La pelle di Satana

di Matteo Marescalco
La pelle di Satana - recensione folk horror

Nel suo The History of Witchcraft and Demonology, Montague Sommers definisce le streghe come devote a un credo osceno e aberrante, esperte di ricatti e di altri subdoli crimini, blasfeme nelle parole e nei fatti, in grado di plagiare gli abitanti dei villaggi con il terrore e la superstizione, maestre di vizio e di inaccettabili corruzioni, e dedite al nutrimento delle più turpi e ripugnanti passioni del tempo. In modo particolare, secondo la dottrina demonologica, carattere saliente del personaggio mitologico della strega è quello di stringere un patto con il Diavolo e di concederglisi anche sessualmente. Durante il grande raduno del Sabba, al quale presenzia Satana nelle sembianze di un grande caprone (raffigurato più volte da Goya in questa forma bestiale), le streghe si sottomettono al Diavolo e scatenano le orge, partecipando a una messa nera che si conclude con il sacrificio rituale di innocenti.

Nel corso della sua storia e nell’ambito delle teorie orientate a un ripensamento critico delle intersezioni tra cultura e genere, l’horror – in modo particolare – ha incorporato nella sua struttura i segni specifici degli eventi sociali e politici che hanno caratterizzato la storia dell’umanità. Concentrando la nostra attenzione sull’horror cinematografico, è possibile parlare di una collisione tra sistema di segni della semiosfera di natura culturale (trauma storico) e di un’altra di natura generica. Attraverso un ripensamento della relazione tra genere e real trauma in termini di allegorical moment, l’horror ha aperto i propri confini per incorporare significati extratestuali dello spazio semiotico dei traumi di natura culturale. Insomma, i film di genere non rappresentano direttamente l’evento traumatico ma lo adattano, lo ridefiniscono e trasformano i suoi segni, ponendoli in dialogo con le convenzioni narrative della struttura di racconto di riferimento.

La pelle di Satana è un folk horror prodotto in Gran Bretagna nel 1971 e realizzato grazie alla Tigon British Films, la terza sorella del cinema di genere britannico insieme ad Hammer Films e ad Amicus Productions. Eppure, nel 1968, è stata proprio la Tigon a firmare uno dei capisaldi del genere, Il grande inquisitore, film che ha affondato le mani tra le leggende, le cronache popolari, il folklore locale, il paganesimo europeo e le superstizioni, e che ha raccontato il mondo e gli uomini come strumenti manovrati dal Male, in attesa di quel The Wicker Man che, appunto, insieme a La pelle di Satana costituisce la triade del folk-occult horror a cavallo tra gli anni ‘60 e ‘70, epoca che ha fornito al mondo del cinema numerosissime occasioni di rappresentazione e rielaborazione mediale.

Un piccolo villaggio dell’Inghilterra rurale del XVII secolo è scosso dal ritrovamento di un cadavere parzialmente dissotterrato e ricoperto di pelo. Il boscaiolo che ha rinvenuto il corpo avverte il giudice del paese ma la sua perquisizione non porta ad alcunché. Nel giro di pochi giorni, però, il villaggio cade preda del Demonio. Una strana epidemia si diffonde in tutta la comunità, macchie ispide di pelo crescono su lembi di pelle dei più giovani, che iniziano a riunirsi tra i boschi per dare vita a strani riti oscuri. Toccherà alla retroguardia, guidata da un razionale abitante della città, contrastare l’avanzata di Satana.
Evitando di soffermarsi troppo sul fatto che il film presenti, in effetti, poche scene efferate e puramente horror, e che la costruzione dell’atmosfera sia, piuttosto, delegata a sequenze perturbanti rette da un orrore subliminale, sottocutaneo e, per questo motivo, molto più intenso di quello tradizionale, risulterebbe impossibile non cogliere i riferimenti del titolo alla situazione statunitense di fine anni ‘60. In un periodo in cui Charles Manson e i suoi accoliti spopolavano (a tal punto da spingere i media all’utilizzo del nuovo termine home-invasion), le cultural wars e gli hippie esprimevano la loro vis contestatrice nei confronti della generazione dei genitori e Romero e Craven sancivano il passaggio del cinema horror dal classicismo alla modernità e a una dimensione di orrori reali e contemporanei, La pelle di Satana riesce a tessere la propria tela inserendosi con merito nell’agone critico d’epoca.

Nel film, il Demonio appare come una presenza strisciante e sfuggente, individuabile soltanto attraverso le stimmate che provoca tra i giovani del villaggio, probabilmente colpiti da una sorta di allucinazione collettiva da fumi del sabba. Satana apre le porte della percezione e accoglie i giovani della comunità, il cui coming-of-age, in un certo senso, passa attraverso la distruzione sistematica del mondo dei genitori. Ecco che la frenesia puberale degli adolescenti si trasforma rapidamente in rivolta verso le istituzioni degli adulti e le loro convenzioni sociali, abbattute attraverso una fruizione dirompente e sfrenata della sessualità. Almeno, fino all’intervento di giudici e gendarmi per ristabilire l’ordine sociale.
Per quanto didascalico nella sua intuibile struttura retorica e rapido in un finale che ristabilisce lo status quo e appiattisce ogni tensione dialettica in modo fin troppo immediato, La pelle di Satana dimostra di essere un prodotto in grado di inserirsi pienamente nella sua contemporaneità, di intrecciare abilmente realtà storica e leggende folkoristiche, di dare vita ad un terrore irrazionale provocato da ripetute incursioni nel mondo del fantastico e di possedere anche il merito di mantenersi lontano dall’exploitation più mediocre. 

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Piers Haggard Patrick Wymark Linda Hayden Barry Andrews Michele Dotrice 93 minuti
Regno Unito 1971
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Tales From The Loop

di Saverio Felici
Tales from the Loop - recensione serie Amazon.jpg

Se in televisione spetta a ideatori e showrunner farsi carico del ruolo di demiurghi storicamente affidato ai registi, allora Tales From The Loop di autori ne ha almeno due. Ed è facile, per una volta, stabilire dove finisca l'opera ispiratrice (Simon Stålenhag) e inizi quella narrativa (Nathaniel Halpern).
L'artista svedese è il nome di copertina, ma a differenza degli altri grandi designer del cinema (da Syd Mead a H.R. Giger) il suo coinvolgimento nel prodotto finale non è diretto. Dai suoi celebri quadri digitali (incontri ucronici tra tecnologia futurista e società rurale dall'estetica inconfondibile) prendono vita tante piccole, frammentarie narrative più o meno apocrife: racconti, giochi di ruolo e ora questa prima serie Amazon Prime Video. Un lavoro su commissione posto sulle spalle dello scrittore televisivo Halpern; a lui il gravoso compito di improvvisare, riempire i buchi, articolare partendo da una matrice genetica elementare come una serie di dipinti un universo estremamente personale.

L'opera di Stålenhag si fa tv attraverso una serie di mediazioni e compromessi. Anzitutto, quello geografico e sociale: al posto delle campagne svedesi dell'infanzia dell'autore, in Tales From The Loop il panorama (perfettamente sovrapponibile) è quello del Midwest americano; e come era tutto sommato facile prevedere, la chiave scelta per traslare gli evocativi scorci in un format televisivo diventa quella delle rêverie anni '80, della provincia e delle fantastiche avventure dell'infanzia. Ma come la robotica in stato di abbandono nell'arte di Stålenhag, tutto appare dimesso, crepuscolare. Come è crepuscolare la grande saga familiare dei Willard, famiglia blue collar tenuta insieme da segreti e rimpianti, i cui adulti lavorano alla manutenzione del Loop: un fantastico acceleratore di particelle custodito nel sottosuolo e che, programmaticamente, “rende le cose possibili”, intrecciando i propri effetti alle vite della comunità.

La maniera in cui Halpern ha scelto di operare sui lavori di Stålenhag rende inevitabile confrontarsi con il grande dibattito di questi anni in merito agli sviluppi presenti della letteratura fantastica. Senza ricapitolare per l'ennesima volta le principali posizioni teoriche a riguardo (Simon ReynoldsMark Fisherretromania e hauntologia, autori e terminologia ormai giustamente parte di un bagaglio culturale condiviso), è chiaro che anche il Loop Amazon, come mille altri prodotti coetanei, alle capacità speculative dello sci-fi è interessato meno di zero; non è lo slancio verso il futuro ad animarlo quanto, al contrario, una dipendenza simbiotico-parassitaria dal passato, e dal culto pornografico per la nostalgia. Non è un caso che, tra le mille fantasmagorie ucroniche portate in scena, il grande assente sia nientemeno che Internet: la tecnologia di Halpern e Stålenhag non è digitale né contemporanea, non ha operato la sua storica fusione con il privato, non è strumento comunicativo o di controllo. È piuttosto analogica, meccanica, addirittura magica.

Pastorali dove la tecnologia non solo è arrivata da un pezzo, ma è anzi già in dismissione, integrata e abbandonata con fastidio, ennesima “grande opera” lasciata a metà da qualche inopportuno taglio di fondi pubblici: spingendosi un po' oltre il testo, il retrofuturismo di Stålenhag può in fondo essere letto proprio come una implicita critica alla povertà immaginativa di questa end of history postmodernista.  Nella serie Amazon, i luoghi dell'artista diventano il terreno del meraviglioso bambino, dell'elegia bucolica, un po' Norman Rockwell un po' Pascoli. Il “futuro” è un termine senza significato: è un fondale misterioso, muto, fantasma di possibilità negate; ridotto a panorama eighties perenne, nuovo West leggendario in cui perdere e ritrovare se stessi, con il mondo dello spettatore ha ormai lo stesso legame che hanno i libri di fiabe con la quotidianità dei bambini che li leggono.

Eppure, accusare Tales From the Loop di tradire le proprie potenzialità sci-fi sarebbe fuori strada rispetto alle effettive ambizioni della serie. Scomponendo la crasi che definisce il genere, si può dire che gli otto racconti di Halpern siano sicuramente “fanta”; ma la “scienza”, con tutto ciò che comporterebbe porsi in maniera critica se non almeno dialettica nei suoi confronti (come fanno altri contemporanei, magari non raffinatissimi ma senz'altro ambiziosi, come Black Mirror o Westworld), è completamente esclusa dall'equazione. I suoi MacGuffin (meteoriti, reliquie, materiali inorganici) sono artefatti magici, lampade di Aladino o sfere del drago, sepolte nella foresta in attesa di sottoporci a difficili prove morali. È così che la sua necrofilia trova quasi un senso: non è una serie sulla società del futuro, quanto sul passato, sul tempo interiore apparentemente sempre uguale dell'infanzia e dell'adolescenza. Un mondo in cui pensare al di là diventa non solo impossibile, ma proprio non-desiderabile.

Nei suoi formati da tv scandinava traslata su suolo americano, con i suoi tempi e i suoi silenzi, i campi lunghi in magic hour e gli alberi fruscianti, Loop gioca con il familiare. Per ognuno dei suoi otto racconti, Halpern prende a prestito una serie di topoi dello sci-fi più classico, con il moderno afflato della rielaborazione: si va dal viaggio nel tempo stile La Jetée alle leggi della robotica al body swap e la paura del diverso. Il format antologico permette ai registi-superstar di muoversi su episodi cuciti su misura; il migliore è prevedibilmente Ti West, bello e terribile l'episodio della coreana Son Yong Kin, bravissima l'ormai impeccabile Jodie Foster a tirare le somme nell'ottimo finale. Andrew Stanton va di pilota automatico con nonni e bambini (ma ha Jonathan Pryce a fargli il lavoro sporco strappalacrime) mentre la frigidità sotto zero del complesso penalizza i due atroci episodi a tema amoroso.

Ma la tentacolare opera di Halpern ha un'anima umanista che la grave percentuale di episodi mediocri porterebbe a ignorare. Arrivato in fondo alla sua piccola epopea familiare, Tales From the Loop si rivela, col cuore in mano, come un piccolo apologo sui legami umani, sul tempo, sulle ramificazioni e le correlazioni che intercorrono e uniscono le generazioni di una comunità alla fine della storia. Persa in un tempo mitico in cui nulla accade, la tecno-magia di Stålenhag diventa l'ultimo testimone in grado di connettere vite lontane e distrutte. La somma delle parti moltiplica i suoi frammenti in un'opera più vasta e complessa, e vista da lontano trova (incredibile!) una voce originale.

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Jonathan Pryce REBECCA HALL DANIEL ZOLGHADRI DUNCAN JOINER 1 stagione da 8 episodi
USA 2020
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Marketa Lazarová

di Gian Giacomo Petrone
Marketa lazarova - recensione film Vláčil

La capacità dell’immagine filmica di far affiorare il Mito, non in guisa di vestigia riattualizzate in un contesto spaziotemporale ad esse costitutivamente estraneo, bensì cogliendone lo spirito originario e arcano, deve probabilmente fare i conti con quella che Pasolini individua come la doppia natura del cinema, ovverosia i due livelli che ne articolano la significazione visiva: uno, esposto e razionale; l’altro, sotterraneo e irrazionale. Entrambi coesistono in molte opere, con la predominanza del primo, com’è facilmente intuibile, nel contesto della narrazione classica. E tuttavia, è solo nel secondo che emerge “l’originaria qualità onirica, barbarica, irregolare, aggressiva, visionaria” del visibile.
In Marketa Lazarová, František Vláčil non solo sembra accogliere la lezione di Pasolini, ma la spinge alle estreme conseguenze, optando per il superamento continuo del razionale tramite l’irrazionale, sia sul versante del racconto sia su quello del linguaggio filmico. Inoltre, si possono riscontrare altre assonanze con la riflessione pasoliniana nella difficoltà del regista e dell’altro autore dello script, František Pavliček, nell’adattare (la “struttura che diventa altra struttura”) il romanzo di Vladislav Vančura Il cavalier bandito e la sposa del cielo, da cui il film è tratto. Si parla di un arco di tre anni (1964-1966) solo per terminare la fase di stesura.

Marketa Lazarová mette in scena l’antagonismo fra due clan rivali e i loro rispettivi leader, Kozlik (Josef Kemr) e Lazar (Michal Kožuch), nella Boemia del tredicesimo secolo, retta dalla dinastia Přemyslide e ancora divisa dal lacerante scontro fra paganesimo e cristianesimo. La rivalità fra i due uomini, che coinvolge anche il re moltiplicando i fattori di conflitto, si estenderà ai figli di entrambi, innescando una fatale reazione a catena.

Film radicalmente polifonico, Marketa Lazarová si delinea come un’autentica liturgia del caos, che – fatta parziale eccezione per la protagonista del titolo – non concede alcuna, neppur minima, possibilità di riscatto. Una narrazione rapsodica, che si focalizza sui molti personaggi privilegiandoli tutti, quindi senza condurre all’identificazione con qualcuno di essi in particolare, accompagna lo spettatore in una sorta di girone dantesco, in cui a dominare sono le pulsioni di morte, di potere, di vendetta. Nemmeno Marketa (interpretata da un’intensa Magda Vášáryová) riceve attenzioni maggiori delle altre figure – vista anche la sua assenza in molte sequenze significative della seconda parte dell’opera – salvo nel finale, in cui, a differenza degli altri personaggi centrali, riesce a intravedere un tenue spiraglio di riconciliazione con la vita. Il ricorso continuo all’analessi, senza marche espressive che delimitino i piani temporali, mette in comunicazione il presente con il passato senza soluzione di continuità, creando la vertigine di un unico Tempo del racconto, in cui i rapporti di causa-effetto e l’intelligibilità dell’intreccio vengono sospesi per vivificare i volti, i gesti, le posture, per far uscire dalla latenza le segrete trame che legano le ferite del corpo a quelle dello spirito.

A Vláčil non interessano né la storia antiquaria né la storia monumentale, avendo egli come movente principale l’urgenza di lasciar trasparire il fosco Zeitgeist di un’epoca torva eppure vitale, di lasciar intravedere il Mito che si agita sotterraneo sotto le spoglie della cronaca. Ecco allora che trovano una coerenza interna all’opera sia gli elementi tematici sia quelli stilistici e narrativi, che convergono verso una realtà inserita indubbiamente nel tempo circoscritto del resoconto storico-aneddotico, che nondimeno diviene altro da sé, trasformandosi nell’atemporalità del sempre-essente, dell’universale che permea trasversalmente le vicende umane, riunendole sotto le insegne di un destino comune. Ordine e disordine, razionale e irrazionale si contrappongono sia nel contesto della diegesi sia in quello della messa in scena: la risoluzione del confronto si configurerà a favore dell’irrazionale in entrambi gli ambiti, conducendoli a un dialogo incessante e fecondo, a una ideale comunione di intenti ed esiti. Là dove il medioevo della narrazione si configura come età del caos barbarico, rappresentato da innumerevoli interessi locali in lotta fra loro, un caos temperato a fatica dall’ordine trascendente del divino, incarnato dalla Chiesa, e da quello immanente del potere temporale, personificato dal monarca, allo stesso modo il visibile e l’immagine sono il dominio del caos dei segni, un dominio strutturato dal regista per veicolare frammenti di senso più o meno ampi e per rendere più o meno discernibile l’insieme. In Marketa Lazarová, se nella diegesi sono i poteri centrali a vacillare al cospetto delle ambizioni private, nella messa in scena a vacillare è l’assetto regolato degli eventi, continuamente disatteso dall’accostamento libero, immaginoso e genialmente arbitrario, tramite il montaggio, di eventi distanti nel tempo e nella consequenzialità logica. Vláčil decide infatti di lasciar prevalere il proliferare dei significanti (e dei personaggi) a discapito dei significati; di rompere continuamente la grammatica filmica e la chiarezza espositiva a favore di una sorta di incessante flusso di coscienza; di fondere figura e sfondo, ergendo l’ambiente spoglio, scarno, primordiale, e reso ancor più spettrale dal bianco e nero, a protagonista aggiunto e onnipresente. In tal modo, lo sviluppo narrativo tende a corrispondere all’effettiva disposizione dei fatti, e questi ultimi, così come la maggior parte delle vicende umane, non rientrano in alcuna sistemazione logico-matematica del reale, bensì si irradiano seguendo gli arabeschi beffardi del caso, le sottili volute del fato, il cui compimento è, per tutte le creature che abitano sotto il sole, la dissoluzione.

Forte di un impianto visivo di prim’ordine, grazie anche al magnifico bianco e nero di Bedřich Baťka, e di una complessità stilistica con pochi eguali, impreziosito dalla colonna sonora del grande Zdeněk Liška, basata su melodie tradizionali e canti gregoriani, Marketa Lazarová è senza dubbio uno degli esempi più fulgidi non solo del cinema cecoslovacco, ma di tutta l’Europa dell’est prima della caduta del Muro. Un territorio filmico ancora semisconosciuto e ancora in buona parte da esplorare.

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158 minuti
Cecoslovacchia 1967
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Onibaba - Le assassine

di Alessandro Gaudiano
Onibaba - recensione film shindo

Un mare d'erba alta, smosso da implacabili folate di vento, è il silenzioso mondo dove si svolge il dramma di Onibaba. Qui, ai margini della civiltà e in un abisso di miseria, i sopravvissuti di una guerra interminabile si nascondono dai propri nemici. Una lama guizza tra la vegetazione: colpiti a tradimento, vengono uccisi e derubati. Gli assassini non sono soldati, né spiriti malvagi: emergono due donne dallo sguardo ferino, private di ogni mezzo di sostentamento e affamate. Per vivere sono spinte ad uccidere e vendere le armi e armature dei soldati morti. Il tutto per un pugno di miglio.
Il tessuto sociale e famigliare al centro di Onibaba è distrutto: la più giovane delle donne è rimasta vedova del marito Kichi, figlio dell'altra. Quando la vedova cede al rozzo corteggiamento del compagno d'armi del marito, sfuggito all'insensata carneficina dei signori feudali, il delicato equilibrio della sopravvivenza si spezza. La madre di Kichi cerca di dissuadere la giovane donna con ogni mezzo.

Il film di Kaneto Shindo mette in scena uno stato di natura quasi insostenibile: i protagonisti di questo film dell'orrore sociale non possono che pensare al loro prossimo pasto. Come in altri film dell'autore, le donne sono le vere protagoniste e lo sviluppo della trama dipende dalle loro azioni. Le due protagoniste si muovono come predatori, adocchiano le potenziali vittime senza alcuna ferocia né compassione, ma con la determinazione animale di chi vive nella violenza. In questo mondo, si uccide perché non esiste altra scelta per vivere. Il mondo di Onibaba è fatto di fame, egoismo, passioni incontrollabili.
L'anarchia è nelle capanne, nei rapporti famigliari che si riducono a cibo e sessualità. Un completo ribaltamento della dimensione rituale della vita, tanto presente nella cultura giapponese quanto ostentata nei film che rappresentano l'altro lato della guerra e della cultura classica: i nobili, i samurai, gli imperatori e i fantocci. Questi ultimi saranno il bersaglio di Shindo in una delle sue opere più riuscite: Kuroneko.

La fragile esistenza dei tre protagonisti arriva a un punto di rottura quando un guerriero con il volto coperto da una maschera di demone si presenta alla capanna. La donna più anziana è sola e, per liberarsene, lo fa cadere in una buca. Decide di impossessarsi della maschera per spaventare la nuora e scoraggiare le sue escursioni notturne nella capanna dell'uomo. L'oggetto maledetto farà il resto.
Anche senza la maschera, Onibaba non perderebbe nulla della propria coerenza. La tragedia sembra inscritta nelle vite dei suoi personaggi, come in Ossessione di Luchino Visconti. La maschera demoniaca è un simbolo, un omaggio alla dimensione teatrale della messa in scena. E un discorso simile varrebbe per la buca, che apre e chiude il film. La buca è sempre stata lì, e in quella bocca nera giacciono le ossa di innumerevoli vittime. Sarebbe legittimo pensare, come lo spettatore, che sia la tana di un mostro. Shindo lascia la questione in sospeso, e la fossa assume la dimensione di una metafora aperta: una ferita nell'ordine delle cose, un cupio dissolvi verso cui gravitano tutti i mostri e i disperati che corrono tra l'erba alta.

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Kaneto Shindo Nobuko Otowa Jitsuko Yoshimura Kei Sato 103 minuti
Giappone 1964
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Amazing Stories

di Leonardo Strano
Amazing Stories - recensione serie apple

Storie pazzesche, miti d’oggi. C’è una morale del segno, scriveva Roland Barthes, e la morale del segno è che «non dovrebbe darsi che in due forme estreme: o francamente intellettuale […]; o profondamente radicato, in qualche modo reinventato ogni volta, aprentesi su un aspetto interno e segreto, segnale di un momento e non più di un concetto». Tra le due categorie citate, la Spielberg face sembra appartenere alla seconda: il volto della meraviglia è un segno aconcettuale generato dall’asimmetria, viscerale eppure sempre diverso, una finestra sul segreto. Nasce dalla commistione di gioia e terrore verso il non-limite del fuori campo, rimbalza in uno shock di ritorno sui connotati di chi guarda, e firma un cortocircuito (faccia a faccia) di partecipazione illimitata. Non è un caso che tutti gli episodi del remake di Amazing Stories (la serie originale dell’1985 a sua volta ispirata alla rivista omonima del 1926) cerchino continuamente questo segno che sta tra il potente e il profondo, dice tutto in pochi termini ed è perfettamente riconducibile a uno stato di estasi filmica.

La serie prodotta da Apple TV+e sviluppata da Kitsise Horowitz (oltre a Spielberg, in veste di executive producer) è proprio strutturata in virtù di questa ricerca. Tutti i suoi episodi si sviluppano dall’incontro/scontro tra individui normali e eventi straordinari per innescare un senso di meraviglia. Ci sono viaggi nel tempo passato attraverso un barometro, permanenze extra corporali dopo la morte, superpoteri da fumetti, presenze extraterrestri e varchi spazio-temporali creati dal destino. Le puntate si equivalgono per conformazione narrativa, raccontano la pressione di un fatto fantastico e inspiegabile sul profilo limitato di individui in difficoltà, in cerca di se stessi, per assenza di un posto nel mondo, incapacità di accettarsi o di superare la perdita. Girano intorno alla descrizione di un impatto che cambia la persona: l’impatto dell’illimitato e del misterioso, che fuor di metafora, è il fantasma più o meno opaco del lutto, della morte. I personaggi si confrontano contro l’inspiegabile natura del mortale sotto la forma del meraviglioso e riconfigurano la propria vita una volta toccati da quello che hanno visto nel fuori campo extra ordinario.

Tuttavia, nella serie non compare mai il segno della Spielberg face, o più precisamente, la sua reale forma radicale. Perché nonostante la deposizione di tutte le geometrie per riprogrammarne la riuscita, i cinque episodi usciti finora mancano sempre della fondamentale rappresentazione dell’asimmetria, regola del rapporto tra individuo ed evento fantastico, tra persona e morte, tra spettatore e immagine: l’asimmetria che genera il segno della meraviglia proprio grazie al confronto diretto con qualcosa d’altro di più grande, sconosciuto. In questo nuovo Amazing Stories i personaggi sono messi di fronte all’inspiegabile ma se ne fanno una ragione, e infatti risolvono la loro esperienza nella decifrazione del mistero, spiegando qualsiasi voragine fantastica in virtù di una risoluzione contenta; mentre il fantastico viene interpretato, poi compreso, infine ricondotto a ragione, a spiegazione, la ferita emotiva dell’individuo si ricompone in parallelo non tanto grazie all’accettazione del proprio limite quanto grazie ad una comprensione dell’illimitato.

Questa descrizione del fantastico-mortale tenta quindi di parlare il linguaggio della rivincita della vita su ciò che la nega, di descrivere la risalita vittoriosa dell’umano sul lutto, ma fallisce perché cerca di farlo senza dire davvero della condizione di possibilità della vita: non c’è traccia in Amazing Stories della vera rottura o della morte, della tenebra terrificante che avvolge quando non sembra esserci più speranza e del nulla da cui sorge l’angoscia; non c’è traccia di una porta che si apre e, proprio mostrando la fine e il possibile azzeramento delle cose, risveglia la vita; tutto è attenuato, tutto è a mollo nell’accettabilità anestetica di una riduzione della posta in gioco. Senza la descrizione di ciò che nega la vita, il racconto della risorgenza, il momento di panico stupefacente capace di riordinare la vita e il volto, si annulla e assume il ruolo di un inutile, fasullo esorcismo del dolore che congela in una spiegazione accettabile il senso del segreto e del meraviglioso.

Ecco allora che l’insieme delle immagini di questo progetto è ben descritto dalle parole che seguono quelle già citate in apertura di Barthes e descrivono una terza categoria segnica: «Ma il segno intermedio denuncia uno spettacolo degradato, che teme la semplice verità quanto l’artificio totale». La serie antologica Apple TV+ è proprio intrattenimento degradato a metà tra due intenzioni, catalogo di segni intermedi che non dicono verità e allo stesso tempo non si denunciano come finzione, prodotti per cercare di stampare a tavolino emozioni che altrove nascono da una precisa consapevolezza tra ciò che si può e ciò che non si può raccontare. Le facce che abitano questo remake sono smorzature fasulle e ottengono un risultato ben diverso dai volti generati dall’accettazione dell’incomprensione, dall’incontro originario dell’asimmetria meravigliosa. Non sono volti reali, ma facce interscambiabili, trappole del linguaggio che si vendono per naturali, e invece non motivano e non conoscono la stessa forma di meraviglia spontanea che compone il mondo e ha assunto spesso nelle vite forma concreta anche grazie a Spielberg. La forma di uno schermo più grande di chi guarda. 

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Dylan O'Brien Robert Forster Sasha Lane Kerry Bishè 1 stagione da 5 episodi
USA 2020
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The Hunt

di Marco Compiani
The Hunt - recensione film Lindelof Blumhouse

You want to hear my theory? –
Not really…

Inizio del film, schermo di un cellulare. In una chat di messaggistica istantanea la parola the hunt si isola dal contesto e diventa titolo. Non c’è neanche bisogno di rivendicare la virtualità come dimensione altra, ormai ci siamo palesemente dentro, è uno stato d’essere, un reflusso di ideologie, la condivisione social che si crede rete ma di collettivo reale ha ben poco se non un incessante rispecchiamento autoreferenziale. Prendete l’inizio della caccia: come in un gioco di interfacce, ogni potenziale protagonista schiatta miseramente in un generale scollamento dalla realtà che ha del demenziale. C’è chi, infilzata da una punji sticks trap ci tiene a ricordare che l’indomani sarebbe stato il suo compleanno; c’è chi, in pieno afflato eroico, poggia il piede su una mina e boom, tanti saluti. Sono profili monodimensionali, in-umani, una fauna di deplorables svuotati da ogni residuo emotivo e in balìa di una élite che è più simile a loro di quanto sembri. Perché ridurre The Hunt a una banale opposizione sociale rischia di essere fuorviante, non ne mette a fuoco il continuo slittamento di senso, le bolle di falso pensiero incapaci di afferrare le cause e di legittimare se stesse. Ecco perché la satira punzecchia ghignante, in un susseguirsi di teorie lontane da qualsivoglia referente: complottismo, veganesimo, cambiamento climatico, problematiche razziali, opinioni che hanno la “persuasiva” durata di una notifica da social network. Pensiamo solo a quante teste esplodono durante la caccia. È evidente che a mancare, dietro questa presunta fairy tale sulla lotta di classe, sia una vera idea pulsante.

Tocca a Crystal (ottima Betty Gilpin che si reinventa da wrestler di GLOW) cavalcare una linea narrativa credibile, lei reduce fredda e totalmente a-social(e), disinteressata verso le teorie da community che possano dare un senso a questo calderone impazzito. Pura indole meccanica, capace di osservare e comprendere una messa in scena che può essere disinnescata solo attraverso l’azione. E la violenza, quella lucida e autoassolutoria della sopravvivenza, diventa così l’unica traiettoria che sfalda questo mondo costruito sulle proprie convinzioni fake.
Non manca però la sua nemesi, Athena, la leader del Manorgate. Per più di metà film è fuori campo o ripresa di spalle, un’eminenza grigia con la quale la protagonista si scontrerà faccia a faccia in un duello senza esclusione di colpi che omaggia palesemente il face to face tra Black Mamba e Vernita Green in Kill Bill. Non solo una battaglia, ma anche un flirt sanguinolento, tra fascinazione reciproca e unione d’intenti all’insegna della vendetta. La pazzia è sicuramente un’affinità elettiva, poi però, ancora una volta, si capitombola su una comprensione finale anche in questo caso sfalsata. Come poteva Athena aver scelto la giusta Crystal, se quest’ultima, con totale nonchalance, si congeda in un abito da sera d’alta classe?

Satira gocciolante sangue, sceneggiatura di Damon Lindelof e marchio Blumhouse, The Hunt non dà certezze, ci fa cavalcare la traccia di genere, lasciandoci però numerosi interrogativi, quasi a rivendicare sardonicamente che di questi tempi è proprio difficile uscire dall’identità narrativa, dalle menzognere finzioni di queste frange di pensiero web. Pur non distinguendosi per chissà quale guizzo e rischiando spesso di riproporre la stessa attitudine superficiale che irride, The Hunt rimane comunque una ludica exploitation che, probabilmente, ama “trollare” anche il nostro desiderio di chiarezza.

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Craig Zobel Betty Gilpin Ike Barinholtz Emma Roberts Hilary Swank Justin Hartley 115 minuti
USA 2020
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Come to Daddy

di Mattia Caruso
Come to Daddy - recensione film timpson

Scorrendo le filmografie dei due principali nomi dietro a Come To Daddy, pare quasi inevitabile che le strade di Elijah Wood e Ant Timpson – alle spalle già un'amicizia decennale e la co-produzione del grottesco The Greasy Strangler – fossero destinate a incrociarsi definitivamente. Perché nel percorso dell'ex star de Il signore degli anelli, un viaggio sempre più immerso nell'underground tra titoli improbabili e qualche piccolo cult (Cooties, Maniac), c'è lo stesso spirito presente nel lavoro del produttore neozelandese (qui alla sua prima regia), scopritore di talenti (uno su tutti, Taika Waititi) e spinta propulsiva per una manciata di film destinati, nel bene e nel male, a fare scuola (Deathgasm, The ABC's of Death, Turbo Kid).
Due anime, due esperienze, due differenti ma complementari modi di intendere l'horror, che si ritrovano in un film di opposti, capace di far coesistere orrore e commedia, alto e basso (illuminanti le citazioni iniziali di Shakespeare e Beyoncé), padri e figli.

È proprio da una vicenda di paternità negata e figli feriti e inadeguati che prende allora piede Come to Daddy, piccolo e imprevedibile horror venato di black humour su un trentenne fragile e spaesato (Wood) al suo primo, goffo tentativo di riconciliazione con quel padre (uno sboccato e alcolizzato Stephen McHattie) che lo ha abbandonato prima che nascesse.
Difficile dire di più sulla trama di un film che fa proprio dei colpi di scena e dei cambi di tono (ma anche di genere) il suo principale punto di forza, spaziando dalla dark comedy all'home invasion, dalla ghost story al thriller venato di torture porn.

È perfettamente immerso nel suo tempo, d'altronde, il film di Timpson, esempio di un cinema che sa bene da dove è venuto e cosa lo circonda (dalla più sfacciata serie b fino a prodotti più alti, come il The Lighthouse di Robert Eggers) ma che non rinuncia a sperimentare e a prendersi poco sul serio. Una tendenza tutta contemporanea, fatta di titoli come Mandy o il recentissimo Color Out of Space (non a caso entrambi prodotti dalla SpectreVision di Wood), dove la sorpresa, lo scarto e l'eccesso a ogni costo sono elementi imprescindibili ma da maneggiare con cura, nel tentativo di (ri)scrivere le regole di un genere in costante evoluzione, sempre pericolosamente in bilico tra cult potenziale e disastro assoluto.

Sadico, divertente, sopra le righe, Come to Daddy parte così come lo scontro generazionale tra due mondi inconciliabili per diventare presto tutt'altro, tra twist improvvisi, risvolti impensabili ed esplosioni di una violenza incontrollata, mentre Wood, sguardo stralunato d'ordinanza, fa egregiamente la sua parte e Timpson gestisce tempi e spazi con una maestria e un'esperienza notevoli per un (quasi) esordiente.
Il risultato è una pellicola sorprendente, capace di giocare su toni e registri con disinvoltura, un viaggio di (tarda) formazione stravolto dalla brutalità del mondo che mette in scena, nuovo tassello di un percorso che si promette di essere decisamente imprevedibile e poco convenzionale, proprio come i suoi due artefici.

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Ant Timpson Elijah Wood Stephen McHattie Martin Donovan Michael Smiley 93 minuti
Canada, Irlanda, Nuova Zelanda, USA 2019
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Corpus christi

di Leonardo Gregorio
Corpus Christi - recensione film polonia oscar

Alla base c’è una storia vera. Come spesso accade. Ma, in questo caso, è una storia vera più finta di tante altre e raccontata per la prima volta dal giornalista Mateusz Pacewicz, che sarebbe diventato poi lo sceneggiatore di Corpus Christi (Boże Ciało), terzo lungometraggio fiction di Jan Komasa (Sala samobójców, Miasto 44), presentato alle Giornate degli Autori di Venezia 2019 e candidato tra i titoli di Miglior film internazionale agli ultimi Oscar.

Alcuni anni fa un giovane arrivò in un piccolo villaggio della Polonia e per pochi mesi si finse prete. Messe, riti, sacramenti. Una comunità di fedeli che lo amava, prima di scoprire quella verità che sarebbe arrivata sino alla Santa Sede. Ci credeva davvero, quel ragazzo, ma era comunque un impostore. In Corpus Christi Daniel (Bartosz Bielenia) esce da un istituto di pena per buona condotta grazie alla vicinanza del sacerdote del centro. Nessun seminario lo accoglierebbe visti i suoi trascorsi. Deve raggiungere una fabbrica che lavora il legno in una parte lontana del Paese. Arriva nella cittadina, ma si ferma in chiesa. Ha un abito talare con sé nel suo zaino, dice a una ragazza di essere un prete. Verrà creduto e si ritroverà – inizialmente spiazzato e incredulo e poi sempre più coinvolto – a dover sostituire momentaneamente il vecchio parroco costretto a curarsi.

Il regista, classe 1981, sintetizza bene il senso di Corpus Christi: «Il protagonista del film sente una vocazione ma non sa che uso farne a causa dei limiti imposti dalle istituzioni. È un tragico conflitto nel quale si scontrano due distinti drammi: quello di un individuo asociale e quello di una comunità sconvolta che nasconde un oscuro segreto». Perché è un film doppio quello di Komasa, lo è sottilmente e lo è in eccesso, tra programmaticità e dispersione. Contrappone e unisce, costruisce intorno e internamente alla vocazione confusa di Daniel, alla quasi ininterpretabile sostanza profonda e caotica di questo personaggio, al gioco drammatico tra la verità e la finzione, tra la tragedia e la perdita, tra il conflitto e la redenzione, tra il dolore e il perdono, un destino individuale e uno collettivo, una narrazione compatta, intelligente, precisa, ma anche mobile, lieve, stratificata, cangiante. È un film doppio, perché si può vedere negli occhi del protagonista – e Bartosz Bielenia lavora quasi “ergonomicamente” sui suoi occhi, impenetrabili, minacciosi, violenti, umidi, folli, commossi, sperduti, luminosi, teneri, innamorati – e sugli occhi che lo guardano, dall’ammirazione, alla diffidenza, alla speranza, alla disperazione, all’amore, al desiderio. Doppio perché è nella finzione, in un confessionale, che scopriamo i crimini, le colpe e i muti fantasmi del protagonista anche se non è lui a raccontarli, ma sta dall’altre parte. Doppio perché un impostore riporta all’unica verità possibile, fragile ma autentica, una comunità caduta in un abisso di dolore e odio.  Doppio, perché il suo inizio e la sua fine insieme “tradiscono” e allo stesso tempo “elevano” Daniel, senza mai giudicarlo, piuttosto nel finale radicalizzando la sua definitiva alterità, la sua disappartenenza, in una sospensione dicotomica, liminale, in  una dimensione reale e irreale, in uno spazio e in un tempo tangibili e sfumati, fisici e irriconoscibili.

cc recensione

Komasa, figlio di gente di cinema e televisione, di famiglia cattolica che ha conosciuto il regime comunista, non fa un film sul sacro. Daniel guarda Cristo in croce, canta ai fedeli con l’emozione di un bambino, mette a terra un uomo con una testata, si droga, con lui pregare diventa esercizio mentale e fisico per liberarsi, ritrovare la pace; il giovane dà alla comunità parole e significati, un senso, che quelle persone non avevano mai conosciuto (e vale la pena di ricordare che, sul set e anche prima, preziosa è stata la consulenza di reali sacerdoti, come hanno spiegato regista e protagonista). Mente, Daniel, ma dice e sente cose vere. Non è un film sul sacro, ma su una fuga che in realtà è una ricerca, su un assurdo che diventa imprevisto compimento. Su una fede straordinariamente inspiegabile. Umana troppo umana.

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Jan Komasa Bartosz Bielenia Eliza Rycembel Aleksandra Konieczna Leszek Lichota Zdzislaw Wardejn 115 minuti
Polonia 2019
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The Midnight Gospel

di Riccardo Bellini
The Midnight Gospel - recensione serie Pandleton Ward

«Finding beauty in the dissonance»
Tool, Schism

Persino da Pendleton Ward era difficile aspettarsi un progetto così destabilizzante come The Midnight Gospel. Pronto a scatenare il proprio genio lisergico in una nuova impresa, dopo la lunga cavalcata di Adventure Time, il creatore delle avventure di Finn e Jake nella Terra di Ooo ha deciso che era giunto il tempo di cimentarsi con l’animazione per adulti. Ma la nuova serie targata Netflix è una Chimera che non esisterebbe senza il comico e podcaster Duncan Trussell e il suo The Duncan Trussell Family Hour. Da qui l’idea di The Midnight Gospel: utilizzare alcune interviste di Trussell agli ospiti del suo programma (esperti vari, comici, scrittori…) per costruirci intorno un’animazione avventurosa e allucinata. Un cartone animato a misura di universo per chi, soprattutto in tempi di isolamento forzato, l’Universo tende ad averlo sempre a portata di mano, stipato in un pc portatile. In ogni episodio infatti lo spacecaster (podcaster dello spazio) Clancy – pelle fucsia, cappello alla Gandalf e una certa familiarità con gli allucinogeni – tramite un simulatore dall’ingresso a forma di vagina, visita gli abitanti di mondi virtuali per intervistarli. Gli argomenti sviscerati spaziano dall’uso di stupefacenti alla reincarnazione, dalla meditazione trascendentale all’accettazione della morte. A prestare la voce a Clancy è ovviamente lo stesso Trussell.

Non bastano le premesse a rendere lo spaesamento dello spettatore alle prese con questo UFO che sollecita, fin da subito, un approccio all’audiovisivo fuori dal comune. In tempi di consumo frenetico e distratto, l’ibridazione di The Midnight Gospel e la peculiarità della sua natura discrepante richiedono, per goderne appieno, una concentrazione a cui siamo sempre meno abituati, ma anche una fruizione più dinamica. A colpire infatti è soprattutto la discrasia tra audio e immagini. Mentre i dialoghi procedono fitti, addensandosi intorno a questioni filosofiche complesse e a temi esistenziali, l’azione intorno ai personaggi si fa caotica e forsennata, l’impianto visivo ricco e psichedelico, soggetto alle evoluzioni surreali che hanno reso celebre l’immaginario di Pendleton Ward. Ci si può ritrovare nel bel mezzo di una apocalisse zombie a sparare ai morti viventi mentre si discorre su come sfruttare la meditazione per gestire le emozioni. Oppure all’interno di una sorta di mattatoio, a riflettere sul martirio di Cristo mentre intorno scoppia una guerra tra esseri bizzarri. L’animazione – affidata alla Titmouse (Big Mouth) – non si preoccupa dunque di restituire visivamente quanto viene detto negli interventi del podcast, né di trovare nessi immediati con l’oggetto dei dialoghi, ma si sviluppa secondo percorsi più autonomi, spesso secondo suggestioni spontanee, criptiche, altrove invece con una più diretta corrispondenza tra testo e immagini (come nel bellissimo quinto episodio). Le due componenti, podcast e animazione, mantengono intatte le loro specificità, restando godibili ognuna di per sé, e trovano al contempo, nella loro commistione, un prodotto che necessita di una partecipazione attiva ed elastica per essere fruito nella sua interezza. Talvolta persino di un rewatch per non perdere dettagli da ambo le parti.

midnight netflix

Al di là della sua portata sperimentale che ne fa un azzardo non solo nel campo dell’animazione, The Midnight Gospel è una sfida interessante perché ci pone di fronte a un prodotto bulimico, potenzialmente dispersivo ed eterogeneo (tanto nello stile visivo che in ogni episodio attinge a influenze diverse, quanto nel flusso discorsivo dei dialoghi), permettendoci di districarci dal bombardamento sensoriale e intellettuale tramite una visione e un ascolto lasciati alla libertà dello spettatore esigente, certo liberissimo di perdersi come meglio crede, ma anche di poter trovare le proprie coordinate per un'esperienza più completa. Un tacito invito a riunire i pezzi secondo legami non sempre razionali e a ripensare il ruolo del fruitore. Perché alla fuga verso orizzonti fantastici corrisponde quanto di più lontano possa esserci da un mero bisogno di evasione. Il filo rosso che The Midnight Gospel tesse tra gli episodi, - ripetitivi nella formula della cornice ma ogni volta imperniati sulla variazione come principio interno -, è la sete di conoscenza che spinge Clancy come una sorta di Ulisse new age a viaggiare tra mondi prossimi alla fine. Conoscenza il cui fulcro non può che essere l’umanità, con le sue eterne domande e i suoi dolori. 

La serie di Ward e Trussell si muove nel solco della migliore animazione americana degli ultimi anni, dove distorsioni, virtuosismi e un comparto grafico visionario diventano il mezzo per sondare i recessi dell’animo umano (Undone, BoJack Horseman, Rick and Morty, Adventure Time), raggiungere le stelle con i piedi fermamente ancorati, quanto basta almeno, al suolo. O meglio, per scoprire, tra le paure e le afflizioni che ogni percorso evolutivo comporta, l’universo che si cela dentro ognuno di noi. The Midnight Gospel scalfisce ulteriormente la bidimensionalità – solo apparente – del cartoon con il paradosso per cui ai personaggi disegnati, - tra l’altro abitanti di universi simulati dal computer di Clancy -, corrispondono le voci di esperienze realmente vissute da persone pronte ad aprire il loro animo raccontando eventi, a volte drammatici, della propria vita, di lutti e fragilità. Ma anche e soprattutto della necessaria accettazione del proprio posto nel mondo e della tensione continua, refrain tra i più ricorrenti della serie, al miglioramento (superamento) di sé. Nell’ultimo episodio viene raggiunto l’apice emozionale con l’ultima toccante sorpresa: un dialogo con la vera madre di Duncan Trussell, da anni malata di cancro, sulla consapevolezza dell’imminente fine. Una soluzione che, oltre a commuovere, non può che apparire per Trussell come un coraggioso processo di elaborazione del lutto (la donna è morta prima della realizzazione della serie), restituendo il momento di un confronto, intimo e dolce, in immagini dall'afflato universale.

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Pandleton Ward Duncan Trussell Duncan Trussell Stephen Root Maria Bamford Phil Hendrie 1 stagione da 8 episodi
USA 2020
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Unorthodox

di Elvira Del Guercio
Unorthodox - recensione serie tv netflix

Le conseguenze della nascita e diffusione capillare dei nuovi movimenti per l’emancipazione femminile di questi ultimi anni si sono inevitabilmente (e per fortuna) riversate anche nel cinema e nella serialità televisiva. Prima di parlare di Unorthodox, serie Netflix diretta da Maria Schrader che si rifà parzialmente a fatti accaduti, sarebbe interessante interrogarsi sul modo in cui l’audiovisivo ha affrontato questo cambiamento, rimodulandosi nelle categorie, nei generi e molto spesso anche nei temi trattati.
Sulla scia del #MeToo l’industria cinematografica statunitense ha prodotto film come L’uomo invisibile di Leigh Whannell – ma tra i film della Blumhouse ricordiamo anche i recenti e ottimi Scappa – Get out e Noi di Jordan Peele, in cui riflessione socio-culturale e forme del cinema di genere collimano perfettamente, o il meno riuscito The Hunt – e Bombshell di Jay Roach. Seppure afferenti a una medesima, universale presa di posizione politica, è interessante notare quanto i film di Whannell e Roach differiscano nel modo di trattare la materia. Da un lato c’è lo stile più ricercato e peculiare di Whannell, che rivisita il mito dell’uomo invisibile già trattato da James Whale e Paul Verhoeven costruendo allucinazioni e ombre intorno alla figura della vittima, e in cui la dichiarazione d’intenti si legge in filigrana, dietro la paura della protagonista che si fa carne viva e pulsante a poco a poco; dall’altro, il cinema-inchiesta difilato e velocissimo di Roach, tutto “preso” dal bisogno – giustissimo – di far vedere, di mostrare non tanto lo scandalo che coinvolse il capo di Fox News in quanto tale, quanto la sua trasposizione mediatica, i suoi effetti attraverso un profilarsi continuo e incessante di notizie e immagini, comprese quelle delle donne molestate da Roger Ailey che a un certo punto irrompono con quei volti su sfondo nero che spezzano per un attimo la concitazione del ritmo narrativo.

Anche il cinema documentario si vede partecipe di questa importantissima stagione cinematografica: due anni fa #FemalePleasure di Barbara Miller veniva presentato nella Semaine de la Critique di Locarno, ottenendo un enorme successo di pubblico e critica. Qui la Miller indaga la condizione di subalternità cui sono tuttora sottoposte le donne di alcune comunità “isolate” nel mondo: in Somalia e nei gruppi somali londinesi continua a essere praticata la mutilazione genitale femminile; in India parlare di sesso e sessualità non è ancora possibile, specialmente per le donne i cui tentativi vengono sistematicamente boicottati; in Giappone una donna viene arrestata per aver riprodotto digitalmente il proprio organo sessuale, facendone arte e sfidando una secolare tradizione di stampo patriarcale, di uomini (e anche donne) spaventate dalla possibilità di conoscersi intimamente. Barbara Miller racconta infine la storia di Deborah Feldman, giovane donna della comunità chassidica di Williamsburg (nello stato di New York) che decide di scappare a Berlino insieme al figlio, allontanandosi per sempre da un luogo che la confinava al mero ruolo di moglie e riproduttrice. La stessa Deborah Feldman che con il libro Ex ortodossa - Il rifiuto scandaloso delle mie radici chassidiche ispira i creatori di questa miniserie.

Unorthodox - recensione serie tv netflix 1

Unorthodox comincia da una fine, o meglio da un nuovo inizio: Esther Shapiro / Esty fugge a Berlino in cerca di un suo posto nel mondo, ripudiando così la presunta protezione della comunità di ebrei ortodossi in cui è cresciuta. Insinuandosi negli interstizi di quei luoghi anacronistici e fermi dove il tempo sembra non scorrere mai, la regista sviluppa in parallelo vicende passate e presenti così da accrescere il senso di scollamento dalla realtà della comunità chassidica (dove non c’è nulla di inventato) attraverso il suo controcanto berlinese. La serie è in questo senso anche il racconto di due differenti coming of age, partendo da due prospettive culturali agli antipodi: quella di Williamsburg, in cui il passaggio alla “nuova vita” sarebbe decretato dal matrimonio; quella berlinese, in cui Esty avverte una libertà di cui non aveva mai fatto esperienza, da sempre vittima delle regole di una comunità tormentata dal senso di colpa e dai fantasmi dei sommersi e dei salvati, che fa studiare Torah e Talmud e nient’altro e in cui i precetti dell’Halakhah, una sorta di guida per tutto ciò che l’ebreo deve fare dal momento in cui si sveglia fino alla sera, vengono eseguiti pedissequamente. In cui anima e corpo sono sottoposti all’autorità religiosa. E Unorthodox è efficace perché in questo confronto fa prima di tutto un discorso sul corpo e sulla consapevolezza di avere un corpo passibile di cambiamento: dalle gonne lunghe e le calze sformate ai jeans che ne mettono in risalto le forme, ai vestiti larghi, alle scarpe col tacco. Ai capelli rasati che a Berlino vanno di moda.

I temi messi in campo da Unorthodox sono tanti: dall’autodeterminazione femminile alla possibilità di crearsi una famiglia indipendentemente dai legami di sangue, di trovare la propria identità al di fuori di un posto da sempre considerato familiare e l’unico possibile. Quel nido da cui prima o poi ci si vuole allontanare. E proprio perché non è così immediato cambiare e reinventarsi per chi cresce senza alcuna educazione o istruzione che non sia quella religiosa, il ritorno alla vita di Esty è lento e graduale: spogliarsi per farsi un bagno nel lago da cui gli ebrei cercavano di scappare durante il secondo conflitto mondiale è difficile, pieno di esitazione e timore, alla stregue del suo primo, vero, bacio o dei suoi timidissimi tentativi di inserirsi nella società, a partire dall’audizione in conservatorio. Ma soprattutto è un percorso in divenire, soltanto agli inizi, come dimostra il finale aperto.

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Maria Schrader Shira Haas Jeff Wilbusch Amit Rahav Miniserie da 4 puntate
Germania 2020
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