Amazing Stories

di Leonardo Strano
Amazing Stories - recensione serie apple

Storie pazzesche, miti d’oggi. C’è una morale del segno, scriveva Roland Barthes, e la morale del segno è che «non dovrebbe darsi che in due forme estreme: o francamente intellettuale […]; o profondamente radicato, in qualche modo reinventato ogni volta, aprentesi su un aspetto interno e segreto, segnale di un momento e non più di un concetto». Tra le due categorie citate, la Spielberg face sembra appartenere alla seconda: il volto della meraviglia è un segno aconcettuale generato dall’asimmetria, viscerale eppure sempre diverso, una finestra sul segreto. Nasce dalla commistione di gioia e terrore verso il non-limite del fuori campo, rimbalza in uno shock di ritorno sui connotati di chi guarda, e firma un cortocircuito (faccia a faccia) di partecipazione illimitata. Non è un caso che tutti gli episodi del remake di Amazing Stories (la serie originale dell’1985 a sua volta ispirata alla rivista omonima del 1926) cerchino continuamente questo segno che sta tra il potente e il profondo, dice tutto in pochi termini ed è perfettamente riconducibile a uno stato di estasi filmica.

La serie prodotta da Apple TV+e sviluppata da Kitsise Horowitz (oltre a Spielberg, in veste di executive producer) è proprio strutturata in virtù di questa ricerca. Tutti i suoi episodi si sviluppano dall’incontro/scontro tra individui normali e eventi straordinari per innescare un senso di meraviglia. Ci sono viaggi nel tempo passato attraverso un barometro, permanenze extra corporali dopo la morte, superpoteri da fumetti, presenze extraterrestri e varchi spazio-temporali creati dal destino. Le puntate si equivalgono per conformazione narrativa, raccontano la pressione di un fatto fantastico e inspiegabile sul profilo limitato di individui in difficoltà, in cerca di se stessi, per assenza di un posto nel mondo, incapacità di accettarsi o di superare la perdita. Girano intorno alla descrizione di un impatto che cambia la persona: l’impatto dell’illimitato e del misterioso, che fuor di metafora, è il fantasma più o meno opaco del lutto, della morte. I personaggi si confrontano contro l’inspiegabile natura del mortale sotto la forma del meraviglioso e riconfigurano la propria vita una volta toccati da quello che hanno visto nel fuori campo extra ordinario.

Tuttavia, nella serie non compare mai il segno della Spielberg face, o più precisamente, la sua reale forma radicale. Perché nonostante la deposizione di tutte le geometrie per riprogrammarne la riuscita, i cinque episodi usciti finora mancano sempre della fondamentale rappresentazione dell’asimmetria, regola del rapporto tra individuo ed evento fantastico, tra persona e morte, tra spettatore e immagine: l’asimmetria che genera il segno della meraviglia proprio grazie al confronto diretto con qualcosa d’altro di più grande, sconosciuto. In questo nuovo Amazing Stories i personaggi sono messi di fronte all’inspiegabile ma se ne fanno una ragione, e infatti risolvono la loro esperienza nella decifrazione del mistero, spiegando qualsiasi voragine fantastica in virtù di una risoluzione contenta; mentre il fantastico viene interpretato, poi compreso, infine ricondotto a ragione, a spiegazione, la ferita emotiva dell’individuo si ricompone in parallelo non tanto grazie all’accettazione del proprio limite quanto grazie ad una comprensione dell’illimitato.

Questa descrizione del fantastico-mortale tenta quindi di parlare il linguaggio della rivincita della vita su ciò che la nega, di descrivere la risalita vittoriosa dell’umano sul lutto, ma fallisce perché cerca di farlo senza dire davvero della condizione di possibilità della vita: non c’è traccia in Amazing Stories della vera rottura o della morte, della tenebra terrificante che avvolge quando non sembra esserci più speranza e del nulla da cui sorge l’angoscia; non c’è traccia di una porta che si apre e, proprio mostrando la fine e il possibile azzeramento delle cose, risveglia la vita; tutto è attenuato, tutto è a mollo nell’accettabilità anestetica di una riduzione della posta in gioco. Senza la descrizione di ciò che nega la vita, il racconto della risorgenza, il momento di panico stupefacente capace di riordinare la vita e il volto, si annulla e assume il ruolo di un inutile, fasullo esorcismo del dolore che congela in una spiegazione accettabile il senso del segreto e del meraviglioso.

Ecco allora che l’insieme delle immagini di questo progetto è ben descritto dalle parole che seguono quelle già citate in apertura di Barthes e descrivono una terza categoria segnica: «Ma il segno intermedio denuncia uno spettacolo degradato, che teme la semplice verità quanto l’artificio totale». La serie antologica Apple TV+ è proprio intrattenimento degradato a metà tra due intenzioni, catalogo di segni intermedi che non dicono verità e allo stesso tempo non si denunciano come finzione, prodotti per cercare di stampare a tavolino emozioni che altrove nascono da una precisa consapevolezza tra ciò che si può e ciò che non si può raccontare. Le facce che abitano questo remake sono smorzature fasulle e ottengono un risultato ben diverso dai volti generati dall’accettazione dell’incomprensione, dall’incontro originario dell’asimmetria meravigliosa. Non sono volti reali, ma facce interscambiabili, trappole del linguaggio che si vendono per naturali, e invece non motivano e non conoscono la stessa forma di meraviglia spontanea che compone il mondo e ha assunto spesso nelle vite forma concreta anche grazie a Spielberg. La forma di uno schermo più grande di chi guarda. 

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Dylan O'Brien Robert Forster Sasha Lane Kerry Bishè 1 stagione da 5 episodi
USA 2020
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The Hunt

di Marco Compiani
The Hunt - recensione film Lindelof Blumhouse

You want to hear my theory? –
Not really…

Inizio del film, schermo di un cellulare. In una chat di messaggistica istantanea la parola the hunt si isola dal contesto e diventa titolo. Non c’è neanche bisogno di rivendicare la virtualità come dimensione altra, ormai ci siamo palesemente dentro, è uno stato d’essere, un reflusso di ideologie, la condivisione social che si crede rete ma di collettivo reale ha ben poco se non un incessante rispecchiamento autoreferenziale. Prendete l’inizio della caccia: come in un gioco di interfacce, ogni potenziale protagonista schiatta miseramente in un generale scollamento dalla realtà che ha del demenziale. C’è chi, infilzata da una punji sticks trap ci tiene a ricordare che l’indomani sarebbe stato il suo compleanno; c’è chi, in pieno afflato eroico, poggia il piede su una mina e boom, tanti saluti. Sono profili monodimensionali, in-umani, una fauna di deplorables svuotati da ogni residuo emotivo e in balìa di una élite che è più simile a loro di quanto sembri. Perché ridurre The Hunt a una banale opposizione sociale rischia di essere fuorviante, non ne mette a fuoco il continuo slittamento di senso, le bolle di falso pensiero incapaci di afferrare le cause e di legittimare se stesse. Ecco perché la satira punzecchia ghignante, in un susseguirsi di teorie lontane da qualsivoglia referente: complottismo, veganesimo, cambiamento climatico, problematiche razziali, opinioni che hanno la “persuasiva” durata di una notifica da social network. Pensiamo solo a quante teste esplodono durante la caccia. È evidente che a mancare, dietro questa presunta fairy tale sulla lotta di classe, sia una vera idea pulsante.

Tocca a Crystal (ottima Betty Gilpin che si reinventa da wrestler di GLOW) cavalcare una linea narrativa credibile, lei reduce fredda e totalmente a-social(e), disinteressata verso le teorie da community che possano dare un senso a questo calderone impazzito. Pura indole meccanica, capace di osservare e comprendere una messa in scena che può essere disinnescata solo attraverso l’azione. E la violenza, quella lucida e autoassolutoria della sopravvivenza, diventa così l’unica traiettoria che sfalda questo mondo costruito sulle proprie convinzioni fake.
Non manca però la sua nemesi, Athena, la leader del Manorgate. Per più di metà film è fuori campo o ripresa di spalle, un’eminenza grigia con la quale la protagonista si scontrerà faccia a faccia in un duello senza esclusione di colpi che omaggia palesemente il face to face tra Black Mamba e Vernita Green in Kill Bill. Non solo una battaglia, ma anche un flirt sanguinolento, tra fascinazione reciproca e unione d’intenti all’insegna della vendetta. La pazzia è sicuramente un’affinità elettiva, poi però, ancora una volta, si capitombola su una comprensione finale anche in questo caso sfalsata. Come poteva Athena aver scelto la giusta Crystal, se quest’ultima, con totale nonchalance, si congeda in un abito da sera d’alta classe?

Satira gocciolante sangue, sceneggiatura di Damon Lindelof e marchio Blumhouse, The Hunt non dà certezze, ci fa cavalcare la traccia di genere, lasciandoci però numerosi interrogativi, quasi a rivendicare sardonicamente che di questi tempi è proprio difficile uscire dall’identità narrativa, dalle menzognere finzioni di queste frange di pensiero web. Pur non distinguendosi per chissà quale guizzo e rischiando spesso di riproporre la stessa attitudine superficiale che irride, The Hunt rimane comunque una ludica exploitation che, probabilmente, ama “trollare” anche il nostro desiderio di chiarezza.

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Craig Zobel Betty Gilpin Ike Barinholtz Emma Roberts Hilary Swank Justin Hartley 115 minuti
USA 2020
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Come to Daddy

di Mattia Caruso
Come to Daddy - recensione film timpson

Scorrendo le filmografie dei due principali nomi dietro a Come To Daddy, pare quasi inevitabile che le strade di Elijah Wood e Ant Timpson – alle spalle già un'amicizia decennale e la co-produzione del grottesco The Greasy Strangler – fossero destinate a incrociarsi definitivamente. Perché nel percorso dell'ex star de Il signore degli anelli, un viaggio sempre più immerso nell'underground tra titoli improbabili e qualche piccolo cult (Cooties, Maniac), c'è lo stesso spirito presente nel lavoro del produttore neozelandese (qui alla sua prima regia), scopritore di talenti (uno su tutti, Taika Waititi) e spinta propulsiva per una manciata di film destinati, nel bene e nel male, a fare scuola (Deathgasm, The ABC's of Death, Turbo Kid).
Due anime, due esperienze, due differenti ma complementari modi di intendere l'horror, che si ritrovano in un film di opposti, capace di far coesistere orrore e commedia, alto e basso (illuminanti le citazioni iniziali di Shakespeare e Beyoncé), padri e figli.

È proprio da una vicenda di paternità negata e figli feriti e inadeguati che prende allora piede Come to Daddy, piccolo e imprevedibile horror venato di black humour su un trentenne fragile e spaesato (Wood) al suo primo, goffo tentativo di riconciliazione con quel padre (uno sboccato e alcolizzato Stephen McHattie) che lo ha abbandonato prima che nascesse.
Difficile dire di più sulla trama di un film che fa proprio dei colpi di scena e dei cambi di tono (ma anche di genere) il suo principale punto di forza, spaziando dalla dark comedy all'home invasion, dalla ghost story al thriller venato di torture porn.

È perfettamente immerso nel suo tempo, d'altronde, il film di Timpson, esempio di un cinema che sa bene da dove è venuto e cosa lo circonda (dalla più sfacciata serie b fino a prodotti più alti, come il The Lighthouse di Robert Eggers) ma che non rinuncia a sperimentare e a prendersi poco sul serio. Una tendenza tutta contemporanea, fatta di titoli come Mandy o il recentissimo Color Out of Space (non a caso entrambi prodotti dalla SpectreVision di Wood), dove la sorpresa, lo scarto e l'eccesso a ogni costo sono elementi imprescindibili ma da maneggiare con cura, nel tentativo di (ri)scrivere le regole di un genere in costante evoluzione, sempre pericolosamente in bilico tra cult potenziale e disastro assoluto.

Sadico, divertente, sopra le righe, Come to Daddy parte così come lo scontro generazionale tra due mondi inconciliabili per diventare presto tutt'altro, tra twist improvvisi, risvolti impensabili ed esplosioni di una violenza incontrollata, mentre Wood, sguardo stralunato d'ordinanza, fa egregiamente la sua parte e Timpson gestisce tempi e spazi con una maestria e un'esperienza notevoli per un (quasi) esordiente.
Il risultato è una pellicola sorprendente, capace di giocare su toni e registri con disinvoltura, un viaggio di (tarda) formazione stravolto dalla brutalità del mondo che mette in scena, nuovo tassello di un percorso che si promette di essere decisamente imprevedibile e poco convenzionale, proprio come i suoi due artefici.

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Ant Timpson Elijah Wood Stephen McHattie Martin Donovan Michael Smiley 93 minuti
Canada, Irlanda, Nuova Zelanda, USA 2019
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Corpus christi

di Leonardo Gregorio
Corpus Christi - recensione film polonia oscar

Alla base c’è una storia vera. Come spesso accade. Ma, in questo caso, è una storia vera più finta di tante altre e raccontata per la prima volta dal giornalista Mateusz Pacewicz, che sarebbe diventato poi lo sceneggiatore di Corpus Christi (Boże Ciało), terzo lungometraggio fiction di Jan Komasa (Sala samobójców, Miasto 44), presentato alle Giornate degli Autori di Venezia 2019 e candidato tra i titoli di Miglior film internazionale agli ultimi Oscar.

Alcuni anni fa un giovane arrivò in un piccolo villaggio della Polonia e per pochi mesi si finse prete. Messe, riti, sacramenti. Una comunità di fedeli che lo amava, prima di scoprire quella verità che sarebbe arrivata sino alla Santa Sede. Ci credeva davvero, quel ragazzo, ma era comunque un impostore. In Corpus Christi Daniel (Bartosz Bielenia) esce da un istituto di pena per buona condotta grazie alla vicinanza del sacerdote del centro. Nessun seminario lo accoglierebbe visti i suoi trascorsi. Deve raggiungere una fabbrica che lavora il legno in una parte lontana del Paese. Arriva nella cittadina, ma si ferma in chiesa. Ha un abito talare con sé nel suo zaino, dice a una ragazza di essere un prete. Verrà creduto e si ritroverà – inizialmente spiazzato e incredulo e poi sempre più coinvolto – a dover sostituire momentaneamente il vecchio parroco costretto a curarsi.

Il regista, classe 1981, sintetizza bene il senso di Corpus Christi: «Il protagonista del film sente una vocazione ma non sa che uso farne a causa dei limiti imposti dalle istituzioni. È un tragico conflitto nel quale si scontrano due distinti drammi: quello di un individuo asociale e quello di una comunità sconvolta che nasconde un oscuro segreto». Perché è un film doppio quello di Komasa, lo è sottilmente e lo è in eccesso, tra programmaticità e dispersione. Contrappone e unisce, costruisce intorno e internamente alla vocazione confusa di Daniel, alla quasi ininterpretabile sostanza profonda e caotica di questo personaggio, al gioco drammatico tra la verità e la finzione, tra la tragedia e la perdita, tra il conflitto e la redenzione, tra il dolore e il perdono, un destino individuale e uno collettivo, una narrazione compatta, intelligente, precisa, ma anche mobile, lieve, stratificata, cangiante. È un film doppio, perché si può vedere negli occhi del protagonista – e Bartosz Bielenia lavora quasi “ergonomicamente” sui suoi occhi, impenetrabili, minacciosi, violenti, umidi, folli, commossi, sperduti, luminosi, teneri, innamorati – e sugli occhi che lo guardano, dall’ammirazione, alla diffidenza, alla speranza, alla disperazione, all’amore, al desiderio. Doppio perché è nella finzione, in un confessionale, che scopriamo i crimini, le colpe e i muti fantasmi del protagonista anche se non è lui a raccontarli, ma sta dall’altre parte. Doppio perché un impostore riporta all’unica verità possibile, fragile ma autentica, una comunità caduta in un abisso di dolore e odio.  Doppio, perché il suo inizio e la sua fine insieme “tradiscono” e allo stesso tempo “elevano” Daniel, senza mai giudicarlo, piuttosto nel finale radicalizzando la sua definitiva alterità, la sua disappartenenza, in una sospensione dicotomica, liminale, in  una dimensione reale e irreale, in uno spazio e in un tempo tangibili e sfumati, fisici e irriconoscibili.

cc recensione

Komasa, figlio di gente di cinema e televisione, di famiglia cattolica che ha conosciuto il regime comunista, non fa un film sul sacro. Daniel guarda Cristo in croce, canta ai fedeli con l’emozione di un bambino, mette a terra un uomo con una testata, si droga, con lui pregare diventa esercizio mentale e fisico per liberarsi, ritrovare la pace; il giovane dà alla comunità parole e significati, un senso, che quelle persone non avevano mai conosciuto (e vale la pena di ricordare che, sul set e anche prima, preziosa è stata la consulenza di reali sacerdoti, come hanno spiegato regista e protagonista). Mente, Daniel, ma dice e sente cose vere. Non è un film sul sacro, ma su una fuga che in realtà è una ricerca, su un assurdo che diventa imprevisto compimento. Su una fede straordinariamente inspiegabile. Umana troppo umana.

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Jan Komasa Bartosz Bielenia Eliza Rycembel Aleksandra Konieczna Leszek Lichota Zdzislaw Wardejn 115 minuti
Polonia 2019
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The Midnight Gospel

di Riccardo Bellini
The Midnight Gospel - recensione serie Pandleton Ward

«Finding beauty in the dissonance»
Tool, Schism

Persino da Pendleton Ward era difficile aspettarsi un progetto così destabilizzante come The Midnight Gospel. Pronto a scatenare il proprio genio lisergico in una nuova impresa, dopo la lunga cavalcata di Adventure Time, il creatore delle avventure di Finn e Jake nella Terra di Ooo ha deciso che era giunto il tempo di cimentarsi con l’animazione per adulti. Ma la nuova serie targata Netflix è una Chimera che non esisterebbe senza il comico e podcaster Duncan Trussell e il suo The Duncan Trussell Family Hour. Da qui l’idea di The Midnight Gospel: utilizzare alcune interviste di Trussell agli ospiti del suo programma (esperti vari, comici, scrittori…) per costruirci intorno un’animazione avventurosa e allucinata. Un cartone animato a misura di universo per chi, soprattutto in tempi di isolamento forzato, l’Universo tende ad averlo sempre a portata di mano, stipato in un pc portatile. In ogni episodio infatti lo spacecaster (podcaster dello spazio) Clancy – pelle fucsia, cappello alla Gandalf e una certa familiarità con gli allucinogeni – tramite un simulatore dall’ingresso a forma di vagina, visita gli abitanti di mondi virtuali per intervistarli. Gli argomenti sviscerati spaziano dall’uso di stupefacenti alla reincarnazione, dalla meditazione trascendentale all’accettazione della morte. A prestare la voce a Clancy è ovviamente lo stesso Trussell.

Non bastano le premesse a rendere lo spaesamento dello spettatore alle prese con questo UFO che sollecita, fin da subito, un approccio all’audiovisivo fuori dal comune. In tempi di consumo frenetico e distratto, l’ibridazione di The Midnight Gospel e la peculiarità della sua natura discrepante richiedono, per goderne appieno, una concentrazione a cui siamo sempre meno abituati, ma anche una fruizione più dinamica. A colpire infatti è soprattutto la discrasia tra audio e immagini. Mentre i dialoghi procedono fitti, addensandosi intorno a questioni filosofiche complesse e a temi esistenziali, l’azione intorno ai personaggi si fa caotica e forsennata, l’impianto visivo ricco e psichedelico, soggetto alle evoluzioni surreali che hanno reso celebre l’immaginario di Pendleton Ward. Ci si può ritrovare nel bel mezzo di una apocalisse zombie a sparare ai morti viventi mentre si discorre su come sfruttare la meditazione per gestire le emozioni. Oppure all’interno di una sorta di mattatoio, a riflettere sul martirio di Cristo mentre intorno scoppia una guerra tra esseri bizzarri. L’animazione – affidata alla Titmouse (Big Mouth) – non si preoccupa dunque di restituire visivamente quanto viene detto negli interventi del podcast, né di trovare nessi immediati con l’oggetto dei dialoghi, ma si sviluppa secondo percorsi più autonomi, spesso secondo suggestioni spontanee, criptiche, altrove invece con una più diretta corrispondenza tra testo e immagini (come nel bellissimo quinto episodio). Le due componenti, podcast e animazione, mantengono intatte le loro specificità, restando godibili ognuna di per sé, e trovano al contempo, nella loro commistione, un prodotto che necessita di una partecipazione attiva ed elastica per essere fruito nella sua interezza. Talvolta persino di un rewatch per non perdere dettagli da ambo le parti.

midnight netflix

Al di là della sua portata sperimentale che ne fa un azzardo non solo nel campo dell’animazione, The Midnight Gospel è una sfida interessante perché ci pone di fronte a un prodotto bulimico, potenzialmente dispersivo ed eterogeneo (tanto nello stile visivo che in ogni episodio attinge a influenze diverse, quanto nel flusso discorsivo dei dialoghi), permettendoci di districarci dal bombardamento sensoriale e intellettuale tramite una visione e un ascolto lasciati alla libertà dello spettatore esigente, certo liberissimo di perdersi come meglio crede, ma anche di poter trovare le proprie coordinate per un'esperienza più completa. Un tacito invito a riunire i pezzi secondo legami non sempre razionali e a ripensare il ruolo del fruitore. Perché alla fuga verso orizzonti fantastici corrisponde quanto di più lontano possa esserci da un mero bisogno di evasione. Il filo rosso che The Midnight Gospel tesse tra gli episodi, - ripetitivi nella formula della cornice ma ogni volta imperniati sulla variazione come principio interno -, è la sete di conoscenza che spinge Clancy come una sorta di Ulisse new age a viaggiare tra mondi prossimi alla fine. Conoscenza il cui fulcro non può che essere l’umanità, con le sue eterne domande e i suoi dolori. 

La serie di Ward e Trussell si muove nel solco della migliore animazione americana degli ultimi anni, dove distorsioni, virtuosismi e un comparto grafico visionario diventano il mezzo per sondare i recessi dell’animo umano (Undone, BoJack Horseman, Rick and Morty, Adventure Time), raggiungere le stelle con i piedi fermamente ancorati, quanto basta almeno, al suolo. O meglio, per scoprire, tra le paure e le afflizioni che ogni percorso evolutivo comporta, l’universo che si cela dentro ognuno di noi. The Midnight Gospel scalfisce ulteriormente la bidimensionalità – solo apparente – del cartoon con il paradosso per cui ai personaggi disegnati, - tra l’altro abitanti di universi simulati dal computer di Clancy -, corrispondono le voci di esperienze realmente vissute da persone pronte ad aprire il loro animo raccontando eventi, a volte drammatici, della propria vita, di lutti e fragilità. Ma anche e soprattutto della necessaria accettazione del proprio posto nel mondo e della tensione continua, refrain tra i più ricorrenti della serie, al miglioramento (superamento) di sé. Nell’ultimo episodio viene raggiunto l’apice emozionale con l’ultima toccante sorpresa: un dialogo con la vera madre di Duncan Trussell, da anni malata di cancro, sulla consapevolezza dell’imminente fine. Una soluzione che, oltre a commuovere, non può che apparire per Trussell come un coraggioso processo di elaborazione del lutto (la donna è morta prima della realizzazione della serie), restituendo il momento di un confronto, intimo e dolce, in immagini dall'afflato universale.

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Pandleton Ward Duncan Trussell Duncan Trussell Stephen Root Maria Bamford Phil Hendrie 1 stagione da 8 episodi
USA 2020
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Unorthodox

di Elvira Del Guercio
Unorthodox - recensione serie tv netflix

Le conseguenze della nascita e diffusione capillare dei nuovi movimenti per l’emancipazione femminile di questi ultimi anni si sono inevitabilmente (e per fortuna) riversate anche nel cinema e nella serialità televisiva. Prima di parlare di Unorthodox, serie Netflix diretta da Maria Schrader che si rifà parzialmente a fatti accaduti, sarebbe interessante interrogarsi sul modo in cui l’audiovisivo ha affrontato questo cambiamento, rimodulandosi nelle categorie, nei generi e molto spesso anche nei temi trattati.
Sulla scia del #MeToo l’industria cinematografica statunitense ha prodotto film come L’uomo invisibile di Leigh Whannell – ma tra i film della Blumhouse ricordiamo anche i recenti e ottimi Scappa – Get out e Noi di Jordan Peele, in cui riflessione socio-culturale e forme del cinema di genere collimano perfettamente, o il meno riuscito The Hunt – e Bombshell di Jay Roach. Seppure afferenti a una medesima, universale presa di posizione politica, è interessante notare quanto i film di Whannell e Roach differiscano nel modo di trattare la materia. Da un lato c’è lo stile più ricercato e peculiare di Whannell, che rivisita il mito dell’uomo invisibile già trattato da James Whale e Paul Verhoeven costruendo allucinazioni e ombre intorno alla figura della vittima, e in cui la dichiarazione d’intenti si legge in filigrana, dietro la paura della protagonista che si fa carne viva e pulsante a poco a poco; dall’altro, il cinema-inchiesta difilato e velocissimo di Roach, tutto “preso” dal bisogno – giustissimo – di far vedere, di mostrare non tanto lo scandalo che coinvolse il capo di Fox News in quanto tale, quanto la sua trasposizione mediatica, i suoi effetti attraverso un profilarsi continuo e incessante di notizie e immagini, comprese quelle delle donne molestate da Roger Ailey che a un certo punto irrompono con quei volti su sfondo nero che spezzano per un attimo la concitazione del ritmo narrativo.

Anche il cinema documentario si vede partecipe di questa importantissima stagione cinematografica: due anni fa #FemalePleasure di Barbara Miller veniva presentato nella Semaine de la Critique di Locarno, ottenendo un enorme successo di pubblico e critica. Qui la Miller indaga la condizione di subalternità cui sono tuttora sottoposte le donne di alcune comunità “isolate” nel mondo: in Somalia e nei gruppi somali londinesi continua a essere praticata la mutilazione genitale femminile; in India parlare di sesso e sessualità non è ancora possibile, specialmente per le donne i cui tentativi vengono sistematicamente boicottati; in Giappone una donna viene arrestata per aver riprodotto digitalmente il proprio organo sessuale, facendone arte e sfidando una secolare tradizione di stampo patriarcale, di uomini (e anche donne) spaventate dalla possibilità di conoscersi intimamente. Barbara Miller racconta infine la storia di Deborah Feldman, giovane donna della comunità chassidica di Williamsburg (nello stato di New York) che decide di scappare a Berlino insieme al figlio, allontanandosi per sempre da un luogo che la confinava al mero ruolo di moglie e riproduttrice. La stessa Deborah Feldman che con il libro Ex ortodossa - Il rifiuto scandaloso delle mie radici chassidiche ispira i creatori di questa miniserie.

Unorthodox - recensione serie tv netflix 1

Unorthodox comincia da una fine, o meglio da un nuovo inizio: Esther Shapiro / Esty fugge a Berlino in cerca di un suo posto nel mondo, ripudiando così la presunta protezione della comunità di ebrei ortodossi in cui è cresciuta. Insinuandosi negli interstizi di quei luoghi anacronistici e fermi dove il tempo sembra non scorrere mai, la regista sviluppa in parallelo vicende passate e presenti così da accrescere il senso di scollamento dalla realtà della comunità chassidica (dove non c’è nulla di inventato) attraverso il suo controcanto berlinese. La serie è in questo senso anche il racconto di due differenti coming of age, partendo da due prospettive culturali agli antipodi: quella di Williamsburg, in cui il passaggio alla “nuova vita” sarebbe decretato dal matrimonio; quella berlinese, in cui Esty avverte una libertà di cui non aveva mai fatto esperienza, da sempre vittima delle regole di una comunità tormentata dal senso di colpa e dai fantasmi dei sommersi e dei salvati, che fa studiare Torah e Talmud e nient’altro e in cui i precetti dell’Halakhah, una sorta di guida per tutto ciò che l’ebreo deve fare dal momento in cui si sveglia fino alla sera, vengono eseguiti pedissequamente. In cui anima e corpo sono sottoposti all’autorità religiosa. E Unorthodox è efficace perché in questo confronto fa prima di tutto un discorso sul corpo e sulla consapevolezza di avere un corpo passibile di cambiamento: dalle gonne lunghe e le calze sformate ai jeans che ne mettono in risalto le forme, ai vestiti larghi, alle scarpe col tacco. Ai capelli rasati che a Berlino vanno di moda.

I temi messi in campo da Unorthodox sono tanti: dall’autodeterminazione femminile alla possibilità di crearsi una famiglia indipendentemente dai legami di sangue, di trovare la propria identità al di fuori di un posto da sempre considerato familiare e l’unico possibile. Quel nido da cui prima o poi ci si vuole allontanare. E proprio perché non è così immediato cambiare e reinventarsi per chi cresce senza alcuna educazione o istruzione che non sia quella religiosa, il ritorno alla vita di Esty è lento e graduale: spogliarsi per farsi un bagno nel lago da cui gli ebrei cercavano di scappare durante il secondo conflitto mondiale è difficile, pieno di esitazione e timore, alla stregue del suo primo, vero, bacio o dei suoi timidissimi tentativi di inserirsi nella società, a partire dall’audizione in conservatorio. Ma soprattutto è un percorso in divenire, soltanto agli inizi, come dimostra il finale aperto.

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Maria Schrader Shira Haas Jeff Wilbusch Amit Rahav Miniserie da 4 puntate
Germania 2020
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Tornare a vincere

di Matteo Marescalco
Tornare a vincere - film Ben Affleck

Sulla bocca di tutti fin dal periodo conclusivo degli anni Novanta, Ben Affleck sembra vivere in simbiosi con il mondo del cinema, visto come l'unico grembo materno in grado di assicurare la salvezza. Dopo le scorribande da regista che hanno contribuito a restaurare la sua immagine un po' appannata e sofferta, anche le sue ultime interpretazioni attoriali confermano una visione autoriale e un forte punto di vista che esulano dal ruolo svolto sul set. In modo particolare, Tornare a vincere – in cui Affleck ritrova Gavin O'Connor – assume su di sé il complesso compito di riabilitare ancora una volta un essere umano apparentemente condannato alla contrarietà di un destino nemico e alla passionalità di uno sguardo romantico, e, per questo, costantemente fuori luogo, destabilizzante, titanico e quasi infernale.

Nella sua ultima performance, Affleck risale letteralmente le pareti infernali dell'alcoolismo, lottando con una carriera sull'orlo del fallimento e con un passato da eroe liceale. Jack Cunningham, infatti, era una ex-stella del basket con un futuro radioso pressoché garantito. A causa di una serie di problemi familiari, però, il ragazzo ha scelto di mollare tutto e di abbracciare una vita faticosa e deludente. L'incontro con una donna lo ha redento ma un'ulteriore tragedia familiare lo ha spinto a ripiombare sulla bottiglia con maggiore determinazione di prima. Almeno fino a quando riceve un'allettante proposta dal dirigente scolastico del liceo frequentato da adolescente: a Cunningham è offerta la possibilità di allenare la squadra di basket e di tornare, quindi, a vincere.

Dimenticando un attimo la costruzione narrativa di un racconto sportivo basato sulla fatica, sul talento individuale e sulle prestazioni collettive, sull'agonismo e sulla capacità di mettersi nuovamente in gioco e, ovviamente, la puntuale coincidenza tra aspetti diegetici ed extra-diegetici relativi a Ben Affleck uomo e personaggio, Tornare a vincere è un sorprendente sport-drama che parla dell'impossibilità di tornare a casa. Come La legge della notte, anche il titolo di O'Connor rispetta i cliché del genere ma, allo stesso tempo, se ne discosta, segnando uno scarto rispetto al genere tradizionale. Il film ribolle di suggestioni, di sangue e passione ma, a differenza del cinema diretto dal suo attore protagonista, non vive di contrasti e “cannibalismo”. Al di là della retorica sportiva, al regista bastano davvero poche immagini e semplici scelte di campo per confinare Affleck ai margini dell'inquadratura, gigante buono imploso, dolente, silenzioso e sempre contenuto nonostante alcuni accessi d'ira portati in scena da un corpo imbolsito e da due occhi ridotti a fessure ma pur sempre in grado di trasmettere un'energia febbrile.

Costruito come il più classico dei percorsi di Vogler, il film è portato interamente sulle spalle dal suo interprete principale, il cui sguardo non si arrende al peso di memorie intollerabili persino per il suo corpo e la sua anima ma cerca sempre un altrove, situato fuori da ogni campo possibile. E, a farsi carico di questo altrove, non può che essere il cinema, luogo paradisiaco fatto di gesti essenziali, racconti di genere che lasciano emergere il passato doloroso e le zone di vuoto della memoria che condizionano il presente, la necessità di un sacrificio (probabilmente inconsapevole) che prevale sul sogno di un (oscuro) futuro. Il dialogo finale tra Cunningham e la moglie sembra davvero uscito da un film di Clint Eastwood o di James Gray, frammento sentimentale di un dramma urbano e umano ormai arrivato alla resa dei conti.

In un certo senso, Tornare a vincere potrebbe essere anche un documentario, racconto di una redenzione impossibile da acciuffare nel contesto quotidiano ma bisognosa di un distanziamento (sociale – a tal proposito, l'ironia della sorte è che, a causa del Covid-19, il film abbia saltato la distribuzione tradizionale e sia disponibile in streaming su diverse piattaforme online). E, così, Affleck/Cunningham cede per l'ennesima volta all'emozione dirompente e alla corruttiva unicità del suo corpo fuori da ogni schema. La risalita, probabilmente, è impossibile. Ma il suo sogno esiste ancora, magari proprio su quel campetto da basket isolato dal mondo, residuo estremo di una purezza da raggiungere al di là del visibile.

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Gavin O'Connor Ben Affleck Michaela Watkins Janina Gavankar 108 minuti
USA 2020
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La vita nascosta - Hidden Life

di Arianna Pagliara
La vita nascosta - Hidden Life di Terrence Malick

Già nel magnifico La sottile linea rossa l’evento bellico si rivelava, attraverso lo sguardo estatico di Terrence Malick, come un fatto esistenziale e morale prima ancora che storico e sociale. La voce fuori campo, marchio di fabbrica di tutto il cinema del regista americano, si faceva luogo e modalità espressiva di un incessante e sofferto interrogarsi sulla natura, e sulle ragioni – se ne esistono - del male in senso lato. Del tutto coerente allora la scelta di raccontare, con un approccio non dissimile e a più di venti anni di distanza, la vita e il lacerante dilemma interiore di Franz Jägerstätter, contadino austriaco che negli anni Quaranta preferì morire piuttosto che giurare fedeltà al Führer. Il protagonista de La vita nascosta, nella sua irriducibilità, dietro alle sbarre della prigione in cui gli aguzzini nazisti lo tormentano e lo umiliano è riconciliato con il mondo perché sa di essere libero, in quanto quella che attua è, a tutti gli effetti, una scelta. Non distante, peraltro, da quella del giovane Witt che ne La sottile linea rossa, in un certo senso, preferisce sacrificarsi piuttosto che corrompersi definitivamente.

Del resto Malick è sempre stato un autore che in ogni particolare cerca, e trova, l’universale, che usa la Storia, o le storie, per farne emblema e parabola; nei suoi territori d’indagine esistono quasi solo assoluti (la vita, la nascita, l’amore, la fede, la sofferenza) restituiti allo spettatore con un linguaggio seducente che si è fatto, nel corso degli anni, sempre più rarefatto, disorientante, disgregato e immersivo. La vita nascosta ribadisce fermamente la fedeltà a certi stilemi espressivi ben noti - le fluide carrellate in avanti che sembrano voler “disvelare” lo spazio e il suo senso, i vertiginosi contre-plongée, i grandangoli che rileggono la realtà come sogno e ricordo – ma a un livello più sotterraneo qualcosa è (positivamente) mutato. Se nella fase successiva a The Tree of Life – film spartiacque, punto d’arrivo, opera totale – Malick ha rischiato di restare impigliato nelle reti di certe peculiari scelte linguistiche estetizzanti che, associate a una sostanza “povera” – vedi Song to Song – rischiavano di farsi maniera, forma svuotata, vezzo, in questo ultimo film, complice la materia del racconto e complice anche, forse, il non-rifiuto della narrazione in quanto tale, il regista ritrova tutta la sua solidità, l’incisività dei suoi imperativi, la pregnanza del suo discorso esistenziale e filosofico, la stupefacente capacità di guardare dentro e attraverso la realtà, rivoltandola agilmente come un guanto per rivelarne le tramature interne e “reimmetterla”, così scoperta e svelata, in un contesto di ampio respiro, di fronte a un orizzonte di pensiero che è appunto filosofico e sovratemporale.

In linea con la sua poetica e con le sue predilezioni, anche stavolta il regista ci mostra un universo rurale descritto come idilliaco perché sano, armonioso e coerente: l’amore, la fede, il duro lavoro, la natura, sono i tasselli che compongono il mosaico ruvido ed esatto della vita semplice di Franz e della moglie Fani, che la guerra – intesa come umana follia, come violenza tout-court, come perdita della ragione e inabissamento del mondo - cancellerà con un colpo di spugna. Superbo e ammaliante come sempre nella descrizione dei paesaggi (la solitudine di un campanile che svetta nella valle, il verde lucente e straripante di un prato, l’addensarsi nero e angoscioso delle nuvole contro una parete rocciosa) mai come questa volta Malick riesce a significare, tramite tanti piccoli gesti – uno sguardo, un sasso lanciato, un oggetto rimesso a posto – tutto uno stato di cose: l’ostracismo subito dalla famiglia del protagonista dissidente e irremovibile, la solidarietà di una moglie che trasforma il proprio affetto sincero in una forma di devozione, la profonda, abissale, straordinaria empatia che il protagonista ha il privilegio (e la condanna?) di provare per tutto ciò che lo circonda.

La purezza di Franz Jägerstätter, per il quale l’adesione a un principio, a un modo di sentire, relativizza e ridicolizza perfino l’eventualità terribile della morte, non è dunque conciliabile con il mondo, quel mondo di cui il piccolo paese di Sankt Radegund è specchio e metafora: un potenziale piccolo Eden, in partenza immacolato e protetto, che sceglie – perché, ricorda il regista, il nodo cruciale è il libero arbitrio – di corrompersi e accogliere dento di sé il germe della violenza (una violenza che, come sempre in Malick, è quasi una forma di cecità, una impossibilità di lettura ragionata del reale). Il delirio nazista è quindi, anzitutto, aberrazione della ragione e rifiuto dell’empatia: ed è questo, in ultimo, il presupposto necessario dell’esistenza del male. Tuttavia il protagonista, facendo proprio un orizzonte di visione che non possiamo, in un certo senso, non attribuire anche a Malick, parte dal presupposto che l’odio è qualcosa a cui abbiamo sempre e comunque la possibilità - non tanto il dovere - di rinunciare: fino a sospendere il giudizio sul quel giudice (Bruno Ganz alla sua ultima, incisiva apparizione cinematografica) che infine lo condannerà a morte.

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Terrence Malick August Diehl, Valerie Pachner, Matthias Schoenaerts, Michael Nyqvist, Bruno Ganz 174'
Usa, Germania
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I Miserabili

di Saverio Felici
I Miserabili - recensione film di Ladj Ly

Ragionare sull'incidenza di un impianto produttivo “commerciale” su un film come I Miserabili, che da queste meccaniche ambisce apparentemente a smarcarsi proponendosi come alternativa contestataria quando non direttamente riottosa, non è solo una pretestuosa menata etico-moralista. Il primo lungometraggio di Ladj Ly si pone come manifesto esaustivo, conflittuale e militante, della grande metropoli europea (non americana, è importante) negli anni delle tensioni etniche, della globalizzazione e della disoccupazione rabbiosa di massa. Ma è anche, e soprattutto, un film d'intrattenimento, persino “di cassetta” come si diceva una volta. Non c'è contraddizione?

La grande sensation dello scorso Cannes sembra a prima vista schierarsi sulla barricata dell'iperrealismo impegnato, a due passi dal cinema sociale di autori molto istituzionalizzati e francesi (Dardenne, Zonca), appena declinato verso la durezza urbana dei cugini più noir (Audiard, Brizé). Forma e racconto si discostano però subito da questo cinema, per abbracciarne un altro. Ly, assieme ai collaboratori in sceneggiatura Gederlini e Manenti - anche protagonista - sembrano scesi in strada con tutt'altri film in testa. Più che Olivier Marchand, i veri idoli di questi giovani cineasti sono Antoine Fuqua e David Ayer: l'America, l'azione, il thriller, in una parola Hollywood.

I nuovi diseredati cui I Miserabili si pone di dare voce sono gli ultimi eredi di un'utopia andata a male. Come nel glorioso 1998, quando il trionfo della Nazionale black-blanc-beur impose il sogno della nuova Francia unita, consumista e felice passando un colpo di vernice su decenni di ghettizzazione (un rimosso che sette anni più tardi sarebbe esploso in faccia allo Stato francese con le rivolte delle banlieue), così nell'estate del 2018 le terze generazioni di figli delle colonie si uniscono in un mare umano verso il centro di Parigi, per assistere alla finale e alla vittoria del Mondiale contro la Croazia. Generazioni ancora più marginalizzate, impoverite, ormai stabilmente rassegnate a sopravviversi in un ecosistema micro-criminale autosufficiente.

E' ancora Montfermeil dunque, come in Hugo; ma una Montfermiel californiana, strutturata (come stereotipi del genere vogliono) in piccole bande, piccoli boss, piccole alleanze in precario equilibrio. I tre sbirri Chris (Manenti), Gwada (Djibril Zonga) e il nuovo arrivato Ruiz (Damien Bonnard) provano come possibile a mantenere a colpi di soprusi e provocazioni l'equilibrio delle cité: entità politico-urbanistiche simili alle borgate dell'edilizia popolare italiana - e che con i quartieri-degrado marchiati dall'infamia dai tg sensazionalistici condividono il ruolo di catalizzatore di panico morale fascistoide. Gli agenti nuovi di questo affresco bosciano sono i bambini: silenziosi e giudicanti, osservano e nutrono un'inedita forma d'odio nei confronti tanto delle istituzioni repressive, quanto di padri e fratelli maggiori. Più che una generica discriminazione razziale (che a differenza della segregatissima società americana, nel calderone francese sembra faticare a definirsi ideologicamente all'infuori delle coordinate politiche lepeniane), è la passività della cité stessa a nutrire la rabbia senza sbocchi dei giovani misérables. L'atterraggio dell'uomo che cade dal palazzo avrà tutto l'aspetto delle scene che in questi giorni hanno rivoltato le strade dell'Ile de France; basta un pretesto scatenante, e come in ogni noir losangelino che si rispetti, il training day di Ruiz prenderà una piega tragica quando ai due colleghi sfuggirà la mano una volta di troppo.

I Miserabili racconta dunque questa complessa realtà con intento militante, ma lo fa con occhio rivolto più ai manierismi obbligatori del genere che alla forza della propria voce. Produttivamente, è molto meno marginale di quanto, tra camera a mano e colonna sonora minimale, ci terrebbe a dare l'impressione; si rivela presto come un prodotto molto mainstream, con una certa ambizione in termini di incassi e premi, un budget importante, riprese aeree, scene di massa e attori di sistema (Bonnard, peraltro bravissimo). Dai suoi modelli USA eredita tanto la travolgente potenza espressiva (ritmo a mille, cuore in gola, scansione della suspense), quanto quel tipo di semplicismo che ci si aspetterebbe da un film americano che provasse ad affrontare gli stessi temi.

Per essere un film che agiti le coscienze e si faccia manifesto dell'Europa multiculturale moderna, Les Misérables fa allora un po' fatica a collocarsi ideologicamente: non è un dramma sociale delle classi dimenticate sulla scia dei già citati Dardenne (troppo macchiettistico, troppi archetipi); non è una tragedia generazionale alla City of God sulla gioventù bruciata dei projects (gioventù che non parla, e se agisce è solo in chiave simbolica); non è neanche un'immersione nella schizofrenia disumanizzata dei picchiatori (come erano Tropa De Elite di José Padilha, o Acab di Stefano Sollima). È più un classico, impeccabile poliziesco urbano d'azione in cui “avete ragione tutti”, la città è spietata ma che vuoi farci, assolutorio con la polizia e paternalista con le minoranze (che si beccano anche la ramanzina per i roghi degli autobus durante le rivolte del novembre 2005). 

Il vero metro di paragone, voluto e cercato fin nell'esplicita inquadratura finale, è ovviamente La Haine di Kassovitz, ancora la testimonianza più potente di un cinema politico stradaiolo in grado di farsi coscienza collettiva. Se di eredità bisogna parlare, il rapporto è un po' quello che al cugino americano Fa' La Cosa Giusta lega il recente (e bellissimo!) The Hate U Give; riproposizioni di sistema, normalizzate e tirate a lucido dai grandi professionisti degli studios, per un pubblico più ampio e meno conflittuale.
La contraddizione c'è quindi: è quella tra un cinema che sia sfogo e testimonianza urgente, e uno più colto, cinefilo quanto programmatico. Possono convivere questi due approcci? I Miserabili doveva andare ad Oscar, ma ha perso contro il film che di questa contrapposizione rappresenta la sintesi aurea. Parasite ha mostrato come il contenuto politico più radicale possa sposarsi alla forma più fresca e virtuosa; il film di Ly questo equilibrio lo trova solo da un lato, e se come End of Watch d'oltralpe è notevole, è più difficile credere alla sua rabbia. 
 

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Ladj Ly Damien Bonnard Alexis Manenti Djibril Zonga Issa Perica 103 minuti
FRA 2019
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Kwaidan

di Gian Giacomo Petrone
Kwaidan - recensione film kobayashi

Realizzato all’apice della carriera di Masaki Kobayashi, sic et simpliciter uno dei più importanti cineasti giapponesi di sempre (anche se ingiustamente meno noto, in Italia, di altri nomi fondamentali quali Ozu, Mizoguchi, Kurosawa), Kwaidan si configura come una delle sue opere più ambiziose e magmatiche, nonché come un vero e proprio unicum della sua filmografia, capace nondimeno di rielaborare coerentemente, sia pure sotto altre spoglie, temi e suggestioni già presenti nella sua produzione.

Dopo aver affrontato la deriva del Giappone postbellico nel polemico – specie nei confronti della colonizzazione occidentale – Black River (1957), e poi direttamente la tragedia della seconda guerra mondiale nella monumentale trilogia, per molti versi autobiografica, La condizione umana, completata nel 1961, Kobayashi gira Harakiri (1962), un jidai-geki calato nel Giappone pacificato ma problematico del XVII secolo, all’indomani della sanguinosa era Sengoku (1467-1603). In quest’ultimo, il dramma storico funge da elemento allegorico e metaforico (così come nel lavoro successivo a Kwaidan, cioè L’ultimo samurai, del 1967) per puntare il dito contro il retaggio del sistema di valori della società nipponica feudale, una delle concause della disastrosa partecipazione al conflitto mondiale. Harakiri si configura, tuttavia, anche come un j’accuse che supera la contingenza storica, per toccare uno dei temi più sentiti da Kobayashi, quello del rapporto problematico fra individuo e potere, fra necessità privata e dovere pubblico

In seguito alla consacrazione internazionale legata a La condizione umana e Harakiri, e potendo contare su una produzione sontuosa e costosissima, Kobayashi si cimenta nell’impresa di mettere in immagini il folclore del proprio paese. Il riferimento letterario all’origine della sceneggiatura elaborata da Yôko Mizuki è costituito da Kwaidan: Stories and Studies of Strange Things, una collezione di racconti tradizionali nipponici raccolti da quell’individuo davvero singolare che fu Lafcadio Hearn, greco-irlandese giramondo, emigrato dapprima negli USA e, dal 1889, in Giappone, dove sposò una donna della città di Matsue e assunse il nome di Yakumo Koizumi.

kwaidan film

Kwaidan (letteralmente: “storia di fantasmi”), primo film a colori di Kobayashi, mette in scena quattro vicende accomunate dal legame fascinoso e perturbante fra il mondo dei vivi e quello dei morti. Nel primo, Capelli neri, un samurai fa ritorno nella dimora originaria, dopo averla abbandonata anni prima per cercare fortuna in una lontana provincia, e crede di trovarvi la prima moglie, da lui ripudiata. In Donna delle nevi, si assiste alla dolorosa storia d’amore fra la donna del titolo (una yuki-onna, spettrale presenza femminile che, secondo la tradizione, abita spazi montani innevati e aggredisce i viandanti per carpirne l’energia vitale o sottometterne la volontà), uno spirito inquieto alla ricerca di un uomo di cui fidarsi totalmente, e il suo sposo, un umile boscaiolo eccessivamente ciarliero. Ne La storia di Hoichi senza orecchie, si narra di un talentuoso biwa hōshi (monaco itinerante cieco, suonatore di biwa), che viene insidiato dagli spiriti dei nobili guerrieri di cui canta le gesta. Nel quarto episodio In una tazza di tè, si intrecciano le vicende di uno scrittore di fine Ottocento con quelle di un samurai di due secoli prima, perseguitato da uno spettro che si annida nei recipienti usati dall’uomo per abbeverarsi.

Più affini al gusto e all’immaginario occidentale, i primi due segmenti risultano probabilmente anche i meno originali nello sviluppo narrativo, venendo vivificati, nondimeno, da una regia assai elaborata nell’uso della scala dei piani, dei movimenti di macchina, dei chiaroscuri e dei raffinatissimi cromatismi in funzione espressiva. La parte conclusiva del primo è uno dei rari frammenti di horror puro del film, capace di sfruttare con un’estrema e abile stilizzazione dell’azione, tramite un montaggio affilato ed essenziale, il topos ricorrente nell’immaginario soprannaturale nipponico della figura femminile nero-crinita. Il secondo riprende tale figura e la inserisce in un orizzonte visivo fiabesco prossimo alla pittura (con il bianco “acromatico” della neve a fungere da controcanto al rosso acceso e al blu avvolgente delle sequenze più intense), pervadendo il racconto filmico di un’aura assorta e sognante. Entrambi, infine, veicolano un malinconico sottotesto melò, filo conduttore sotterraneo di molti dei drammi di Kobayashi.

Il terzo e il quarto episodio esondano nel teorico, esplorando alcuni confini della meta-testualità: il corpo di Hoichi diverrà (testo) sacro, venendo ricoperto con le parole-segni di un rituale apotropaico, anche se i demoni che lo insidiano riusciranno comunque a ottenere un pegno di sangue dal giovane; nell’ultimo segmento, un testo letterario colonizzerà il testo filmico, mentre un’anima posseduta (quella di un samurai), a sua volta possiederà quella dello scrittore che ne racconta i tormenti: ne scaturirà una vertiginosa mise en abîme. In entrambi, infine, si teorizza la necessità del sacrificio individuale per raggiungere il sublime dell’arte, la sua più compiuta espressione. Per esteso, l’offerta di sé, in vista di un ideale trascendente rispetto alle secche della condizione terrena e ai lacci di regole ottuse e disumane, è uno degli elementi fondativi dell’etica di Kobayashi, capace di trasformarsi, nelle immagini dei suoi lavori, in estetica della lotta, in poesia del corpo in movimento.

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Uno dei budget più smisurati del cinema nipponico di ogni tempo, un parterre di collaboratori di eccelso livello, un anno di riprese in un gigantesco hangar dismesso e interamente adattato a set: Kwaidan fa il paio, come immensità delle ambizioni, con La condizione umana. Mentre in quest’ultimo, tuttavia, la dis-misura – innanzitutto della durata, 9 ore abbondanti – esprimeva il groviglio di temi politici, storici, etici, autobiografici affrontati da Kobayashi, conducendo a un cinema-mondo popolato di un’umanità allo sbando e preda di una sorte rovinosa, in Kwaidan essa dispiega un cinema-sogno dietro e fra le quinte di un teatro sconfinato, le cui mille aperture sono rivolte esclusivamente al suo interno; una sorta di mito della caverna rovesciato, in cui il vero essere non ha importanza, perché esistono solo le ombre. Si tratta di un sogno più grande della vita stessa e la cui unica realtà è l’immaginario di un popolo – quindi la sua più riposta e inscalfibile interiorità – ormai colonizzato all’esterno da sistemi di valori e iconografici alieni. Ecco allora che, se gli innumerevoli personaggi alla deriva di gran parte del cinema di Kobayashi sono simili a figure larvali prossime alla dissoluzione, i fantasmi di Kwaidan paiono, al contrario, animati dall’incrollabile vitalità del mito. E il mito, si sa, non è sottoposto alle ingiurie del tempo e della storia né al fatale destino dei mortali.

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Masaki Kobayashi Rentarō Mikuni Michiyo Aratama Tatsuya Nakadai Keiko Kishi Katsuo Nakamura 183 minuti
Giappone 1964
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