Mai raramente, a volte sempre

di Emanuele Di Nicola
never rarely sometimes always hittman recensione film

Come si racconta un aborto oggi, lontano dal banale e dal retorico, semplicemente mettendo in scena lo stato delle cose? Risponde la regista Eliza Hittman, tradizionalmente amata dal Sundance, che arriva in concorso alla Berlinale 2020 con Mai raramente, a volte sempre (Never Rarely Sometimes Always), prodotto tra gli altri da Barry Jenkins. La storia è quella della diciassettenne Autumn (Sidney Flanigan), una giovane come tante che all’inizio del racconto si ritrova già incinta, senza che ci sia dato conoscere la dinamica. L’unica depositaria della sua sincerità è la cugina Skylar (Talia Ryder), adolescente esattamente come lei che decide di sostenerla e aiutarla. L’interruzione di gravidanza a diciassette anni è però illegale in Pennsylvania senza il consenso dei genitori: così Autumn e Skylar intraprendono un viaggio su treni e pullman, nella forma del classico road movie americano, pericolante e di fortuna, per ottenere il proprio obiettivo.

Eliza Hittman ribadisce la sostanza del suo cinema, dopo il precedente Beach Rats che raccontava di un ragazzo di oggi, con la famiglia che vuole trovargli una fidanzata mentre lui preferisce incontri gay con uomini maturi. Il cuore della regista è dunque nell’indagine sulla sostanza nascosta dietro l’apparenza. Anche Autumn, con quel suo nome autunnale, deve “fare finta” perché sa che la sua condizione non verrebbe appoggiata dai genitori: può contare solo sulla cugina in veste di aiutante, fino alla tenera scena in cui lei bacia un ragazzo – per ottenere un biglietto di ritorno – ma in realtà con una mano libera stringe le dita dell’amica.

Il racconto si forma gradualmente con sensibilità e spessore, puntando sulle giovani attrici ottimamente dirette (la loro prova è praticamente pari merito) e tirando fuori l'ipotesi migliore dal suo impianto indie: posta la premessa, con la protagonista che tenta un maldestro aborto homemade, subito si entra immersivamente nell’intreccio, si segue la parabola di Autumn che è semplicemente una piccola storia possibile, quindi diviene anche nostra. Non si costringa però Eliza Hittman nel recinto della “regista femminista”: il punto è nel racconto avvolgente, che non contiene una presa di posizione esplicita. Il vero dato politico sta da un'altra parte: le peripezie delle ragazze per interrompere la gravidanza diventano gradualmente una metafora della difficoltà di abortire ancora oggi, e dunque del problema di autodeterminarsi e decidere sul proprio corpo. Si può fare, sembra dire il film, ma al costo di un tormentato road movie. Al risultato concorre il volto di Sidney Flanigan, sfuggente e non interpretabile, che riesce a celare il proprio sentire interiore fino alla costruzione della scena madre.

La sequenza arriva sottovoce, di nuovo senza urla né eccessi: una dottoressa interroga Autumn per un test che si rende necessario prima di ogni aborto, con risposte a crocette, e la giovane deve scegliere tra le varie opzioni: “Mai Raramente Qualche volta Sempre”. Ecco il senso del titolo. Qui Hittman punta la cinepresa sul viso di Flanigan, in un lungo piano sequenza che non concede controcampo. La realtà della sua situazione esplode sommessamente, ma in modo quasi insostenibile. Le quattro opzioni sono il simbolo di una scelta imposta, mai pienamente libera, che bisogna combattere come fa la regista: attraverso la forza di una storia.

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Eliza Hittman Sidney Flanigan Talia Ryder Théodore Pellerin Ryan Eggold Sharon Van Etten 101 minuti
UK, USA 2020
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Les sel des larmes

di Emanuele Di Nicola
Le sel des larmes - recensione film garrell

Un ragazzo vede una ragazza alla fermata del bus. In un campo-controcampo si avvicina per chiedere informazioni, si presenta, le chiede di uscire. Inizia così il film di Philippe Garrel, Le sel des larmes, in concorso alla Berlinale 2020. Un inizio limpido, che già dice tutto su quanto stiamo per vedere: il racconto non si riferisce al contemporaneo né all'intorno, ma risponde solo al “mondo Garrel”. Un universo che il cineasta ha costruito in cinquant'anni di cinema, con regole soltanto sue: qui si può conoscere una ragazza alla fermata, rivedere una ex e subito farci l'amore. Il mondo garelliano in bianco e nero si fa sempre più stilizzato e archetipico: è ancora una volta un mondo-cinema.

Il protagonista è Luc (Logann Antuofermo), giovane falegname aspirante intagliatore di ebano, e il suo movimento sentimentale. Incontra tre donne, la giovane araba Djemila, la vecchia fiamma Geneviève (una magnifica Louise Chevillotte) e l'infermiera Betsy. Il rapporto più profondo e toccante è con l'anziano padre interpretato da André Wilms, un uomo che non ha potuto studiare e quindi proietta su di lui le proprie aspirazioni. Passando all'ebano Luc forse si può innalzare, da “proletariato” può diventare “borghesia”. È un ragazzo frivolo e irresponsabile, ma forse è anche una parte di noi tutti.

«Esiste davvero il vero amore?» si chiede la voce fuori campo, che si esprime solo per frasi singole e avvolgenti. Garrel ha il coraggio di porre questa domanda oggi, nel 2020, nel suo “world apart” ostinatamente retrò. Così Luc sceglie o non sceglie per codardia, fugge la responsabilità di un figlio, intavola un triangolo alla Jean Eustache: e così il cineasta lo dipinge con la morbidezza delle sue dissolvenze, con il bianco e nero di Renato Berta e le note di piano di Jean-Louis Aubert, con i confronti sentimentali strappacuore e la sua messinscena di retroguardia. Ma attenzione: è forse mai passato il cinema? Certamente no ed è questo che Garrel ci mostra, il gesto cinematografico in sé, che si sostanzia nella magnifica scena del ballo sulle note di Fleur de ma ville dei Telephone, una danza tipica del regista - come This time tomorrow in Les amants reguliers - che i personaggi ballano fuori tempo. Appunto: il film segue un movimento tutto suo, senza concessioni all'oggi, e attraverso di esso Garrel continua a danzare. Fino allo struggente finale, che dopo molte oscillazioni sentimentali ritorna al rapporto padre-figlio: la chiusura suggerisce la vera essenza del “sale delle lacrime”, splendido titolo, indicando dove sta davvero l'elemento del pianto e del rimorso. Impossibile non pensare al rapporto tra Philippe Garrel e suo figlio Louis. Ma qui il Garrel regista è in entrambi, sia nel padre che nel figlio: unendo le due metà sembra di trovare la storia della sua vita e il senso del suo essere cineasta.

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Philippe Garrel Oulaya Amamra André Wilms Souheila Yacoub Logann Antuofermo 100 minuti
Francia 2019
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Undine

di Emanuele Di Nicola
Undine - Petzold recensione film

Undine si apre con il ribaltamento radicale della scena dell'addio: Johannes ha lasciato la sua donna e dovrebbe andarsene, ma non può farlo, se si alzerà da quel tavolino lei lo ucciderà. Perché Undine (Paula Beer) non è una ragazza, ma una creatura mitologica del folklore, una leggenda del mare, che Christian Petzold riporta in vita cinematografica dopo il Neal Jordan di Ondine.

Undine rivive oggi a Berlino, trent'anni dopo la caduta del Muro, ed è una storica che fa la guida turistica: non è un caso se di mestiere racconta il presente, evocando il passato socialista e la riunificazione tra Est e Ovest. Proprio qui, in una città prima divisa e in un centro urbano monstre segnato dal sincretismo di tanti stili disomogenei, può ancora esistere un mito. D'altronde la messinscena della “stessa storia” si addice a Petzold, regista dei doppi e ritorni, hitchcockiano, di donne che vivono più volte, come in Phoenix: in tal senso duplice è anche la natura di Undine, all'apparenza donna ma in realtà essere prestato alla comunità umana, solo temporaneamente. Fatto di reiterazioni è anche il discorso visivo: inquadrature che tornano, movimenti di macchina ripetuti, come quello angolare che conduce al bar in cui Johannes è prima presente, poi assente, poi presente di nuovo.

Undine trova un nuovo amore in Christoph (Franz Rogowski), subacqueo per i bacini idrici. All'insegna dell'acqua: il colpo di fulmine è la distruzione di un acquario, in cui Christoph è presente sotto forma di statuetta, che percorrerà l'intreccio in modo sciamanico (la sua rottura ha un preciso significato). Si sviluppa quindi il mito dell'Ondina, sia tragico che romantico, con la creatura che dovrà annegare un uomo per far riemergere l'altro. Petzold lo interpreta con sguardo iperrealista, fortemente connotato nello spazio-tempo berlinese, in cui le parentesi immaginifiche vivono naturalmente nella realtà, che non si piega ad esse ma anzi le ingloba e contiene. Il mito è ancora possibile.

Ecco allora che i segni e le figure della storia vengono anticipate a livello concreto e plausibile, come nell'enorme pesce gatto che è il primo “mostro marino” incontrato dal protagonista, preludio del mostro d'amore. Che ha il volto dell'attrice prediletta Paula Beer, ancora magnifica, illeggibile nel suo viso “disumano”, che compare e scompare come negli eterni ritorni del precedente Transit, film liminare e pieno di usci/confini come questo. Beer era anche al centro di Frantz di Francois Ozon: perché Christian Petzold è l'Ozon del cinema tedesco; seppure nelle dovute differenze, come lui è regista dal realismo pericolante, portatore di un'ipotesi surreale che si fa anche politica. Petzold con Undine crede nei draghi a Berlino oggi.

Ma il senso del film non si limita certo al racconto. È una splendida parabola visiva nutrita di sequenze subacquee, in cui il cineasta si esalta, citando perfino L'Atalante e provocando fertili connessioni tra la vita "sotto" e la vita "sopra". Undine compie il suo gesto d'amore e orrore ed è costretta a inabissarsi di nuovo. Christoph per immergersi indossa uno scafandro: è dentro quell'armatura androide che ritrova l'amore perduto, fuori dalla società degli uomini e lontano dalla superficie. Quando alla fine Christoph fa la sua scelta inevitabile, tornando a galla, invece la cinepresa esegue il movimento contrario, l'inquadratura di Petzold a pelo d'acqua gradualmente si inabissa: perché noi siamo dalla parte di Undine.

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Christian Petzold Paula Beer Franz Rogowski Anne Ratte-Polle Jacob Matschenz 90 minuti
Francia, Germania 2020
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Succession

di Attilio Palmieri
Succession - recensione hbo

Immaginate una serie sul capitalismo, fatta di tutte persone bianche e ricche che parlano di finanza e che, sorprendentemente, fa ridere come poche altre cose al momento in televisione. Sembra impossibile, perché sulla carta dal punto di vista del plot Succession è il classico prestige drama che racconta il dramma di una famiglia dalla struttura fortemente piramidale, il cui patriarca è nella fase calante sia del suo impegno professionale che della sua esistenza, dando così il via alla successione. Nel passaggio dalla teoria alla pratica però, la serie trasmessa da HBO si dimostra uno dei prodotti più divertenti degli ultimi anni, senza per questo togliere nulla alla profondità tragica che viene messa in scena, anzi esaltandola grazie a una varietà di registri che lascia stupefatti.

Non si tratta di una sola caratteristica, non c’è una peculiarità specifica che fa di Succession uno show così interessante e così unico nel panorama contemporaneo, ma di un crogiolo di qualità che si incrociano tra loro in maniera perfetta e che danno vita a qualcosa di insolito e in grado di piacere a tutti nonostante un tema di partenza abbastanza ostico. Innanzitutto c’è il talento dello showrunner Jesse Armstrong, sceneggiatore che ha all’attivo produzioni di qualità e molto acute come The Thick of It e che qui riesce a intrecciare i conflitti familiari con una riflessione sul capitalismo estremamente pregnante, senza che nessuno di due prevalga sull’altro ma facendo in modo che i due livelli si alimentino a vicenda. Il tutto è realizzato adottando un registro che fonde un’attitudine da documentario volta a riportare in superficie le principali disfunzionalità del mondo della finanza con uno spirito quasi satirico, che nella realizzazione di ritratti esagerati (ma non troppo) affonda la lama dell’analisi sociale e antropologica di un mondo di privilegiati che si stanno mangiando il pianeta (e in questa scelta è facile ritrovare il peso di Will Ferrell e Adam McKay, tra i produttori esecutivi della serie).

La complessità narrativa di Succession è amplificata da un cast che dimostra di aver capito perfettamente il senso dell’operazione e che in due stagioni ha saputo interpretare un gruppo di personaggi disperati, cinici, autoironici, dispotici, vendicativi, tragici e violenti con un’intensità e una credibilità che raramente si vedono in televisione. Brian Cox è la star della serie, un corpo attoriale iconico che veste i panni di questa sorta di Rupert Murdoch finzionale facendone emergere tutta l’arroganza, incarnando il simbolo di una generazione di conquistatori che hanno prosperato in un mondo in cui se partivi con buone basi economiche e avevi la voglia di affermarti potevi diventare un dominatore, e che oggi non hanno alcuna intenzione di lasciare il loro trono a figli e nipoti (in senso generazionale, i loro discendenti biologici sono milionari) sempre più in difficoltà.

Jeremy Strong interpreta Kendall, non il figlio maggiore ma quello che si dimostra fin da subito più dotato, più portato a ricevere la legacy del padre perché maschio e perché più inquadrato degli altri, destinato a prendere le redini della famiglia ma anche torturato da questo scenario e quindi sopraffatto da pressioni indicibili, oltre che dalle cattiverie che quotidianamente subisce dal padre.
Uno dei personaggi più originali è Roman , figlio minore della famiglia splendidamente interpretato da Kieran Culkin. L’eccentrico attore offre una performance strepitosa, nella quale inserisce probabilmente anche una nota biografica in quanto non certo il più famoso dei fratelli Culkin, almeno fino a un po’ di tempo fa. Roman infatti è il meno considerato dei personaggi per quanto riguarda le vicende di tipo ereditario, è lo scapestrato della famiglia, ma anche il simbolo che le pecore nere non esistono ma vengono create in quel perverso e tossico laboratorio che è la famiglia, in cui le pressioni dei padri ricadono sui figli con effetti disastrosi e ciascun carattere reagisce a proprio modo per difendersi, che sia essendo iper performativi o mandando in vacca tutto. La sua “follia” è un aspetto molto importante di Succession, perché nonostante a prima vista il suo personaggio possa sembrare troppo sopra le righe rispetto agli altri, quell’attitudine finisce per essere uno degli elementi più realistici del racconto, perché dietro alle situazioni comiche di cui Roman è protagonista si nasconde una persona in costante sofferenza e incredibilmente frustrata.
Il personaggio più interessante, però, è probabilmente Siobhan (Sarah Snook), unica figlia femmina della famiglia, donna dall’ostinazione inesauribile, intelligente ed estremamente furba che, crescendo in un mondo di maschi rapaci, ha dovuto costruire attorno a se una corazza fatta di doppio gioco, obiettivi chiari e armi affilate di ogni genere. Il suo è uno dei personaggi femminili più complessi degli ultimi anni, una donna capace intelligente e consapevole delle difficoltà di affermarsi in un contesto sessista e misogino, ma anche certa del proprio valore e determinata da asfaltare tutti per raggiungere i propri obiettivi, tanto da relegare a una posizione di totale subordinazione tutto ciò che pertiene alla sfera affettiva.

Pur volendo parlare esplicitamente al pubblico di HBO (e in Italia di Sky Atlantic) abituato alle serie “di qualità” che assomigliano al cinema, Succession è uno show che solo in superficie ha queste sembianze, che si traveste da prestige drama in maniera ingannevole per poi rivelare la sua natura di comedy satirica, perfetta per mettere in evidenza la volgarità e la violenza di un certo tipo di persone, il loro privilegio e la cattiveria di determinati comportamenti, con un linguaggio che spesso ricorda molto di più The Office o Parks and Recreation che True Detective.

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Brian Cox Jeremy Strong Kieran Culkin Sarah Snook 2 stagioni per 20 episodi
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Cattive acque

di Saverio Felici
Cattive Acque - recensione film Todd Haynes

L'uscita timida, a testa china di Cattive acque (Dark Waters) di Todd Haynes è l'ultima riprova di come il dramma di denuncia civile, per decenni pane quotidiano della stagione dei premi, miniera di riconoscimenti per attori e sceneggiatori, non trovi più posto all'interno dell'auto-narrazione del cinema americano. Sembra passata una vita da quando Spotlight vinse il Best Picture agli Oscar 2016; solamente quest'anno, prima White Boy Rick, poi Richard Jewell (entrambi più belli), ora la storia di Robert Bilott e della sua battaglia decennale contro la multinazionale dei prodotti chimici DuPont Inc., hanno dovuto mettere da parte le proprie non nascoste aspirazioni. Tre prodotti che una volta sarebbero stati portati in trionfo come specchio della Hollywood impegnata e idealista, in polemica contrapposizione con le manovre oscure del governo federale, ora raccolgono distribuzioni limitate e recensioni fredde. Sic transit gloria: le battaglie oggi sono altre, e altre sono le maniere con cui il mainstream vi si approccia.

Il film di Todd Haynes è un bel, robusto e imperioso film su commissione, come da diversi anni è ormai prassi per il regista. Il più melodrammatico e commerciabile degli ex-ragazzi del New Queer Cinema ha messo da parte l'autorialità ai tempi di Carol, e dopo La Stanza delle Meraviglie ha definitivamente imparato l'arte del compromesso. Come e più di Gus Van Sant, Haynes è ora capace di scomparire dietro gli script delle major, e adeguarsi camaleontico al genere di riferimento tenendo a freno le idiosincrasie più ingovernabili che ci si aspetterebbe dall'autore di Safe e Velvet Goldmine. Un film per sé, due per gli studios: non tutti devono essere Bruce LaBruce, e gli ex enfant prodige di quella fondamentale corrente artistica statunitense sono oggi per lo più professionisti inquadrati. In Dark Waters la poetica del regista subentra tra le righe, nelle ricorrenti immagini di benessere casalingo sixties, e nel veleno sommerso delle sue posticce icone (echi di Lontano dal paradiso); poco più che autocitazioni, ma coerenti, e soprattutto funzionali.

La storia di Cattive acque racconta le vere vicende dell'avvocato Robert Bilott (Mark Ruffalo), placido e ossequioso impiegato presso uno studio legale di Cincinnati. Dalla cittadina di famiglia arriverà l'inaspettato invito alla presa di posizione; lui, che viene da Parkersburg, West Virginia, e se ne vergogna pure, nel 1996 viene richiamato a casa dal fattore Wilbur Tennant (Bill Camp). L'uomo è convinto che il terreno e i corsi d'acqua delle campagne siano stati avvelenati dai rifiuti della centrale DuPont locale. Secondo i dettami del dramma di denuncia hollywoodiano, l'ingiustizia del forte sul popolo impotente saprà risvegliare la coscienza individuale del protagonista; avviando l'indagine quasi per pietà, Billott vedrà i suoi dati sprofondare in un abisso infernale di cinismo e segreti, arrivando nel corso di quasi vent'anni di battaglie a rivelare le responsabilità della corporation in un avvelenamento totale, assoluto, del suolo come di tutta la popolazione USA.

Coincidenze, contingenze: torna in sala Memories of murder di Boong Joon-Ho, madre di tutte le moderne indagini giuridico-poliziesche di respiro storico; parallelamente, due decenni dopo, Cattive acque è qui, a mostrare ancora tutto il (forse inconsapevole) debito del cinema contemporaneo con quel classico. La grande indagine decennale, sfida individuale intrecciata a traumi collettivi, solitamente retaggio del noir, trova qui una coniugazione nuova con il cinema civile: l'ottimo script di Mario Correa e Matthew Carnahan, tratto da un'inchiesta del Times, non si orienta tanto sul legal thriller, e non tende a una risoluzione (che non c'è); racconta invece il trascorrere degli anni, la frustrazione e i dubbi esistenziali nell'inseguire una chimera di giustizia via via più evanescente. Più che documentare le conclamate malefatte del potere (che in un film è sempre fine a se stesso: le conclusioni sono note, i colpevoli hanno nomi e volti), è un cinema che vede al suo centro i personaggi, e gli effetti a lungo termine che la loro guerra contro i mulini a vento ha nel condizionarne le vite.

Si fa un torto a liquidare Cattive acque come “divulgativo”, come si trattasse una docufction di Real Time. Non è scoprire qualcosa che importa ad Haynes, ma l'imparare a relazionarsi con questo senso del dovere. Come nel The Post di Spielberg, scegliere cosa fare, e se fare, e perché. Ne varrà la pena? Se lo chiede spesso Bilott, un Ruffalo mostruoso, in sottrazione, capelli col riporto e vocetta tremante, imbarcatosi in una battaglia legale che lo porterà sull'orlo del fallimento professionale e privato; nel mentre, attorno a lui, i peccati originali della società dei consumi sfigurano facce, denti e corpi di un Midwest ridotto a scenario da Resident Evil. Il film è un veicolo per lui, e i grandi volti di contorno fanno da spalla (ci sono Tim Robbins, Bill Pullman e Bill Camp con accenti hillbilly, una Anne Hathaway castigata nel ruolo ingrato di moglie-supporto). Lo script li riunisce attorno alla crociata del protagonista, e va come un treno verso il non-climax finale, tra vita vissuta e sana indignazione. Come un piccolo Chernobyl ad ampio raggio (moltissimo in comune), ancora un americanissimo racconto sulle resistenze morali e personali contro un sistema negazionista; stavolta senza premi, ma sempre formalmente ineccepibile.

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Todd Haynes Mark Ruffalo Anne Hathaway Tim Robbins Bill Camp Bill Pullman 126 minuti
USA 2019
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The Morning Show

di Eugenia Fattori
The Morning Show - recensione serie tv appletv plus

La consacrazione del #MeToo come soggetto narrativo è già avvenuta e lo dimostrano le innumerevoli serie che in questi ultimi anni hanno sfruttato l’argomento per confezionare microdrama interni alla trama principale, più o meno coerenti con il percorso di un eroe che è quasi sempre un protagonista maschile che passa attraverso “l’ordalia” di fare i conti con le proprie azioni riprovevoli che tornano alla luce in un clima sociale totalmente cambiato. Due esempi su tutti segnano gli estremi opposti di questa tendenza: la stagione finale di Bojack Horseman, che usa il backlash legato alla morte di Sarah Lynn per certificare l’impossibilità di smarcarsi davvero dalle proprie scelte sbagliate e il recovery come processo fluido, mai diretto; e quella di The Affair, che usa le molestie per dare il colpo di grazia alla mascolinità del personaggio di Noah, mettendone in ridicolo l’inadeguatezza e il senso di onnipotenza.
Ma nessuna serie fino a The Morning Show era stata in grado di usare il #MeToo come fulcro del proprio plot, prendendo così sul serio chi guarda e ciò di cui parla tanto da preoccuparsi di “talk the talk & walk the walk”, coerentemente affidando il look & feel alla regista Mimi Leder e la scrittura a una writers’ room diverse guidata da Jay Carson e Kerry Ehrin. Nella corrispondenza tra soggetto scelto e stile produttivo c’è un livello insolito di onestà intellettuale, che unito alla scaltrezza nel capire la propria audience evita alla serie di cadere nelle strizzate d’occhio pinkwashed e semplificazioni, dirigendola sulla strada della complessità nel mostrare i meccanismi tossici dello spettacolo e delle relazioni di genere.

Per raccontare la televisione però, anche se il codice scelto è quello della satira metatestuale e il discorso è serio (non quindi, una scusa per mettere in campo trame secondarie sulla crisi della mascolinità, ma un’esplorazione di un fenomeno sotterraneo e universale) la confezione non può essere altro che quella codificata da Aaron Sorkin, cantore per eccellenza del dietro le quinte della tv e delle news che The Morning Show omaggia e utilizza con grande senso della misura valorizzandone gli insegnamenti – anche se va detto che Leder, essendo una delle creatrici del look & feel di E.R. – Medici in prima linea, deve pochissimo a Sorkin dal punto di vista dello stile; semmai il contrario. Stile a parte, è nella narrazione corale e nel rispetto per il ruolo culturale dei media che si raccoglie l’eredità sorkiniana, ma riuscendo ad allontanarsi da quella scrittura stereotipata e idealizzante, ormai diventata perfino parodia di sé stessa, per indagare i lati oscuri.

Il punto di vista scelto è quello delle donne, che sperimentano sopraffazione, frustrazione e difficoltà a bilanciare vita e lavoro molto più degli uomini: dunque, The Morning Show non poteva essere una fantasia sorkiniana di efficienza e professionalità, ma diventa una storia di sacrificio e di rinuncia (al sonno, alla vita privata, alla personalità) che trova il suo spazio perfetto negli show del mattino, dall’ambizione di ecumenicità e dal pubblico popolare, che impongono a chi li conduce un’illusoria neutralità che in realtà è solo medietà del punto di vista e mediocrità della prestazione per mantenere una facciata rassicurante e innocua. Un sistema che trasforma le persone in maschere e i rapporti umani in ingranaggi, penalizzandone l’individualità e facendone, col tempo, i più strenui difensori del sistema stesso che li ha fagocitati: perpetuando il proprio ruolo tutti assicurano il funzionamento della macchina, riassorbendo gli shock e gli impatti e facendo quadrato contro il cambiamento. Diventando quindi i primi difensori della propria de-umanizzazione.
Quando l’elemento di caos rappresentato da Bradley Jackson e Cory Ellison entra nel sistema della redazione, è la miccia per far esplodere una tossicità dei rapporti che è intrinseca a quel sistema, che non è quindi in grado di sopravvivere alla propria messa in discussione: crolla qualcuno, mano a mano crollano tutti uno dopo l’altro, perché il meccanismo basato sul reciproco interesse, gli scheletri nell’armadio e la sopraffazione non può resistere a un’aggressione dall’interno basata sulla ricerca della verità, disinteressata o meno.

The Morning Show quando racconta le molestie sul lavoro racconta anche il mondo in senso molto più allargato, racconta la legge del più forte che opprime e poi sacrifica gli elementi più deboli, racconta l’impossibilità di essere sé stesse per le donne in un’ambiente che le vuole necessariamente vittime o complici, racconta in definitiva il nostro presente in cui il sistema patriarcale scricchiola alla messa in discussione dei suoi valori portanti di sopraffazione e soprattutto di reputazione: perché bastano una donna che ha rinunciato ad essere “autorevole” nel sistema e un uomo così ricco da non averne bisogno a dare la spinta per far crollare tutti gli altri.

Alla fine, quello che emerge è l’enorme divario tra la perdita della fama e della posizione di chi abusa a confronto con la perdita di sé e della vita di chi subisce l’abuso, e nonostante la costante ricerca della complessità (che impedisce la semplificazione dei buoni/cattivi o la creazione del “mostro” come devianza) la posizione di The Morning Show è molto chiara e forse per questo la serie non è stata particolarmente amata dalla critica – italiana, perché quella americana è ben differentemente posizionata – e scambiata proprio per quel tipo di favoletta ideologica che sono invece le tanto acclamate serie di Sorkin. Probabilmente perché ancora nel 2020 la scelta di non sottomettersi al sistema suona come una storiella edificante più che come la ragionata, e rischiosa, scelta di campo che è. E probabilmente perché, ancora nel 2020, la perdita della reputazione e della carriera è per tanti uno spauracchio molto più forte del trasformarsi, progressivamente, in automi utili solo a preservare lo status quo.

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Mimi Leder Jennifer Aniston Reese Witherspoon Steve Carell Billy Crudup Mark Duplass Gugu Mbatha-Raw 1 stagione da 10 episodi
USA 2019
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Under the Silver Lake

di Tamara Gasparini
Under the Silver Lake - recensione film Mitchell

David Robert Mitchell, al suo terzo lavoro, firma una versione lisergica e scompaginata di una La La Land dell’immaginario, dove il sogno cede il passo alla paranoia (come nel precedente It Follows) e al grottesco, dove non brillano astri nascenti ma accadono le cose più strane: le persone spariscono come inghiottite dal nulla della città, tra killer di cani, codici da decifrare, fumettisti ossessionati da teorie del complotto, gruppi rock messianici, omicidi e misteriose leggende di donne gufo, il tutto ammantato dalla mondanità scintillante della città degli angeli. È un cinema che saccheggia e rimastica il proprio immaginario e lo sovverte andando alla deriva dentro se stesso, nel fitto intrico di rimandi e giochi cinefili, trappole e scappatoie narrative, minando le basi del genere. L’orizzonte è quello del (neo) noir contemporaneo, da Lynch a Vizio di forma passando per Il grande Lebowski, ma la traiettoria è discontinua e allucinata, senza approdo certo.

Sam (Andrew Garfield) è uno spiantato trentenne, squattrinato e senza lavoro; un disilluso – come in ogni noir che si rispetti – che vive alla giornata in un residence con vista su piscina, dove passa il tempo a osservare con un binocolo ciò che gli accade intorno. La finestra sul cortile è il punto di partenza che apre ad altri mondi e incontra un classico topos noir quando la bionda e fatale vicina di casa, di cui è invaghito, svanisce nel nulla all’indomani del loro incontro, disseminando indizi e innescando una girandola folle di eventi insieme al viaggio di Sam dentro L.A. e i suoi misteri.
Questa detection in realtà è un détournement, una deriva senza capo né coda in un universo di segni e citazioni, tra simulacri e vestigia della vecchia Hollywood, e i riferimenti di una cultura pop che non rimanda ad altro che a se stessa. Il film insomma è una mappa da decriptare, un pedinamento urbano senza bussola, sulle tracce del desiderio e del piacere del racconto, debordante e potenzialmente infinito dentro la Storia del cinema e le storie di una Hollywood di stravaganze e bizzarrie al limite dell’assurdo, dove Mitchell centrifuga candidamente ogni cosa che gli passi per le mani in un continuum di rimediazione dei prodotti culturali: il cinema, la musica, i videogiochi, le graphic novel e tutto l’armamentario culturale di un regista quarantenne cresciuto a cavallo dei 90’s. Da Hitchcock a Super Mario, da Amazing-Spiderman a dive/i del passato… in un frullato pop che ha lo strano sapore del perturbante: familiare e spaventoso, come forgiato nella stessa materia e sullo stesso meccanismo dei sogni. E proprio come nei sogni si gira a vuoto, tra spunti brillanti e scivolate. Mitchell lo sa e come Sam sa di perdersi tra citazioni, omaggi, ossessioni, simboli e codici dentro la città del cinema senza arrivare a cogliere mai il senso ultimo delle cose, come in un divagare febbricitante dentro un immaginario strabordante. Nel ricomporre questo puzzle impazzito si prende non poche libertà e rischi, svelando in ultimo tutta l’inconsistenza di fondo di questo mondo, mostrandone il volto oscuro incarnato dal songwriter, figura senza tempo e senza età, autore occulto di tutte le hits del presente e del passato. Da La Bamba a Smell Like Teen Spirit. Non c’è ribellione, non c’è purezza solo l’evanescenza della cultura pop  contemporanea che ingloba ogni cosa. Anche l'ossessione per i messaggi subliminali contenuti nella comunicazione mediatica (pubblicitaria, cinematografica e soprattutto musicale) si rivelano inconsistenti e vuoti, spunti e pretesti ulteriori per il narrare nel tentativo di sviscerare il mistero che avvolge la città dei sogni.

Mitchell nella sua poetica di ridefinizione e riscrittura dei generi, destrutturandoli e decostruendoli a partire da stereotipi e cliché già dati, si lascia qui sicuramente prendere la mano in una storia frammentata e sconclusionata; affastella un mosaico di rimandi alla cultura pop che finisce con il fagocitare ogni cosa, ogni senso ultimo, anche lo slancio romantico come motore dell’azione. Ma seguirlo in questo delirio stupefacente non lascia inappagati, è la rotta per andare sotto la superficie; permette di spostare ulteriormente lo sguardo per riconfigurare una mappa emotiva delle proprie magnifiche ossessioni in una rimediazione potenzialmente infinita del nostro immaginario.

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David Robert Mitchell Andrew Garfield Jimmi Simpson Summer Bishil Riley Keough Topher Grace 140 minuti
USA 2018
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Alla mia piccola Sama

di Samuel Antichi
For Sama - recensione film

Sono numerosi i documentari, usciti negli ultimissimi anni, che cercano di restituire e portare testimonianza, in “presa diretta”, della guerra civile siriana, immergendo lo spettatore nella tragica realtà che la popolazione è costretta ad affrontare quotidianamente. Il cinema di opposizione al regime, prevalentemente limitato alla forma documentaria, ha ottenuto importanti riconoscimenti all’estero, tra cui candidature all’Oscar per il Miglior Documentario, come nel caso di questo Alla mia piccola Sama (For Sama).

Waad al-Kateab, studentessa siriana residente ad Aleppo dal 2011 al 2016 denuncia il regime di Assad mostrando le violenze e le privazioni a cui sta andando incontro la popolazione. La handycam della giovane serve sia come strumento di documentazione e testimonianza sia per rivendicare libertà politica. Dal momento che le principali agenzie di stampa, i maggiori network di informazione e i giornalisti professionisti sono stati banditi dal paese, i cittadini siriani si sono assunti la responsabilità e l’imperativo di riprendere e denunciare il regime di Assad. Ad emergere in questo scenario è la figura del citizen camera-witness, termine che si riferisce ai dissidenti e agli attivisti politici che, a differenza dei testimoni oculari, i quali in maniera casuale e fortuita assistono a un evento, sono consapevoli dell’importanza e del ruolo che assumono, così come il rischio a cui vanno incontro nel filmare.

Con l’obiettivo di fornire e trasmettere un senso di presenza e autenticità, For Sama adotta alcune delle caratteristiche estetiche e formali proprie del citizen imagery, delineate da Andén Papadopoulos, come l’ipermobilità, l’opacità, la non-narratività e il raw audio. Molte delle immagini realizzate nel film assumono il compito principale di prove fattuali, immagini-prova, immagini-choc, atte a provocare una reazione nello spettatore, a smuovere la coscienza dell’opinione pubblica, cercando di promuovere opere di solidarietà, aiuti umanitari o interventi a livello militare, strumento per indirizzare la rabbia delle vittime del regime verso i responsabili dei soprusi e verso l’immobilismo del mondo esterno. Tuttavia, molto spesso, il soffermarsi della macchina da presa su scene ed episodi strazianti, come un gruppo di uomini stesi a terra privi di vita, uccisi dalle milizie di Assad, o una donna che tiene ancora in braccio il figlio morto a seguito di un bombardamento, rischia di avere un effetto prevalentemente patemico, emozionale, piuttosto che stimolare lo sviluppo di un pensiero critico da parte dello spettatore. La stessa regista si interroga su questo aspetto: «Milioni di persone seguono i miei report ma nessuno interviene contro il regime».

Il grado di spettacolarizzazione e di patemizzazione nella restituzione del dolore, a cui il film va incontro, rischia di non comportare una comprensione più ampia del significato dell’evento e la formazione di un pensiero critico ma indurre prevalentemente sentimentalismo e commozione.  Contrariamente, film come Jellyfish (Khaled Abdulwahed, 2015), Still Recording (Ghiath Ayoub, Saeed Al Batal, 2018) o Autoritratto siriano (Ossama Mohammed, 2014) cercano di proporre un processo di ri-elaborazione delle immagini amatoriali realizzate dai cittadini per documentare gli atti di violenza del regime, riflettendo intorno al loro statuto, al loro valore storico e traumatico, al processo di ri-mediazione e ri-contestualizzazione che questa subisce. Il percorso affettivo ricreato e ricercato in For Sama viene a intensificarsi in alcuni momenti attraverso un rimodellamento finzionale, che si discosta dalla pretesa della restituzione non mediata della realtà filmata, in cui il suono in presa diretta viene sostituito dalla musica drammatica, inserita in modo da poter coinvolgere emotivamente lo spettatore, o attraverso l’utilizzo di riprese aeree effettuate da un drone, atte a fornire una visione estetizzante del paesaggio distrutto dal fuoco del conflitto.

La catastrofe e la violenza, la focalizzazione sulla morte, la tortura, i danni fisici e strutturali mostrati nel film vengono, a ogni modo, alternati con momenti di speranza, rapidi istanti di gioia e festeggiamenti, dal matrimonio della regista con Hamza, un giovane medico, alla nascita della prima figlia, Sama, a cui la madre si rivolge nel corso dell’intero film, così come della seconda, Taima, nel finale. Il film in questo modo riesce a riflettere intorno a uno dei topoi del cinema documentario siriano, ovvero l’infanzia distrutta dalla violenza della guerra. La regista stessa si interroga sulla propria maternità, se sia giusto o meno far crescere dei figli sotto il fuoco del conflitto, aggiungendo uno sguardo e una sensibilità femminile unica all’interno del panorama documentario sulla guerra civile siriana.

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Waad al-Kateab 100 minuti
UK 2019
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Libertà

di Domenico Saracino
 Libertà - recensione documentario Savino Carbone

Chiedetelo a Ken Loach, se può esserci libertà senza lavoro, senza diritti, senza riconoscimento (economico, sociale, umano). O magari a qualche sindacalista che ancora merita questo appellativo, uno alla Di Vittorio, insomma. Al suo esordio nel mondo della regia audiovisiva con un documentario titolato appunto Libertà, Savino Carbone, reporter e fotogiornalista pugliese che da tempo si occupa di migrazioni, marginalità e minoranze sociali presenti nel suo territorio, rigira questo falso dilemma – la cui risposta è di per sé evidente – a B. e C., scappati dal Senegal e dalla Nigeria perché omosessuali e finiti poi in un’Italia che ha smarrito irrimediabilmente la sua natura, costituzionalmente profilata, di “Repubblica fondata sul lavoro”.

Girato nel 2019, al culmine della propaganda salviniana sullo stop ai migranti, le minacce alle Ong e la chiusura ermetica dei confini, Libertà è l’amara costatazione di una doppia emarginazione e di un duplice tradimento: da un lato quello dei paesi natii, con i loro ordinamenti omofobici, in cui l’omosessualità è un “reato punito fino a 5 anni di prigione” (Senegal) o con la reclusione fino a 15 anni per “sodomia e lesbismo” (Nigeria, dove nelle aree dominate dalla sharī‛a si prevede anche la condanna a morte per lapidazione); dall’altro quello dell’Italia, meta di un sogno d’affrancamento, del desiderio di una possibilità di vivere finalmente a pieno la vita, che si rivela poi in tutta la sua illusorietà e impossibilità realizzativa una volta scontratosi con i limiti economici e politici del Belpaese.

In una Bari trasfigurata dal clima di odio e xenofobia, in cui Salvini può permettersi di presentare sotto applausi scroscianti l’abominio dei decreti sicurezza durante il tour per le europee (più di 10mila baresi scrissero il suo cognome sulle schede elettorali nel maggio dello scorso anno), Carbone segue i due protagonisti in un solitario percorso di autonarrazione, tra ricordi di amori perduti, pericoli e sofferenze. Libertà a Bari è solo il nome di un quartiere, e niente più.

Non c’è libertà per la ragazza nigeriana che, non creduta dalla commissione che continua a negarle lo status di rifugiata, vaga per le strade urbane alla ricerca di una condizione di minima felicità (documenti, un lavoro, una fidanzata), né c’è emancipazione alcuna per il giovane senegalese, costretto ad accettare una ignobile condizione di neo-schiavitù nelle campagne del Tacco d’Italia pur di mettere in tasca qualche spicciolo e dimenticare sacrifici e tragedie che ha dovuto affrontare per arrivare dall’Africa in Puglia.

“Libertà è essere felici, vivere come si vuole”, dice ad un certo punto del documentario il protagonista maschile, mai ripreso in pieno volto per poterne tutelare privacy e sicurezza. Ma senza documenti – continua implacabile il suo ragionamento – non si può sperare in un lavoro vero e senza lavoro non si può vivere come si vuole. Quindi non si è liberi. Sono così questi giovani figli d’Africa: intrappolati tra un passato di brucianti ferite e abbandoni e un futuro di affilate incertezze, a metà strada tra quella che potevano chiamare casa e un posto nuovo, migliore, che possa davvero definirsi tale.

In una condizione di precarietà, di non appartenenza così intensa e assoluta non può che svilupparsi un vuoto fatto di passività e perdita delle speranze. Così mentre tutti fanno festa per il Puglia Pride, ad esempio, parlando giustamente di diritti, liberazione e amore, la protagonista femminile del documentario non può che limitarsi ad osservare da lontano, percependo solo un pallido riflesso dell’arcobaleno che riunisce sotto un cielo colorato gli altri partecipanti. A lei non resta che ballare da sola, per dirla con Bertolucci, coi passi che rimbombano nel vano di un grigio e polveroso parcheggio sotterraneo e una canzone intonata da sé, in una delle sequenze più emozionanti di questo esordio, girata con grande cura per i dettagli cromatici da Carbone e dal direttore della fotografia Antonio Valenza.

E sono proprie le canzoni africane, tra nenie e canti religiosi dei paesi d’origine (in wolof, la lingua più diffusa in Senegal, maninka, la lingua dell’Africa Occidentale e pidgin, un idioma frutta della mescolanza di lingue diverse) a custodire ed esprimere la parte più intima dei due rifugiati, la loro nostalgia di casa, il rapporto con la divinità e con la religione, la speranza di un cambiamento. Non è un caso, dunque, che l’autore abbia voluto procedere ad una traduzione e sottotitolazione delle stesse, proprio ad evidenziare un rapporto, quello con la spiritualità (già nella sequenza della chiesa pentecostale di Bari), che resta forse per chi si trova in questo limbo infernale l’unico vero rifugio.

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Savino Carbone 30 minuti
Italia 2019
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La fantastica signora Maisel (terza stagione)

di Elvira Del Guercio
La fantastica signora Maisel - terza stagione

Per Sophie Lennon, nemesi assoluta della fantastica signora Miriam "Midge" Maisel e celebre comica newyorkese, quella che, citando Susie, l’amica e compagna-di-viaggio/manager di Midge, «ci aiutò durante la Depressione...», per far sì che il pubblico rida bisogna dargli la carne, il proprio corpo. Essere lì su quel palco e restituirgli l’idea che hanno di te senza far vedere nient’altro: avere una maschera. E mostrargli la perfezione. Nel corso della storia, il confronto tra le due comiche sarà fondamentale perché Midge potrà vedere al di là di quel corpo camuffato, logoro e consunto, oltre quel canovaccio arido di battute che Sophie Lennon ricicla dalla Grande Depressione agli anni Sessanta, capendo prima di tutto cosa non voler essere: capirà di non voler incarnare un'ideale a cui tendere né la proiezione di uno sguardo dominante sul mondo, con tutte le difficoltà e i rischi che questa scelta comporta.

E infatti, il monologo sprezzante contro Lennon che le costerà il boicottaggio collettivo dei locali del Village e dintorni (e a Lenny Bruce un’esibizione gratuita sul palco del Gaslight per “riabilitare” il nome di Midge) vuole essere una dichiarazione programmatica e artistica in cui è riflessa tutta la prospettiva femminista della stessa Amy Sherman-Palladino, tematizzando alcune delle questioni fondamentali di La fantastica signora Maisel, ovvero il carattere fuorviante dell’apparenza e il problema dello sguardo maschile nell’industria culturale, in questo caso nell’ambito della stand-up comedy degli anni Cinquanta-Sessanta.

Durante i suoi monologhi, Midge riflette su quanto sia faticoso squarciare i veli dell’apparenza e reinventarsi, rinascere “altra” ma rimanere allo stesso tempo sé stessa, fantastica, dopo la crisi, all’indomani della separazione da Joel. O quanto non si riesca né si voglia più fingere di essere chi non si è per compiacere lo sguardo e le aspettative altrui. Che si tratti di un marito, della famiglia o dell’ambiente sociale, nel caso di Midge, alto-borghese, in cui si cresce. Negli anni Sessanta a nessun maschio interessava vedere una donna su un palco né tantomeno una donna su un palco fare stand-up comedy alla maniera irriverente e acuta della signora Maisel. Tutti si stupivano guardandola parlare così liberamente di sé, di famiglia e politica, di sesso, irrigiditi dal fatto che abbia l’ardire di fare battute a sfondo sessuale perfino su suo marito e suo padre. Nessun maschio voleva sentirsi minacciato e messo sotto scacco da questa sua forza.

Nella prima e seconda stagione Palladino si sofferma sulla progressiva costruzione e ri-definizione del personaggio di Midge e sulla creazione della sua identità artistica, di comica, anche e soprattutto con l’aiuto di Susie, entrambe alle prese con un mondo asservito al potere di soli uomini. Susie vive in un bugigattolo, ha pochi soldi e sempre gli stessi vestiti, e tutti la scambiano per uomo. È in un certo senso la sua controparte, una freak e probabilmente unica vera amica nei cui occhi Midge ha il coraggio di riflettersi. Non a caso è stata Susie a coglierne il talento, durante quel primo ebbro e stralunato monologo sul palco del Gaslight, dopo la fuga di Joel e poco prima del giorno in cui tutto avrebbe dovuto essere perfetto: il rabbino, lo Yom Kippur, il matrimonio. Ed è proprio in questa parte della storia che la scelta di Midge comincia a concretizzarsi, dirigendosi sì verso la strada più impervia - All alone, che fa da titolo all’ultima puntata della seconda stagione – ma anche verso quella che le avrebbe permesso di realizzarsi nella sua vocazione artistica. E soprattutto di autodeterminarsi. Continuare ad essere sé stessa, fantastica, senza nessun uomo o delle regole o dei compiti prestabiliti cui adempiere.

Dopo essersi mossa in un territorio per lo più “bianco” e borghese arriva per Midge l’opportunità di confrontarsi con un’altra realtà, e il tour con Shy Baldwin le farà da apripista in questo percorso. Nella terza stagione Midge è sola, sulla strada, con dei figli all’altro capo dello stato da mantenere e per cui dover esserci. Il movimento è alla base di questa parte del racconto poiché non solo lei ma anche Joel e i genitori lasceranno la propria confort zone per provare a orientarsi altrove, come se Palladino esigesse dai suoi personaggi e specialmente da Midge (e forse anche da lei stessa) uno sguardo sulle cose ancora più acuto e che metta quindi in discussione, al vaglio, ciò che gli sta davanti. Ci sono l’ombra del maccartismo, della segregazione razziale e della disillusione collettiva dopo un periodo di grandi promesse – la trattazione del personaggio di Abe Weissmann è in questo senso magistrale, poiché la regista ne rileva e descrive contemporaneamente due dimensioni: quella intima e relativa al progressivo venir meno della sua influenza sui figli e una più lampante, che riguarda la sua posizione da intellettuale in un mondo prossimo a continue mutazioni. Lo stesso problema che potrebbe riguardare Midge se catapultata cinquant’anni dopo. Oggi. Chissà in che modo farebbe ironia su questioni che ancora restano insolute, nonostante sia passato mezzo secolo.

In conclusione possiamo dire che a costituire il moto propulsore della terza stagione di La fantastica signora Maisel sia il bisogno di cambiamento, di trasformazione ancora più radicale, in un modo che però, come vedremo quando dovrà esibirsi allo storico Apollo Theatre di Harlem, non farà brillare la nostra protagonista. Trovandosi di fronte a un pubblico composto interamente da afroamericani, Midge comprenderà lo scarto, la distanza tra i rispettivi orizzonti culturali e sociali e capirà quindi di non poter offrire a queste persone nulla di già detto, di riciclato su un altro pubblico, il suo solito, rendendosi così conto, dopo il colpo di scena finale – come giustamente indica Ilaria Feole nel suo articolo su DINAMOpress – della responsabilità che implica l’essere padroni della parola e del linguaggio sull'altro.

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Amy Sherman-Palladino Daniel Palladino Rachel Brosnahan Michael Zegen Alex Borstein Tony Shalhoub Marin Hinkle 3 stagioni per 26 episodi
USA 2017
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