Your Name.

di Andrea Fontana
Your Name - Makoto Shinkai recensione film

Giappone, 2010. Mitsuha Miyamizu è stanca della vita di provincia e vorrebbe vivere la frenesia di Tokyo. Taki Tachibana è uno studente di Tokyo con un lavoro part-time in un ristorante e che vive passivamente la sua esistenza. Da un giorno in poi i due si scambiano il corpo, solo per un periodo limitato ma ripetutamente. E cercano di correggere o semplicemente di vivere la vita dell’altro, scoprendo sempre di più della controparte e, piano piano, innamorandosene. Scoprendo, a un certo punto, una minaccia che rischia di cancellare la loro storia.

Sempre teso verso suggestioni altre, ispirazioni che, a detta dello stesso Makoto Shinkai, hanno radicalmente contribuito a formare il suo corpus autoriale, il regista di 5 cm al secondo ha subìto tali riferimenti come un soggiogamento. Shinkai, per buona parte della sua breve carriera, non è mai riuscito a definire lucidamente una poetica chiara, indipendente dalle fonti, limpida. Aveva delle idee che dovevano essere la colonna vertebrale del suo cinema: l’immagine come poesia, il contesto melodrammatico, gli struggimenti amorosi, la collisione di generi oltre che una scelta estetica chiara, riconoscibile, tanto da diventare suo marchio di fabbrica poi sdoganato. Ma il limite più grande, per Shinkai, è sempre stato quello di non riuscire a liberarsi dei suoi amori, Miyazaki in primis, tanto che opere come Viaggio verso Agartha (o I bambini che inseguono le stelle) era quasi un plagio dell’opera del Maestro dello Studio Ghibli. Your name., da questo punto di vista, è un po’ una svolta. È intriso delle suggestioni, dei riferimenti, delle citazioni, ma è talmente ricco da un punto di vista emotivo e ben strutturato per quel che riguarda l’impianto narrativo, da superarle e, quindi, far emergere la forza del film.

A proposito di equilibrio, appare evidente come la pellicola altro non sia che una fotografia del costante tentativo di trovare una conciliazione utopica fra diversi contrappesi. Il doppio, si parte da qui per tentare una sintesi: eccolo il tema cardine di Your name. Uomo e donna, due individui distanti nello spazio e nel tempo, il bene e il male, il bianco e il nero, la città e la provincia, la solitudine e l’amore. Your name. racconta semplicemente del desiderio di rendere uno tutto quello che è due. Utopico ma, nell’economia fantastica del film, possibile.
Se questo elemento incide sulla componente squisitamente emotiva del film, quella anche più coinvolgente, è impossibile non notare un’esigenza shinkaiana di riflessione sottotraccia sulla condizione storica del Giappone. Il disastro nucleare di Fukushima, il terremoto e il relativo tsunami, sono cicatrici impresse nella memoria storica del Sol Levante e ritornano, deformate, rigurgitate, rielaborate, anche in Your name. A ben pensarci, questo film sembra essere il difficile tentativo di Shinkai di rielaborare il lutto e il dramma di eventi storici attraverso la forza dell’immaginazione e della narrazione. La sua opera, quindi, diventa quasi catartica, un modo per affrontare la radicalità di un evento così traumatico. Questo elemento catastrofico torna anche nel successivo La ragazza del tempo - Weathering with You e qui in qualche modo ne anticipa la filosofia.

Shinkai non è Antonioni, in Professione: reporter lo scambio dei corpi, il cambio di identità era il pretesto per vivere una vita diversa, superare il concetto di morte, frantumare lo schema delle maschere pirandelliane per poi cadere, inevitabilmente, sotto i colpi dell’impossibilità di tale operazione. In Your name., al contrario, lo scambio è scoperta, incontro, mutamento ma in positivo. Eppure di utopie e impossibilità vive anche il cinema di Shinkai e in particolare Your name. A pensarci bene, i corpi, gli sguardi, i desideri, gli amori in Makoto Shinkai si sfiorano, si cercano, senza (quasi) mai vivere di intersezioni costanti, di ricongiungimenti, di sintesi. E così la provvisorietà, l’attimo, diventano l’essenza stessa con cui interpretare quelle follie che sono la vita. Il tempo, quindi, si assolutizza nella sua relatività e la morte non è più il confine definitivo che tutti temiamo: l’amore, in Your name., diventa lo strumento con cui superare spazio e tempo, riedificare una dimensione utopica di assoluta bellezza.

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Makoto Shinkai 107 minuti
Giappone 2016
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Military Wives

di Veronica Vituzzi
military wives - recensione film peter cattaneo

Le donne di Military Wives, mogli dei soldati (e soldatesse) vivono quotidianamente la guerra senza essere al fronte. Di sovente matrimoni del genere costringono figli e consorti ad abituarsi a periodi di felice convivenza alternati a lunghi distacchi, e se poi oltre alle normali esercitazioni del caso si aggiungono vere e proprie missioni belliche, l’esigenza di mantenere in famiglia una minima percentuale di normalità diventa essenziale per la serenità di tutti. Come si può passare serenamente il tempo in una base militare, nell’attesa e nella paura che succeda qualcosa a chi è andato via?

Parte da questo la storia del nuovo film di Peter Cattaneo, un omaggio al lato nascosto della vita militare, laddove di solito si preferisce dar maggiore spazio ai successi (e alle infamie) dei soldati in guerra. Ambientato in una base militare inglese, il film vede corrispondere al movimento degli uomini la forzata immobilità delle moderne Penelopi, che non trovano niente di meglio da fare che cristallizzare il tempo della lontananza in mille piccoli appuntamenti dediti alle sbronze e alle risate. Tra di loro c’è Kate (Kristin Scott Thomas), che una volta perduto il figlio in guerra si dedica ad acquisti casalinghi compulsivi per evadere da un’assenza non più temporanea. Come spesso accade, la sua indole dittatoriale e rigida la priva della simpatia delle altre mogli, simpatia invece facilmente accordata a Lisa (Sharon Horgan) per il suo carattere alla mano. Secondo uno schema piuttosto prevedibile le due donne, sulla carta incompatibili, supereranno le iniziali comprensioni grazie all’idea della creazione di un coro per riempire il tempo troppo lungo e solitario di tutte le donne della base militare mentre i consorti sono via in Afghanistan: un’iniziativa che oggi è stata ripetuta da decine e decine di gruppi di mogli.

La struttura di Military Wives è semplice e abbastanza prevedibile, e si evolve toccando tutte le tappe tipiche del tema, ovvero la crescita individuale e collettiva di un gruppo di persone attraverso la capacità di mettersi in discussione accettando nuove sfide. Se i soggetti di Kristin Scott Thomas e Sharon Horgan obbediscono diligentemente ai paradigmi narrativi imposti dai loro ruoli (la donna rigida impara a sciogliersi e quella facilona a essere più responsabile ecc) è il gruppo raccontato da Peter Cattaneo a incarnare la parte più interessante e originale della storia. Con leggere pennellate, senza raccontare troppo dei suoi personaggi, il regista lascia intuire da minimi dettagli piccole verità che sanno rendere reali, per quanto sconosciute, le loro vite.

Cantare è all’inizio un gioco, e così Lisa lo insegna alle altre, ma è solo quando il divertimento si combina alla disciplina di Kate che il coro si eleva a un’esperienza di crescita spirituale, dove si canta per i vivi e i morti: il controllo della voce per garantire un’interpretazione adeguata diviene così controllo della propria vita, espressione e accettazione di un dolore che non può essere cancellato. La musica pop usata all’inizio, ottima per rendere l’idea di un gruppo di amiche che canta rumorosamente per il gusto di urlare a squarciagola, lascia lo spazio alle parole d’amore per chi è andato via, nella consolazione del fatto che se si soffre è perché si ha amato molto, e quindi si ha vissuto davvero.

Military Wives mantiene ciò che promette fino in fondo, offrendo una storia minutamente dosata nei suoi momenti allegri e drammatici, senza alcuna sorpresa a scuotere l’anima: la sua prevedibilità non prescinde però dalla godibilità della visione, forse proprio garantita dalla certezza di veder le cose svolgersi esattamente come ci si aspetta. La guerra è sempre presente sullo sfondo, pronta a portarsi via le persone amate a lungo o per sempre, ma è collettivamente accettata come un dato di fatto che nessuno mette mai in discussione, e forse è meglio così; non è detto che Cattaneo, regista di qualità oramai però lontano dall’irriverente lotta di classe di Full Monty – Squattrinati organizzati (1997) avrebbe saputo muoversi altrettanto bene al di fuori del percorso tracciato.

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Peter Cattaneo Kristin Scott Thomas Sharon Horgan 110 minuti
Gran Bretagna 2019
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The Irishman

di Matteo Berardini
The Irishman - recensione film scorsese netflix

«It was in the reign of George III that the aforesaid personages lived and quarrelled; good or bad, handsome or ugly, rich or poor, they are all equal now»

Via via che corrono i 200 e più minuti di The Irishman, e quest’ultima, grande storia di gangster, cinema e America si fa plumbea e funerea, è difficile non pensare al finale di Barry Lyndon e al modo in cui Kubrick ridimensiona ogni gerarchia umana, morale o sociale che sia, ponendola a confronto con la morte. Tutto svanisce, tutto si sgretola nell’orizzontalità assoluta e ineluttabile del tempo. E anche un nome che ha fatto la Storia degli Stati Uniti, sindacalista e criminale e vittima senza corpo come Jimmy Hoffa, scompare dalla memoria collettiva, residuo marginale di un’epoca esaurita e ridotta a voce di Wikipedia.
Tuttavia sarebbe un errore cercare in The Irishman lo stesso distacco clinico, lo stesso sguardo antropologico – seppur tragico, per quanto sottotraccia – del film di Kubrick; entrambi sono grandi racconti sul finire di un sistema di potere e rappresentazione collettiva, ma basta pensare al vicino, intimissimo Silence per trovare in Scorsese un modo diverso e nuovo di guardare al (suo) cinema, al (suo) mito, ai (suoi) crimini, a tutta la violenza e l’immoralità irriducibile che attraversa e determina come un fiume carsico la vita degli Stati Uniti. The Irishman è il racconto antiepico di una grande saga che attraversa la Storia, ma anche e soprattutto l’elegia funebre di un mondo novecentesco che giunge al termine, e che proprio nei suoi attimi finali cerca e raggiunge uno sguardo di pietas cristiana, redentiva, che possa accompagnare i suoi ultimi passi. Scorsese apre il suo film nei corridoi di una casa di riposo e chiude il cerchio sulla soglia della stanza di Frank "The Irishman" Sheeran, il grande sicario invisibile ormai corpo stanco e invecchiato, padre ripudiato e testimone ultimo di una storia criminale lunga quarant’anni. È lui il residuo di un mondo scomparso a cui il film concede la chiusura più umana e compassionevole, una porta aperta sulla redenzione che è però al contempo una finestra da cui noi spettatori possiamo conoscere, ascoltare e osservare un uomo che finisce, la cui storia di omicidi, amicizie coltivate e tradite, vite stravolte e manipolate, contiene il punto d’arrivo ultimo di una stagione e un modo secolare di intendere il cinema.

The Irishman è davvero l’ultimo grande film del Novecento, incongruenza tardiva che stride con la cronologia e le logiche del contemporaneo e che eppur (r)esiste, prende forma, nutrendosi paradossalmente di latte digitale e sangue di visioni on demand. Con un cortocircuito mirabile, Scorsese firma il suo film-testamento con l’inchiostro di Netflix, l’unica realtà disposta a produrre questo anti-kolossal così sperimentale dal punto di vista tecnologico e intimamente autobiografico da quello cinematografico.
Centosessanta milioni di dollari sono la cifra dichiarata ufficialmente come budget, la più grossa data in mano a Scorsese e l’unica sufficiente a sorreggere lo sforzo necessario a chiamare a raccolta tutti i testimoni di questo canto del cigno, dai volti New Hollywood di Roberto De Niro e Al Pacino alla maschera gangster di Joe Pesci, dal produttore storico Irwin Winkler all’ex sceneggiatore di Quei bravi ragazzi Nicholas Pileggi, qui in veste di produttore esecutivo. È vero, e Scorsese lo ammette candidamente, che The Irishman è un film di famiglia e una raccolta di amici, ma quando quegli amici sono le stesse persone che hanno fondato e sorretto la più grande stagione del cinema americano ecco che attraverso quei corpi si parlano al contempo le lingue del cinema e della Storia, del mito dentro e fuori dallo schermo. Come nel coevo C’era una volta a… Hollywood di Tarantino, di cui questo The Irishman sembra essere il controcampo realista, il ritorno alla dittatura del tempo e della morte dopo il sogno di fuga permesso dalla favola, Scorsese passa dalla Storia per arrivare al cinema e al suo rapporto col tempo, riflettendo anzitutto sui codici del mito e sui corpi che quei tòpoi hanno portato alla vita. Ma se per Rick Dalton e Cliff Booth l’immortalità è dietro l’angolo, appena oltre il cancello della casa dei vicini, per Frank Sheeran, Russell Bufalino, Jimmy Hoffa e tutti gli altri protagonisti di quella stagione il tempo passa implacabile e miete vittime, deturpa le carni, nonostante la magia digitale dell’Industrial Light & Magic – che ripristina i volti lasciando comunque goffi i corpi e antichi gli occhi, sentinelle che arginano l’intervento tecnologico che ha permesso al film di esistere.

È tutto qui il senso testamentario di The Irishman, summa di un modo passato di intendere ed esperire la macchina del cinema, ma anche grande cattedrale narrativa sulle forze oscure e micro-storiche che manipolano come eminenze grigie gli eventi della grande Storia, relegata a quinta teatrale attraverso gli schermi ubiquitari dell’apparecchio televisivo, il cantore per eccellenza della realtà del secondo Novecento che Scorsese non si esime dal porre ciclicamente in primo piano. Ma quest’escamotage, assieme ad altre soluzioni narrative come la confessione allo spettatore, il flashback sulla linea del tempo della strada da percorrere, la dilatazione temporale che anticipa l’omicidio che fu il più alto tradimento, sono tutti ingranaggi di un meccanismo che abbiamo già visto girare, e anche a velocità ben più aggressive e impattanti. The Irishman invece è un film totalmente sotto le righe, un racconto di frammenti, manie, dettagli, piccoli quadri umani intessuti di gesti rituali e dotati di brevi picchi di violenza, omicidi sgraziati, stanchi, tallonati dalle scritte in sovrimpressione che evocano dal fuoricampo le sorti brutali che attendono gran parte dei mafiosi che vediamo apparire sullo schermo (sarà un’ecatombe, dovuta alla violenza reciproca o dettata semplicemente dal tempo). La forza, immensa, del film deriva quindi da questa carica umana, e dal modo in cui Scorsese è riuscito a renderla il correlativo oggettivo di immagini e storie che sono anche la nostra, di storia, il nostro amore, il nostro modo di esser stati al mondo, nutrendoci di un cinema figlio di un secolo tramontato. Nessuna nostalgia, forse qualche rimpianto e il bisogno sconfinato di non sentirsi soli, di riflettere su ciò che stato regalando al passato una forma che, almeno un altro poco, possa rimanere. Anche se attraverso la paura e la solitudine mortuaria di un vecchio assassino, traditore e padre mancato, che aspetta la sua fine.

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Martin Scorsese Robert De Niro Al Pacino Joe Pesci Anna Paquin Harvey Keitel Bobby Cannavale Stephen Graham Ray Romano Jack Huston Aleksa Palladino 209 minuti
USA 2019
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Adolescentes

di Emanuele Di Nicola
Adolescentes-2019 recensione film Lifshitz-008

Emma e Anaïs. Due ragazze in una piccola città francese. Le loro attività quotidiane. Un regista che le segue dai 13 ai 18 anni: Sébastien Lifshitz, l’autore di Quasi niente e Wild Side, che nell’ultimo decennio si è diretto sulla strada del documentario. Una definizione che al cinquantunenne francese forse non piacerebbe: ha sempre respinto le etichette, rifiutando di bollare rigidamente il suo cinema, come quando si voleva costringerlo nel recinto del queer movie a inizio Duemila (eppure Presque Rien del 2002 fu un piccolo cult nella comunità Lgbt). Il suo è cinema e basta, ci tiene a precisare: ecco allora spiegata la non differenza tra finzione e documentario, che purtroppo ha relegato Lifshitz nei festival e lontano dalle sale, come per il bellissimo Bambi visto alla Berlinale 2013, una videoconfessione del transessuale algerino Jean-Pierre Pruvot sulla sua lunga carriera da showgirl sotto il nome d’arte di Bambi.

Adolescentes riporta Lifshitz prima a Locarno e poi alla Festa del cinema di Roma, nella lungimirante sezione parallela Alice nella città. Il regista e la sua crew, come detto, si appostano per cinque anni nella vita delle ragazze: dopo una breve introduzione video e fotografica sui primi anni d’infanzia, eccole oggi a scuola. Sono amiche per la pelle, Emma e Anaïs, seppure profondamente diverse: l’una è una ragazza magra e introversa, che viene fortemente indirizzata dalla madre, l’altra è una giovane con problemi di sovrappeso ma un perenne sorriso, con il quale affronta anche i nodi più complessi come la grave depressione materna. L’una farà l’università, l’altra già si avvia al lavoro di cura per bambini e anziani. Le due amiche vanno bene o male a scuola, litigano con i genitori, baciano i ragazzi. Sviluppano, mutano fisicamente. Sono persone normali. Insieme passano attraverso l’adolescenza.

Intorno a loro si dispiega un mondo, il nostro: nell’arco del quinquennio avviene l’attentato a Charlie Hebdo, la strage del Bataclan, il ballottaggio tra Marine Le Pen e Macron che porta alla vittoria di quest’ultimo. Così le giovani sono costrette a confrontarsi con l’attualità e le nubi di un tempo cupo, che come tutti vedono in televisione: l’apertura a questioni universali non è però l’obiettivo del cineasta, che semplicemente registra i fatti e su di essi si trova a riflettere. Allora in classe si parla del terrorismo, e in una cena domestica Anaïs - che altrove pare più immatura - si lancia in difesa dei musulmani contro i propri genitori. Ma la questione, prima ancora che nelle singole posizioni, viene centrata in una battuta illuminante di Emma: «Le Pen o Macron per me sono uguali». La naturale indifferenza, il distacco, il tutto visto come magma indistinto sono più contemporanei di molte idee esplicite.

Ed è questo il punto di Adolescentes: proprio la non eccezionalità delle protagoniste diventa la peculiarità del film. Il gesto di Lifshitz di scegliere due persone qualsiasi lo rende paradossalmente memorabile, perché Anaïs ed Emma sono due giovani come tutti, né più né meno degli altri. Per questo non convince il paragone automatico con Boyhood di Richard Linklater, a cui Adolescentes è stato immancabilmente accostato, pur essendo un oggetto diverso: Linklater inquadrava la crescita sempre attraverso il racconto di finzione, Lifshitz si “accontenta” della realtà. Anche quando non è particolarmente spettacolare o suona decisamente routinaria. Se boyhood significa adolescenza, infatti, qui nel titolo abbiamo invece adolescenti, in uno slittamento dal concetto complessivo ai singoli che reindirizza la lente sulle persone, fatte di carne e sangue. È un film profondamente personale perché lavora su un tema da sempre caro al regista (gli adolescenti sono spesso centro del suo cinema), ma volendo eventuali ascendenze bisogna guardare piuttosto a certo sperimentale, come i silent movies di Warhol: Lifshitz riprende le ragazze che dormono e si posiziona in attesa del risveglio.

Ciò che più colpisce nella visione di Adolescentes è però altro: malgrado la normalità delle giovani, con i suoi 135 minuti il film si fa subito travolgente. Anzi proprio per questo: vedere uno screzio con la mamma, un brutto voto, un dialogo ingenuo sul sesso costruisce presto una particolare empatia perché l’abbiamo fatto noi tutti. Così Emma e Anaïs, non troppo belle, non troppo simpatiche, a volte perfino sciocche, ci mettono teneramente allo specchio.

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Sébastien Lifshitz 135 minuti
Francia
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Western Stars

di Matteo Marescalco
Western Stars - Recensione Film Springsteen

Non poteva essere più struggente di così il film concerto diretto da Thom Zimny e Bruce Springsteen e realizzato in occasione del lancio dell’ultimo album del Boss, a cui bastano un fienile, una band ed un’orchestra di trenta elementi per surriscaldare l’ambiente e provocare pericolosi incendi emotivi.

Western Stars è un’ode musicale all’immaginario statunitense, durante la quale Springsteen ci prende per mano e ci conduce tra i fantasmi di un’esistenza che sembra aver vissuto mille vite. Le canzoni del nuovo album consentono al cantautore di assumere diverse identità e di vestire i panni di uno stunt-man ferito, di un cavaliere in erba che cerca di curare il suo cuore spezzato allevando cavalli, e di un cowboy che rimembra il proprio passato. Ma, soprattutto, Springsteen trova aspetti di sé stesso in ognuno dei personaggi raccontati, immergendoci in un’atmosfera di intimità che si avvale anche della collaborazione della moglie da una vita, Patti Scialfa.

Ne conseguono una seduta psicanalitica e una confessione in prima persona a cuore aperto, struggente proprio perché basata su semplici e magmatiche verità che abbracciano l’amore, la famiglia, la solitudine, l’amicizia e la libertà. Springsteen afferra il volante della sua macchina e inizia un viaggio lungo una vita intera. Ogni canzone è accompagnata da immagini tipiche della cultura americana che strappano il tessuto narrativo e aprono squarci sul tempo passato. In tal senso, assistere a Western Stars è come viaggiare in epoche diverse dalla nostra e trovarvi frammenti della propria identità: come fosse un sacerdote laico, il Boss inserisce filmati d’archivio, facendoli dialogare con la sua orchestra e dando vita ad un percorso mistico che inneggia alla vita e al potere mitopoietico delle narrazioni orali.

La ballata nel buio è, ovviamente, costellata da fantasmi e spettri che rimettono in gioco i nostri fallimenti, i sensi di colpa e le occasioni perse. Probabilmente, tutte queste deviazioni mentali non appartengono al tessuto narrativo di un film che, però, è in grado di chiamarle e di suggerircele. In questo straordinario dialogo con il fuori campo e con il non detto risiede il potere trascendentale di Western Stars. Nella storia della ragazza del New Jersey che ha ridotto il nostro cuore a pezzi è impossibile non trovare una parte di un passato che ci ha costretti alla fuga a bordo di un’auto che continua a macinare chilometri su chilometri, in attesa di giungere a casa. Probabilmente, però, non esiste nemmeno una vera casa ma soltanto attimi durante i quali riflettere su tutto ciò che abbiamo perso e che non c’è più, ma che continua a far sentire la sua presenza dall’aldilà.

Ciò che rimane di questa ballata sono gli scarti e gli imprevisti, l’ampiezza e la profondità della casualità, la vertigine degli attimi da cogliere. Perché, se una casa non esiste più, è ancora possibile danzare sotto le stelle del nostro destino e lasciarsi andare a un viaggio immaginario che potrebbe rapirci senza riportarci indietro. Oz non è mai stato a tal punto struggente e privo di steccati come in questo Western Stars, che offre il proprio corpo a qualsiasi lettura possibile.

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Thom Zimny Bruce Springsteen Bruce Springsteen Patti Scialfa 83 minuti
USA 2019
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Adoration

di Emanuele Di Nicola
Adoration di Fabrice du Welz

Ormai non c’è dubbio: l’amore è al centro del cinema di Fabrice du Welz. Ma non è un amore tradizionalmente inteso, quello spirito romantico cine-letterario che dispensa sospiri: la sua è un’indagine sull’amore deforme, il tainted love, per sondare fin dove può spingersi l’estremizzazione malsana del sentimento. Ecco allora che si chiude la trilogia delle Ardenne iniziata con Calvaire (2004), e dopo Alleluia (2014) arriva Adoration: dopo un’invocazione arriva un’adorazione, appunto, con i due titoli che dialogano intimamente tra loro. Presentato prima a Locarno e poi alla Festa del cinema di Roma nella sezione parallela Alice nella città, Adoration è la storia di una fuga d’amore: il dodicenne Paul (Thomas Gioria, quello de L’affido), figlio di una dottoressa in un ospedale psichiatrico, si innamora di Gloria (Fantine Harduin, quella di Happy End: in un ruolo - anche qui - in dialogo col film di Haneke), una giovane paziente che sembra avere disturbi mentali, anche se lei nega. È l’inizio di una breve conoscenza che istituisce un contatto emotivo tra i due: quando una dottoressa li sorprende insieme, però, Gloria la spinge giù dalle scale lasciando così intravedere la sua vera natura. La ragazza convince Paul: la accompagnerà per la campagna belga, per centinaia di chilometri, fino alla casa dei nonni che nella sua mente è l’unico rifugio possibile. I due scappano.

Il precedente Alleluia inscenava la parabola di una coppia criminale, tratta da una storia vera: l’infermiera Gloria (ancora) che incontra Michel rispondendo all’annuncio su una rivista. Da ipotetica vittima si trasforma in complice dell’uomo, specializzato in truffe contro donne sole: di volta in volta, però, Gloria è incapace di sopportare la gelosia e decide di uccidere le prede di Michel, configurando i due come la classica coppia assassina. Adoration lavora sullo stesso terreno, ma opera un ribaltamento dei ruoli: se lì era l’uomo a dominare e la donna a spingersi oltre per amore, qui è invece la ragazza l’elemento forte della coppia, il punto trainante, e il ragazzo è colui che viola le regole per seguirla. Dove può arrivare l’amore? Per l’autore è chiaro: Amore (con la maiuscola) non conosce i limiti della morale e ridisegna quelli dell’etica. Così seguiamo il movimento degli amanti criminali, che ricordano da vicino il film di François Ozon del 1998 (Les amants criminels: Alice che convince Luc a eliminare un amico - uguale - e i due che si gettano nel bosco - uguale). Quella tra Paul e Gloria si presenta quindi come un’altalena emozionale: tra momenti di profonda tenerezza ed esplosioni di paranoia e follia, il giovane asseconda la ragazza in un rapporto fatto di alti e bassi, di incomprensioni e slanci, di passi avanti e indietro. Ma c’è un punto fermo: “È la mia ragazza” dice Paul, ponendo questa essenza come regola statutaria, ferrea ed intoccabile. Cupido ha già scoccato la sua freccia.

Il cinema di Fabrice du Welz non si può però costringere nell’ameno recinto della “storia”. La grandezza del racconto del quarantasettenne belga è infatti soprattutto nell’immagine: girato in uno sporco e terrigno 16 mm, il regista e il direttore della fotografia Manuel Dacosse si lanciano letteralmente all’inseguimento dei protagonisti, vanno loro dietro, insieme si immergono nell’acqua e rotolano nel fango. Così l’ossessione amorosa si fa tangibile, si ritrova nei contatti tra i due, nelle distanze e negli avvicinamenti, nel mondo intorno. E così l’avanzare della storia diviene una miniera di istanti allegorici: basti pensare alla prima apparizione di Gloria, mostrata in soggettiva di Paul che si trova davanti il suo viso ingrandito dopo un capitombolo, con un effetto deformante che già propone la ragazza - bella e pericolosa - come una fata del male; oppure ai giovani in canoa che si immergono nella nebbia del fiume in una sorta di Stige, magnifico quadro pittorico tipico del cinema duwelziano.

Fondamentale è poi il personaggio interpretato da Benoît Poelvoorde, che gli amanti incontrano prima di arrivare alla scelta definitiva. Vedovo eremita che ha lasciato la società per osservare una specie di uccelli che vivono sempre in coppia, la sua figura offre l’ipotesi di una dimensione trascendente e conduce Paul al gesto finale: realizzata la follia di Gloria, appurata la sua malattia, l’abbandono sembra la soluzione più sensata. Ed è proprio qui che du Welz ribalta le attese, spacca l’etica convenzionale e lancia la sua provocazione: perché Gloria si può solo adorare.

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Fabrice du Welz Thomas Gioria Fantine Harduin Benoît Poelvoorde 98 minuti
Belgio
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Judy

di Matteo Marescalco
Judy - Recensione Film Goold

Come quella di Judy Garland negli anni ’50 del secolo scorso, anche la carriera di Renée Zellweger ha subito una brusca interruzione tra il 2009 ed il 2016, periodo durante il quale l’attrice che ha prestato il volto alla celebre Bridget Jones è stata ostracizzata dal mondo hollywoodiano. Per tale ragione, i motivi di interesse nei confronti di un film che avrebbe potuto dar vita ad un cortocircuito tra la vita delle due interpreti, e costruire un dialogo relativamente agli aspetti privati e pubblici della loro esistenza, promettevano bene.

Judy di Rupert Goold prende in esame l’inizio e la fine della carriera della Garland, escludendo tutto ciò che è compreso tra la promessa fattale da Louis B. Mayer («Tu hai una voce che potrebbe portarti ad Oz») e la fine della carriera. Questa scelta di escludere la (sua) vita dal tessuto narrativo del film ha delle naturali conseguenze sul suo sviluppo. Perché ciò che più manca in Judy sono proprio il cuore e l’anima. La Garland arriva a Londra durante l’inverno 1968. La voce non è più quella di una volta e l’attrice versa in pessime condizioni economiche. A ciò si aggiunge la drammatica fine dell’ennesimo matrimonio, un feeling difficile con il pubblico ed i traumi dell’infanzia che non l’hanno mai abbandonata.

Per certi versi, questo film diretto da un regista teatrale somiglia molto a Seberg, presentato in anteprima in occasione dell’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Entrambi, infatti, sono costruiti sui corpi scenici delle loro protagoniste con l’obiettivo non tanto velato di lanciare Kristen Stewart e Renée Zellweger verso la nomination agli Oscar. Mentre, tuttavia, l’interpretazione della prima funziona e salva dal tracollo la semplificazione applicata al film da Benedict Andrews, la medesima cosa non vale relativamente alla seconda performance. Sotterrato da una quantità esagerata di make-up, il volto della Zellweger finisce per somigliare ad una creazione gommosa priva di vitalità e a scomparire sotto il peso di innumerevoli faccette che provocano il solo risultato di rendere poco credibile lo sforzo attoriale.

Ogni aspetto potenzialmente provvido di sfaccettature melodrammatiche è trattato superficialmente e la sensazione che si ha è quella di una svogliata partita a tennis in cui ogni atleta segue puntigliosamente il compitino che gli è stato affidato, senza lasciare spazio al coraggio di osare. È un vero peccato che non ci sia mai spazio per il sogno né tantomeno per un adattamento che trovi la forza di uscire dai rigidi confini del biopic tradizionale per abbracciare lo spettro di un’infanzia irrimediabilmente perduta. Judy non riesce mai a penetrare veramente l’infernale incanto del mondo di Oz e dello spettacolo hollywoodiano e, in tal modo, non riesce a restituire alcunché a uno spettatore che perde rapidamente interesse nei confronti di questo cinema compassionevole che, in fin dei conti, assolve di continuo sé stesso e seppellisce i propri demoni.

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Rupert Goold Renée Zellweger Bella Ramsey Rufus Sewell Michael Gambon Andy Nyman 118 minuti
Regno Unito 2019
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Waves

di Matteo Berardini
Waves recensione film

Ci sono film che riflettono sulle dinamiche dello sguardo contemporaneo, ponendosi domande e mettendo in evidenza criticità e contraddizioni insite nell’atto di creare (e vivere) il cinema oggi. Ci sono film invece che bypassano ogni prospettiva intellettuale per vivere direttamente quello sguardo, assorbendo i fattori che determinano oggi il rapporto tra le nuove generazioni e le loro immagini per riproporli senza filtri sullo schermo, nutrendosene in quanto nuovi elementi di costruzione di un racconto. Waves di Trey Edward Shults (già autore del valido It Comes at Night) è uno di questi film, un’opera che vive di impostazioni Instragram e chat su smartphone senza farsi mai ipermediale. Non c’è collage di linguaggi diversi in Waves, non ci sono inserti social, messaggi in sovrimpressione o estratti di video digitale; al loro posto troviamo immagini che sono figlie naturali dell’iconosfera social e rappresentazione diretta, disincantata, del dispositivo colto nel suo uso quotidiano – compresa la dimensione drammatica, non a caso nel film diversi degli snodi narrativi principali sono affidati a chat tra i protagonisti. Da questo punto di vista Waves è un film necessariamente successivo alla convergenza tra immagine e portabilità digitale, quando ormai nuove generazioni sono nate e cresciute in un diverso orizzonte mediale e non serve più lavorare sulla schizofrenia dei linguaggi e la crescente porosità del confine tra reale e rappresentazione – un approccio, per chiamare in causa uno dei primi film dedicato all’argomento, a là Redacted. Non a caso la storia raccontata da Shults è un dramma giovanile fatto di amori liceali, pressioni famigliari e violenza incancrenita, ma anche di rinascita e apertura e confronto con la fine per maturare e scoprirsi adulti. Un racconto di formazione circolare, scandito da un progressivo chiudersi e riaprirsi del formato dell’immagine e diviso in due parti, in cui la prima appare la più stilizzata, aggressiva e strettamente contemporanea, mentre la seconda cerca nei suoi intenti catartici di ricucire lo strappo con la classicità del racconto cercando una sintesi di passato e presente che possa valere tanto a livello narrativo quanto a livello di linguaggio.

Al centro del racconto troviamo due fratelli, Tyler ed Emily, nuova generazione di una famiglia di colore arrivata al benessere altoborghese ma ancora carica di tensioni. Il padre dei due ragazzi è un modello famigliare forte, non violento dal punto di vista fisico ma certamente pressante, severo, attento a ricordare al figlio come la sua condizione black lo renda sempre un elemento vulnerabile del tessuto sociale. Bersaglio di aspettative e attenzioni costanti, Tyler cerca comunque di vivere la sua adolescenza con maggior naturalezza possibile, consumando molti di quegli elementi di autorappresentazione black che oggi conquistano status e spazi maggiori nella scena culturale americana. Zazzera ossigenata come il Frank Ocean di Blond, Tyler si muove tra le nuove forme di r&b e il pop di Pharrell Williams, e con lui si muove trasversale lo sguardo di Shults, bravissimo nel calarsi in una dimensione socioculturale che non lo rappresenta direttamente ma di cui, evidentemente, riesce a parlare i linguaggi e le emozioni. È soprattutto la forza emotiva il miglior pregio di Waves, una capacità rara di evocare sentimenti importanti e complessi con un’estetica sì contemporanea e giovane ma ben lontana dalle soluzioni prefabbricate e in serie che dominano ormai tanto cinema indie americano. Shults piuttosto sembra guardare alla realtà e ai suoi protagonisti allo stesso modo di Xavier Dolan, non solo per il ricorso espressivo alla variazione di formati visto già in Mommy, ma anche e soprattutto per la naturalezza con cui il racconto si assembla a partire dalle forme base della cultura pop vissuta dai protagonisti. Quello di Mommy e Waves è davvero un cinema figlio del suo tempo, lì gli anni Novanta e qui i nuovi anni Venti, e poco importa se il film di Shults funziona a corrente alternata, a volte costretto dalla sua stessa struttura a manipolare le necessità del racconto, intrappolando i personaggi e le loro evoluzioni in un discorso circolare a priori. La forza e l’impatto emotivo del film ne escono comunque intatti, a volte strazianti, e davvero in linea con lo sguardo dei suoi giovani, nuovi spettatori.

Categoria
Trey Edward Shults Kelvin Harrison Jr. Lucas Hedges Taylor Russell Alexa Demie Renée Elise Goldsberry Sterling K. Brown 135 minuti
USA 2019
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Honey Boy

di Matteo Berardini
Honey Boy - recensione film shia labeouf

Amare ma non essere in grado di vivere il proprio amore. Darsi, sacrificarsi, eppure continuamente cedere, perdere di fronte la rabbia, il risentimento, il dolore che non conosce argine e cerca piuttosto di propagarsi, spezzare tutt’attorno, moltiplicarsi come un’entità vampiresca che propaga l’abuso. Ci sono figure personali che falliscono e continuano a fallire, persone chiamate dalla vita a ricoprire un ruolo che non riesce a determinarle, educarle, e che anzi in quello spazio trovano un luogo di contaminazione che rischia di alimentare un effetto domino, un passaggio inter-generazionale di disfunzionalità e sofferenza. Perché anche il dolore necessita dei suoi anticorpi, globuli bianchi ed enzimi vitali che assorbiamo crescendo e ci aiutano a vivere, a gestire le difficoltà della vita.
Cronaca vuole che a una baby star come Shia LaBeouf, divo dello show business Disney già a dodici anni, questo passaggio sia mancato, sostituito da un’infanzia e adolescenza condivise con un padre violento ed ex tossico, innamorato certo di suo figlio ma incapace di dare spazio a quell’amore. Da quest’esperienza il giovane Shia esce sulla cresta dell’onda mediatica, volto di blockbuster di grido ma anche persona spezzata, traumatizzata, sola in un’alienante routine cinematografica e afflitta da quello che, giunto il capolinea del centro di riabilitazione, viene definito senza mezzi termini disturbo da stress post-traumatico. Da quest’esperienza di rehab, pausa forzata imposta dalla giustizia americana ma anche inizio di uno scavo interiore non più rimandabile, LaBeouf ricava la forza per confrontarsi con il passato e dare forma di sceneggiatura al suo dolore, ai ricordi e ai traumi, all’amore dato, ricevuto, sprecato, portando lo strumento del cinema al massimo livello di introspezione. Honey Boy non è altro che questo, un processo di autoanalisi per dare forma al dolore e sviluppare da sé un sistema immunitario atto a gestirlo; LaBeouf scrive la sua storia e impersona suo padre, cercando negli strumenti immedesimanti della recitazione quel contatto che prima mancava.

Gioca a carte scoperte LaBeouf, strutturando il suo Honey Boy su due piani temporali. Il primo, più vicino a noi, nasce da un momento di rottura: il doppio adulto di LaBeouf (ribattezzato Otis Lort e impersonato da Lucas Hedges) è un attore di blockbuster costretto dal tribunale ad andare in clinica, dove inizia un percorso che apre le porte della memoria e prende forma di progetto cinematografico; il secondo, in flashback, è il farsi di quel film immaginato e la ricostruzione del periodo più buio vissuto dal piccolo Otis assieme a suo padre, un campo minato di esperienze limite in cui il protagonista deve confrontarsi con le mancanze, gli eccessi e la violenza (fisica e psicologica) di una figura paterna che tenta ma continuamente fallisce.

Sa emozionare e coinvolgere Honey Boy, opera a cuore aperto che nasce da un’esigenza personale ma riesce a parlare una lingua universale, evocando sentimenti intimi e assieme collettivi insiti nel rapporto padre-figlio. La vita di Otis da piccolo – incarnato da Noah Jupe, sorprendente e vera acqua della vita del film – è un costellarsi di promesse strappate e mai mantenute, dolcezze mancate o scoperte in posti inaspettati, come la breve, intima parentesi con l’anonima vicina di casa impersonata da FKA Twigs. LaBeouf, che si occupa in solitaria della sceneggiatura mentre affida la regia all’amica e autrice di video-arte Alma Har'el, cerca di dosare l’evocazione della sofferenza e la necessità di aprirsi alla grazia, alla bellezza ricercata dal piccolo Otis, ma il film non sempre trova l’equilibrio necessario a rendere giustizia a entrambi gli sguardi in gioco, come se – e in fondo giustamente – l’evocazione del passato personale fosse una pulsazione irregolare troppo dolorosa mentre il punto di vista del padre di Otis conservi una cifra di intimità insondabile, inconoscibile. Ma a pesare soprattutto sul film, e sul suo potenziale di racconto sincero e disarmante, è il fatto che il suo tessuto visivo sia impregnato di un’estetica indie preconfezionata e già testata a tavolino, come se la materia narrata fosse un magma talmente incandescente da necessitare un inquadramento stilistico il più possibile riconoscibile, rassicurante. Tuttavia il discorso portato avanti da LaBeouf è chiaro, e prende di petto le questioni dell’abuso e della dipendenza senza spettacolarizzare mai il dolore: a un certo della propria vita si arriva a un bivio, in cui o si iniziano ad affrontare i propri demoni interiori o si soccombe a essi, perdendo in umanità ed empatia un tassello alla volta. In questo senso appare inevitabile, per quanto meccanicistica, la scelta da parte dell’attore di calarsi nei panni di suo padre, portando al limite questo strumento cinematografico di rievocazione e superamento del trauma con il quale tentare di spezzare l’eterno ritorno. Il risultato è un dialogo che concilia necessità personali e cinematografiche, comunica con il suo pubblico e parla in modo sincero la lingua dell’infanzia. Al netto di tutto, non è poco per un confronto con i propri fantasmi.

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Alma Har'el Shia LaBeouf Lucas Hedges Noah Jupe FKA Twigs Martin Starr9 93 minuti
USA 2019
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Larghezza massima

Rewind

di Veronica Vituzzi
Rewind - recensione film

La telecamera è sempre stata presente nella memoria di Sasha Neulinger: per tutta la sua infanzia il padre non ha mai smesso di trovare un buon motivo per effettuare una ripresa, fossero feste di compleanno, partite di hockey o qualunque occasione per stare insieme ai parenti. D’altra parte non è una pratica comune conservare i ricordi gioiosi di una famiglia in video e fotografie? Ma ciò che sembra una raccolta infinita di sorrisi e battute verso la camera diviene in Rewind la chiave nascosta di una storia vera tragica e disturbante, raccontata dallo stesso Sasha ora adulto, qui protagonista, intervistatore e autore del proprio percorso filmico a ritroso nel tempo.

I nastri video del padre Henry nascondono, come minuscoli indizi di un’indagine, i sintomi impercettibili di un disagio latente. Sasha bambino inizia ad avere strane reazioni, scatti rabbiosi o esagitati verso i genitori e la sorella, il volto infantile deformato da smorfie grottesche e spaventate.  Qualcosa non va chiaramente, né in lui né nei filmati di questa famiglia apparentemente felice che recita la serenità e il divertimento davanti alla camera. Sono dettagli minimi, impossibili da cogliere se non al rallentatore: la carezza furtiva di un parente, uno sguardo abbassato a terra, una risata troppo isterica per essere genuina.  La verità è tutta lì, evidente ma indecifrabile.

Ciò che Rewind rivela riavvolgendo il nastro indietro è una devastante storia di abusi, perpetuata come un gene malefico di generazione in generazione: Sasha abusato come la sorella dai due zii e dal cugino fin dalla più tenera età; il padre e il fratello minore abusati dal fratello maggiore; il cugino stupratore a sua volta abusato da piccolo. Sarà Sasha il primo a spezzare la catena, rivelando le violenze subite e chiedendo giustizia in tribunale. Il suo film è la reiterazione visiva di quella coraggiosa confessione, e nasce dall’urgenza di imprimere su immagine la verità e la denuncia dei fatti, facendo i nomi dei violentatori e descrivendo passo per passo non solo i propri abusi ma anche quelli vissuti dal padre da piccolo.

Da questo punto in poi Rewind trascende ogni giudizio critico, perché il suo obiettivo non è quello di essere un’opera ben fatta né di conquistare lo spettatore, ma semplicemente raccontare ogni cosa nei minimi dettagli, anche a costo di risultare respingente o disturbante, sbattendo la verità sullo schermo per tramandarla di spettatore in spettatore e facendo così dell’immagine filmica l’antidoto all’abuso che tanti bambini violentati portano con sé, diventando spesso da grandi a loro volta pedofili. Perché il padre di Sasha non aveva mai detto una parola su ciò che aveva vissuto nella propria infanzia, arrivando a far interagire con assoluta tranquillità i propri carnefici coi figli piccoli? L’ammissione arriva candida e colma di vergogna: non sapeva di aver subito una violenza sessuale. Non sapeva nemmeno di cosa si trattasse, né che potesse riguardare altri oltre a lui. La soluzione proposta da Rewind al riguardo è semplice: parlare della violenza sessuale, parlane a ogni costo, cercare interlocutori – in questo caso, lo stesso pubblico – abbattere lo stigma del silenzio e dell’omertà.

È importante notare che come Henry padre si mette dietro la telecamera per porre un filtro fra lui e la realtà, filmando ossessivamente senza mai vedere realmente cosa quei filmati nascondevano, Sasha diviene regista per entrare epidermicamente a contatto con quella realtà dolorosa. Rewind è racconto confessionale, nuda rivelazione, ma anche denuncia definitiva, soprattutto del ruolo dello zio Howard, il primo a iniziare il ciclo delle violenze sessuali. Un uomo anziano colpevole di atti atroci, e pur tuttavia oggi persona libera e stimata: e allora, laddove la giustizia non riesca a fare il suo corso, che ci pensi il cinema. D’altra parte, se per Sasha la narrazione della propria storia è la definitiva catarsi da un passato che per primo è stato impresso da una telecamera e oggi torna svelato ancora una volta entro uno schermo, è proprio perché al cinema è qui affidato il ruolo finale, potentissimo e supremo, di farsi portavoce incontrastato del vero anche quando tutti vogliono nasconderlo e reprimerlo. Ora tocca solo agli spettatori saper guardare, e saper ascoltare.

Categoria
Sasha Neulinger 87 minuti
USA 2019
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