"Robin Redbreast" e "A Photograph" - Il folk horror tv di John Griffith Bowen

di Sara Mazzoni
folk 1

La tv inglese negli anni ’70 è stata uno dei principali laboratori di produzione dell’immaginario folk horror, lasciando un segno indelebile che riappare nel revival contemporaneo del genere. Dalle Ghost Stories for Christmas di Lawrence Gordon Clark agli infernali Public Information Film, l’epoca è infestata da spettri che sono tornati ad angosciarci attraverso quell’hauntology di cui tanto si è discusso durante il decennio appena trascorso.
Interrogandosi su come definire le forme essenziali del genere, lo studioso Adam Scovell individua quella che chiama «Folk Horror Chain». Il suo primo elemento è l’uso del paesaggio, che spesso definisce il tema estetico dell’opera isolando i personaggi al suo interno. Gli eventi del folk horror avvengono fisicamente e sociologicamente al di fuori della società: l’isolamento è un altro punto chiave. È rappresentato da comunità che sviluppano una morale deformata rispetto a quella dominante, esprimendola attraverso paganesimo e occultismo. La catena si chiude con una manifestazione legata a questo sistema di valori. Può consistere nell’apparizione di un’entità sovrannaturale, oppure può trattarsi di un evento violento, come un sacrificio.
Nel panorama della tv britannica i titoli folk horror degni di attenzione sono molti, così come gli autori da non dimenticare – per esempio, Nigel Kneale, che tra le varie cose ha scritto i film per la tv The Stone Tape e quelli di Quatermass. Ma non è l’unico sceneggiatore ad avere colto in pieno lo spirito di quel momento così peculiare per l’horror. Un altro nome da non dimenticare è quello del recentemente scomparso John Bowen. All'interno del format tv Play for Today possiamo infatti trovare due opere fondamentali, entrambe scritte da lui: Robin Redbreast del 1970 e la successiva A Photograph del 1977.

Trasmessa dal 1970 al 1984, la serie è un’antologia di play originali autoconclusivi, scritti per la televisione. Non sono film e non sono drammi teatrali, ma hanno alcune caratteristiche di entrambi. Vanno in onda in un periodo di austerity, durante il quale le limitazioni economiche hanno conseguenze anche sulla produzione tv. La BBC cancellava periodicamente i propri archivi, per cui perdere una trasmissione spesso significava non poter mai più vedere un’opera. Scritto da Bowen e diretto da James MacTaggart, Robin Redbreast viene trasmesso a colori alla fine del 1970 e all’inizio del 1971, ma di quella versione non rimane traccia. Al tempo venivano però fatte delle copie in bianco e nero di alcuni play, destinate alla vendita internazionale, ed è in questo modo che Robin Redbreast è arrivato fino a noi (seguiranno spoiler).

folk2

La sua trama ha più di un elemento in comune con The Wicker Man, la pietra miliare di Robyn Hardy che uscirà solo 3 anni più tardi. In Robin Redbreast la protagonista è Norah Palmer, una donna di 35 anni che dopo la fine di una relazione si trasferisce da Londra in un cottage di campagna. Alcuni avvenimenti misteriosi portano Norah a restare incinta dopo un incontro sessuale col giovane Rob, un ragazzo del posto. Rimasta bloccata nel paese, Norah scopre una cospirazione degli abitanti del villaggio, che hanno manipolato gli eventi per condurla al concepimento. Rob viene ucciso, secondo una tradizione religiosa volta ad assicurarsi il successo dei raccolti. Il ciclo si ripete nel corso del tempo: la comunità alleva e poi sacrifica i figli concepiti dalle vittime precedenti.
La somiglianza con The Wicker Man non è casuale e va oltre la semplice ispirazione. Entrambe le opere sono influenzate dal libro Il ramo d’oro di Sir James Frazer, un saggio antropologico sulle religioni antiche, che secondo Frazer ruotavano attorno a sacrifici umani offerti per rigenerare la terra. Per la ricercatrice Diana Rodgers, anche se Frazer viene screditato dai folkloristi moderni, il revival dell’occulto degli anni ’60 genera un’ondata di interesse per il folklore che rende popolare Il ramo d’oro, influenzando oltre a Hardy e allo sceneggiatore Anthony Shaffer anche alcuni autori della “wyrd television”. 

Come nota Scovell nelle sue riflessioni sulla Folk Horror Chain, in molte opere questa concatenazione di elementi è già stata stabilita quando la narrazione comincia. I personaggi ne scoprono i risultati sulla propria pelle, senza attraversare in prima persona ogni passaggio. La realtà della situazione si rivela loro nello scioglimento finale, proprio come accade al sergente Neil Howie di The Wicker Man, a Norah in Robin Redbreast e, come vedremo, al co-protagonista di A Photograph; ma è un meccanismo che troviamo anche oggi in film derivati da queste opere, come Hereditary e Midsommar di Ari Aster. Se vogliamo vederla in termini di autodeterminazione, essa viene sottratta ai personaggi di questo tipo di folk horror: anche quando acconsentono a qualcosa, non conoscono mai tutte le implicazioni delle loro decisioni, che spesso sono già state predisposte da altre persone. Il gruppo che cospira alle loro spalle fa in modo che l’ignoranza verso i particolari spinga i soggetti nella direzione desiderata. Le azioni delle vittime sono facilmente prevedibili perché la manipolazione a cui sono sottoposte fa leva su forze elementari come l’attrazione sessuale o il dolore.
Nella prima inquadratura in cui lo incontriamo – attraverso gli occhi di Norah – Rob viene presentato quasi nudo, corpo erotico svuotato da altre funzioni. La vicenda sottolinea marcatamente come per quanto Norah si sforzi non riesca a trovare una ragione di interesse verso Rob che non sia puramente sessuale. Nella logica rituale dei paesani, Norah e Rob sono ricondotti ai loro ruoli riproduttivi: la donna è un grembo, mentre il giovane Robin ne è il fecondatore; tant’è che quando Norah capisce cos’è successo, paragona se stessa e il ragazzo a toro e mucca.

folk3

È notevole come uno dei conflitti principali del play sia costruito attorno al desiderio femminile, che di per sé non viene mai rappresentato in maniera negativa. È l’inganno che lo circonda ad avere una connotazione maligna. I cospiratori, per quanto “sex positive” secondo uno standard odierno, si premurano di privare Norah di uno degli strumenti principali dell’emancipazione femminile che la donna ha portato con sé da Londra: il suo diaframma, anticoncezionale che le viene rubato poco prima che abbia luogo la sua avventura erotica, per esserle ironicamente restituito a fecondazione avvenuta. A riguardo Robin Redbreast è un play spregiudicato, che dopo aver mostrato in primo piano un contraccettivo osa pronunciare la parola “aborto” almeno tre volte. Cede però al più classico dei trope reazionari, quello che vede la donna cambiare idea all’ultimo momento, decidendo di portare a termine la gravidanza e definendo la pratica abortiva come omicidio – d’altra parte, per quanto sia un play al passo con la rivoluzione sessuale, rimane pur sempre un’opera per una tv di stato, prodotta 50 anni fa. Ma il punto cruciale del folk horror di Robin Redbreast è proprio la strana contraddizione tra la mancata possibilità di autodeterminarsi e il rispetto per una figura femminile sessualmente libera. Le dee della fertilità nelle antiche religioni assomigliavano a Norah, le dice Mr Fisher, figura di spicco del villaggio. Una donna non sposata, ma non una vergine, si accoppiava con un giovane che sarebbe stato trattato come un re, per essere poi sacrificato così che dal suo sangue potesse nascere il nuovo raccolto. Davanti alla perplessità di Norah, Mr Fisher le consiglia di leggere proprio quel Ramo d’oro menzionato sopra.

Play for Today nel 1977 scatena controversie con The Price of Coal di Ken Loach e la produzione televisiva di Scum di Alan Clarke, che viene infatti censurata dalla BBC fino al 1991 (mentre la sua versione filmica esce nel 1979). Sempre nel 1977, la serie presenta un altro lavoro scritto da Bowen e diretto da John Glenister, A Photograph. Si tratta della storia di un matrimonio infelice vista attraverso gli occhi della moglie Gill Otway, un’insegnante di umili origini sposata al critico d’arte Michael. La vicenda è uno psicodramma folk horror che esamina la disperazione di lei e l’ipocrisia di lui, con una sensibilità che ricorda quella di Ari Aster in Midsommar.
In A Photograph, Michael ha sposato Gill soltanto perché era incinta, ma la gravidanza è stata interrotta da un aborto spontaneo. Michael è egocentrico e poco empatico, mentre a Gill è stato diagnosticato un disturbo depressivo per il quale è in terapia. I risultati sembrano scarsi, anche se la conclusione getterà una nuova luce su questo punto. Il play inizia con l’inquadratura di Michael cadavere, l’espressione stupefatta. La vicenda che segue è un flashback che ci spiega come il personaggio abbia fatto questa fine. La storia inizia con l’arrivo di una busta misteriosa, contenente soltanto la fotografia di due ragazze sedute su un prato davanti a un caravan. Questo frammento di campagna si insinua nella vita della coppia e nelle sue disfunzioni: Michael non sa perché gli sia stata inviata la foto, Gill la analizza ossessivamente. Michael decide quindi di andare a cercare questo caravan, il luogo in cui troverà la morte.

folk4

In Robin Redbreast oltre a Mr Fisher, c’è un altro personaggio a circuire la protagonista. Si tratta dell’opprimente Mrs. Vigo, una donna di mezz’età dai modi bruschi, che si occupa delle pulizie del cottage. A Photograph ne segna il ritorno. Durante tutto il play, la vicenda ambientata in città è intervallata da alcune scene che si svolgono all’interno del caravan dove Michael morirà. Lì si trovano un ragazzo e una donna, interpretata da Freda Bamford, la stessa attrice che prestava il volto a Mrs Vigo. Il personaggio è simile, ma è soltanto dai credit dei titoli di coda che scopriamo che si tratta proprio di lei, rendendo A Photograph uno spin-off di Robin Redbreast.

L’aspetto più interessante di A Photograph è la sottigliezza con cui descrive una relazione-trappola, in cui le due parti sono costrette e infelici. È un’aspra critica al matrimonio borghese, in cui ancora una volta Bowen presta particolare attenzione al ruolo delle donne. Gill proviene dalla stessa campagna povera di Mrs. Vigo, proprio da quel caravan, ma se ne vergogna al punto di non poterlo nemmeno confessare al marito. Laddove Robin Redbreast esplora il trope folk horror che prevede l’impossibilità del forestiero di integrarsi nella ristretta comunità di campagna, A Photograph usa questa comunità come specchio di un conflitto di classe. Questa volta è la donna della campagna a non integrarsi nel cinismo cittadino di Michael. La storia di Gill è circolare, anche se non ce ne accorgiamo fino all’ultima scena: è iniziata nel caravan e lì termina la porzione a cui abbiamo assistito noi, quella della sua liberazione da un cattivo marito. I mezzi di questa liberazione sono violenti e riecheggiano nei sacrifici rituali che chiudono Midsommar di Aster. Come anche in Robin Redbreast e in The Wicker Man, a essere immolato è il maschio, quel re per un giorno del Ramo d’oro. Ma nonostante l’omicidio, Bowen empatizza col personaggio di Gill e non con quello di Michael, predisponendo una motivazione fortissima per fare agire Gill contro il marito, chiarendo come Michael la stia sottilmente istigando al suicidio. Quando Michael si inoltra nella campagna, tutto quello che accade finisce per farci capire che la catena del folk horror era da lungo tempo in funzione per lui. Alla pari di altre vittime nel sottogenere, l’uomo ha ricevuto molti segnali allarmanti, a cominciare dal comportamento che la moglie assume verso la fotografia. Michael li ignora cocciutamente non solo perché ha paura di veder crollare il proprio mondo, ma anche perché gli risulta inconcepibile essere sincero con Gill. Sotto alla sua ipocrisia borghese si nasconde qualcosa di più oscuro, ossia l’inconfessabile desiderio di vederla morire, ritortogli contro dall’onestà disarmante di lei.

05 A Photograph

Come nota Scovell, il genere pullula di “oggetti di possessione” il cui ritrovamento innesca la narrazione, a partire dai racconti di Montague Rhodes James, che costituiscono una delle basi letterarie del folk horror inglese. Possono essere tesori nascosti e maledetti, che si animano di intenzioni maligne quando riportati alla luce. Anche nei play di Bowen il ritrovamento di alcuni oggetti è uno snodo importante. In Robin Redbreast, la protagonista scopre sul davanzale un frammento antico che sembra avere un significato nel piano dei villici. In A Photograph c’è invece la fotografia del titolo: un dispositivo contemporaneo, non proveniente dall’antichità, che però ritrae proprio quella campagna così inquietante della Folk Horror Chain.
Ma nel play c’è un altro oggetto altrettanto interessante. Quando Michael entra per la prima volta nel caravan di Mrs. Vigo vede un minerale a forma di cuore che gli sembra identico a quello che aveva comprato per la moglie durante un viaggio. Nonostante la pietra sia scheggiata esattamente nello stesso punto («a broken heart», gli dice sardonica Mrs. Vigo), Michael, per quanto insospettito, non riesce ad ammettere quella che ormai è una verità evidente, e cioè che è sua moglie ad avergli mandato la foto e che c’è un collegamento ovvio tra lei e la vecchia nel caravan. La bellezza di A Photograph si trova nel modo in cui Bowen accumula particolari di questo tipo, creando un’atmosfera morbosa proprio come quella che sperimentano i due personaggi nel loro matrimonio. La loro vita è costellata da oggetti, situazioni e simboli impossibili, comportamenti che rifuggono la verità e la logica: la loro è una relazione basata sull’assurdo. L’arrivo della fotografia, insensato anche una volta spiegata la vicenda, con una pari assurdità riesce a scardinare la logica perversa che teneva insieme la situazione. A sottoscrivere la sua appartenenza al genere, la conclusione dello psicodramma di coppia richiede un sacrificio umano, esattamente come accade in Midsommar.

Etichette
Categoria
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Favolacce

di Matteo Berardini
Favolacce - recensione film fratelli D'Innocenzo

Possiamo evadere dai salotti borghesi, dai ritratti di famiglie frustrate, dai drammi sanitari di fratelli/compagni/genitori/amici malati terminali? Possiamo sfuggire al motore ingolfato di uno sguardo d’autore che non riesce a raccontare altro che sé stesso? Da alcuni anni il cinema italiano ha risposto a quest’esigenza riscoprendo la periferia criminale, con il suo carico di drammi e violenze che si affastellano appena oltre quel raccordo anulare su cui, troppo spesso e convenientemente, si ferma la narrazione collettiva operata da politica e televisioni. Fedele alle coordinate del periferia movie, La terra dell’abbastanza, opera prima di Damiano e Fabio D’Innocenzo, era un racconto dolente di gioventù spezzate e padri falliti, stato assente e futuri mancati, fedele alla tradizione senza cercare guizzi e reinvenzioni, come un buon esordio è libero di fare. Tuttavia questo stesso cinema criminale è un genere a rapido esaurimento, un terreno in cui ogni storia appare presto già vista e ogni dramma diventa cliché. Consapevoli dell’impasse, e volendo a loro volta evadere dalle maglie precostituite del canone, i due fratelli tentano lo scarto prospettico e muovono lo sguardo sugli abitanti delle nuove periferie romane, non più gli ultimi della catena alimentare ma non ancora borghesi, proprietari certo di villette a schiera con giardino e staccionata bianca ma ancora, essenzialmente, poveri arricchiti. E verrebbe da dire finalmente, finalmente un cinema d’autore giovane che riesce a emergere attraverso il genere e poi da questo si sposta avanti, in territori privi di cittadinanza cinematografica la cui umanità è ancora tutta da scoprire. Ma in verità di questi personaggi poco o nulla interessa ai fratelli D’Innocenzo, non contano i loro drammi e la portata umana della sofferenza, non conta gettare lo sguardo oltre il limite, ancora una volta, per conoscere e ridare dignità scopica al non-visto. Come fossero impegnati in un ripensamento del loro esordio, i D’Innocenzo mantengono l’elemento periferico ma accarezzano l’idea del cinema teorico, traslando il periferia movie dentro altre strategie di rappresentazione che si collocano a metà strada tra la favola nera europea e l’immaginario suburbano, in un movimento anzitutto linguistico basato sulla sovrabbondanza stilistica e l’evidenza circolare del meccanismo. Favolacce è una storia immaginata che si dichiara tale, l’imitazione distorta di una realtà già di per sé mostruosa che si presenta come favola suburbana negante la sua appartenenza al genere; un dispositivo che declama l’artificiosità della sua natura con una cornice narrante che, come un nastro di Moebius, riavvolge la storia su sé stessa autoassolvendosi per la frustrazione e l’amarezza accumulate. Non è così che siete abituati a veder raccontata la realtà di periferia, ci dicono i fratelli, scusate la nostra eretica lontananza da quelle strategie di messa in scena ormai ampiamente codificate, fate come se non fosse successo niente. Ma il limite di Favolacce non risiede nel suo essere un teorema costruito a tavolino, bensì nel fatto che tutto quel che emerge da questo movimento circolare è un cinema rettile privo di anima, un cinema narcisisticamente nichilista che si compiace della propria perdita di umanità e scambia il dolore col voyeurismo del morboso, le macerie con il riflesso del vuoto, l’empatia con il giudizio verticale ed entomologico.

Di certo ai D’Innocenzo si deve riconoscere l’aver ben compreso il sincretismo tutto contemporaneo innescato dall’incontro tra benessere economico e vuoto ideologico, un cortocircuito che si esprime anzitutto a livello di immagine e rende le villette a schiera dei nuovi quartieri romani una replica inquinata dei cul de sac suburbani della provincia americana. Per questo Favolacce ha dentro più Todd Solondz che Gomorra, più Simpson che Pasolini; non è più questione di iperrealismo e cinema del reale, la deformazione interiore è anzitutto deformazione del proprio immaginario di riferimento, e da qui mutano grottescamente corpi, sguardi, superfici. Favolacce è la resa animale della côté da suburb americana anni Novanta, rilettura nera di una porzione del nostro reale che sembra farsi riflesso di un episodio della serie simpsoniana La paura fa novanta, fra professori frustrati in cerca di vendetta, genitori violenti e piscine gonfiabili in giardino. L’obiettivo qui è raccontare la realtà attraverso l’esasperazione del suo artificio, mettendo in scena un diorama popolato da mostri in cui la periferia è una condanna ontologica a cui non si può sfuggire e l’innocenza è un errore di gioventù da punire con la morte – perché non si dimentichi mai che «si deve morire», come canta la canzone sul finale. Nello sguardo dei D’Innocenzo non c’è possibilità di redenzione né speranza alcuna, ma soprattutto non c’è dolore, non c’è capacità di avvicinarsi anche agli ultimi e più storti della terra. Favolacce è anzi lapidario, è un esperimento gerarchico che inchioda personaggi-insetti nelle loro macerie, senza che possa mai emergere alcunché di umano, per quanto sofferente e terribile. È un plastico dalla tragedia manifesta, preparato a tavolino con compiaciuto nichilismo da cui non emerge nulla, non nasce nulla. Un cinema sterile, versione depauperata di certo sguardo postumano europeo (Lanthimos) che rincorre la bella immagine, la deformazione a effetto, la denuncia urlata, e tratta i suoi personaggi come bestie morte con cui pasteggiare e su cui affilare ancora artigli e denti affamati.

Categoria
Damiano e Fabio D’Innocenzo Elio Germano Tommaso Di Cola Barbara Ronchi Giulietta Rebeggiani Gabriel Montesi 98 minuti
Italia 2020
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Roubaix, una luce nell'ombra

di Emanuele Di Nicola
Roubaix une lumière Arnaud-Desplechin recensione film

Il commissario Maigret ha avuto tanti volti: da Pierre Renoir a Michel Simon, da Jean Gabin a Gino Cervi. Ma questo ancora mancava: Maigret trasfigura nell’attore beur Roschdy Zem, francese con genitori marocchini, in Roubaix, una luce nell'ombra di Arnaud Desplechin, presentato in concorso al Festival di Cannes 2019. Non si chiama Maigret naturalmente, bensì commissario Yacoub Daoud, algerino, ma poco importa perché il riferimento atavico è al protagonista dei romanzi di Simenon: un investigatore che si impregna del suo ambiente, lo frequenta e interroga, entra nella natura delle persone e cerca di comprendere le motivazioni alla base, anche le più scomode e spiazzanti. E non vive a Parigi in un appartamento sulla rive gauche bensì a Roubaix, uno dei centri più poveri della Francia e città natale di Desplechin, che compone così “una specie di omaggio”. Una specie perché il suo unico film che porta l’elemento autobiografico nel titolo è forse il più cupo e desolato, piantato in una riflessione sulla natura umana che è dostoevskijana, e che concede uno sprazzo di luce (“une lumière”) proprio nel personaggio del commissario Daoud. Ma per arrivarci il percorso è doloroso e a tratti insostenibile.

Ispirato a un caso di cronaca nera avvenuto nella città, il racconto si sviluppa intorno all’omicidio di un’anziana signora, trovata brutalmente uccisa nella sua casa forse a scopo di rapina. Le vicine sono due ragazze che vivono insieme, Claude (Léa Seydoux) e Marie (Sara Forestier), le quali sostengono di non aver sentito nulla perché nel corso di una serata alcolica... Daoud dovrà affrontare il caso con un nuovo arrivato, il tenente Cotterel (Antoine Reinartz), poliziotto giovane e  sguardo “crusoeiano” che si trova per la prima volta a confrontarsi con la disagiata realtà di provincia. Prima di tutti loro, infatti, c’è Roubaix: città poverissima, segnata dalla disoccupazione e dall’emarginazione, in cui l’assenza di ogni altra opportunità spinge inevitabilmente verso l’illegalità. Lo mostra già all’inizio Desplechin, con un radicale antididascalismo che si nutre di immagini fulgide: nella notte natalizia c’è una macchina che brucia, scoppiano risse, un uomo si reca in centrale fingendo un reato per truffare l’assicurazione, ovviamente incolpando degli stranieri. Senza psicologismi Roubaix la abbiamo tutta davanti agli occhi.

Arnaud Desplechin è un autore. Con una definizione solo apparentemente sorpassata, è così che egli concepisce se stesso e quindi il suo cinema: una tela su cui disegnare la natura umana nei tormenti profondi, un’attività alta e intellettuale che riflette anche su di sé, si guarda allo specchio, ospita doppi e ritorni, fa cinema nel e sul cinema. Non è un caso che i personaggi dei suoi film tornino spesso come spettri, abbiano gli stessi nomi (Ismael o il joyciano Dedalus) e perfino gli stessi volti, come quello dell’alter ego Mathieu Almaric, che è Ismael ne I Re e la Regina, diventa Dedalus ne I miei giorni più belli e “torna” Ismael ne I fantasmi di Ismael, dove Dedalus è interpretato da Louis Garrel... Desplechin tesse una densa ragnatela d’autore: ama portare avanti lo stesso film in diversi capitoli, installandovi dentro molto cinema, a partire dal Doinel di Truffaut. Ma Roubaix, una luce nell'ombra è un po’ diverso. Si sente nitidamente la persistenza di alcuni temi prediletti, anzi ossessioni, come quella della memoria, con il commissario Douad che ricorda affettuosamente una  gioventù ormai svanita: ma questo “cripto-Maigret” di retrovia è il pretesto per uno studio ambientale pieno di durezze e asperità, che guarda in faccia la sofferenza.

Tra i vari problemi che affronta quotidianamente (come una ragazza scappata da casa o uno stupro)   gradualmente emerge la centralità dell’omicidio che conquista il cuore dell’intreccio. E allo stesso tempo risulta evidente l’implausibilità della versione di Claude e Marie, che nascondono qualcosa: nel loro rapporto, indovina Douad, c’è la chiave per risolvere il caso. È qui che Desplechin si esalta: tenendo separate le due in stanze distinte della centrale, allestisce un procedural dell’anima in cui i poliziotti interrogano a turno l’una e l’altra, sperando di aprire una breccia verso la verità. Il regista esegue una geometria di sguardi e prospettive, di punti di visione, congelando radicalmente la concitazione tipica del poliziesco: nel lunghissimo interrogatorio è piuttosto una paziente maieutica che tira fuori la verità alle ragazze, delineando i contorni anche struggenti del loro rapporto, in cui l’amore dell’una per l’altra (e non viceversa) è sbocciato in un contesto degradato e si è avvitato nella disperazione delle loro vite, portando infine al gesto estremo.

Emersa la soluzione, però, il racconto prosegue e riserva un altro colpo di scena: il commissario Douad si reca nella cella delle ragazze e le “capisce”. Il dialogo con Lèa Seydoux si fa particolarmente straziante, vertendo sulla bellezza della giovane che dopo il “paradiso perduto” dell’adolescenza è stata erosa dal contesto. E nondimeno è la Marie di Sara Forestier il brutto anatroccolo che ha intravisto un’ipotesi d’amore prima di finire alcolizzata e smarrita: due prove magnifiche, entrambe attrici di Kechiche, entrambe già dentro il cinema di periferia. Douad, proprio come Maigret, attraverso l’immersione nel contesto è arrivato alla comprensione del gesto criminale: che non è giustificazione ma pietà, ovvero la presa d’atto di una natura degradata, la scoperta che a Roubaix anche gli assassini sono vittime. Una rivelazione che Douad ha dentro da sempre, in realtà, e per questo declina nella pratica poliziesca con calma olimpica, nella consapevolezza che anche il colpevole merita una carezza. Ecco che Douad nel finale può cavalcare gli amati cavalli, il passatempo preferito, ancora come Maigret che nel tempo libero leggeva i libri di Alexandre Dumas. Nella stagione cinematografica Roubaix, una luce nell'ombra e I Miserabili di Ladj Ly sono i due grandi film francesi sulla periferia, sui poveri e i disgraziati: antitetici tra loro, comprensione contro rivolta, entrambi ribaltano la visione tradizionale degli ultimi e aggiungono un nuovo tassello. Per Desplechin l’uomo è rovinato dal mondo intorno, ma comprendere la nostra natura può sempre portare alla catarsi.

Categoria
Arnaud Desplechin Roschdy Zem Léa Seydoux Sara Forestier 119 minuti
Francia 2019
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Normal People

di Veronica Vituzzi
Normal People - recensione serie tv Sally Rooney

A metà della visione di Normal People sorge un dubbio: ma in fondo, questa ennesima rappresentazione di un amore profondo, ma contrastato da equivoci e differenze sociali, non rischia di essere la solita storia romantica vista e rivista fino al logoramento narrativo? Cosa farne, in uno scenario produttivo già saturo, di un altro racconto di amplessi appassionati e lacrime solitarie, parole fraintese e incomprensioni gioiosamente appianate? Rinunciare a proseguirne la visione sarebbe però a questo punto un peccato, perché la trasposizione televisiva del felice romanzo di Sally Rooney rivela come in ogni storia d’amore ci sia sempre molto più di un semplice umano trasporto. Talvolta l’amore trova nell’amore stesso uno spazio che è poco assai se confrontato a tutto ciò che porta con sé: il passato di chi si innamora, le sue ferite e le sue speranze, i difetti e le parti migliori, tutto mischiato insieme in un percorso che dice molto più della vita che del solo sentimento.

Come lo stesso titolo anticipa, Marianne e Connell sono due persone normali, ma all’inizio della loro storia non lo sanno ancora. Si incontrano al liceo, dove lei è la figlia studiosa di una famiglia ricca e lui il figlio senza padre di una madre povera che si guadagna da vivere facendo le pulizie (per la madre di Marianne, peraltro). Connell è riuscito a far scivolare sullo sfondo la sua famiglia povera e irregolare, imparando a farsi piacere da tutti con buoni voti, un’ottima reputazione sportiva e la capacità di non dire mai cose fuori luogo; Marianne avverte invece la propria diversità come un marchio irrevocabile, ed è considerata l’allieva strana da prendere in giro. Eppure i due si trovano, si piacciono, non sanno star lontani l’uno dall’altro. Ha inizio dunque una storia di amore e sesso, dal liceo all’università, in uno scambio apparente di ruoli (al college Marianne diviene popolare e piena di amici, mentre Connell si scopre più introverso), dove i due si perdono e si ritrovano fino a scoprire e ad accettare in sé stessi, oltre all’amore per l’altro, la persona che ognuno di loro è veramente.

Il romanzo di Sally Rooney è già di per sé una bozza di sceneggiatura, divisa per scene e salti temporali, ma ciò che manca nell’adattamento televisivo è la descrizione precisa nel libro dei pensieri e delle sensazioni che assalgono i protagonisti. Forse una voce in terza persona fuoricampo avrebbe potuto compensare questa mancanza, ma col rischio di un effetto troppo didascalico. Sono le inquadrature allora ad avere l’assoluto potere narrativo di raccontare le emozioni di Marianne e Connell: a tal punto che ogni inquadratura, ogni gesto, ogni sguardo divengono fondamentali, anche quando sfuggono all’attenzione dei personaggi e sono visibili solo allo spettatore. Ci sono i momenti preziosi in cui i due protagonisti riescono a ritrovarsi in un’occhiata o in una carezza, ma c’è anche tanto tempo sprecato fatto di sensi di colpa e tristezza, parole non dette o fraintese, sguardi nascosti di desiderio o dolore che non vengono riconosciuti.  Per quanto possa sembrare ridondante, Normal People pretende di essere vista e ascoltata, perché la sua storia si sviluppa nelle pieghe di continue azioni minime e dialoghi quasi banali, affiancati a preziosi momenti intensi e rivelatori come onde che si increspano decise sulla superficie. Non è qualcosa che si possa guardare distrattamente: o coinvolge del tutto, o probabilmente annoierà a morte chi non ne è stato conquistato.

Man mano che la storia si sviluppa, la ”normalità” che Connell e Marianne inseguono fra periodi di depressione e masochismo, inizia a coincidere col concetto di umanità, perché lungi dal rappresentare una personalità e un’esistenza socialmente accettabili essa finisce invece per racchiudere in sé proprio quella difficoltà di essere sé stessi che accompagna la loro storia d’amore. Come a dire: non sono proprio questo dolore, questo disagio, la vera normalità di tutti? Marianne ha interiorizzato dalla sua esperienza familiare -  una madre anaffettiva e un fratello che sfoga su di lei la propria insicurezza con episodi di violenza fisica e psicologica - la brutalità come linguaggio proprio di tutte le relazioni intime, mentre Connell teme di essere rifiutato dalle altre persone e pertanto reprime il proprio carattere fino a cadere, dopo il suicidio di un amico, in un profondo disagio psichico. Eppure anche quando sono lontani, i due riescono a essere sempre presenti e disponibili l’uno per l’altro; ed è nel loro farsi del bene a vicenda, nella loro progressiva maturazione psicologica che tutta la loro storia d’amore si rivela più grande di quel che sembra, poiché è, anche e soprattutto, il racconto di una comune crescita spirituale più forte di qualsiasi separazione.

Se nel 2020 il tema amoroso potrebbe sembrare talmente abusato dal punto di vista narrativo da far ritenere arduo trovare nuovi modi per raccontare i legami sentimentali tra le persone, Normal People dimostra che ogni volta che lo sguardo si pone su ciò che significa essere davvero umani, la ricchezza delle suggestioni prodotta è infinita. Il cinema - e la letteratura - possono continuare a raccontare ancora e ancora l’amore: comunque sembrerà sempre di vedere e ascoltare una storia antica, ma nuova.

Etichette
Categoria
Lenny Abrahamson Hettie Macdonald Daisy Edgar-Jones Paul Mescal 1 stagione da 12 episodi
Irlanda 2020
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Devs

di Andrea Giangaspero
Devs - recensione serie tv garland

Degli elementi e dei temi cari ad Alex Garland abbiamo già acquisito una certa dimestichezza. C’è la science-fiction contestualizzata in una geografia più terrestre che spaziale (almeno nei film in cui Garland ha curato la regia, non vi sono né cosmonauti né astronavi). C’è il protagonismo di una figura femminile. E c’è il suo inserimento in uno spettro di soluzioni che contaminano la componente tecnologica – più inclusivamente, scientifica – con allusioni all’ambito della religione e della teleologia. Ritroviamo tutto in Devs, prodotta da Hulu e debutto seriale per l’autore dopo le fortune dei film Ex Machina e Annientamento. Allora, il cambiamento principale, ovviamente, sta anzitutto in questo: il formato della serialità breve concede una iper-estensione, e insieme un rallentamento, nella disposizione e nella trattazione di questi elementi. Il terreno è fertile, e la risultante assolutamente convincente.

Anzitutto, il mondo inquadrato da Garland non è tanto futuristico, quanto assolutamente futuribile. La sua San Francisco sarebbe copia spiccicata della nostra, se non fosse per un dettaglio. Dislocata nei boschi appena fuori dalla città si trova la complessa sede di Amaya, un’industria ipertecnologica così avanzata da fare piazza pulita della competizione, con tanto di statua-simbolo gigante che raffigura una bambina dal volto inquietante. Nel più misterioso e impenetrabile dei suoi edifici, Devs, appunto, il presidente Forest (Nick Offerman) e i suoi scienziati lavorano su un super-computer che elabora algoritmi predittivi così complessi da permettere la ricostruzione per immagini di tutta la storia passata dell’uomo e, in parte, del suo futuro. Tra i pochissimi fortunati a poter accedere e lavorare per Devs, c’è la spia russa Sergei (Karl Glusman), la quale tuttavia viene subito scovata dallo stesso Forest, proprio grazie ai meccanismi di visualizzazione predittiva del super computer, e quindi fatta assassinare. La compagna del ragazzo, Lily Chan (Sonoya Mizuno), viene avvertita del suo suicidio, inscenato abilmente dall’azienda modificando ad hoc le riprese delle videocamere di sorveglianza. Scoperta l’inautenticità delle immagini e la ragione dell’omicidio, Lily si ritrova coinvolta in un complesso di dinamiche che la vedono protagonista inconsapevole e indesiderabile dell’intero determinismo macro-sistemico dell’universo.

Per quanto suoni apocalittico e spropositato pure nel raffronto col precedente Annientamento, il trattamento della materia procede in una direzione contraria alle aspettative, volta a silenziare più che a urlare, a circoscrivere negli spazi domestici e nell’isolamento elegante e ultra-minimalista di Devs più che a squadernare interventi su scala planetaria. La stessa prospettiva di un’evoluzione della trama in chiave spionistica, di cui il personaggio di Sergei sembra l’iniziatore, viene fatta tacere per tradursi in una sorta di MacGuffin che catalizza le attenzioni su Lily, disorientata e fuori rotta, ricondotta sistematicamente all’ordine da Forest e da Katie (Alison Pill), sua vice e amante. Il mantra del determinismo scientifico ha un vero contrappunto soltanto nelle teorizzazioni sul multiverso e sul libero arbitrio, delle quali Lily assume la funzione di vero e proprio dato empirico.

d

L’irrigidimento del carattere computazionale che governa ogni elemento dell’universo di Devs, secondo la sola dialettica di causa-effetto, si riflette nell’impalcatura della serie, tanto in una struttura episodica che non apre mai all’esasperazione di continui punti di domanda (vedi Westworld), quanto in una pulizia visiva e della scrittura che introietta lo spettatore nelle sue logiche, fuori da ogni sgomento e da espressioni di incredulità. Ecco che, allora, in questo lento movimento iper-estensivo di ingranaggi oliati – come quelli dorati e ramati del supercomputer di Devs – le frasi a effetto di Forest sulla predeterminazione di ogni elemento dell’universo, la continua ricombinazione particellare dei dati acquisiti per ricreare su maxi-schermo la crocifissione di Cristo, l’estinzione dei dinosauri, la morte al rogo di Giovanna d’Arco e le immagini della piccola figlia di Forest, morta in un incidente, che soffia bolle di sapone, tutto concorre a investire Forest di funzione messianica, e a ridefinire la funzione della luminosa gabbia dorata di Devs a dispositivo sacrale e divino che attraversa l’intero spazio-tempo. Invero, svela Forest, la ‘v’ è romana: Devs è in realtà Deus. Il richiamo al dittico con Ex Machina è servito. La futuribilità e il parossismo della tecnologia avvicinano l’uomo al divino; quindi, come accade per il dispositivo greco, alla risolvibilità di ogni macchinazione. Se non fosse per quell’ultima variabile, esile come il corpo di Lily e tuttavia capace di produrre una falla, una frattura nell’assetto titanico delle maglie del tempo, con una singola scelta che rivela un gesto autentico di libero arbitrio o, meno sentimentalmente, di appartenenza a un’altra linea del multiverso (e in tal senso, molto vicino alla strada intrapresa nell’ultima stagione dalla serie tedesca Dark).

Basterebbe soltanto questo per dare evidenza della forza di Devs, pure in considerazione di un finale appena sottotono, in cui si sostituisce la problematicità di certe teorie messe in tavola con una risoluzione lenitiva forse non del tutto in linea con la restante impalcatura seriale. E tuttavia qualcos’altro potrebbe saltare all’occhio; la lettura di un possibile sottotesto che rimanda al dispositivo di visione, al cinema in senso ampio. Perché la continua elaborazione a computer nelle stanze segrete di Devs si traduce in immagini del passato e del futuro. E tanto più si riavvolge il nastro e con l’elaborazione dei dati si dilata spazialmente l’inquadratura all’interno dello schermo, persino a inquadrare in campo totale il pianeta terra all’origine della sua formazione, quanto più quello schermo produce un quadro completo, di continui riquadri dentro riquadri. La vista degli uomini che disegnano sulle pareti delle caverne in una notte di cinquemila anni addietro, come anche il passato della piccola Amaya che soffia bolle di sapone, è soltanto una ricostruzione visuale, soltanto un bel film; dice Lily. Ma in ultimo, la vera risultante di quell’elevamento a potenza dell’evoluzione tecnologica e delle mire messianiche di Devs sembrerebbe nelle intenzioni proprio questa: la sintesi estrema e perseguita di un cinéma du réel, la genesi di una immagine nuova e autentica che contiene ogni altra immagine.

The box contains us.
The box contains everything.
And inside the box there’s another box.
Ad infinitum. Ad nauseam.

Etichette
Categoria
Alex Garland Sonoya Mizuno Nick Offerman Alison Pill Cailee Spaeny Miniserie da 8 episodi
USA 2020
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Creatura del diavolo

di Jacopo Bonanni
Creatura del diavolo - recensione film Hammer folk horror

Dopo un periodo di gloria, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, il filone folk horror è stato sempre meno frequentato e ingiustamente relegato al ruolo di figlio minore della cinematografia dellorrore; contrariamente a quanto è accaduto al genere gotico classico, che invece ha goduto e continua a godere in sala di un discreto successo commerciale, grazie al contributo di autori appassionati del calibro di Tim Burton e Guillermo del Toro. Questo fino a dieci anni fa circa, quando una nuova leva di registi indipendenti ha risvegliato linteresse del pubblico e della critica nei confronti di un genere ritenuto ormai morto e sepolto, dando vita a un vero e proprio revival con film come: Kill List  e A Field in England di Ben Wheatley, For Those in Peril di Paul Wright, The Witch e The Lighthouse di Robert Eggers e il recente Midsommar di Ari Aster. Se a livello letterario sappiamo che le radici culturali da cui vengono tratte la maggior parte di queste storie si perdono nella notte dei tempi, nei racconti orali, nei culti autoctoni delle prime comunità rurali e nelle paure ataviche dei nostri antenati, quello su cui si continua a dibattere è su quando sia nato effettivamente il  folk horror a livello cinematografico.

Il primo a coniare l’espressione è stato il regista Piers Haggard, intervistato nel 2004 a proposito del suo cult La pelle di Satana, uno dei tre capisaldi, insieme a Il grande inquisitore del compianto Michael Reeves e The Wicker Man di Robin Hardy, che compongono la cosiddetta “Unholy Trinity”, ovvero il nucleo concettuale intorno al quale si sviluppa la definizione del folk horror per come lo intendiamo ancora oggi. È indubbio che a questi titoli spetti di diritto l’etichetta di “classici” ma è altrettanto vero che i primi esperimenti nell’ambito risalgono a molto prima, per alcuni addirittura intorno alla fine degli anni cinquanta con il film La notte del demonio di Jacques Tourneur – impregnato del fascino ancestrale della campagna inglese – ma soprattutto con la famigerata miniserie televisiva della BBC The Quatermass e The Pit, un mix di scifi, horror e suggestioni folk firmato dal celebre autore Nigel Kneale (Halloween III: Season of the Witch). Lo sceneggiatore inglese è una vera e propria autorità nel panorama thriller/fantastico e in quanto tale è anche uno storico collaboratore della Hammer Productions, che lo recluta nel 1966 per sviluppare l’adattamento del romanzo best seller The Devil’s Own, una storia moderna di streghe e voodoo scritta da Norah Lofts sotto lo pseudonimo di Peter Curtis e pubblicato nel 1960.

Il film in questione è Creatura del diavolo, un thriller pastorale – tutto al femminile – dagli echi hitchcockiani, giocato sul filo tra scetticismo e superstizione, che amalgama alcuni dei temi più in voga del momento: le streghe, la sessualità e il paganesimo, sulla scia del successo riscosso da pellicole coeve come La maschera del demonio di Mario Bava, La notte delle streghe di Sidney Hayers e Witchraft di Don Sharp. D’altronde gli anni sessanta, come cantava Donovan, inaugurano “la stagione delle streghe” (e degli stregoni), che imperversano sia al cinema che nelle piazze, complice da un lato l’impatto del movimento femminista che le elegge paladine della lotta al patriarcato e della rivoluzione sessuale in atto; dall’altro in quanto il rinnovato interesse della controcultura giovanile verso l’occultismo e il soprannaturale, come testimonia l’influenza culturale esercitata dalle opere dell’esoterista Aleister Crowley su molti artisti (Kenneth Anger su tutti).

Creatura del diavolo - recensione film Hammer folk horror1

Diretto da Cyril Frankel regista del controverso Corruzione a Jamestown e interpretato brillantemente dalla star hollywoodiana Joan Fontaine nel ruolo della vulnerabile protagonista, Creatura del diavolo si distingue immediatamente dai suoi predecessori per essere uno dei primi esempi di film horror a non essere ambientato in un passato arcaico ma nel presente. Un presente cinematografico in cui il terrore non si annida più nei lugubri castelli infestati dagli spettri ma si manifesta alla luce dell’apparente idillio bucolico dei silenziosi villaggi anglosassoni; dove dicerie, sussurri e antiche credenze popolari alimentano un forma di terrore più verace e insidioso, perché sotterraneo e dunque invisibile agli occhi di chi prova a sondarlo. Come accade all’ignara protagonista della storia: Miss Mayfeld, una timida insegnante sull’orlo di un esaurimento nervoso che tornata in patria, dopo un traumatico soggiorno in Africa, funestato da minacciosi riti tribali, decide di accettare un lavoro in una modesta scuola di campagna. Lontana dalla civiltà, la donna si trova invischiata di nuovo in una serie di sinistri eventi che rischiano di minare la sua sanità mentale, fino a quando il rapimento di una sua studentessa non la costringerà a indagare su dei misteriosi omicidi rituali che coinvolgono gli abitanti del pacifico paese di Haddaby e ad affrontare, da sola, una sordida congrega di streghe fuori controllo, dedita a sacrifici umani.

Meno orientata a mostrare l’orrore in senso stretto ma più interessata a suggerirlo sotto mentite spoglie, la regia di Frankel costruisce metodicamente un racconto basato sostanzialmente su un clima reiterato di tensione e sospetto che serpeggia costantemente negli sguardi e nei dialoghi dei protagonisti, a partire dal suggestivo antefatto del rito voodoo iniziale, passando per la claustrofobica prigionia della protagonista in una casa di cura e fino allesplosivo, coreografico e sgargiante sabba finale. Questo mentre la sceneggiatura di Kneale, fedele al romanzo, mette in risalto i risvolti psicologici, valorizzando al massimo la performance della Fontaine che si dimostra perfetta nell’incarnare la “quieta isteria” del suo personaggio, attorno a cui ruota tutta la narrazione. Una donna costretta a combattere contemporaneamente contro i demoni del passato che la tormenta e quelli di un futuro incerto che le viene di nuovo strappato dalle stesse forze malefiche che la perseguitano, ovunque provi a fuggire. A dimostrazione che la paura non ha bisogno di coordinate precise per manifestarsi ma vive costantemente al nostro fianco, nell’incapacità di affrontare quello che stiamo vivendo. Tanto è vero che, solo quando la protagonista si ribella alla sua condizione di succube, sabotando la missione della strega, riesce a ottenere finalmente la tanto agognata pace. Famoso per essere stato l’ultimo grande ruolo sul grande schermo della Fontaine, il film offre comunque una moltitudine di volti familiari agli spettatori, tra cui spiccano quello di Kay Walsh e Alec McKowan nei panni dei due ambigui fratelli a capo della comunità di Haddaby.

Nonostante i prestigiosi nomi coinvolti nel progetto, Creatura del diavolo è considerato uno dei titoli minori della filmografia Hammer, forse perché il meno cruento o forse perché messo in ombra dal più eclatante The Devils Rides Out di Terence Fischer con Christopher Lee. In realtà il lavoro di Frankel rappresenta uno spartiacque per il cinema horror del periodo, in quanto sancisce il lento ma inesorabile passaggio dall’epoca del gotico rivisitato (e abusato) degli anni sessanta a quella del folk horror che spopolerà nel decennio successivo. Infatti il film è il terzo tassello del nuovo ciclo della piccola casa di produzione britannica, dedicato al mondo dell’occulto e della stregoneria - sotto tutte le latitudini - iniziato con il seminale zombie movie La lunga notte dell’orrore e proseguito con l’esotico La morte arriva strisciando, entrambi diretti da John Gilling nel 1966. Un trittico tra i più originali e influenti a cui non è ancora riconosciuto del tutto il merito di aver precorso i tempi. Eppure ognuna di queste opere condivide una comune topografia dell’orrore, incentrata su una serie di topoi narrativi che faranno scuola, tra cui: l’ambientazione rurale ed isolata, un generale senso di isolamento (vero o presunto), la contrapposizione tra singolo e comunità, il riferimento a tradizioni, leggende, politiche identitarie. Tutti tratti distintivi che rendono obbligatoria la visione di questi film sia per gli amanti dei classici sopracitati; sia per tutti coloro che desiderano approfondire un genere tanto vasto, quanto affascinante come quello del cinema horror legato al folklore.

Categoria
Cyril Frankel Joan Fontaine Kay Walsh Alec McCowen 90 minuti
UK 1966
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

For All Mankind

di Attilio Palmieri
Foll All Mankind - recensione serie tv apple

Apple è arrivata nell'industria televisiva con una certa arroganza, rompendo diverse regole e non preoccupandosi di un catalogo tutt'altro che sterminato, bensì composto solamente da prodotti originali accuratamente selezionati, in perfetta coerenza con quello che fa come marchio commerciale. In fondo l'idea, almeno in una prima fase, è quella di garantire all’utente un ingresso nella piattaforma simile a quello vissuto entrando in uno dei tanti store dell’azienda, offrendo quindi una serie di prodotti di alta qualità, realizzati con attenzione al prestigio e senza badare a spese. E in questo è fondamentale anche la scarsità, un concetto che opponendosi in maniera radicale a quello di abbondanza rende più preziosa la merce, sottolineando quindi l'importanza di ogni singolo oggetto senza mai rischiare di farlo apparire come intercambiabile.
È anche per questa ragione che sin dal momento in cui c'erano solo gli annunci ma ancora nulla di concreto sotto mano Apple ha badato ad accentuare il prestigio delle proprie serie originali, associando ai singoli prodotti dei nomi di spicco in grado di nobilitare ogni produzione e costruire l'attesa necessaria a creare l'evento. Perché nonostante sia vero che il marchio della mela morsicata funziona già da sé, è altrettanto vero che quello degli audiovisivi – in particolare per quanto riguarda la serialità televisiva – è un mondo estremamente competitivo, in cui in tanti hanno già fallito pur avendo speso enormi risorse, perché i competitor principali sono delle conglomerate mediali che da anni investono miliardi di euro per rimanere al vertice, imparando mese dopo mese non solo come parlare ai target nella maniera più precisa possibile ma anche come vendere meglio i propri show.

Non è quindi un caso che nel primo rooster dell'azienda di Cupertino ci fosse questo For All Mankind, una serie che almeno inizialmente si presenta come fortemente targettizzata, mirando a conquistare gli appassionati di fantascienza e di viaggi spaziali. Soprattutto, però, il lancio della serie è stato ogni volta accompagnato dal nome e dal cognome del suo autore, ovvero quel Ronald D. Moore che da vent'anni è venerato dagli appassionati di televisione, soprattutto grazie a due capolavori (per quanto per certi versi molto differenti) come Battlestar Galactica e Outlander. E come per i titoli citati anche in questo caso il primo aspetto che salta agli occhi è il worldbuilding: Far All Mankind è una serie che investe tantissimo in tutto ciò che riguarda la ricostruzione storica, in modo da creare un ambiente il più possibile immersivo, concedendo allo spettatore di perdersi in un'epoca che non esiste più senza farsi troppe domande, perché cullato da un contesto perfettamente ammobiliato, preso per mano da uno show che ispira fiducia sin dal primo momento.

C'è però un inganno ed è il segreto principale della serie, nonché il cuore del suo concept. Perché nonostante la ricostruzione storica certosina, For All Mankind non è un dramma storico, ma proprio come il più recente Hollywood di Ryan Murphy un what if in cui la storia prende un binario parallelo, seguendo una strada del tutto nuova rispetto a quella che conosciamo. Questo espediente consente agli autori di utilizzare gli interventi come strumenti per raccontare la società contemporanea e quindi di analizzare alcune questioni particolarmente dirimenti sottolineandone le criticità a partire proprio da situazioni alternative rispetto a quelle che conosciamo. Cosa sarebbe successo se a mettere per primi i piedi e la bandiera sulla superficie lunare fossero stati i sovietici e non gli statunitensi? È da questa domanda che nasce la serie di Ronald D. Moore, che comincia nei gloriosi anni Sessanta americani e mette in scena sin dalle prime scene un cambio radicale della Storia, andando a intervenire nella matassa di questioni psicologiche e politiche che legano la corsa allo spazio con l'identità statunitense e il suo dominio sugli equilibri geopolitici mondiali.

Dal punto di vista sia dei cittadini americani sia dei vertici politici andare per primi sulla Luna era fondamentale per mantenere il controllo del cosiddetto soft power (ovvero l'egemonia politica, culturale e sociale senza passare per l'uso della forza) e rappresentava un passaggio di validazione cruciale, una certificazione della virilità e della mascolinità di un intero popolo (in un periodo storico in cui essere vincenti significava aderire a un'idea di mascolinità molto precisa).
Inserire questa sconfitta nell'universo alternativo narrato da For All Mankind significa cambiare totalmente alcune cose, partire da una caduta per ragionare su una ripartenza differente, e non è un caso che nella serie un ruolo di primissimo piano sia rivestito dalle donne. I personaggi femminili dello show, infatti, incarnano quell'idea di seconda chance per il rilancio della nazione, dando la possibilità a Moore e alla sua squadra creativa di realizzare un racconto spiccatamente femminista, capace di riflettere in maniera attenta sulla condizione femminile negli anni Sessanta e Settanta, sull'oggettificazione della donna e sulla mascolinità tossica che permeava i rapporti tra gli uomini all'epoca e imponeva alle persone di sesso maschile standard spesso irraggiungibili e monotematici.

Esattamente come Hollywood e Once Upon a Time... in Hollywood, For All Mankind è un inganno, è il tentativo di acciuffare un certo tipo di pubblico con un esca perfetta per poi spingerlo a ragionare su questioni sulle quali non si interroga di frequente, spostando il focus della riflessione su altri binari grazie all'espediente dell'alternative tale.
La serie ha ricevuto grande fiducia da parte di Apple e così come tanti altri show originali dell'azienda è stata rinnovata per una seconda stagione, che alla luce del finale della prima si annuncia estremamente interessante perché grazie a una serie di avvincenti salti temporali porta anche verso un radicale cambio di genere spostando For All Mankind dal period drama alla fantascienza.

Categoria
Joel Kinnaman Wrenn Schmidt Sarah Jones Jodi Balfour 1 stagione da 10 episodi
USA 2019
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Il colore venuto dallo spazio

di Andreina Di Sanzo
Color out of space recensione film stanley

Curiosa parabola quella di Richard Stanley, mai annoverato tra i registi di culto nonostante quel gioiello di Hardware - Metallo letale, horror cyberpunk tra i più visionari di sempre. Nel 1996 poi la sua morte artistica con il naufragio dell’adattamento de L’isola del dr. Moreau di Wells, passato poi nelle mani di John Frankenheimer. Così dopo anni di inattività il regista sudafricano torna con Il colore venuto dallo spazio, tratto da un racconto di H.P. Lovecraft e per di più con protagonista Nicholas Cage, ormai fidelizzato all’horror sopra le righe. Riproporre uno degli scrittori più saccheggiati e cinematograficamente più intraducibili è una sfida, ma l’ultima fatica di Stanley non si trincera unicamente nel cosmo del grande scrittore di Providence, allunga i suoi tentacoli verso la cinematografia dei maestri del genere, da Croneneberg a Carpenter (lovecraftiani d’elezione), fino a Brian Yuzna e al suo immaginario, inserendosi in quel filone dell’horror contemporaneo di qualità, lontano dal capolavoro ma anche dal flop tanto temuto.

Mentre la famiglia Gardner decide di isolarsi dal mondo contemporaneo in una fattoria del New England, uno strano meteorite dal colore viola fosforescente cade nei pressi della loro abitazione: dall’odore nauseante, quello strano oggetto venuto da lontano inizia a fondersi con la terra e a invadere ogni cosa.
Il colore venuto dallo spazio presenta un po’ tutte le ossessioni del regista: la magia e il paganesimo nella figlia goth che pratica incantesimi, il grottesco e lo strambo nel protagonista, un Nicholas Cage tenero ed eccessivo pater familias che alleva dei preziosissimi alpaca; e poi l’horror puro, con mostri mutaforma, possessioni e gore

Dopo un inizio lento e a tratti noioso, Il colore venuto dallo spazio è un film che torna alla materialità del genere, quella “cosa” che prende forma e si impossessa di madri amorevoli e apprensive tramutando l’uomo dell’era antropocentrica in essere inerme, allo stato vegetativo. L’escalation di follia di un regista da sempre etichettato come “pazzo e intrattabile”, per anni sparito dalla scena, diventa un film che forse è anche l’altra faccia della sua creazione artistica, un percorso verso la distruzione.
L’uomo dominatore di questi tempi, sicuro di poter salvare un mondo ormai alla deriva aggrappandosi a futili scelte “bio”, è ancora una volta annientato dall’ignoto. Natura matrigna o semplicemente caos che sfugge al controllo? Un film che visto ora porta a una riflessione in più. Quanto siamo padroni di noi stessi?
La cosa dallo spazio profondo arriva con un impatto virulento e mette a nudo la nostra vulnerabilità, il nostro essere transitori e non più al centro di un universo che continua indisturbato il suo corso. Un meteorite che diventa virus, mostro e psicosi, contamina le acque e dà vita a fiori tanto belli quanto letali. E non mancano creature tentacolari, mutazioni biologiche, sangue e paura. L’approccio di Stanley è sì eccessivo ma allo stesso tempo smaliziato, ciò che lo spettatore si aspetta dal film viene mostrato pur rimanendo fuori dalla prevedibilità dei soliti escamotage del genere. Si ritorna a un horror poco cerebrale ma sempre ricco di spunti per leggere la realtà fuori dalla nostra finestra.
Mentre il mondo contemporaneo si affanna a trovare risposte, ancora una volta Lovecraft ci parla dell’oggi. E Richard Stanley sa come materializzarlo.

Categoria
Richard Stanley Nicolas Cage Joely Richardson Madeleine Arthur Brendan Meyer Elliot Knight 111 minuti
USA 2019
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Emma.

di Fiaba Di Martino
Emma - recensione film austen

Pizzi, merletti, sfolgorio cromatico, interni ed esterni che si spalancano lussureggianti uno dietro l'altro come un pop-up book, mentre come in un flip book figurine dalle mosse stilizzate e squisitamente coreografate si rincorrono, cambiano di posto, di segno, d'intento quali pedine di un'elegantissima scacchiera mentale la cui padrona, burattinaia, direttrice d'orchestra risponde al nome di Emma Woodhouse, il cui sguardo birichino e ansioso di esatta coordinazione narrativa corrisponde a quello della fotografa e videomaker Autumn de Wilde.
Una regia nella regia, due protagoniste che esibiscono il proprio indirizzo artistico, la propria volontà creativa: è netto, drastico, deciso il taglio di questo Emma, nuovo adattamento dal romanzo omonimo di Jane Austen, valzer concitato d'intrighi amorosi spavaldamente concertati da Jane/Emma – bella, ricca e per nulla annoiata, giacché dotata di un'indole generosa e immaginativa – che dopo aver architettato l'unione fra la sua governante e un buon partito si fa carico della futura felicità coniugale di un'ingenua fanciulla dagli ignoti natali. Incorrendo, naturalmente, in aggrovigliati equivoci, e sempre battibeccando furiosamente con l'amico di famiglia Mr. Knightley, l'unico a metter becco nei tranelli fantasiosi di Emma e a tentar d'innestare amaro pragmatismo nei suoi voli pindarici.

Ed è nel procedere della collisione fra i due, come nel ritmo scopertamente artificioso (da libro che si sfoglia musicalmente) degli spericolati intrallazzi, che De Wilde coglie – sul piano visivo, nel respiro del film – con precisione calzante lo spirito del capolavoro originale, mettendo a segno forse il miglior adattamento da Austen di sempre: limando la gradualità con cui il teatrino forsennato della Nostra (una Anya Taylor-Joy cartoonesca e più che perfetta) si ammacca, si scioglie, scopre l'umanità – e con essa, necessariamente, il dolore che cercava di umettare, la disperazione che non era ancora in grado di conoscere – e l'emotività. La temperatura emozionale, specificamente nella scena clou della dichiarazione di Knightley (di un'intensità notevole grazie all'eccellente Johnny Flynn), sale, si fa palpabile, l'affettata dimensione caricaturale vien meno, entrano in scena i corpi, nel gioco freddo s'insinua l'emozione, l'erotismo. Dalla bidimensionalità all'altorilievo; dal colore piatto al sangue, addirittura. La sostanza della maturazione interiore di Emma, che rinuncia all'onnipotenza fantastica delle unioni apparecchiate secondo il proprio estro ed ego (unico campo d'azione femminile in una società rigidamente gerarchica e maschile, d'altra parte) per riconoscere gli altri e sorprendere se stessa, arriva in una forma elegantissima, che ha l'intelligenza di smettere di compiacersi quando anche la sua protagonista impara a farlo.

Etichette
Categoria
Autumn de Wilde Anya Taylor-Joy Bill Nighy Callum Turner Mia Goth Johnny Flynn 125 minuti
UK 2020
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Kuroneko

di Alessandro Gaudiano
Kuroneko - recensione film Shindo

Di norma, nel genere horror, il fantasma è l'espressione di un'ingiustizia subita, di un perdono mai dato, di emozioni dilatate e selvagge. Il soprannaturale è messo in scena come uno spazio che si estende sia al di qua che al di là dell'umano. Da una parte il ferino, il bestiale: la Gurù che Tommaso Landolfi porta alla vita ne La Pietra Lunare. Dall'altra, l'espressione di una razionalità olimpica, slegata dalle bassezze del quotidiano: lo spirito guida o l'angelo vendicatore. Kaneto Shindo porta ai suoi limiti il dualismo qui sommamente schematizzato. In Kuroneko, i fantasmi amano e odiano come nell'epica o nella poesia: vita più grande della vita.

Il film si apre con una sequenza a dir poco brutale, in cui due donne sono violentate e uccise, e la loro casa è data alle fiamme. I colpevoli sono i membri di una banda di banditi. O di samurai, il che è lo stesso: Il Giappone feudale di Shindo è anche qui, come in Onibaba, del tutto privo di poesia o di codici cavallereschi. Diventa samurai chi sopravvive all'ultimo massacro e si inventa la storia più assurda per celebrare il proprio ego.Protetti dai loro signori e dagli alibi marziali di un paese in guerra, questi uomini-mostro uccidono e vengono uccisi in nome del potere.
Tuttavia, questo potere, prerogativa degli uomini, si rivela inutile a fronte della vendetta degli spiriti delle due donne, che li adescano e massacrano nel cuore della notte. Il loro giuramento agli dei: bere il sangue dei samurai finché calpesteranno la superficie della terra. La vendetta sarebbe semplice, non fosse che il samurai incaricato di porre fine alla maledizione ed ucciderle è il figlio di una delle due donne e il marito dell'altra.

Basterebbe questa premessa a dare l'idea di quanto Kuroneko sia ricco di sfaccettature e di carica politica. Presentato a Cannes nel 1968, il film è stato definito antimilitarista, femminista, anticlassista. Kuroneko mette in scena una danza delicata tra amore e morte, e sotto la sua superficie folk horror scorrono le energie della Nūberu bāgu, la “nuova ondata” del cinema giapponese d'autore che, tra gli anni Cinquanta e Settanta, ha segnato profondamente il cinema nipponico e globale.

La cura per la messa in scena è straordinaria, tutta giocata su ombre, veli e sequenze notturne che, a dispetto dei limiti tecnici dell'epoca, non perdono nulla della propria bellezza. Un ottimo esempio è rappresentato dal “rituale” della caccia ai samurai: le donne volteggiano nella notte, si mostrano indifese alla loro preda. Si dichiarano perse, chiedono di essere riaccompagnate a casa attraverso la foresta. Ingannati con le illusioni e con l'ebbrezza dell'alcool, vengono spinti all'atto sessuale e, al contempo, alla loro morte. La violenza è ritualizzata, velata, scandita dai passi di una danza notturna.
Kuroneko è anche un'incursione nella sfera della sessualità e nelle sue contraddizioni, tema che Shindo ha esplorato sistematicamente nel corso della propria carriera. Tra Onibaba (1964) e Kuroneko (1968), l'autore ha diretto Lost Sex (1966) che tratta il tema dell'impotenza maschile in un'ambientazione contemporanea.

Un impero dei sensi immenso quanto fragile. Il legame sesso-morte rompe l'ordine delle cose ed è tra le sue pieghe che la missione del samurai di Kuroneko si fa impossibile: sull'insolubile dilemma tra fedeltà e umanità si impernia il cuore melodrammatico del film.

Categoria
Kaneto Shindo Nobuko Otowa: Kichiemon Nakamura Kei Sato 99 minuti
Giappone 1968
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima
Iscriviti a