Libertà

di Savino Carbone

Il fotoreporter pugliese Savino Carbone esordisce dietro la macchina da presa con un documentario coraggioso su due storie di migrazione e omosessualità

 Libertà - recensione documentario Savino Carbone

Chiedetelo a Ken Loach, se può esserci libertà senza lavoro, senza diritti, senza riconoscimento (economico, sociale, umano). O magari a qualche sindacalista che ancora merita questo appellativo, uno alla Di Vittorio, insomma. Al suo esordio nel mondo della regia audiovisiva con un documentario titolato appunto Libertà, Savino Carbone, reporter e fotogiornalista pugliese che da tempo si occupa di migrazioni, marginalità e minoranze sociali presenti nel suo territorio, rigira questo falso dilemma – la cui risposta è di per sé evidente – a B. e C., scappati dal Senegal e dalla Nigeria perché omosessuali e finiti poi in un’Italia che ha smarrito irrimediabilmente la sua natura, costituzionalmente profilata, di “Repubblica fondata sul lavoro”.

Girato nel 2019, al culmine della propaganda salviniana sullo stop ai migranti, le minacce alle Ong e la chiusura ermetica dei confini, Libertà è l’amara costatazione di una doppia emarginazione e di un duplice tradimento: da un lato quello dei paesi natii, con i loro ordinamenti omofobici, in cui l’omosessualità è un “reato punito fino a 5 anni di prigione” (Senegal) o con la reclusione fino a 15 anni per “sodomia e lesbismo” (Nigeria, dove nelle aree dominate dalla sharī‛a si prevede anche la condanna a morte per lapidazione); dall’altro quello dell’Italia, meta di un sogno d’affrancamento, del desiderio di una possibilità di vivere finalmente a pieno la vita, che si rivela poi in tutta la sua illusorietà e impossibilità realizzativa una volta scontratosi con i limiti economici e politici del Belpaese.

In una Bari trasfigurata dal clima di odio e xenofobia, in cui Salvini può permettersi di presentare sotto applausi scroscianti l’abominio dei decreti sicurezza durante il tour per le europee (più di 10mila baresi scrissero il suo cognome sulle schede elettorali nel maggio dello scorso anno), Carbone segue i due protagonisti in un solitario percorso di autonarrazione, tra ricordi di amori perduti, pericoli e sofferenze. Libertà a Bari è solo il nome di un quartiere, e niente più.

Non c’è libertà per la ragazza nigeriana che, non creduta dalla commissione che continua a negarle lo status di rifugiata, vaga per le strade urbane alla ricerca di una condizione di minima felicità (documenti, un lavoro, una fidanzata), né c’è emancipazione alcuna per il giovane senegalese, costretto ad accettare una ignobile condizione di neo-schiavitù nelle campagne del Tacco d’Italia pur di mettere in tasca qualche spicciolo e dimenticare sacrifici e tragedie che ha dovuto affrontare per arrivare dall’Africa in Puglia.

“Libertà è essere felici, vivere come si vuole”, dice ad un certo punto del documentario il protagonista maschile, mai ripreso in pieno volto per poterne tutelare privacy e sicurezza. Ma senza documenti – continua implacabile il suo ragionamento – non si può sperare in un lavoro vero e senza lavoro non si può vivere come si vuole. Quindi non si è liberi. Sono così questi giovani figli d’Africa: intrappolati tra un passato di brucianti ferite e abbandoni e un futuro di affilate incertezze, a metà strada tra quella che potevano chiamare casa e un posto nuovo, migliore, che possa davvero definirsi tale.

In una condizione di precarietà, di non appartenenza così intensa e assoluta non può che svilupparsi un vuoto fatto di passività e perdita delle speranze. Così mentre tutti fanno festa per il Puglia Pride, ad esempio, parlando giustamente di diritti, liberazione e amore, la protagonista femminile del documentario non può che limitarsi ad osservare da lontano, percependo solo un pallido riflesso dell’arcobaleno che riunisce sotto un cielo colorato gli altri partecipanti. A lei non resta che ballare da sola, per dirla con Bertolucci, coi passi che rimbombano nel vano di un grigio e polveroso parcheggio sotterraneo e una canzone intonata da sé, in una delle sequenze più emozionanti di questo esordio, girata con grande cura per i dettagli cromatici da Carbone e dal direttore della fotografia Antonio Valenza.

E sono proprie le canzoni africane, tra nenie e canti religiosi dei paesi d’origine (in wolof, la lingua più diffusa in Senegal, maninka, la lingua dell’Africa Occidentale e pidgin, un idioma frutta della mescolanza di lingue diverse) a custodire ed esprimere la parte più intima dei due rifugiati, la loro nostalgia di casa, il rapporto con la divinità e con la religione, la speranza di un cambiamento. Non è un caso, dunque, che l’autore abbia voluto procedere ad una traduzione e sottotitolazione delle stesse, proprio ad evidenziare un rapporto, quello con la spiritualità (già nella sequenza della chiesa pentecostale di Bari), che resta forse per chi si trova in questo limbo infernale l’unico vero rifugio.

Autore: Domenico Saracino
Pubblicato il 16/02/2020
Italia 2019
Durata: 30 minuti

Articoli correlati

Ultimi della categoria