Thunder from the Sea

di Andrea Giangaspero
thunder from the sea - recensione film

Nel buio imperscrutabile di una collina, la camera di Yotam Ben-David non fa nulla per assistere il nostro occhio di spettatori e facilitarne la visione, lasciandoci spaesati e liberi di rintracciare da soli qualche segno, forse il movimento di un corpo che potrebbe esserci, o magari no. E in questa oscurità, in cui si distinguono quasi soltanto le sagome degli alberi e le sonorità proprie di uno spazio naturale, quando ci accorgiamo per davvero della figura di qualcuno che si porta in avanti tra i cespugli, abbiamo l’impressione che una primissima adesione alla materia filmica sia già avvenuta. Come se la nostra rapida introiezione in uno spazio che non conosciamo ci abbia spinto ad analizzare puntigliosi l’immagine per contravvenire al nostro spaesamento, al nostro stato di inadeguatezza. Senza alcuno sforzo apparente, il regista israeliano ottiene tutta l’attenzione che cercava già con la scena di apertura al film, Thunder From the Sea, premiato con il Laceno d’oro alla 44esima edizione del festival avellinese.

In questa spazialità notturna e confusa, quasi scoordinata, localizzati soltanto dalla striscia luminosa d’un paio di scarpe da ginnastica e da una (improbabilmente funzionante) insegna al neon gettata tra i cespugli, i giovani Udi, Doron e Dekel si danno appuntamento per fumare narghilè e per raccontarsi episodi pescati casualmente dalle proprie memorie. Parlano in particolare di omosessualità (la loro), di violenza irreprimibile per vendicare un tradimento amoroso, ma pure accennano ad argomentazioni vagamente teoriche e complesse che a un tratto ritagliano, da un richiamo di riflessione sugli ebrei aschenaziti dell’Europa orientale, un principio di considerazione sull’etica dello stato israeliano. Parlano con la naturalezza propria di una sceneggiatura che conosce e si alimenta dei sentieri intricati che mappano le geografie di queste giovani anime. Nella ripartizione non sistematica dei primi piani innocentemente sorridenti dei personaggi, rischiarati soltanto dalle luci cangianti dei neon, si definisce il loro bisogno di confinamento protetto, la necessità d’uno spazio personale, intimo, che rifugga dalle turbolenze di Tel Aviv e che custodisca i loro segreti, altrimenti inconfessati. L’autenticazione di sé e l’intimità del messaggio possono essere esperite soltanto all’interno di questa bolla, di un’alterità non localizzabile che ovatta e attutisce la minaccia esterna. Eppure, quantunque ci si allontani, le avvisaglie del pericolo e del suo sconfinamento non tardano a manifestarsi, e questo Ben-David lo sa bene.

L’ululato del coyote intercetta e interrompe per un attimo la confessione di una triste memoria, quella della fucilazione di un bambino appena sfiorata. Il cielo già scuro si veste di un nembo che richiama da lontano la possibilità di una tempesta. Persino la collera attraversa quest’isolamento, minacciando di disintegrare le maglie di un rapporto creduto solidissimo. E se una violenza impensata può inopinatamente deflagrare, ricorre a sedarla, almeno per questa volta (sembra voler comunicare il regista israeliano), l’intesa coordinata di un triplice sguardo tra i compagni, retaggio di un rapporto saldato lungamente negli anni. Quanto ancora si può sfuggire alla minaccia di un tempo che si consuma inesorabile e cancella le polveri di una fratellanza, l’illusione di un’età da viversi ancora innocentemente? C’è forte coesione nell’opera vincitrice del Laceno d’oro, in cui traspare efficacemente tutt’una tensione espressiva necessaria a instillare cautamente questa domanda, assecondando il lento incedere di una tempesta, primo piano per primo piano, avvisaglia per avvisaglia. Alla fine, quasi con la percezione di una umana protervia, il tuono prorompe stentoreo a farsi presenza e a rompere l’attesa del titolo, ponendo una cesura al sogno della giovinezza.

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Yotam Ben-David Dekel Hanuni Udi Brinder Doron Ben-David Ron Galantai 45 minuti
Francia 2018
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3 From Hell

di Jacopo Bonanni
3 From Hell - recensione film rob zombie

«Hello America, did you miss me?» sembra la sardonica dichiarazione di intenti, rilasciata ai tabloid da una delle tante rockstar redivive, prima di tornare a calcare i palchi dopo anni di silenzio, e in certo senso è proprio così, quando a pronunciarla è un personaggio partorito dall’immaginazione distorta dell’eclettico musicista e cinefilo Rob Zombie. Tuttavia, in questo caso, la missione del regista non è quella di resuscitare la sua storica band, i White Zombie, ma la sanguinaria Famiglia Firefly, protagonista indiscussa di questo 3 From Hell, terzo atto dell’iconica saga cinematografica aperta da La casa dei 1000 corpi.

Quattordici anni fa l’ultimo fortunato episodio, La casa del diavolo, dove credevamo di averli dati per morti e sepolti sulle note dei Lynyrd Skynyrd, ritroviamo il clan dei reietti del diavolo: Capitan Spaulding  (Sid Haig), Otis (Bill Moseley) e Baby (Shery Moon), nelle vesti di “rockstar del male” stile Charles Manson, alle prese con il “prezzo” della notorietà; prima dietro le sbarre di un carcere di massima sicurezza, poi lungo le strade del Messico. Sopravvissuti, disorientati ma soprattutto invecchiati, i celebri assassini, dopo una sbrigativa evasione, vengono scaraventati di nuovo su una decapottabile in fuga attraverso l’America, mentre una schiera di fan li osanna come eroi della controcultura hippy e una gang di grotteschi luchadores – vedi The Haunted World of El Superbeasto – li attende in cerca di vendetta.

3 From Hell vorrebbe essere un sorta di viaggio a ritroso – intrapreso da Zombie – alla riscoperta delle proprie radici e degli antichi fasti, dopo l’immeritato flop de Le streghe di Salem  e la tiepida accoglienza riservata al suo ultimo lavoro, 31: un’occasione preziosa per rispolverare il “fuoco sacro” degli esordi, dirigendo un film “sporco e cattivo” degno di quella saga che gli era valsa il titolo di Quentin Tarantino del cinema horror. Invece, ci ritroviamo davanti a una riunione di famiglia che dovrebbe essere a colpi di proiettili e invece spara a salve. Infatti nonostante il prologo intrigante, incentrato sulle vicissitudini carcerarie di questi antieroi in preda ormai a un delirio di onnipotenza, funzioni, dando la possibilità a Zombie di dimostrare, ancora una volta, la sua innata abilità nel ricreare le atmosfere, gli umori e le contraddizioni della summer of love dei serial killer, una volta entrati nel vivo dell’azione, quando il film dovrebbe decollare, si perde completamente il senso dell’orientamento. Per gran parte della pellicola giriamo a vuoto intorno ad un susseguirsi di azioni, di luoghi, di circostanze che per quanto avvincenti – poche – e ben  girate – la maggior parte – restano comunque sconnesse tra di loro e prive di qualsiasi fondamento concettuale. Soltanto l’agognato duello all’ultimo sangue tra le due fazioni di criminali, i luchadores capitanati dal leader Aquarius e la banda Firefly, riesce di colpo a catturare l’ attenzione degli spettatori, giusto il tempo necessario per assistere allibiti ai titoli di coda finali.

È difficile credere che dietro quest’operazione ci sia la mano del regista che nel 2003, sulle orme di Tobe Hooper,  aveva esordito con un piccolo cult come La casa dei 1000 corpi : un greatest hits di morte e follia dai ritmi sincopati e dai colori sgargianti, capace di scartavetrare la sensibilità del pubblico in sala grazie a una dose massiccia di violenza, sadismo e autoironia. Parliamo dello stesso autore che poi, due anni più tardi, sarebbe riuscito a bissare il successo con uno spietato road-movie, elevando una tribù di redneck psicotici al rango di “Santi Fuorilegge”, accanto a nomi del calibro di Jesse James e Sundance Kid. Lo sottolineiamo perché in questo 3 From Hell, che dovrebbe chiudere idealmente la trilogia, non c’è traccia di nessuno di questi elementi. Tutta l’operazione ha soltanto il retrogusto amaro di un innocuo déjà-vu, infarcito di facce già viste, di battute già masticate, di bossoli già esplosi. Perché non bastano le strizzate d’occhio a Sam Peckinpah (Il mucchio selvaggio) e  Walter Hill (Ricercati: ufficialmente morti), le guest-star di rito (Danny Trejo, Jeff Philip Philps) o le consuete gemme musicali di sottofondo (In-a-gadda-da-vida degli Iron Butterfly) a salvare il film dal suo nemico più grande: la prevedibilità.

A risentire di questo generale clima di stanchezza sono anche le interpretazioni dei tre protagonisti che, orfani della carismatica figura di Sid Haig – scomparso all’inizio delle riprese – più che dei “reietti” assomigliano agli “scarti” del diavolo: una sorta di suicide squad in salsa spaghetti-western. Bill Moseley è ridotto a recitare la parodia di se stesso, mentre la new entry Richard Brake, nei panni del fratellastro Foxy, ha l’ingrato compito di colmare il vuoto siderale lasciato dall’assenza improvvisa di Capitan Spaulding. L’unica eccezione è Baby, il personaggio di Shery Moon, che perfettamente a suo agio nel ruolo di folle amazzone schizofrenica, scatena tutto il suo potenziale distruttivo regalandoci l’interpretazione più originale e adrenalinica di un film che si lascia vedere ma si finisce inevitabilmente per dimenticare.

In definitiva, possiamo dire che il gioco è bello quando dura poco e quello di 3 From Hell dura anche troppo. Perché per quanto possa sembrare entusiasmante all’inizio tornare sul “luogo del delitto” e ritrovare delle vecchie conoscenze, quando si arriva all’esasperazione ci si deve fermare, tornare seri, altrimenti il rischio è quello di farsi del male. La nostra speranza è che Rob Zombie riesca a siglare presto un longevo patto con il diavolo, altrimenti difficilmente riuscirà a ottenere indietro l’ispirazione perduta.

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Rob Zombie Sheri Moon Zombie Sid Haig Bill Moseley Richard Brake 115 minuti
USA 2019
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Santa Subito

di Carmen Albergo
santa-subito-recensione film Piva

Santa Subito, film vincitore della Festa del Cinema di Roma 2019, rielabora la storia di una vocazione di fede e di una accettazione impossibile, che non è soltanto la rassegnazione ad una morte annunciata, quanto la necessità e il coraggio di affrontare il presente. Subito. L'opera è infatti dedicata a chi sopravvive e convive con la perdita, gomito a gomito col senno di poi.

Il salernitano Alessandro Piva, già legato alla rappresentazione del territorio e del sottobosco barese, porta sul grande schermo la memoria della poco più che ventenne Santa Scorese, studentessa e attivista cattolica, assassinata nel 1991 dopo tre anni di molestie da parte di un uomo con conclamate turbe psichiche, ossessionato dalla religione. Una memoria che, da un lato impossibilitata a rivendicare un'adeguata risoluzione giudiziaria (non essendo all'epoca ancora configurabile il reato di stalking) e dall'altro già sottoposta all'inchiesta per beatificazione, attende di proseguire l'iter di canonizzazione.

Il film raccoglie le voci e i volti, i luoghi e i ricordi dei membri della famiglia Scorese, degli amici di Santa, dei sui padri spirituali, delle missionarie, le cui orme aveva deciso di seguire, soprattutto sfoglia e recita le pagine dei suoi diari, attraversa e libera i pensieri e le profonde riflessioni, le paure e i desideri. Le parole, i silenzi e gli amari sorrisi marcano lo strappo tra il prima e il dopo l'inizio di quel calvario: il prima di un'adolescente determinata e solare, animata da entusiasmo e volontà di condivisione e il dopo di una giovane donna braccata nella quotidianità e messa alla prova nel momento più intenso della propria devozione. Il momento in cui comprendeva che se non sapeva innamorarsi di un essere umano, non poteva innamorarsi di Dio.

La visita degli anziani genitori nel cimitero quasi deserto e la sedia vuota nel portico parrocchiale, che danno avvio al film, annunciano l'incolmabile vuoto lasciato da Santa all'interno della comunità che la vide crescere, ma non lasciano che il racconto esordisca in sordina, ecco avanzare una donna sicura nel passo, serena nel volto, è Rosa Maria, sorella maggiore di Santa. Tra tutti coloro che si avvicenderanno, sarà lei a reggere le fila dolorose dei discorsi sparsi e ad affermare con compassionevole lucidità la verità sottesa al perdono: questa storia ha due vittime, Santa e il suo persecutore, un uomo totalmente instabile, abbandonato a se stesso dalle istituzioni di assistenza, nonostante le ripetute denunce. Di quest'uomo appariranno, una sola volta e per pochi secondi, dettagli del viso frammentato, forse ripresi da un ritaglio di giornale di cronaca nera, a voler programmaticamente eludere la tentazione di far deviare il racconto nel suo inferno.

Perché a dispetto del climax di ascendente tensione che Piva ha saputo costruire col montaggio serrato, Santa Subito muove un trasporto e una commozione liberatoria, che toglie il fiato, ma per consegnarci ad un respiro di stupore ben più vasto. In una estetica tradizionale, composta dalla galleria di testimonianze integrata da materiali d'epoca degli anni '80, il regista cala in modo magistrale simboli e metafore funzionali alla narrazione visiva, caricando di pathos anche il paesaggio e le mura domestiche. Se le riprese dal basso dei tralicci della ferrovia che rigano il cielo simulano l'andirivieni dal passato, un fulmine a ciel sereno sulla città vecchia e lo zoom sull'oblò della lavatrice sconquassato dalla centrifuga precipitano lo spettatore verso il tragico epilogo, più di mille ricostruzioni. Epilogo che, come premesso, non si arresta alla perdita di Santa, ma che il film trascina sui titoli di coda, citando l'allarmante dato statistico per cui in Italia ogni 72 ore una donna è vittima di femminicidio.

Prodotto e distribuito da Fondazione con il Sud e Seminal Film, Santa Subito è approdato al cinema nella formula film-evento. Particolare menzione merita inoltre la mobilitazione di U.C.C.A. (Unione Circoli Cinematografici Arci) che in contemporanea all'uscita in sala e in collaborazione con l'associazionismo locale, ha patrocinato nel borgo d'origine della famiglia Scorese, sprovvisto di cinema locale, ben una settimana di proiezioni e matinée scolastici. Subito.

 

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Alessandro Piva Piero Scorese Angela Dachille Rosa Maria Scorese 60 minuti
Italia 2019
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Cena con delitto – Knives Out

di Mattia Caruso
Knives Out - recensione film johnson

Il whodunit ai tempi di Donald Trump. Invito a cena con delitto riveduto e corretto nell'era del nazionalismo, delle fake news e dell'immigrazione. È questo il mondo in cui si trovano a vivere, a punzecchiarsi e, all'occorrenza, a pugnalarsi alle spalle i "Dieci piccoli indiani" di Cena con delitto – Knives Out, membri di una famiglia (i Thrombey) arricchitasi coi romanzi gialli del patriarca e ora principali sospettati della misteriosa morte di quest'ultimo.
Parte dalla più classica delle premesse il personale omaggio di Rian Johnson a un genere che pareva avesse fatto ormai il suo tempo e che invece torna dimostrandosi materia viva e malleabile per costruire un meccanismo spettacolare perfetto e, allo stesso tempo, per imbastire una divertita quanto feroce critica all'America di oggi.

Nello svelamento di un caso mano a mano sempre più intricato e cervellotico c'è infatti ben più di un divertissement fine a se stesso, quasi come se i componenti di quella famiglia, con le loro mezze verità e (soprattutto) menzogne, i loro segreti, i loro depistaggi e le loro differenti versioni dei fatti, rappresentino tutti i vizi di un sistema parassitario pronto a divorare se stesso, il sunto di un paese meschino, egoista e narcisista anche e soprattutto quando si professa l'opposto.
Una teoria di personaggi e volti che si condensa e riassume in un cast all star, dove il Male di un'intera Nazione si nasconde dietro un'ipocrisia di facciata e perbenismo (non è un caso che uno dei personaggi peggiori sia proprio l'ex Capitan America Chris Evans), e l'unico argine alla sua avanzata si può trovare, al massimo, in un bizzarro ed elegante detective privato (un Daniel Craig quasi parodia del suo Bond), pronto a svelare, tra omaggi a Poirot e (perché no?) a Colombo, l'inettitudine, la venalità e il cannibalismo delle classi più abbienti.

Dopo il suo discusso, e per certi versi rivoluzionario, penultimo capitolo di Star Wars, Gli ultimi Jedi, Johnson continua la propria personale destrutturazione di generi e immaginari andando, proprio come il suo detective, contro tutto e tutti, trasformando il più classico dei gialli in un rompicapo dove verità e menzogna si incrociano e intrecciano fino allo sfinimento, tra indizi, false piste, flashback rivelatori e colpi di scena, restituendo la radiografia di un paese allo sbando, perso nei suoi vizi e nei suoi peggiori egoismi.
La soluzione (o la salvezza), allora, in questo gioco al massacro che non risparmia nessuno – dall'alt-right ai troll di internet, dai liberal ai nazionalisti – non può che trovarsi, forse, all'esterno, magari riassunta nella figura dell'infermiera ecuadoregna (o era venezuelana?) interpretata da una bravissima Ana de Armas, immigrata dal buon cuore letteralmente incapace di mentire, che conquista il capofamiglia e sovverte uno status quo parassitario e degenerato, pronta a riscriverne regole e dinamiche. A modo suo.

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Rian Johnson Daniel Craig Chris Evans Ana de Armas Jamie Lee Curtis Michael Shannon Don Johnson Toni Collette Christopher Plummer 130 minuti
USA 2019
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Non è sogno

di Giorgio Sedona
Non è un sogno di Giovanni Cioni

Non è sogno, non è. Non è sogno, non è. Ripeterselo come un refrain, ancora e ancora, affrontando con se stessi un’opera di convincimento che vorrebbe piegare il ferro della gabbia e dissolverlo in una fuga tra le nuvole. Sbarre di una galera, quella vera, fatta di guardiani e ore d’aria, la stessa dove vanno le persone che hanno infranto una regola sociale. Corpi alla deriva, peccatori sognanti che cercano un appiglio per “evadere” dalla realtà delle loro prigioni. Giovanni Cioni prosegue magnificamente il suo cinema laboratoriale, capace di ritorni che sono arrivi, ed arrivi che sono inizi per eterne ripartenze. Un cinema che conosce l'alchimia del magico (filmico) e che lo sa calare dentro alla fibrosità del reale (nella verità dell'afilmico) componendo il telaio di una finestra dalla quale far vibrare il vento della finzione. Una brezza che dissolve le immagini dietro ad una quinta in chroma key, un portale d'infinità profondità e definizione per il sogno, quinta teatrale e specchiante dove rintracciare uno spiraglio per raccontarsi: fenditura di fuga per l’autonarrazione. Cioni splanca le porte del sogno ai propri personaggi, un sogno circoscritto in una messa in scena, portale per l'universo extradiegetico che si rappresenta in un riflesso evasivo, nell’ombra di un reale che si proietta in fughe di sognante rappresentazione. Sospinto da una forza centripeta che accentra la verità dentro al quadro del profilmico (verità, la parte più candida della realtà).

E’ nella ricorsività del gesto e del testo teatrale giocato su due testi esemplari, Che cosa sono le nuovole? e La vita è sogno, rispettivamente di Pasolini e Calderòn de la Barca, che i reclusi del penitenziario Capanne di Perugia, nel Laboratorio Nuvole, affrontano la loro vita come in un sogno. Un’ora d’aria nel verde monocromatico di una quinta da superare, sognando di evaderla, per ricongiungersi con ciò che di loro è rimasto fuori dalla reclusione, un mondo che è stato e che lascia frammenti di ogni possibile realtà, in aspettative desideri e paure. La differenza di peso specifico tra la metafisica dell’altrove e la fisica del presente, tra il ricordo della libertà e la costrizione dell’internamento, non evapora nelle dissolvenze dell’intarsio digitale ma resta scolpita nelle espressioni dei volti, nelle rughe dei primi piani, nelle parole di un sogno, teatrale e poetico, rinchiuso in un penitenziario. I costanti ciak, che accompagnano i dentro e i fuori, di un cinema personale senza confini, delinea uno sguardo senza soluzione di continuità che nessun decoupage classico può costringere. Il cinema per Cioni è sia nel quadro, sia nel fuoricampo e sia intorno ad esso, è un cinema che vuole uscire dal frame, divincolarsi dall’assolutismo dell’immagine, al di fuori della cornice, dentro alle esistenze. E’ il processo stesso ad essere parte di un divenire filmico, è il percorso ad essere parte integrante di un dialogo tra l’autore, i personaggi, la realtà ed il pubblico. Non esistono muri, gabbie, barriere, frame, decoupage, non esistono impedimenti lì dove la vita fluisce. Lì dove il cinema racconta. Specchio interiore, riflesso di una serenità che inizia dove l’illustre drammaturgia, di Pasolini e de la Barca, finisce ma non termina, e continuando a scuotere le coscienze si apre alla confessione. Che siano galeotti, o voci di un sottosuolo arcano e mistico, o che siano racconti di detenzione in lager nazisti (entrambi riflessi di un passato da non dimenticare), il cinema di Cioni si presta all’ascolto ed attraverso la parola apre orizzonti di sognante verità. Accoglie e lascia andare, conservado il tragitto di un corpo e la scia di un'umanità.

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Giovanni Cioni 95 minuti
Italia, 2019
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Dov'è il mio corpo? (I Lost My Body)

di Riccardo Bellini
dov'è il mio corpo - recensione film Clapin

«Se sai che qui c’è una mano, allora ti concediamo tutto il resto»
Wittgenstein, Della certezza

«Se tagli la mia testa dico me e la mia testa o me e il mio corpo? Che diritto ha la mia testa di chiamarsi me?» filosofeggia Trelkowski ne L’inquilino del terzo piano, preannunciando la vertigine identitaria che lo precipiterà nel delirio. Se un braccio amputato o un dente caduto sono pezzi di personalità, l’archivista polacco arriva dunque a chiedersi fino a quale soglia, immaginando di poter smembrare un uomo all’inverosimile, un individuo può ancora definirsi quell’Io che ha sempre creduto di essere. Ogni parte di corpo ridotta a frammento porta infatti con sé la testimonianza irripetibile di una vita, iscritta sotto le pieghe della carne. Lo sa bene anche Jérémy Clapin che con il suo lungometraggio d’esordio d’animazione Dov’è il mio corpo?, accolto in casa Netflix dopo il successo di Cannes e del Festival di Annecy, procede però in direzione opposta alla parabola de-realizzante tracciata da Roland Topor/Roman Polanski. Se con quest’ultima assistiamo infatti ai segnali di una disgregazione fisica che accompagnano la dissoluzione psichica del protagonista, il film di Clapin racconta al contrario un percorso di riappropriazione e ricostruzione dell’identità attraverso l’odissea parigina di una mano mozzata sulle tracce del suo proprietario.

Adattamento del romanzo di Guillame Laurant Happy Hand, reso possibile grazie alle specificità dell’animazione, Dov’è il mio corpo? (traduzione mediocre per il più puntuale J’ai perdu mon corps) non si innesta però su elaborate velleità filosofiche. Al contrario, Clapin si affida alla semplicità di un lirismo trasparente, diretto, alternato a momenti di brutale realismo, per  veicolare la storia di formazione di un ragazzo, Naoufel, orfano dai sogni spezzati in cerca del proprio posto nel mondo. Il conflitto tra spirito e carne è superato fin dalla premessa di una mano che è anche mente, occhi e orecchi, cuore e memoria da riattivare e ricomporre per dare un senso al reale; finestra aperta su quel mondo in cui Naoufel si sente estraneo e che ha (quasi) smesso di amare, la mano attraversa un percorso di riscoperta di sé tramite la cognizione di un dolore sia fisico che dell’animo. Un’avventura suburbana e un viaggio tra i ricordi, tesa fra due traumi (presente e passato) dove ogni ferita è la tappa di viaggio sensorio in cui riacquistare gradualmente fiducia verso una realtà ostile, imparando a tastarne le superfici, ascoltarne i suoni, captarne gli umori. Il tutto ad altezza di topo, ovvero da una prospettiva che costringe a prendere coscienza di ciò che normalmente ignoriamo. Non si tratta solo di trovare il collante di un'esistenza in pezzi, ma soprattutto di accettare la rottura irreversibile, accoglierla, anziché esorcizzarla, e farne il ponte invisibile tra sé e il mondo, prima di tentare un gesto disatteso dal destino, l'unico modo secondo Naoufel per sfuggire a una storia che pare già scritta.

La peculiarità del soggetto di Dov’è il mio corpo? potrebbe ricondurre la memoria a titoli come Il mistero delle 5 dita di Robert Florey o La mano di Oliver Stone, ma soprattutto al personaggio di Mano della Famiglia Addams. In effetti il film di Clapin è intriso di accese venature orrorifiche. Inizia anzi come un horror, sollecita un certo immaginario per smarcarsene però ben presto e mettere il suo crudo realismo, sostenuto da un’efficace impianto action, al servizio di un confronto con la realtà senza sconti, violento e impietoso. Se Clapin e la sua squadra si dimostrano abili nel lavorare sulle parti più dinamiche del film, trovando anche la chiave per coniugare suggestioni di genere differenti, lo scandaglio del passato di Naoufel, - scandito dal bianco e nero dei flashback attivati ogni volta da stimoli sensoriali di vario tipo, - col procedere della visione può risultare però ripetitivo. I fantasmi che ossessionano Naoufel, le immagini di un passato (e un senso di colpa) con cui dover quotidianamente fare i conti, tornano a infestare la visione di Dov’è il mio corpo?, trovando spesso una felice aderenza al tessuto poetico del film ma a lungo andare senza riuscire ad aggiungere molto a un universo emotivo già pienamente configurato.

Nonostante i comprensibili limiti, Dov’è il mio corpo? resta un’opera di valore, un invito a spiccare il salto verso i propri sogni ma sempre con uno sguardo piantato alla concretezza del reale. Ancora una volta ci tocca dunque ringraziare Netflix per aver portato in Italia un film che probabilmente non avremmo visto altrimenti, nonostante il Gran Premio della Settimana Internazionale della Critica a Cannes. Ennesimo monito per un Paese, il nostro, che poco investe sull’animazione e spesso non riesce nemmeno a trovarvi un’adeguata distribuzione, relegandola a forma espressiva minore o ignorandola quasi del tutto. Un Paese in cui vige ancora il pregiudizio per cui “i cartoni animati sono roba da bambini” - salvo poi, con notevole ipocrisia, prediligere come scelta per i propri figli titoli come La famiglia Addams 3D a La famosa invasione degli orsi in Sicilia di Lorenzo Mattotti, perché quest’ultimo troppo impegnativo, noioso, difficile. Tutto ciò si intende, certo, per taluni genitori, non per i bambini che spesso e per fortuna ne sanno molto di più.

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Jérémy Clapin 81 minuti
Francia 2019
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Chiara Ferragni - Unposted

di Emanuele Di Nicola
Chiara Ferragni Unposted

C’è un momento, in Chiara Ferragni - Unposted, in cui cade il velo sulla sostanza del film e un’immagine diventa improvvisamente significativa, in sé e per sé, senza bisogno di altro. Si tratta dell’ennesima prova vestito che l’influencer deve sostenere in vista di un evento: l’abito, composto di vetri incastonati, si rivela troppo rigido e la ragazza non riesce a piegare un braccio. Per un istante Chiara resta così, con un arto a metà, sospeso nel vuoto e poi il film continua per la sua strada. Perché il documentario di Elisa Amoruso, regista che frequenta il reale attraverso l’esteriore - come conferma il successivo Bellissime -, offre due livelli di lettura: il primo è palese, ovvero il pedinamento della celebrità Chiara Ferragni e il racconto della sua storia secondo lei. La protagonista si mostra “come tu mi vuoi”, porgendo allo sguardo alcuni lati e omettendone altri, come viene proprio teorizzato dalla coppia Ferragni-Fedez quando riflette sull’opportunità di non condividere tutto (niente di strano: avviene in ogni doc su un personaggio famoso). La regista la asseconda: Amoruso la segue strategicamente con l’obiettivo di corteggiare il fanbase della influencer, e anche questo è legittimo, oltre che riuscito come attesta il clamore al Festival di Venezia, l’incasso in sala e ora le visualizzazioni sulla piattaforma di Amazon Prime Video.

C’è poi una seconda chiave, in questo film di 85 minuti, che si insinua più sotterranea e dislocante: quella racchiusa dentro l’immagine. Ferragni si è fatta da sola, ci viene spiegato, è oggi un’imprenditrice miliardaria perché ha saputo magistralmente sfruttare blog e social network, è stata pioniere e viene studiata ad Havard, ha molti collaboratori ma non deve nulla a nessuno («Solo io ho creato me stessa»). Inoltre è una grande esperta di moda, come Anna Wintour de Il diavolo veste Prada «con un’alzata di sopracciglio può cambiare un’intera collezione autunno-inverno». È bella, ha una bella famiglia, parla italiano e inglese, è molto educata e non dice mai parolacce. Ma c’è qualcosa che non torna. Un elemento che si nasconde dentro le inquadrature e a intervalli irregolari affiora: «I miei follower saranno fieri di me», sostiene Chiara mentre si fa un piercing, oppure «non si può essere sempre un personaggio vincente», mentre il montaggio la mostra sulla spiaggia intenta a evitare le onde. Dice proprio così: personaggio.

E allora ecco improvvisamente emergere, in modo quasi subliminale, la consapevolezza che si sta recitando: la prova è nell’allestimento del matrimonio, che viene interpretato come in un set, con tanto di reazione prevista nella mente di chi guarda (Fedez le sussurra nell’orecchio, e lei: «La gente capirà che mi dici una cosa dolce»). È chiaro: siamo nella messinscena. La rimozione scientifica di ogni forma di autenticità non avviene qui, è già successa molto prima dell’inizio del film e noi la stiamo solo guardando: è sottintesa e si applica a tutto senza eccezioni, dalla felicità alla malinconia passando per la commozione, «spero di piangere in modo carino». Il meccanismo non prevede un privato, ogni cosa - selezionata - viene esposta e postata su Instagram, compreso un figlio neonato come novello Little Miss Sunshine.

Unposted si presenta quindi come un documentario paradossale, che smentisce l’essenza stessa del genere: se storicamente il doc si lancia all’inseguimento della realtà, qui al contrario vuole catturare la finzione. Chiara Ferragni si scrive da sola e conduce l’auto-rappresentazione in abisso: la rappresentazione di sé avviene attraverso un film girato da un altro, in una dinamica non lontana da quella cara a Tom Cruise, che della saga Mission: Impossible ha fatto la quintessenza del suo ego, riuscendo a tematizzare il proprio superomismo in modo a tratti mirabile. Ma Chiara non è così: a volte ha uno sguardo vuoto, fa una recita perenne, una continua messa in posa. I suoi fan sembrano scritti da John Waters: sono meno belli e meno ricchi di Chiara, appena parlano capiamo che non ce la faranno. Il selfie è la dittatura a cui si tende. Il vestito-armatura si fa metafora tangibile di uno stato e di un mondo. Così Ferragni, che si propone «della stessa sostanza dei sogni», inconsapevolmente scivola nell’incubo. E Unposted diventa un saggio preterintenzionale sull’immagine di oggi: un film che fa paura, molta paura, e non certo per una posizione tristemente moralista ma perché riguarda il presente, cosa siamo qui e ora, consegnati a un’immagine virtuale e avvolti nella recita senza fine.

«I had a Monica Bellucci dream», dice Gordon Cole (lo stesso David Lynch) nel geniale episodio 14 di Twin Peaks: The Return. Cole incredibilmente ha sognato un personaggio vero e lo ha riconosciuto, seppure vivendo in un universo di finzione. Una Monica che non è Monica, naturalmente: un’attrice che interpreta se stessa in un racconto inventato mantenendo il suo vero nome. Si parva licet, allo stesso modo è la nostra protagonista: alla fine di Unposted possiamo dire “I had a Chiara Ferragni dream”, abbiamo sognato una ragazza reale che si interpreta all’interno di una storia finta. Ma il cinema si vendica, e lei viene tradita dall’immagine. 

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Elisa Amoruso Chiara Ferragni Fedez 85 minuti
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Pastrone!

di Donato Guida
Pastrone! di Lorenzo De Nicola

Nel suo documentario Il mio viaggio in Italia (1999), Martin Scorsese ripercorre la storia del cinema italiano non solo per condividere con gli spettatori una riflessione sui registi e i film che hanno influenzato la sua arte, ma anche per svelare i sentimenti e le emozioni che questi hanno suscitato in lui. Parlando di Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone, scritto da Gabriele D’Annunzio, Scorsese ricorda di come sia rimasto sopraffatto dalle immagini e dall’espressività del film, come se avesse “scoperto una porta segreta che conduce al cuore dell’antichità, osservando quello che sembrava essere un notiziario dell’antica Roma”.

Il suo regista, Giovanni Pastrone, è indissolubilmente legato alla storia del Cinema, non solo italiano, ma mondiale! Questo assunto, seppure impegnativo, lascia intuire solo in parte quanto grande e pregna di eventi significativi sia stata la vita dell’autore piemontese. Un contabile nativo di Asti che, dalla fine dell’800, si è scoperto prima scienziato, poi musicista, quindi regista di opere colossali, infine medico.

Quanto realmente sappiamo oggi di Pastrone? Cosa ci resta di lui, al di là delle note opere che lo hanno reso un pioniere della settima arte? Come ha portato avanti la sua vita dopo essersi lentamente allontanato dal mondo del cinema che, dopo averlo osannato, gli ha imposto di seguire la nuova rotta americana dettata da Griffith?

Il regista Lorenzo De Nicola risponde a tutte queste domande nel suo documentario Pastrone!, nato dal casuale ritrovamento di un manoscritto autobiografico dello stesso regista piemontese, dall’ambiguo titolo Virus et Homo, all’interno del quale egli racconta in modo minuzioso gli eventi più emblematici della propria vita. A questo diario, De Nicola affianca le testimonianze, dirette e indirette, di diversi personaggi (critici cinematografici, architetti, storici, pazienti, familiari), permettendo così allo spettatore di conoscere questa complessa figura in senso sia artistico che storico.

Pastrone è stato costantemente guidato da un’enorme curiosità intellettuale; un pensatore, un ricercatore, un creatore che, animato da un’intima voglia di sapere, non si limitava a una visione superficiale dell’arte, ma ne scopriva i segreti più profondi, per poi reinventarla.

Il personaggio che emerge dal documentario di De Nicola è quello di un artista mai succube dei vincoli sociali, ma fermo nelle proprie convinzioni. Obbligato, a un certo punto, a modificare quell’idea di cinema da lui stesso creata e definita, sceglie di allontanarsene per immergersi (pensiero, anima e corpo) nel mondo della medicina. Questa parte della sua vita, finora poco conosciuta, emerge qui prepotentemente, a sottolineare ancora una volta la sua perseveranza. Iniziando come autodidatta, Pastrone approfondisce a tal punto la conoscenza medica da riuscire a mettere a punto un macchinario innovativo in grado di curare alcune forme tumorali.  Tante le testimonianze di pazienti curati (comprovate da lettere, indagini e certificati medici) e forte il dispiacere del regista di non vedere mai riconosciuto il suo contributo dalla comunità scientifica.

In occasione del sessantennale della morte di Pastrone (27 giugno 1959), il documentario di Lorenzo De Nicola, prodotto da Clean Film in collaborazione con Lab80, è stato presentato alla XVIII edizione del Rome Indipendent Fil Festival (vincitore del premio Miglior Documentario italiano) e sarà distribuito nelle sale cinematografiche nel 2020.

Il regista firma un’opera corale: coinvolge diversi interpreti, registra testimonianze, introduce documenti inediti e amalgama questi materiali eterogenei con la profonda voce fuori campo di Fabrizio Bentivoglio che, interpretando il regista di Asti, rilegge le parti più significative della sua autobiografia.

“La vita, come il cinema, è un fenomeno elettrico”: questa frase potrebbe racchiudere l’intera poetica di Pastrone. Un’elettricità costantemente presente nel suo operato, con la quale ha saputo e voluto immergersi totalmente in tutti i suoi campi d’azione.

Il documentario di De Nicola svincola definitivamente Pastrone da ogni etichetta (contabile, regista, produttore, musicista, scienziato, medico) e gli restituisce quel grande merito che, in vita, non gli è stato riconosciuto: quello di essere considerato non soltanto un grande regista ma, in senso più ampio, uno dei grandi protagonisti del ‘900.

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Lorenzo De Nicola 90 minuti
Italia, 2019
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Dentro di te c'è la terra

di Carmen Albergo
Dentro di te c'è la terra - recensione film Terlizzi

Dopo Dei, esordio al cinema di finzione, Cosimo Terlizzi torna al video-diario, riprova di come questa forma di racconto, spontanea e fuggevole identifichi, senza soluzione di continuità, la propria cifra bio-autoriale, il talento senza fronzoli, di portarsi in equilibrio sull'aporia inesplicabile di ordinario e prodigioso che ci circonda.

Dentro di te c'è la terra, presentato nella sez. Onde del 37mo TFF, tappa dopo tappa, porta avanti il progetto di farsi "strada di casa", in continuità con le parentesi di viaggio e le svolte di vita avviate da Folder, passando per L'uomo Doppio. On the road introspettivo, dove "strada" sta per relazioni fisiche, virtuali e ancestrali, e "casa" sta per brevi soste, esplorazioni, studio per un film. In questo caso, con particolare sguardo al film che sarà Dei, di cui porta inscritte molte premesse sin dall'incipit, su tutte le ripetute riprese di amici addormentati e loro risvegli (topos delle vicende del protagonista Martino) nonché l'impresa di risanare un dialogo con la natura, "nostra dimora comune", che non sia una vuota eco, né sciocca imitazione. Il regista invita lo spettatore stesso a rin-tracciare un personale percorso di riflessioni, a rivenire in questo suo zibaldone, un suggerimento, un pretesto, che capo della matassa dispieghi un filo di Arianna e conduca fuori dal dedalo di disastri socio-ecologici, ipocrisie e debolezze del quotidiano.

Questo l'esercizio di video-annotazione, che Terlizzi interpreta in prima persona, avvalendosi della scrittura a mano, insolita per l'ormai diffusa percezione touch screen o da tastiera. In soggetiva, appunta di suo pugno, sulle pagine di un taccuino, pensieri (come titoli di testa e di coda, capitoli tematici) suggestioni, interpellazioni dirette allo spettatore-interlocutore fuori campo che ripercorrere con lui situazioni e incontri. Così più che dall'avvicendarsi degli eventi esposti, l'intimità del mettersi a nudo, pare quasi scaturire direttamente da quel corsivo che solca la carta, da quella lettera A disgrafica, tracciata alla stesso modo di una Z, che dall'impulso del cervello al gesto della mano, ricalca memorie di una vita intera. Può dirsi lo stesso dei mille selfie compulsivi scattati con perfezione fotogenica dalla giovane amica di passaggio sull'isola di Alicudi? Cosa potrà conservare la sua mente di quella serialità estemporanea di pose stagliate su panorami mozzafiato? Eppure anche lei "aggiunge storie al proprio diario"!. E se non fosse per quella stessa leggerezza digitale, neppure il regista potrebbe ricevere la traduzione di una inscrizione araba che come un monito misterioso campeggia sulla parete della casa delle vacanze. Per questo, lo scarto tra le cose è sempre posto senza giudizio, anche quando incolmabile, come il confronto tra la ragazza e un giovane isolano, guarda caso sulle parole forse più abusate e risemantizzate di questo millennio: Amicizia e Spreco. L'incomunicabilità allora pare un abisso, per chi avulso per scelta dall'universo social di followers e likes, ostenta con maggior orgoglio i piedi nudi martoriati dal paesaggio impervio e ancora si esprime in termini di fiducia da guadagnare e coltivare. Nell'epoca del culto e flusso imperante delle immagini, qualcuno ancora si specchia nella terra che calpesta. Per Terlizzi il passo è davvero breve.

Se già da La benedizione degli animali, l'artista , pur figlio ipertecnologico dei suoi tempi, si mostrava creatura nel creato, per ridimensionare l'uomo e il suo dominio, in questo suo ultimo lavoro di ricerca preliminare sui miti greci ed altre visioni rituali antropomorfiche, giunge a porsi il dubbio che a fondare la presunzione umana di soggiogare la terra ci sia l'antico fraintendimento dell'uomo plasmato ad immagine di Dio. Perfettamente in linea con le interpretazioni teologiche di con-creaturalità e quasi parafrasando l'intramontabile Preghiera semplice, nel microcosmo della propria lamia brindisina, Terlizzi sembra davvero farsi umile "strumento" di dedizione e convivenza incontaminata, quando senza violazione ascolta e cura le piantagioni in dialogo tra loro, sì da attrarre utili insetti; quando asseconda l'istinto solidale, anziché quello predatorio, tra cani, gatti e galline, o quando insegna ad un giovane africano ad "in-telligere" le parole in lingua italiana e la nostra cultura popolare.

Così questo diario di ispirazioni creative, lungi dal dirsi conclusivo nella parabola artistica dell'uomo-autore, è esso stesso terra prospera, semina del futuro. Si rivolge e consegna ad un bambino, nuovo Adamo fatto di terra e speranza, che schiude gli occhi al giorno, confidando le domande eterne "Chi sei tu?", "Che ci fai qui?". La purezza della risposta è il miracolo che per fortuna la vita ancora non ci nega!

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Cosimo Terlizzi Cosimo Terlizzi Damien Modolo Martina Catalfamo 83 minuti
Italia, Svizzera 2019
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American Horror Story - 1984

di Irene De Togni
American Horror Story 1984 recensione serie tv murphy

Al nono capitolo dell’antologica American Horror Story, Ryan Murphy torna a confrontarsi con il sottogenere dell’horror più amato (e più usurato), memore delle due stagioni di quel gioiellino comedy horror che è stato il suo Scream Queens – che riusciva a tenere insieme in perfetta armonia le esigenze di divertissement, estetica citazionista e critica sociale del Murphy più genuino. Autore prolifico e fedele a uno stile ormai noto, lo showrunner corre, forse, il rischio di non sorprendere più con il suo gusto postmoderno per il livellamento e la rilettura che fa dell’ambientazione di Camp Redwood un non-luogo estremamente capiente, dinamico e democratico dove possono coabitare, senza troppi sforzi di sospensione dell’incredulità, gli slasher di Scream Queens, Halloween e Venerdì 13, gli echi di Bava e Argento e, non ultimo, l’approccio metatestuale di Scream.

A partire da un’unità di luogo (il campo estivo scenario di massacri passati, presenti e futuri) e di logica narrativa (che nello slasher si nutre della tensione fra inseguitore e vittime), la trama di 1984 – come spesso accade nelle stagioni di AHS – si fa calderone di citazioni e ammiccamenti a clichéé visivi e tematici del cinema d’orrore, e di riscritture di vari segmenti narrativi più o meno legati al tema centrale, con l’intento, si direbbe quasi, di allargarne la struttura spesso piuttosto scheletrica (o meglio essenziale) per arricchirla di un contesto più ampio. Operazione probabilmente non necessaria ma che permette alla serie di dilungarsi a piacimento su alcuni tratti tipici del racconto: l’omicidio letto come la punizione divina per una trasgressione sessuale, sviluppato in un vero e proprio discorso sul fanatismo religioso legato al sistema educativo grazie alla figura di Margaret Booth, avvicinandosi così ad un certo filone più o meno recente del cinema queer (La diseducazione di Cameron Post, Gonne al bivio); la figura dell’assassino seriale, inserita in un discorso sulla psicopatologia criminale abbastanza in voga nella serialità recente (Mindhunter, Killing Eve, le due stagioni di American Crime Story dello stesso Murphy) così come nel cinema (La casa di Jack, C’era una volta a… Hollywood, per citare i più autoriali) e indirizzata verso alcuni dei percorsi tracciati dai sequel di Scream riguardo il fanatismo e il mimetismo sociale (si pensi alle sottotrame a tema mediatico che ruotano attorno a Mr. Jingles o al Night Stalker); la final girl sfaccettata e frammentata nei personaggi di Margaret Booth, prima, e nel binomio Brooke Thompson e Rita, poi, usata come occasione per discutere le diverse esperienze di elaborazione del trauma subito, fra il desiderio di tornare nei luoghi fisici o figurati del trauma per estinguerlo o sublimarlo e quello, contrario, di allontanarlo.

Tuttavia, gli elementi più interessanti restano sicuramente quelli metanarrativi che la serie dedica allo slasher stesso, alle sue tendenze ultracitazioniste e, per esteso, a una certa mania passatista del cinema di genere (e non solo), qui simbolizzata dall’ossessione per gli anni Ottanta (gli eighties nell’universo di American Horror Story). Con l’avanzare degli episodi, Camp Redwood si trasforma progressivamente in un purgatorio dal fascino disturbante e perturbante i cui ospiti rimangono intrappolati nel sogno etereo di vivere eternamente in un’epoca morta. Murphy non è sicuramente il primo ad aver notato come lo slasher stia, da tempo, facendo fatica a disfarsi di quella postura autoriflessiva e autoreferenziale consolidatasi dopo la parabola esplicitante della saga Scream – e ancor più dopo la dissezione chirurgica del genere operata da Quella casa nel bosco. 1984 suggerisce, allora, una via d’uscita dall’impasse a cui sembrava essere arrivato il genere, facendo compiere allo slasher stesso un discorso critico sul proprio passatismo, sulla sua ossessione per la ripetizione e la metatestualità, e sfruttando i codici propri dell’horror per dare dimensione estetica e sensibile a questa stessa ossessione così che la prospettiva di un’eterna ambientazione anni Ottanta assuma, ora, la forma di una circolarità spaventosa, angosciante e inadempiente.

Al di là dello stile e del gusto chiaramente postmoderni di American Horror Story, su cui spesso si ha la tendenza ad appiattire ogni sorta di considerazione riguardo il lavoro di Murphy, 1984 ci pone infatti davanti a una problematizzazione di questo meccanismo nostalgico che porta, forse allo svilupparsi di una sensibilità, perlomeno estetica, che sia nuova e capace di cogliere l’orrore insito al suo interno. I teenager intrappolati in un eterno campo estivo, o il falso lieto fine di Mr. Jingles ricongiunto alla madre e al fratellino morti, si accostano facilmente al motivo della casa delle bambole nello Sharp Objects di Jean-Marc Vallée, ai passaggi più orrorifici della seconda stagione di Killing Eve, alla casa dell’infanzia dell’horror dramma familiare Hill House, tutte narrazioni che fanno dei rimandi nostalgici al passato dei simboli spaventosi.

Il purgatorio di Murphy, seppur in costante dialogo con il “San Junipero” di Black Mirror (anche quest’ultimo, fra l’altro, ambientato durante gli anni ‘80) e con il recente filone dell’existential comedy (da The Good Place a Forever, perché questa nona stagione, forse più delle altre, è una comedy-horror) più che all’espediente narrativo che permette di giocare liberamente sulla variazione sul tema, sembra, allora, più interessato a farsi scenario di una sensibilità nuova che si sta sviluppando nei confronti di una ripetizione che somiglia sempre di più a una stagnazione e a una tortura, e verso una fascinazione per il passato sempre più artificiosa e claustrofobica

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