in lui mai assoggettato, spirito costituente di un’attitudine anarchica. Due parentesi che includono una narrazione definita da tempi didattici ben scanditi, dove ogni passo è un avvicinamento alla consapevolezza dell’età adulta. Tra il lavoro di sala, il lavoro di cucina, lo studio delle lingue e alcune uscite nelle navi da crociera, il gruppo di studenti del primo anno si trova di fronte alla dura gavetta, in un ambiente dove si inizia dal basso, dal pavimento, dalla pulizia del corpo e dell’ambiente. I momenti di fuga per Luca dall’occlusione del collegio sono brevi parentesi notturne, trascinamenti nell’immersione in un mondo fatto di ombre, di figure rapaci imbalsamate come la sua indole indocile, in un chiaroscuro ribelle nel mondo delle regole che dorme. Momenti in cui si fuoriesce dalla regola del rito di passaggio, dall’iniziazione, e ci si lascia trasportare dalla curiosità, dal gioco, da quella spinta infantile e caratteriale che nello sguardo in macchina finale viene assimilato o frainteso.

Iniziata con Frastuono la trilogia dell’iniziazione si aggiunge di un nuovo tassello, definito sull’omologazione societaria dell’individuo adulto rispetto all’energia attitudinale del carattere ribelle. L'apprednistato sa rivolgere allo spettatore molte domande, lasciando spazi aperti all'interpretazione spettatoriale.

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Davide Maldi Luca Tufano Mario Burlone Lorenzo Campani Enrico Colombini Cristian Dellamora 84 minuti
Italia, 2020
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Depraved

di Pietro Lafiandra
Depraved - recensione film frankeinstein fessenden

Come si può, nel 2020 (o meglio, nel 2019, anno di distribuzione del Depraved di Larry Fessenden) rivisitare Frankenstein senza adagiarsi sull’oleografia dei vari Whale, Branagh, Corman, o senza parodiare le versioni pulp di Warhol e Morrissey/Margheriti (Il mostro è in tavola… barone Frankenstein), i cross-over di Franco (Dracula contro Frankenstein), i già ironici film di Mel Brooks (Frankenstein Junior) e Barton (Il cervello di Frankenstein), lo sperimentalismo barocco di Ken Russel (Gothic)? Come si può, soprattutto, dopo che i tentativi più recenti di riproporre l’universo narrativo nato dalla mano di Mary Shelley — da I, Frankenstein a Victor — avevano esplicitato le difficoltà di trattamento di un intreccio ormai radicato nella cultura popolare e saturo di rivisitazioni post-moderne, alcune delle quali già avevano ampiamente destrutturato e rielaborato non solo il materiale originale ma la stessa sensazione di déjà-vu derivatane?

Spostando il fuoco dal contenuto alla forma, ma soprattutto mettendo in discussione l’ontologia del suo stesso lavoro di regista, Fessenden non agisce tanto sulla risposta a queste domande quanto sulla domanda stessa, una domanda che, sintetizzata, suona più o meno così: cosa vuol dire fare un film sul mostro di Frankenstein oggi? Sarebbe a dire: cosa vuol dire essere uccisi e riportati in vita, squartati e ricuciti, fatti a pezzi e ri-assemblati dopo l’avvento dei media digitali? E ancora: non è, forse, che il ruolo del regista sia giunto a collimare in tutto e per tutto con quello chirurgico del dottor. Frankenstein, nel tentativo di riportare (e di mantenere) in vita un corpo (quello filmico) che sembra essere morto (con riferimento all’idea novecentesca di cinema come apparato composto da sala-pubblico-proiettore-schermo) attraverso un patchwork di componenti differenti, un lavoro di taglia e cuci?

Nel film vediamo Adam — l’uomo nuovo e al contempo il Primo uomo — che, ribattezzato dopo essere stato ucciso e successivamente resuscitato da un chirurgo, più volte si vede costretto a contemplare i brandelli della sua nuova identità all’interno di un realtà che, dopo averlo riaccolto tra i vivi, è subito pronta a farlo nuovamente a pezzetti, a frammentarlo, a macellarlo, obbligandolo alla contemplazione narcisistica del suo volto e del suo corpo — vivo o morto che sia — attraverso gli smart-phone, gli schermi, condannandolo così a un limbo di matrioske, di immagini dentro immagini che lo privano di una precisa identità, di un preciso posto nel mondo.
Non è un caso che la nascita forzata di Adam (il verbo fatto carne, il verbo fatto immagine) derivi dalla necessità di colmare un’immagine mancante e inconcepibile, il trauma della morte testimoniata in terza persona da Henry, il moderno dottor. Frankenstein che, reduce della seconda guerra del Golfo, soffre di disturbo da stress post-traumatico e, per curarsi, vuole contrapporre alla non-immagine della morte a cui ha fatto da spettatore l’immagine della vita di cui è stato regista, la nascita di Adam.

Adam non è però solo il protagonista del film, ma è anche il film stesso, un film-Frankenstein che introietta la pluralità di forme che hanno obbligato il cinema a disperdersi per poi ricucirsi in una forma nuova, una forma mostro, per alcuni. All’interno di Depraved convergono infatti, oltre ai precedenti film su Frankenstein e la sua creatura (come nel secondo adattamento di Whale, Adam si mostra desideroso di avere una compagna), anche differenti forme d’immagine, dalle elaborazioni grafiche, forme digitali astratte vicine al cinema sinestetico/cibernetico di Jordan Belson o John Whitney, utili per rappresentare lo stato allucinatorio e l’elaborazione delle informazioni del nuovo cervello di Adam, al materiale d’archivio, le riprese dalle telecamere di sorveglianza che custodiscono la memoria traumatica che sveglia la rabbia del mostro e conduce all’inevitabile finale truculento in cui Adam si ribella al suo stesso creatore, chiudendo un cerchio che lascia lo spettatore con un’ultima domanda: chi è il depravato? Forse, esattamente come accade nel finale del film, il creatore di immagini che le mette al mondo e le lascia vagare per la foresta senza alcuna risposta.

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Larry Fessenden David Call Joshua Leonard Alex Breaux Ana Kayne 114 minuti
USA 2019
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