Non è sogno

di Giorgio Sedona
Non è un sogno di Giovanni Cioni

Non è sogno, non è. Non è sogno, non è. Ripeterselo come un refrain, ancora e ancora, affrontando con se stessi un’opera di convincimento che vorrebbe piegare il ferro della gabbia e dissolverlo in una fuga tra le nuvole. Sbarre di una galera, quella vera, fatta di guardiani e ore d’aria, la stessa dove vanno le persone che hanno infranto una regola sociale. Corpi alla deriva, peccatori sognanti che cercano un appiglio per “evadere” dalla realtà delle loro prigioni. Giovanni Cioni prosegue magnificamente il suo cinema laboratoriale, capace di ritorni che sono arrivi, ed arrivi che sono inizi per eterne ripartenze. Un cinema che conosce l'alchimia del magico (filmico) e che lo sa calare dentro alla fibrosità del reale (nella verità dell'afilmico) componendo il telaio di una finestra dalla quale far vibrare il vento della finzione. Una brezza che dissolve le immagini dietro ad una quinta in chroma key, un portale d'infinità profondità e definizione per il sogno, quinta teatrale e specchiante dove rintracciare uno spiraglio per raccontarsi: fenditura di fuga per l’autonarrazione. Cioni splanca le porte del sogno ai propri personaggi, un sogno circoscritto in una messa in scena, portale per l'universo extradiegetico che si rappresenta in un riflesso evasivo, nell’ombra di un reale che si proietta in fughe di sognante rappresentazione. Sospinto da una forza centripeta che accentra la verità dentro al quadro del profilmico (verità, la parte più candida della realtà).

E’ nella ricorsività del gesto e del testo teatrale giocato su due testi esemplari, Che cosa sono le nuovole? e La vita è sogno, rispettivamente di Pasolini e Calderòn de la Barca, che i reclusi del penitenziario Capanne di Perugia, nel Laboratorio Nuvole, affrontano la loro vita come in un sogno. Un’ora d’aria nel verde monocromatico di una quinta da superare, sognando di evaderla, per ricongiungersi con ciò che di loro è rimasto fuori dalla reclusione, un mondo che è stato e che lascia frammenti di ogni possibile realtà, in aspettative desideri e paure. La differenza di peso specifico tra la metafisica dell’altrove e la fisica del presente, tra il ricordo della libertà e la costrizione dell’internamento, non evapora nelle dissolvenze dell’intarsio digitale ma resta scolpita nelle espressioni dei volti, nelle rughe dei primi piani, nelle parole di un sogno, teatrale e poetico, rinchiuso in un penitenziario. I costanti ciak, che accompagnano i dentro e i fuori, di un cinema personale senza confini, delinea uno sguardo senza soluzione di continuità che nessun decoupage classico può costringere. Il cinema per Cioni è sia nel quadro, sia nel fuoricampo e sia intorno ad esso, è un cinema che vuole uscire dal frame, divincolarsi dall’assolutismo dell’immagine, al di fuori della cornice, dentro alle esistenze. E’ il processo stesso ad essere parte di un divenire filmico, è il percorso ad essere parte integrante di un dialogo tra l’autore, i personaggi, la realtà ed il pubblico. Non esistono muri, gabbie, barriere, frame, decoupage, non esistono impedimenti lì dove la vita fluisce. Lì dove il cinema racconta. Specchio interiore, riflesso di una serenità che inizia dove l’illustre drammaturgia, di Pasolini e de la Barca, finisce ma non termina, e continuando a scuotere le coscienze si apre alla confessione. Che siano galeotti, o voci di un sottosuolo arcano e mistico, o che siano racconti di detenzione in lager nazisti (entrambi riflessi di un passato da non dimenticare), il cinema di Cioni si presta all’ascolto ed attraverso la parola apre orizzonti di sognante verità. Accoglie e lascia andare, conservado il tragitto di un corpo e la scia di un'umanità.

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Giovanni Cioni 95 minuti
Italia, 2019
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Dov'è il mio corpo? (I Lost My Body)

di Riccardo Bellini
dov'è il mio corpo - recensione film Clapin

«Se sai che qui c’è una mano, allora ti concediamo tutto il resto»
Wittgenstein, Della certezza

«Se tagli la mia testa dico me e la mia testa o me e il mio corpo? Che diritto ha la mia testa di chiamarsi me?» filosofeggia Trelkowski ne L’inquilino del terzo piano, preannunciando la vertigine identitaria che lo precipiterà nel delirio. Se un braccio amputato o un dente caduto sono pezzi di personalità, l’archivista polacco arriva dunque a chiedersi fino a quale soglia, immaginando di poter smembrare un uomo all’inverosimile, un individuo può ancora definirsi quell’Io che ha sempre creduto di essere. Ogni parte di corpo ridotta a frammento porta infatti con sé la testimonianza irripetibile di una vita, iscritta sotto le pieghe della carne. Lo sa bene anche Jérémy Clapin che con il suo lungometraggio d’esordio d’animazione Dov’è il mio corpo?, accolto in casa Netflix dopo il successo di Cannes e del Festival di Annecy, procede però in direzione opposta alla parabola de-realizzante tracciata da Roland Topor/Roman Polanski. Se con quest’ultima assistiamo infatti ai segnali di una disgregazione fisica che accompagnano la dissoluzione psichica del protagonista, il film di Clapin racconta al contrario un percorso di riappropriazione e ricostruzione dell’identità attraverso l’odissea parigina di una mano mozzata sulle tracce del suo proprietario.

Adattamento del romanzo di Guillame Laurant Happy Hand, reso possibile grazie alle specificità dell’animazione, Dov’è il mio corpo? (traduzione mediocre per il più puntuale J’ai perdu mon corps) non si innesta però su elaborate velleità filosofiche. Al contrario, Clapin si affida alla semplicità di un lirismo trasparente, diretto, alternato a momenti di brutale realismo, per  veicolare la storia di formazione di un ragazzo, Naoufel, orfano dai sogni spezzati in cerca del proprio posto nel mondo. Il conflitto tra spirito e carne è superato fin dalla premessa di una mano che è anche mente, occhi e orecchi, cuore e memoria da riattivare e ricomporre per dare un senso al reale; finestra aperta su quel mondo in cui Naoufel si sente estraneo e che ha (quasi) smesso di amare, la mano attraversa un percorso di riscoperta di sé tramite la cognizione di un dolore sia fisico che dell’animo. Un’avventura suburbana e un viaggio tra i ricordi, tesa fra due traumi (presente e passato) dove ogni ferita è la tappa di viaggio sensorio in cui riacquistare gradualmente fiducia verso una realtà ostile, imparando a tastarne le superfici, ascoltarne i suoni, captarne gli umori. Il tutto ad altezza di topo, ovvero da una prospettiva che costringe a prendere coscienza di ciò che normalmente ignoriamo. Non si tratta solo di trovare il collante di un'esistenza in pezzi, ma soprattutto di accettare la rottura irreversibile, accoglierla, anziché esorcizzarla, e farne il ponte invisibile tra sé e il mondo, prima di tentare un gesto disatteso dal destino, l'unico modo secondo Naoufel per sfuggire a una storia che pare già scritta.

La peculiarità del soggetto di Dov’è il mio corpo? potrebbe ricondurre la memoria a titoli come Il mistero delle 5 dita di Robert Florey o La mano di Oliver Stone, ma soprattutto al personaggio di Mano della Famiglia Addams. In effetti il film di Clapin è intriso di accese venature orrorifiche. Inizia anzi come un horror, sollecita un certo immaginario per smarcarsene però ben presto e mettere il suo crudo realismo, sostenuto da un’efficace impianto action, al servizio di un confronto con la realtà senza sconti, violento e impietoso. Se Clapin e la sua squadra si dimostrano abili nel lavorare sulle parti più dinamiche del film, trovando anche la chiave per coniugare suggestioni di genere differenti, lo scandaglio del passato di Naoufel, - scandito dal bianco e nero dei flashback attivati ogni volta da stimoli sensoriali di vario tipo, - col procedere della visione può risultare però ripetitivo. I fantasmi che ossessionano Naoufel, le immagini di un passato (e un senso di colpa) con cui dover quotidianamente fare i conti, tornano a infestare la visione di Dov’è il mio corpo?, trovando spesso una felice aderenza al tessuto poetico del film ma a lungo andare senza riuscire ad aggiungere molto a un universo emotivo già pienamente configurato.

Nonostante i comprensibili limiti, Dov’è il mio corpo? resta un’opera di valore, un invito a spiccare il salto verso i propri sogni ma sempre con uno sguardo piantato alla concretezza del reale. Ancora una volta ci tocca dunque ringraziare Netflix per aver portato in Italia un film che probabilmente non avremmo visto altrimenti, nonostante il Gran Premio della Settimana Internazionale della Critica a Cannes. Ennesimo monito per un Paese, il nostro, che poco investe sull’animazione e spesso non riesce nemmeno a trovarvi un’adeguata distribuzione, relegandola a forma espressiva minore o ignorandola quasi del tutto. Un Paese in cui vige ancora il pregiudizio per cui “i cartoni animati sono roba da bambini” - salvo poi, con notevole ipocrisia, prediligere come scelta per i propri figli titoli come La famiglia Addams 3D a La famosa invasione degli orsi in Sicilia di Lorenzo Mattotti, perché quest’ultimo troppo impegnativo, noioso, difficile. Tutto ciò si intende, certo, per taluni genitori, non per i bambini che spesso e per fortuna ne sanno molto di più.

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Jérémy Clapin 81 minuti
Francia 2019
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Chiara Ferragni - Unposted

di Emanuele Di Nicola
Chiara Ferragni Unposted

C’è un momento, in Chiara Ferragni - Unposted, in cui cade il velo sulla sostanza del film e un’immagine diventa improvvisamente significativa, in sé e per sé, senza bisogno di altro. Si tratta dell’ennesima prova vestito che l’influencer deve sostenere in vista di un evento: l’abito, composto di vetri incastonati, si rivela troppo rigido e la ragazza non riesce a piegare un braccio. Per un istante Chiara resta così, con un arto a metà, sospeso nel vuoto e poi il film continua per la sua strada. Perché il documentario di Elisa Amoruso, regista che frequenta il reale attraverso l’esteriore - come conferma il successivo Bellissime -, offre due livelli di lettura: il primo è palese, ovvero il pedinamento della celebrità Chiara Ferragni e il racconto della sua storia secondo lei. La protagonista si mostra “come tu mi vuoi”, porgendo allo sguardo alcuni lati e omettendone altri, come viene proprio teorizzato dalla coppia Ferragni-Fedez quando riflette sull’opportunità di non condividere tutto (niente di strano: avviene in ogni doc su un personaggio famoso). La regista la asseconda: Amoruso la segue strategicamente con l’obiettivo di corteggiare il fanbase della influencer, e anche questo è legittimo, oltre che riuscito come attesta il clamore al Festival di Venezia, l’incasso in sala e ora le visualizzazioni sulla piattaforma di Amazon Prime Video.

C’è poi una seconda chiave, in questo film di 85 minuti, che si insinua più sotterranea e dislocante: quella racchiusa dentro l’immagine. Ferragni si è fatta da sola, ci viene spiegato, è oggi un’imprenditrice miliardaria perché ha saputo magistralmente sfruttare blog e social network, è stata pioniere e viene studiata ad Havard, ha molti collaboratori ma non deve nulla a nessuno («Solo io ho creato me stessa»). Inoltre è una grande esperta di moda, come Anna Wintour de Il diavolo veste Prada «con un’alzata di sopracciglio può cambiare un’intera collezione autunno-inverno». È bella, ha una bella famiglia, parla italiano e inglese, è molto educata e non dice mai parolacce. Ma c’è qualcosa che non torna. Un elemento che si nasconde dentro le inquadrature e a intervalli irregolari affiora: «I miei follower saranno fieri di me», sostiene Chiara mentre si fa un piercing, oppure «non si può essere sempre un personaggio vincente», mentre il montaggio la mostra sulla spiaggia intenta a evitare le onde. Dice proprio così: personaggio.

E allora ecco improvvisamente emergere, in modo quasi subliminale, la consapevolezza che si sta recitando: la prova è nell’allestimento del matrimonio, che viene interpretato come in un set, con tanto di reazione prevista nella mente di chi guarda (Fedez le sussurra nell’orecchio, e lei: «La gente capirà che mi dici una cosa dolce»). È chiaro: siamo nella messinscena. La rimozione scientifica di ogni forma di autenticità non avviene qui, è già successa molto prima dell’inizio del film e noi la stiamo solo guardando: è sottintesa e si applica a tutto senza eccezioni, dalla felicità alla malinconia passando per la commozione, «spero di piangere in modo carino». Il meccanismo non prevede un privato, ogni cosa - selezionata - viene esposta e postata su Instagram, compreso un figlio neonato come novello Little Miss Sunshine.

Unposted si presenta quindi come un documentario paradossale, che smentisce l’essenza stessa del genere: se storicamente il doc si lancia all’inseguimento della realtà, qui al contrario vuole catturare la finzione. Chiara Ferragni si scrive da sola e conduce l’auto-rappresentazione in abisso: la rappresentazione di sé avviene attraverso un film girato da un altro, in una dinamica non lontana da quella cara a Tom Cruise, che della saga Mission: Impossible ha fatto la quintessenza del suo ego, riuscendo a tematizzare il proprio superomismo in modo a tratti mirabile. Ma Chiara non è così: a volte ha uno sguardo vuoto, fa una recita perenne, una continua messa in posa. I suoi fan sembrano scritti da John Waters: sono meno belli e meno ricchi di Chiara, appena parlano capiamo che non ce la faranno. Il selfie è la dittatura a cui si tende. Il vestito-armatura si fa metafora tangibile di uno stato e di un mondo. Così Ferragni, che si propone «della stessa sostanza dei sogni», inconsapevolmente scivola nell’incubo. E Unposted diventa un saggio preterintenzionale sull’immagine di oggi: un film che fa paura, molta paura, e non certo per una posizione tristemente moralista ma perché riguarda il presente, cosa siamo qui e ora, consegnati a un’immagine virtuale e avvolti nella recita senza fine.

«I had a Monica Bellucci dream», dice Gordon Cole (lo stesso David Lynch) nel geniale episodio 14 di Twin Peaks: The Return. Cole incredibilmente ha sognato un personaggio vero e lo ha riconosciuto, seppure vivendo in un universo di finzione. Una Monica che non è Monica, naturalmente: un’attrice che interpreta se stessa in un racconto inventato mantenendo il suo vero nome. Si parva licet, allo stesso modo è la nostra protagonista: alla fine di Unposted possiamo dire “I had a Chiara Ferragni dream”, abbiamo sognato una ragazza reale che si interpreta all’interno di una storia finta. Ma il cinema si vendica, e lei viene tradita dall’immagine. 

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Elisa Amoruso Chiara Ferragni Fedez 85 minuti
Italia
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Pastrone!

di Donato Guida
Pastrone! di Lorenzo De Nicola

Nel suo documentario Il mio viaggio in Italia (1999), Martin Scorsese ripercorre la storia del cinema italiano non solo per condividere con gli spettatori una riflessione sui registi e i film che hanno influenzato la sua arte, ma anche per svelare i sentimenti e le emozioni che questi hanno suscitato in lui. Parlando di Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone, scritto da Gabriele D’Annunzio, Scorsese ricorda di come sia rimasto sopraffatto dalle immagini e dall’espressività del film, come se avesse “scoperto una porta segreta che conduce al cuore dell’antichità, osservando quello che sembrava essere un notiziario dell’antica Roma”.

Il suo regista, Giovanni Pastrone, è indissolubilmente legato alla storia del Cinema, non solo italiano, ma mondiale! Questo assunto, seppure impegnativo, lascia intuire solo in parte quanto grande e pregna di eventi significativi sia stata la vita dell’autore piemontese. Un contabile nativo di Asti che, dalla fine dell’800, si è scoperto prima scienziato, poi musicista, quindi regista di opere colossali, infine medico.

Quanto realmente sappiamo oggi di Pastrone? Cosa ci resta di lui, al di là delle note opere che lo hanno reso un pioniere della settima arte? Come ha portato avanti la sua vita dopo essersi lentamente allontanato dal mondo del cinema che, dopo averlo osannato, gli ha imposto di seguire la nuova rotta americana dettata da Griffith?

Il regista Lorenzo De Nicola risponde a tutte queste domande nel suo documentario Pastrone!, nato dal casuale ritrovamento di un manoscritto autobiografico dello stesso regista piemontese, dall’ambiguo titolo Virus et Homo, all’interno del quale egli racconta in modo minuzioso gli eventi più emblematici della propria vita. A questo diario, De Nicola affianca le testimonianze, dirette e indirette, di diversi personaggi (critici cinematografici, architetti, storici, pazienti, familiari), permettendo così allo spettatore di conoscere questa complessa figura in senso sia artistico che storico.

Pastrone è stato costantemente guidato da un’enorme curiosità intellettuale; un pensatore, un ricercatore, un creatore che, animato da un’intima voglia di sapere, non si limitava a una visione superficiale dell’arte, ma ne scopriva i segreti più profondi, per poi reinventarla.

Il personaggio che emerge dal documentario di De Nicola è quello di un artista mai succube dei vincoli sociali, ma fermo nelle proprie convinzioni. Obbligato, a un certo punto, a modificare quell’idea di cinema da lui stesso creata e definita, sceglie di allontanarsene per immergersi (pensiero, anima e corpo) nel mondo della medicina. Questa parte della sua vita, finora poco conosciuta, emerge qui prepotentemente, a sottolineare ancora una volta la sua perseveranza. Iniziando come autodidatta, Pastrone approfondisce a tal punto la conoscenza medica da riuscire a mettere a punto un macchinario innovativo in grado di curare alcune forme tumorali.  Tante le testimonianze di pazienti curati (comprovate da lettere, indagini e certificati medici) e forte il dispiacere del regista di non vedere mai riconosciuto il suo contributo dalla comunità scientifica.

In occasione del sessantennale della morte di Pastrone (27 giugno 1959), il documentario di Lorenzo De Nicola, prodotto da Clean Film in collaborazione con Lab80, è stato presentato alla XVIII edizione del Rome Indipendent Fil Festival (vincitore del premio Miglior Documentario italiano) e sarà distribuito nelle sale cinematografiche nel 2020.

Il regista firma un’opera corale: coinvolge diversi interpreti, registra testimonianze, introduce documenti inediti e amalgama questi materiali eterogenei con la profonda voce fuori campo di Fabrizio Bentivoglio che, interpretando il regista di Asti, rilegge le parti più significative della sua autobiografia.

“La vita, come il cinema, è un fenomeno elettrico”: questa frase potrebbe racchiudere l’intera poetica di Pastrone. Un’elettricità costantemente presente nel suo operato, con la quale ha saputo e voluto immergersi totalmente in tutti i suoi campi d’azione.

Il documentario di De Nicola svincola definitivamente Pastrone da ogni etichetta (contabile, regista, produttore, musicista, scienziato, medico) e gli restituisce quel grande merito che, in vita, non gli è stato riconosciuto: quello di essere considerato non soltanto un grande regista ma, in senso più ampio, uno dei grandi protagonisti del ‘900.

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Lorenzo De Nicola 90 minuti
Italia, 2019
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Dentro di te c'è la terra

di Carmen Albergo
Dentro di te c'è la terra - recensione film Terlizzi

Dopo Dei, esordio al cinema di finzione, Cosimo Terlizzi torna al video-diario, riprova di come questa forma di racconto, spontanea e fuggevole identifichi, senza soluzione di continuità, la propria cifra bio-autoriale, il talento senza fronzoli, di portarsi in equilibrio sull'aporia inesplicabile di ordinario e prodigioso che ci circonda.

Dentro di te c'è la terra, presentato nella sez. Onde del 37mo TFF, tappa dopo tappa, porta avanti il progetto di farsi "strada di casa", in continuità con le parentesi di viaggio e le svolte di vita avviate da Folder, passando per L'uomo Doppio. On the road introspettivo, dove "strada" sta per relazioni fisiche, virtuali e ancestrali, e "casa" sta per brevi soste, esplorazioni, studio per un film. In questo caso, con particolare sguardo al film che sarà Dei, di cui porta inscritte molte premesse sin dall'incipit, su tutte le ripetute riprese di amici addormentati e loro risvegli (topos delle vicende del protagonista Martino) nonché l'impresa di risanare un dialogo con la natura, "nostra dimora comune", che non sia una vuota eco, né sciocca imitazione. Il regista invita lo spettatore stesso a rin-tracciare un personale percorso di riflessioni, a rivenire in questo suo zibaldone, un suggerimento, un pretesto, che capo della matassa dispieghi un filo di Arianna e conduca fuori dal dedalo di disastri socio-ecologici, ipocrisie e debolezze del quotidiano.

Questo l'esercizio di video-annotazione, che Terlizzi interpreta in prima persona, avvalendosi della scrittura a mano, insolita per l'ormai diffusa percezione touch screen o da tastiera. In soggetiva, appunta di suo pugno, sulle pagine di un taccuino, pensieri (come titoli di testa e di coda, capitoli tematici) suggestioni, interpellazioni dirette allo spettatore-interlocutore fuori campo che ripercorrere con lui situazioni e incontri. Così più che dall'avvicendarsi degli eventi esposti, l'intimità del mettersi a nudo, pare quasi scaturire direttamente da quel corsivo che solca la carta, da quella lettera A disgrafica, tracciata alla stesso modo di una Z, che dall'impulso del cervello al gesto della mano, ricalca memorie di una vita intera. Può dirsi lo stesso dei mille selfie compulsivi scattati con perfezione fotogenica dalla giovane amica di passaggio sull'isola di Alicudi? Cosa potrà conservare la sua mente di quella serialità estemporanea di pose stagliate su panorami mozzafiato? Eppure anche lei "aggiunge storie al proprio diario"!. E se non fosse per quella stessa leggerezza digitale, neppure il regista potrebbe ricevere la traduzione di una inscrizione araba che come un monito misterioso campeggia sulla parete della casa delle vacanze. Per questo, lo scarto tra le cose è sempre posto senza giudizio, anche quando incolmabile, come il confronto tra la ragazza e un giovane isolano, guarda caso sulle parole forse più abusate e risemantizzate di questo millennio: Amicizia e Spreco. L'incomunicabilità allora pare un abisso, per chi avulso per scelta dall'universo social di followers e likes, ostenta con maggior orgoglio i piedi nudi martoriati dal paesaggio impervio e ancora si esprime in termini di fiducia da guadagnare e coltivare. Nell'epoca del culto e flusso imperante delle immagini, qualcuno ancora si specchia nella terra che calpesta. Per Terlizzi il passo è davvero breve.

Se già da La benedizione degli animali, l'artista , pur figlio ipertecnologico dei suoi tempi, si mostrava creatura nel creato, per ridimensionare l'uomo e il suo dominio, in questo suo ultimo lavoro di ricerca preliminare sui miti greci ed altre visioni rituali antropomorfiche, giunge a porsi il dubbio che a fondare la presunzione umana di soggiogare la terra ci sia l'antico fraintendimento dell'uomo plasmato ad immagine di Dio. Perfettamente in linea con le interpretazioni teologiche di con-creaturalità e quasi parafrasando l'intramontabile Preghiera semplice, nel microcosmo della propria lamia brindisina, Terlizzi sembra davvero farsi umile "strumento" di dedizione e convivenza incontaminata, quando senza violazione ascolta e cura le piantagioni in dialogo tra loro, sì da attrarre utili insetti; quando asseconda l'istinto solidale, anziché quello predatorio, tra cani, gatti e galline, o quando insegna ad un giovane africano ad "in-telligere" le parole in lingua italiana e la nostra cultura popolare.

Così questo diario di ispirazioni creative, lungi dal dirsi conclusivo nella parabola artistica dell'uomo-autore, è esso stesso terra prospera, semina del futuro. Si rivolge e consegna ad un bambino, nuovo Adamo fatto di terra e speranza, che schiude gli occhi al giorno, confidando le domande eterne "Chi sei tu?", "Che ci fai qui?". La purezza della risposta è il miracolo che per fortuna la vita ancora non ci nega!

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Cosimo Terlizzi Cosimo Terlizzi Damien Modolo Martina Catalfamo 83 minuti
Italia, Svizzera 2019
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American Horror Story - 1984

di Irene De Togni
American Horror Story 1984 recensione serie tv murphy

Al nono capitolo dell’antologica American Horror Story, Ryan Murphy torna a confrontarsi con il sottogenere dell’horror più amato (e più usurato), memore delle due stagioni di quel gioiellino comedy horror che è stato il suo Scream Queens – che riusciva a tenere insieme in perfetta armonia le esigenze di divertissement, estetica citazionista e critica sociale del Murphy più genuino. Autore prolifico e fedele a uno stile ormai noto, lo showrunner corre, forse, il rischio di non sorprendere più con il suo gusto postmoderno per il livellamento e la rilettura che fa dell’ambientazione di Camp Redwood un non-luogo estremamente capiente, dinamico e democratico dove possono coabitare, senza troppi sforzi di sospensione dell’incredulità, gli slasher di Scream Queens, Halloween e Venerdì 13, gli echi di Bava e Argento e, non ultimo, l’approccio metatestuale di Scream.

A partire da un’unità di luogo (il campo estivo scenario di massacri passati, presenti e futuri) e di logica narrativa (che nello slasher si nutre della tensione fra inseguitore e vittime), la trama di 1984 – come spesso accade nelle stagioni di AHS – si fa calderone di citazioni e ammiccamenti a clichéé visivi e tematici del cinema d’orrore, e di riscritture di vari segmenti narrativi più o meno legati al tema centrale, con l’intento, si direbbe quasi, di allargarne la struttura spesso piuttosto scheletrica (o meglio essenziale) per arricchirla di un contesto più ampio. Operazione probabilmente non necessaria ma che permette alla serie di dilungarsi a piacimento su alcuni tratti tipici del racconto: l’omicidio letto come la punizione divina per una trasgressione sessuale, sviluppato in un vero e proprio discorso sul fanatismo religioso legato al sistema educativo grazie alla figura di Margaret Booth, avvicinandosi così ad un certo filone più o meno recente del cinema queer (La diseducazione di Cameron Post, Gonne al bivio); la figura dell’assassino seriale, inserita in un discorso sulla psicopatologia criminale abbastanza in voga nella serialità recente (Mindhunter, Killing Eve, le due stagioni di American Crime Story dello stesso Murphy) così come nel cinema (La casa di Jack, C’era una volta a… Hollywood, per citare i più autoriali) e indirizzata verso alcuni dei percorsi tracciati dai sequel di Scream riguardo il fanatismo e il mimetismo sociale (si pensi alle sottotrame a tema mediatico che ruotano attorno a Mr. Jingles o al Night Stalker); la final girl sfaccettata e frammentata nei personaggi di Margaret Booth, prima, e nel binomio Brooke Thompson e Rita, poi, usata come occasione per discutere le diverse esperienze di elaborazione del trauma subito, fra il desiderio di tornare nei luoghi fisici o figurati del trauma per estinguerlo o sublimarlo e quello, contrario, di allontanarlo.

Tuttavia, gli elementi più interessanti restano sicuramente quelli metanarrativi che la serie dedica allo slasher stesso, alle sue tendenze ultracitazioniste e, per esteso, a una certa mania passatista del cinema di genere (e non solo), qui simbolizzata dall’ossessione per gli anni Ottanta (gli eighties nell’universo di American Horror Story). Con l’avanzare degli episodi, Camp Redwood si trasforma progressivamente in un purgatorio dal fascino disturbante e perturbante i cui ospiti rimangono intrappolati nel sogno etereo di vivere eternamente in un’epoca morta. Murphy non è sicuramente il primo ad aver notato come lo slasher stia, da tempo, facendo fatica a disfarsi di quella postura autoriflessiva e autoreferenziale consolidatasi dopo la parabola esplicitante della saga Scream – e ancor più dopo la dissezione chirurgica del genere operata da Quella casa nel bosco. 1984 suggerisce, allora, una via d’uscita dall’impasse a cui sembrava essere arrivato il genere, facendo compiere allo slasher stesso un discorso critico sul proprio passatismo, sulla sua ossessione per la ripetizione e la metatestualità, e sfruttando i codici propri dell’horror per dare dimensione estetica e sensibile a questa stessa ossessione così che la prospettiva di un’eterna ambientazione anni Ottanta assuma, ora, la forma di una circolarità spaventosa, angosciante e inadempiente.

Al di là dello stile e del gusto chiaramente postmoderni di American Horror Story, su cui spesso si ha la tendenza ad appiattire ogni sorta di considerazione riguardo il lavoro di Murphy, 1984 ci pone infatti davanti a una problematizzazione di questo meccanismo nostalgico che porta, forse allo svilupparsi di una sensibilità, perlomeno estetica, che sia nuova e capace di cogliere l’orrore insito al suo interno. I teenager intrappolati in un eterno campo estivo, o il falso lieto fine di Mr. Jingles ricongiunto alla madre e al fratellino morti, si accostano facilmente al motivo della casa delle bambole nello Sharp Objects di Jean-Marc Vallée, ai passaggi più orrorifici della seconda stagione di Killing Eve, alla casa dell’infanzia dell’horror dramma familiare Hill House, tutte narrazioni che fanno dei rimandi nostalgici al passato dei simboli spaventosi.

Il purgatorio di Murphy, seppur in costante dialogo con il “San Junipero” di Black Mirror (anche quest’ultimo, fra l’altro, ambientato durante gli anni ‘80) e con il recente filone dell’existential comedy (da The Good Place a Forever, perché questa nona stagione, forse più delle altre, è una comedy-horror) più che all’espediente narrativo che permette di giocare liberamente sulla variazione sul tema, sembra, allora, più interessato a farsi scenario di una sensibilità nuova che si sta sviluppando nei confronti di una ripetizione che somiglia sempre di più a una stagnazione e a una tortura, e verso una fascinazione per il passato sempre più artificiosa e claustrofobica

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The Deuce - La via del porno

di Diego Del Pozzo
The Deuce - simon pelecanos hbo recensione serie tv

La spettrale versione di Blondie della traditional song di fine Ottocento The Sidewalks of New York, che fa da straziante commento musicale alla passeggiata in flash-forward, lungo la Deuce del maggio 2019, di un Vincent Martino invecchiato e appesantito dallo scorrere del tempo, funge da epilogo perfetto per quella magnifica tragedia in tre atti che è The Deuce – La via del porno (The Deuce, 2017-2019, HBO), con la quale David Simon e George Pelecanos tornano a raccontare da par loro l’inarrestabile dominio del Capitale sui corpi e sui luoghi della contemporaneità.

Prima dell’epilogo ambientato nel 2019, sorta di Spoon River del terzo millennio col personaggio interpretato da James Franco che ritrova uno dopo l’altro tutti coloro che il tempo gli ha portato via, le tre stagioni della serie coprono un arco temporale che inizia nel 1971, prosegue nel 1978 e culmina nel 1985 della splendida annata conclusiva. I due scrittori e showrunners utilizzano la lente interpretativa del sesso e della pornografia per costruire, attraverso questo quindicennio decisivo, un agghiacciante apologo sulle trasformazioni economico-urbanistiche e socio-culturali di una tra le aree urbane più fortemente simboliche dell’intera civiltà occidentale: la Deuce appunto, cioè quel tratto della 42esima strada nei pressi di Times Square, nel cuore di Manhattan, un autentico boulevard of broken dreams oggi affollatissimo luogo-chiave del neo-turismo di massa globalizzato dopo che, fino a metà anni Ottanta del Novecento, aveva invece definito la propria malfamata ma vitalissima identità intorno a una brulicante umanità fatta di prostitute e protettori, baristi e artisti, poliziotti più o meno corrotti e mafiosi non sempre di primo livello, punk e filosofi, sottoproletari alla ricerca di un sogno americano sfuggente per definizione.

La stagione inaugurale della serie porta lo spettatore direttamente in strada, sui marciapiedi della Deuce d’inizio anni Settanta dominata dai papponi afroamericani e piena di ragazze che, per sopravvivere o tentare una svolta, provano a lasciare i marciapiedi per avvicinarsi alla nascente e ancora artigianale industria del porno. Nel 1978 della seconda annata, invece, il cinema per adulti vive il suo boom, si trasforma in fenomeno economico e di costume e anche tra le ragazze della Deuce c’è chi diventa una star, come la fragile e tormentata Lori Madison interpretata dalla bravissima Emily Meade, oppure la ben più matura e sicura di sé Candy-Eileen (Maggie Gyllenhaal, forse al ruolo della vita), che da attrice scopre una vocazione per la regia sempre più totalizzante.

La stagione finale, quindi, si apre a Capodanno del 1985, con Vincent e la sua compagna, la volitiva Abby Parker di Margarita Levieva (terzo vertice del triangolo di protagoniste femminili Candy-Abby-Lori), ormai diventati punti di riferimento sempre più centrali per l’intera comunità della Deuce, sia nel loro storico bar, l’Hi-Hat, sia negli altri locali gestiti per conto della mafia, con la quale fa affari anche il gemello di Vincent, lo scapestrato e immaturo Frankie Martino, anch’egli interpretato da un virtuosistico James Franco, cimentatosi con buoni esiti anche alla regia in quattro episodi. Intorno a loro ruota una micro-comunità viva e credibile, che si muove coerentemente con quella che è la visione corale della serialità di David Simon, capace peraltro, anche in quest’occasione come già nelle opere passate (dall’epocale The Wire fino alla springsteeniana Show Me a Hero), d’immergersi con efficacia nei gangli delle istituzioni statunitensi per raccontarne dal di dentro il funzionamento e svelarne cinismo e ipocrisia, incarnati in The Deuce dal personaggio di Gene Goldman (l’ottimo Luke Kirby), il funzionario comunale che per conto del sindaco Ed Koch si occupa della riqualificazione della 42nd Street.

È la gentrificazione, bellezza! E tu non ci puoi far niente! Sì, perché The Deuce – soprattutto nella sua stagione conclusiva – dice la parola forse definitiva sul mondo (in questo caso, il cuore e l’anima di New York) trasformato in Mega-Disneyland globale e globalizzata, costi quel che costi, anche calpestando corpi umani sempre più ridotti a merce e marchiati a fuoco con le lettere sgargianti e terribili delle insegne pubblicitarie, capaci di annullare la poesia oscura della notte in un eterno giorno illuminato al neon; e, addirittura, giocando talmente sporco da utilizzare strumentalmente l’alibi della presunta emergenza sanitaria legata all’insorgere dell’Aids per riconvertire a metà anni Ottanta la Deuce e Times Square all’edilizia commerciale di lusso, con l’obiettivo di trasformarle in una sorta di parco divertimenti per turisti compulsivi.

La consueta raffinatezza della scrittura audiovisiva di Simon e Pelecanos (e di Richard Price, Megan Abbott, Lisa Lutz e dei tanti altri narratori di rango coinvolti nello story department; ma anche di registi dotati ed empatici come Alex Hall, Roxann Dawson, Michelle MacLaren, Tanya Hamilton, Susanna White) sa rendere indimenticabili i tanti personaggi che attraversano le tre stagioni della serie, soprattutto – va evidenziato – quelli femminili, ai quali spesso è affidato il punto di vista di un racconto che, come in poche altre occasioni nella serialità contemporanea, riesce a bilanciare tra loro l’approfondimento psicologico dei caratteri, l’intreccio tra micro-storie intime e quotidiane, l’evoluzione del macro-contesto storico-sociale e la contaminazione tra generi narrativi “forti” come il crime-noir, il melò, il dramma d’impegno civile e la ricostruzione d’epoca.
Al tempo stesso, come sempre nelle serie di Simon, The Deuce può essere letta come uno straordinario viaggio nella popular music a stelle e strisce, compiutamente inserita nei meccanismi della narrazione e utilizzata per accompagnare i personaggi e sottolineare i mutamenti del mondo nel quale essi agiscono. Così, fin dai titoli di testa, l’itinerario d’autore procede da Curtis Mayfield (prima stagione) a Elvis Costello (la seconda) fino all’inevitabile Blondie di Dreaming, opening song della terza stagione, amaramente collegata al requiem finale di The Sidewalks of New York non a caso reinterpretata per l’occasione proprio da Debbie Harry e, sui titoli di coda, alla sontuosa Assume the Position di Lafayette Gilchrist, costante sonora delle tre stagioni capace di rimandare direttamente a The Wire e di caricare, ancora una volta, l’America di Simon e Pelecanos di un mood inquietante e minaccioso.

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David Simon George Pelecanos Maggie Gyllenhaal James Franco Gbenga Akinnagbe Margarita Levieva Emily Meade Lawrence Gilliard Jr. 3 stagioni e 25 episodi
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I Trapped The Devil

di Mattia Caruso
I Trapped The Devil - recensione film lobo

Il Diavolo, certamente. O perlomeno questo racconta al fratello Matt (A.J. Bowen) l'instabile e problematico Steve (Scott Poythress) a proposito dell'identità del suo misterioso prigioniero, chiuso dietro una miriade di croci e lucchetti nello scantinato di casa.
Parte da un'intuizione semplicissima I Trapped The Devil, un'idea essenziale quanto risaputa cui l'esordiente Josh Lobo riesce però a dare una forma inedita, costruendovi tutt'attorno un piccolo horror dall'atmosfera e dai ritmi ben calibrati, che gioca con l'ambiguità e la paranoia e fa dell'esiguità di mezzi il suo principale punto di forza.

Perché se è vero che l'idea del Male imprigionato, magari nello scantinato di una vecchia casa di famiglia, non è certo cosa nuova nel nostro immaginario seriale e cinematografico, da Ai confini della realtà (l'episodio Ululati nella notte) fino a Castle Rock, passando per La Casa, è interessante come tale spunto venga declinato e plasmato da Lobo in un prodotto perfettamente in sintonia con il gusto di certo cinema horror indipendente contemporaneo. È così che un'intuizione a misura di serie antologica viene dilatata dal regista esponenzialmente, mettendo in scena, assieme a immancabili trovate espressive tipicamente indie, un senso di attesa e di inquietudine opprimenti e mantenendo fino all'ultimo un'ambiguità di fondo fondamentale per la riuscita dell'operazione.

In linea con la tendenza di prodotti simili, impegnati a suggerire l'orrore piuttosto che a mostrarlo, I Trapped The Devil si affida così quasi interamente alle sue atmosfere cupe (intervallate dalle immancabili luci di qualche addobbo natalizio), a interpreti in parte (su cui spicca l'ossessivo Steve di Poythress) e a quel senso di angoscia costruito inquadratura dopo inquadratura, capace di delineare, con pochi tratti e suggestioni, un male senza contorni ne confini.
E se la risoluzione finale arriva repentina e forse in modo troppo grossolano, togliendo in parte forza a quell'attesa costruita a regola d'arte nei minuti precedenti, resta innegabile la cura formale e il tocco di un regista capace di imbastire una vicenda di ossessione, senso di colpa e morte partendo da poco più di un pretesto, da poco più di un'immagine iconica e terribile impressa nel nostro immaginario, e da quella sottile ambiguità tra paranoia e orrore che da sempre sottende.

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Josh Lobo A. J. Bowen Scott Poythress Susan Burke Jocelin Donahue 82 minuti
USA 2019
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Le Mans '66 - La grande sfida

di Matteo Marescalco
Le Mans '66 - Recensione Film Mangold

A pensarci bene, la prima resa dei conti in Le Mans '66 – La grande sfida non poteva che avvenire durante una notte bagnata da una pioggia torrenziale e illuminata dalla sfrigolante elettricità di lampi e fulmini. Dentro la sua Ford GT40, Ken Miles si appresta a raggiungere la sua rivincita e a sognare un'altra vita, alla ricerca di quel momento in cui la macchina diventa senza peso e tutto svanisce.

Lo spettro di Michael Mann si aggira al di là delle soglie del visibile e lo sguardo del regista di Heat – La sfida e di Blackhat è condensato nelle opposte metodologie che caratterizzano i modi di agire di Enzo Ferrari e di Henry Ford II. Il primo è un artigiano che crede negli uomini e, di conseguenza, nell'umanizzazione delle macchine; per il secondo, invece, dev'essere l'umano a raggiungere il grado di perfezione e di infallibilità delle costruzioni macchiniche. Tra loro, si collocano Carroll Shelby e Ken Miles che, proprio per Ford, proveranno a dar vita ad un'auto (e ad uno sguardo) che riesca ad abbattere il controllo e le regole disumanizzanti dell'ingegneria meccanica, ponendo al centro del loro progetto la libertà della carne e del corpo umano.

Il cuore di quest'ultimo film di James Mangold consiste in uno spiccato interesse per il confronto umano, alla cui base c'è un costante rispecchiamento tra opposti. Da un lato, come già detto, Enzo Ferrari e, dall'altro, Henry Ford II. D'altronde, il film mette anche a confronto due icone del cinema quali Christian Bale e Matt Damon, il mago del trasformismo per eccellenza, in grado di dar vita a performance fisiche puntualmente diverse tra loro, e il ragazzo della porta accanto, sempre uguale a sé. Al di là del semplice gioco di corteggiamenti tra opposti, si ha la sensazione che il tessuto classico del film si strappi e riveli sé stesso come base di partenza per una struttura a cerchi concentrici in grado di riverberare influenze sempre più ampie. Nello scontro tra le due coppie di uomini, che incarnano diverse concezioni della vita, si riassume tutto l'universo e la forza mitopoietica di un cinema in grado di riflettere sulla propria leggendaria iconografia.

In Le Mans '66, infatti, la tradizione del decoupage classico e di una struttura narrativa in tre atti convive con la costruzione moderna di personaggi irrisolti, le cui traiettorie elettriche vitali sono continuamente minacciate da pericolosi virus. Dopo aver vinto la 24 Ore di Le Mans, Shelby è all'apice del successo ma il suo trionfo è immediatamente seguito da una notizia devastante: i medici comunicano all'intrepido texano che, a causa di una grave patologia cardiaca, non potrà mai più prendere parte a corse automobilistiche. Così, l'uomo dalle risorse illimitate si reinventa un lavoro come progettista e venditore di automobili in un magazzino di Venice Beach, insieme ad un team di ingegneri e meccanici di cui fa parte l'irascibile collaudatore Ken Miles, asso del volante ma brusco nei modi, arrogante e poco incline al compromesso. Lo scontro tra i due è tutto giocato sul confronto tra la fisicità dell'azione - di cui è depositario il corpo di Miles - e l'invasiva presenza delle parole, che, invece, sono l'asso nella manica di Shelby. Un percorso parallelo a quello compiuto da Ford e Ferrari e che si sviluppa lungo le stesse direttive: il primo assiste alle gare soltanto di rado, non parla con i piloti, si serve sempre della mediazione di una gerarchia esecutiva e rappresenta l'idea di un cinema che nega le peculiarità del singolo; il corpo del secondo, invece, non disdegna la fabbrica né tanto meno i circuiti automobilistici e incarna un atto di resistenza classica.

Con lo sviluppo del racconto, il film inizia a liberarsi dagli stretti legami delle parole e a lasciar parlare le semplici immagini. È il montaggio a farsi carico del compito di inseguire gli scattanti flussi lasciati dalle vetture, come fossero lampi elettrici troppo veloci per essere colti dall'occhio umano. Proprio in questo contesto di velocità impossibile da seguire, lo sguardo di Miles sopravvive più a lungo del solito su un ultimo tramonto, come a voler rivelare la consapevolezza della caducità dell'esistenza. Il prezzo da pagare per il raggiungimento della libertà è altissimo e la fuga è impossibile da agguantare. Ciò che resta, allora, è soltanto uno sguardo di lancinante sofferenza che relega i corpi romantici negli angoli più estremi e remoti, dissolvendoli nel fuori campo dell'altrove.

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James Mangold Christian Bale Matt Damon Jon Bernthal Caitriona Balfe Tracy Letts Remo Girone 152 minuti
USA 2019
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Innocenti Bugie

di Saverio Felici
Innocenti Bugie - recensione film Mangold

Nella seconda metà degli anni 2000, James Mangold è ormai avviato a ricollocare definitivamente il proprio ruolo professionale all'interno dell'industria. L'ex giovane autore dei circuiti Sundance, regista di Cop Land e Dolly's Restaurant, è oggi un implacabile regista su commissione, orgogliosamente al servizio di major e star, amministratore diligente di budget che, a inizio carriera, gli sarebbero probabilmente bastati per girare quindici film. L'ultimo Quel Treno Per Yuma, progetto personale cullato per almeno un decennio, non è andato bene; il western del 2007 rappresenta a oggi forse l'ultimo lavoro pienamente autoriale per il regista, chiamato da allora a “scontare il debito” mettendo il proprio talento con gli attori a disposizione dei grandi studios. Il successivo Innocenti bugie è dunque il classico spec-script da vecchia Hollywood; quel tipo di sceneggiature “acquistate” a scatola chiusa dalle major presso autori freelance, e messe da parte a maturare in attesa che si palesi il cast artistico opportuno per entrare in produzione. Il copione originale è da tempo a prendere polvere sulle scrivanie Sony, e dopo anni di development hell e decine di riscritture, firme, adattamenti e correzioni, trova finalmente in Mangold il regista designato. Con l'arruolamento di Tom Cruise (la presenza del quale è sufficiente a trasformare una produzione a budget medio in potenziale blockbuster estivo), Knight and Day assume la sua forma definitiva: da rom-com per signore, a kolossal d'azione per un pubblico trasversale e distribuzione imponente.

Come Mangold, Cruise è un altro grande nome bloccato in una sorta di guado di metà carriera. Nei quattro anni precedenti le sue uniche uscite si sono rivelate il pesantissimo flop di Leoni per agnelli, e l'altrettanto sottostimato Operazione Valchiria di Singer. Crisi d'identità a parte, Cruise è ancora un nome in grado di spostare milioni; l'intento del progetto Innocenti bugie è quello di riportarlo alle origini, quando era il fidanzatino action d'America, prima di Scientology e dei divorzi. Il puzzle si completa dunque con Cameron Diaz, e il film parte con il folle budget di 125 milioni di dollari e un deciso cambio di rotta in direzione Mission Impossible in rosa. I precedenti illustri si sprecano: da True Lies a Guardia del corpo, da All'inseguimento della pietra verde fino a mezza filmografia di Harrison Ford. Praticamente, è un tipo di film che si gira da sé.

Giocare con l'immagine pubblica del proprio attore in relazione al protagonista interpretato è sempre stato il trucco scoperto nel cinema di Mangold. Con Innocenti bugie, il regista si trova per le mani una potenziale bomba inesplosa: la più grande star del pianeta, al minimo storico di gradimento e stabilità mentale. Il film del 2010 affronta a viso aperto questo non detto: il suo eroe è dunque una sorta di versione inquietante di Ethan Hunt - schizzato, mezzo psicolabile, ben poco rassicurante. Pressoché la maniera in cui era visto Cruise stesso, nel periodo della disgraziata ospitata tossica da Oprah Winfrey, dei deliri misticheggianti, delle feroci parodie di South Park e Scary Movie vari. Seppur raccontata attraverso gli occhi di June/Diaz, la storia della ragazza della porta accanto precipitata al centro di un intrigo internazionale da un agente rogue mezzo pazzo viene declinata allora secondo le maschilissime dinamiche del maschilissimo cinema di Mangold. Knight and Day è tutto, al cento per cento un film di Tom Cruise. Brilla finché c'è lui a cannibalizzarlo (la prima parte), e cala come ne diminuiscono le scene (il debole terzo atto).

Rispetto agli importanti modelli produttivi citati, Innocenti bugie soffre giusto uno script visibilmente riscritto all'infinito, prevedibile in ogni svolta e battuta, sospeso tra mille spunti senza nessuna direzione particolare (a fine film non si è capito molto dei personaggi, delle loro interazioni né del loro percorso personale). E pur non brillando neanche nell'azione su larga scala (mai stato il pane di Mangold), nel complesso vince comunque. La meccanica “pazzo scocciato + ragazza acqua e sapone” è indovinata, e la chimica tra i due protagonisti fa il resto. Tom è una bomba, Diaz regge il suo ruolo tipico con l'aria di divertirsi il giusto, Mangold scompare tra le righe: tiene il volante della screwball comedy con esplosioni, e conduce la nave in porto a occhi chiusi.
Il film con il budget più alto e probabilmente meno personale nella carriera del regista segnerà dunque un lieto fine per tutti i partecipanti in gioco. Lanciato in pieno periodo estivo, Knight and Day è un trionfo: Cruise sarà riabilitato, e riprenderà in mano con successo l'amatissima saga di Mission Impossibie; Diaz infilerà una piccola sequenza di ruoli e successi clamorosi, fino all'altrettanto clamoroso ritiro del 2014. James Mangold erediterà il franchise di Wolverine, più nelle sue corde, destinato a rappresentarne lo spartiacque decisivo nell'ultima fase di carriera.

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James Mangold Tom Cruise Cameron Diaz Viola Davis Paul Dano Peter Sarsgaard 110 minuti
USA 2010
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