Rambo: Last Blood

di Saverio Felici
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Rambo: Last Blood arriva in scia a Creed come prosecuzione di quel percorso elegiaco da anni portato avanti sulla filmografia di Sylvester Stallone.
Un percorso che a modo suo ha segnato l'ultimo decennio dell'autore. A seguito del calo critico degli anni '90 e 2000, Sly ha infatti scoperto forse per la prima volta il vissuto dietro l'individualismo trionfante di cui per trent'anni era stato poeta e portavoce; come una nostalgica Gloria Swanson dell'action, a partire da Rocky Balboa Stallone ha (ri)cominciato a portare il proprio pubblico dietro il sipario, in una serie di film a cuore aperto capaci di ridurre a zero la già labile linea di separazione tra artista e personaggio.
Dall'autobiografia libera dei Rocky/Creed all'autoironia decostruzionista e post-tutto degli Expendables, il re del cinema escapista (che davvero escapista non è stato mai) si è riscoperto autore generazionale. Da parodia è tornato idolo, con tanto di agognata "legittimazione critica" da parte dello star system.
L'ultimo sangue, in tutto ciò, pare però un oggetto fuori posto. Il cerchio di John Rambo, in fondo, era già stato chiuso nel 2008 dal film omonimo. Quello che il 2019 fa è piuttosto riaprirlo, con una rabbia insospettabile e la mano fuori controllo del low-budget più truce.

Al termine del film del 2008, la dannazione esistenziale del militarismo USA incarnato sembrava finalmente espiata. Il primo campione e prima vittima del sistema che rappresentava (cos'è fondamentalmente Rambo se non la versione militare e americana, più che di Rocky, dell'Ivan Drago nel magnifico Creed II?) era dunque tornato a casa. Dopo una vita a rifuggire e corteggiare i fantasmi della guerra, in Vietnam, in Afghanistan e in Birmania, l'eroe tornò dove tutto era cominciato: nella vecchia e diroccata tenuta di campagna che da Skyfall in poi sembra essere diventata l'utero figurativo di tutti i vecchi eroi del Novecento in dismissione.
Dunque, cerchio chiuso. Quello che Last Blood fa appare come un controsenso: anziché mettere il punto, rilancia, con un corollario che più che di epilogo sa di reboot. Ed ecco che la figlia putativa di John, giovane latinoamericana cresciuta nella fattoria e ora adolescente, decide di partire per il Messico alla ricerca del padre fuggitivo. Tempo venti minuti in un generico oltrefrontiera che neanche Gotham City, finirà rapita, drogata e coinvolta in una tratta delle bianche gestita da un aspirante càrtel di brutti ceffi locali. E' il trigger: un Rambo settantenne emergerà dalla magione di ricordi e fucili e canzoni dei Doors (un macabro mausoleo del 1969 più vicino alla Casa dei Mille Corpi di Zombie o a quella di Hooper che alla base di un eroe), e romperà il suo esilio per spazzare via una nuova indisciplinata minaccia etnica.

Rambo: Last Blood arranca lentissimo, claudicante, con l'andamento atrofizzato del suo ottuagenario protagonista, attraverso un'ora di infinita premessa poliziesca, atta a fornire a Rambo un motivo valido per tornare in scena e giustificare così la fondamentale mezzora conclusiva. In vista di ciò, Sly-scrittore si appoggia al consueto corteo di archetipi e stereotipi offensivi, buoni come leva di sceneggiatura per scatenare il grottesco killing spree finale di un eroe ormai definitivamente mutatosi in creatura horror.
E' questa forse la chiave di lettura più forte di Last Blood, ed è un peccato che né Sly né il regista-marionetta Adrian Grunberg sembrino rendersene conto. Questo Rambo, cronologicamente e fisicamente lontano dall'inferno del suo mondo, è oggi un oscuro energumeno che affila machete in una catapecchia dell'Arizona: un immagine più vicina a Leatherface che ad un'ex icona dell'eroismo militare USA. Quando John vince la propria ritrosia e abbraccia "il cuore nero del mondo", è difficile credere che ciò avvenga con dolore e rimorso: il moscissimo film decolla quando decolla la violenza, ed esplode con un gusto per lo splatter che mal si coniuga con il travaglio interiore del protagonista. A maciullare i cattivi, Rambo sembra divertirsi un mondo. E di sicuro ci divertiamo noi: è forse questo il controsenso atavico iscritto nel DNA di questa saga e di questo personaggio, un folle traumatizzato che racconta gli orrori della guerra mentre sfonda crani per il tripudio della sala. Ma Sly e compagni amano troppo John per affrontare una lettura del genere (capiamo qui quanto fu importante lo sguardo giovane e combattivo di Ryan Coogler in Creed) e continuano così a venerare ed esaltare un protagonista, che ora più che mai, assume i contorni del mostro.

Rispetto all'ovvio paragone di Rocky, il problema di Rambo: Last Blood è che il suo eroe mal si presta a questa narrazione elegiaca. Da un punto di vista figurativo come cinematografico, Rambo non vive all'infuori della giungla, della guerriglia, delle esplosioni. Il veterano del Vietnam e di tutte le guerre USA non può reincarnarsi in una banale fantasia poliziesca: riportare Rambo ad un contesto "realistico" ne riduce la maschera a generico epigono di un Taken qualunque. Troppo tardi e troppo poco per un'icona di importanza storica incalcolabilmente superiore.
A differenza di quelle opere recenti dell'autore che sembravano espandere i propri universi verso nuove cerchie di pubblico, Last Blood si rivela dunque un film per fan. Il Rambo 2019 è un b-movie che guarda agli appassionati, i quali aspettano e si aspettano riferimenti precisi e inquadrature calcolate per il loro idolo. Lo sa anche Sly, ed è su questo feticismo (di un arco, di una cicatrice, di una canzone) che incentra il suo film. Quella di Last Blood è una piccola storia per un piccolo prodotto. Un ritorno fuori tempo e fuori dal tempo, riemerso dal sottosuolo per compiacere un vecchio pubblico, e scandalizzare il nuovo millennio.

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Adrian Grunberg Sylvester Stallone Yvette Monreal Paz Vega Adriana Barraza Sergio Peris-Mencheta 89 minuti
USA 2019
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Burning - L'amore brucia

di Matteo Berardini
burning recensione film lee chang dong d

«L'unica cosa di cui ci si può sentire in colpa è cedere terreno riguardo al proprio desiderio»
Lacan

Tutto brucia.
Desiderio, appetito, sogno, ossessione. Spettri. Siamo tutti ossessionati da spettri, dai fantasmi di ciò che siamo stati e abbiamo vissuto in passato, dai fantasmi di ciò che inseguiamo e bramiamo per il futuro. Posseduti da forme virtuali che non sono qui, nel tessuto fisico del presente, ma agiscono e generano conseguenze come se fossero reali. Per il pensatore Jacques Derrida questa “presenza dell’assenza” prende il nome di hauntologia, in un gioco di parole che fonde il termine ontologia (studio dell’essere in quanto tale e delle sue caratteristiche essenziali) con il verbo inglese to haunt (infestare, ossessionare). Il neologismo compare nell’opera Spettri di Marx e serve a sottolineare come ogni entità esista sulla base delle assenze che la precedono e la seguono; le nostre vite quotidiane con tutte le loro pulsioni e insoddisfazioni, desideri e angosce, sono circondate da fantasmi, un’infestazione che agisce sul qui e ora dalle due direzioni tracciate da ciò che non è più (e il cui effetto permane posticipato come esperienza, trauma, rimorso) e da ciò che ancora non è (il precipitare sull’oggi di aspettative, desideri, sogni). Tratto da un racconto breve di Haruki Murakami (a sua volta elaborazione di una storia di Faulkner, entrambi mantenuti come modelli), Burning – L’amore brucia è uno dei film che meglio racconta la cifra contemporanea di questa “causalità spettrale”, mettendo in scena un triangolo di personaggi scissi tra alienazione quotidiana e fame di vita, intenti a cercare un posto nel mondo nonostante il loro orizzonte sia infestato da assenze e fantasmi, passati e futuri.

Arma potente l’immaginazione. Può creare e disfare, alterare il reale e mistificare il vuoto. Gesti e sguardi se ben controllati trasformano l’aria in qualcos’altro, creano mandarini, gatti, omicidi. Ce lo insegna il personaggio di Hae-mi, ragazza insoddisfatta dal proprio lavoro che viaggia appena può e intanto studia pantomima, l’arte di fingere che vi sia ciò che non c’è. «Il trucco è dimenticare che i mandarini non ci sono», dice al suo ex compagno di scuola Jong-soo, aspirante scrittore che la derideva da bambino e la desidera da adulto, e che vive come in una bolla nella casa di campagna del padre, ora in carcere per un’accusa di aggressione. I due giovani si ritrovano, riprendono a conoscersi e vanno a letto assieme, ma dopo un viaggio di lei compare un terzo elemento a ricalibrare il quadro, il ricco e fascinoso Ben, serafico uomo d’affari che sembra il figlio prediletto della nuova economia coreana. Pezzo grosso dell’import-export si definisce lui, è un Gatsby dalle ricchezze misteriose per lo sguardo letterario di Jong-soo. Da qui, tra i tre personaggi viene a crearsi un rapporto ambiguo, in cui desideri, pulsioni e paure crescono come fiumi carsici e invisibili, emotività che assediano ogni gesto senza esplodere (quasi) mai.
Tra il thriller e il melodramma, Burning costruisce un racconto rarefatto che come le superfici più glaciali non può essere sfiorato senza che ci si resti in qualche modo attaccati. In questo senso il sesto film di Lee Chang-dong compie il miracolo di asciugare e congelare la sua materia, narrativa e stilistica, arrivando a un cuore selvaggio che brucia e lascia segni nel cuore e nella mente. Un risultato che il regista coreano – già autore di film straordinari come Poetry – raggiunge attraverso una sceneggiatura che bilancia magistralmente il dentro e il fuori campo, e grazie a un controllo stilistico che ha dell’incredibile. Tra i tanti momenti memorabili è impossibile non citare la lunga scena al crepuscolo nella casa di campagna di Jong-soo, un confronto che evolve in una danza tribale accompagnata dalle ultime luci del giorno, momento lynchiano da cui traspare tutta l’evanescenza del mondo e di questi personaggi, ai cui piedi sembra quasi di veder aprirsi una piccola scatoletta blu, da cui emergono i toni della paranoia e del thrilling che da quel momento domineranno sempre più il racconto.

burning recensione film lee chang dong

Nel suo Spettri della mia vita, Mark Fisher recupera il concetto derridiano di hauntologia e lo mette in relazione alla lenta cancellazione del futuro, che nelle sue riflessioni si lega alla retromania della nostalgia postmoderna e diventa uno dei caratteri perspicui del vivere contemporaneo. Burning non è un film apertamente politico o teorico, se ne tiene ben lontano, eppure la sensibilità registica di Lee Chang-dong permette a questo triangolo di personaggi di diventare cartina tornasole di un momento storico in cui l’individuo è assediato da quelle condizioni di liquidità e alienazione che ben conosciamo, e che sono tipiche di quella che è stata definita logica culturale del tardo-capitalismo. L’insoddisfazione e l’angoscia sono palpabili ma per gran parte del racconto senza forma, come virtuale resta la tensione conflittuale tra Jong-soo e Ben, o la pulsione distruttiva e riequilibrante di quest’ultimo. Quel che si crea in questo rapporto a tre è un grumo invisibile eppure concretissimo, che si nutre di disparità classiste, compulsioni libidiche e bisogno disperato di trovare il proprio posto nel mondo, soprattutto se quel mondo è una landa post-ideologica priva di strutture sociali, economiche o di pensiero che possano fare da supporto e humus alla costruzione di un senso di sé. È il furto del futuro e il dominio dell’assenza, di ciò che è stato e che un tempo poteva essere, a rendere Burning un film impalpabile e assieme estremamente contemporaneo, urgente, capace di raccontare attraverso l’assenza di forme retoriche evidenti tutto il disagio e la non-realizzazione di questi tempi fuor di sesto.

«Non c’è giusto o sbagliato ma solo la moralità della natura» dice Ben a Jong-soo nel momento in cui confessa al ragazzo la sua passione piromane – o quello che, metaforicamente, rappresenta. Ben è l’unico dei tre protagonisti in grado di sfuggire all’assedio del virtuale e di afferrare il presente ricavandone certezze. Jong-soo dal canto suo deve accontentarsi invece dei riflessi di luce che una volta al giorno arrivano nella stanza di Hae-mi, spiragli di un mondo che si estende oltre le vetrate a specchio di una torre e che resta irraggiungibile. Per lui forse solo l’arma dell’immaginazione può funzionare a scardinare questa condizione di causalità spettrale, affinché il fantasma delle cose assenti venga esorcizzato dal reale e il lutto di ciò che è stato, genesi creativa del nuovo che verrà, possa finalmente compiersi. Nel finale il suo gesto è simile a quello di Ben, altrettanto radicale, per quanto forse solo immaginato. Ma del resto realtà e finzione danzano e si scambiano di posto, e nel loro fondersi si spezza finalmente la stretta asfissiante del fantasma, la presenza dell’assenza. E cosa  purifica e azzera meglio del fuoco?
Tutto brucia.

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Lee Chang-dong Jong-seo Jun Yoo Ah-In Steven Yeun 148 minuti
Corea del Sud 2019
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Il colpo del cane

di Matteo Berardini
il colpo del cane recensione film risuleo

A Roma, sulle colline del Trullo, nel mezzo di quel pratone che si estende tra la Magliana e la Cristoforo Colombo, svetta un edificio dal fascino particolare; è la Torre Righetti, casino di caccia in stile neoclassico costruito nel 1825 e ormai abbandonato. Da lì oggi si gode di una vista non comune, un panorama che include le palazzine futuriste dell’Eur e San Paolo per arrivare fino a San Giovanni e Santa Maria Maggiore. Cinquant’anni fa, in quei prati di pascoli e sterpaglia, Pasolini lasciava vagare Totò e Ninetto Davoli nel suo Uccellacci e uccellini; oggi tocca a un giovane regista romano – diplomato del CSC e neanche trentenne – riscoprire quella vista e quelle mura, perché è lì che Fulvio Risuleo cala il suo Il colpo del cane, storia a incastro il cui triangolo di protagonisti – un trio di giovani precari ed emarginati sociali – si muove attorno alla Torre e attraverso i campi abbandonati che la circondano.

Già Guarda in alto, l’esordio al lungo di Risuleo dopo i due corti selezionati e premiati a Cannes (Lievito madre e Varicella), nasceva dalla necessità di guardare Roma da una prospettiva altra, un punto di vista inedito che permettesse alla narrazione di assumere atmosfere oniriche e allo spazio urbano di rinnovarsi facendosi contenitore attivo di storie. Lì erano i tetti e le mura della città a svolgere questo ruolo creativo, qui sono gli spazi western di Roma Sud, scorci dimenticati che Risuleo dissotterra e sfrutta per ridisegnare ancora una volta l’identità cinematografica di Roma. Guarda in alto lavorava in tal senso sul registro onirico del Gondry più fiabesco e lussureggiante, Il colpo del cane invece guarda agli elementi del cinema criminale di periferia – personaggi border, disagio sociale, un colpo da portare a compimento – ma popola la sua storia e i suoi spazi di personaggi fumettistici e stilizzati ricavandone un gesto eversivo, tra l’amaro e l’ironico. Viene in mente, guardando Il colpo del cane, il lavoro che il giovane regista romano, diplomato del Centro Sperimentale, ha dedicato ai quartieri più weird e nascosti di Parigi, quel Reportage Bizarre che  - nomen omen – svelava già un rapporto non usuale con lo spazio e le sue possibilità di racconto.

Nella cultura classica romana il futuro si prevedeva, tra le altre cose, con un lancio di tre dadi. La combinazione più sfortunata era quella formata da un triplo 1, e che veniva detta il colpo del cane; per la serie, se qualcosa può andare male fidati, andrà peggio. E in effetti Rana, Marti e Orazio non sono proprio personaggi che ispirano fortuna, per quanto a gravare su di loro sia più che altro quel meccanismo di emarginazione sociale e vaga depressione quotidiana che sembra precludere ogni alternativa all’arrabattarsi o alla delinquenza. In quest’orizzonte privo di possibilità la regola sembra essere quella, si perdoni il gioco di parole, del cane mangia cane, guerra tra poveri in cui ci si inganna e deruba a vicenda. Ma Il colpo del cane non vuole essere l’ennesimo spaccato di periferia urbana, e così alla creazione di nuovi spazi cinematografici segue anche lo svelamento di una struttura a ingranaggi in cui la storia parte, si ferma a metà strada e poi torna su sé stessa forte di un nuovo punto di vista, che andrà ad arricchire il lato umano e narrativo di quanto visto. Un gioco a incastri che sicuramente tradisce una certa difficoltà del regista a gestire la forma del lungometraggio – e la maggior impalcatura di scrittura che questa comporta – essendo di fatto il film l’incontro di due cortometraggi imparentati, ma che comunque rivela la volontà di attirare lo spettatore nelle maglie della commedia per poi condurlo altrove, spiazzarlo, offrendo nuove soluzioni che non si limitano a essere gioco ipertestuale ma tentativi di sparigliare le carte in quell’orizzonte altrimenti così asfittico e granitico qual è quello della commedia popolare italiana.

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Fulvio Risuleo Edoardo Pesce Daphne Scoccia Silvia d'Amico 93 minuti
Italia 2019
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Marghe e Giulia, crescere in diretta

di Arianna Pagliara
Marghe e Giulia crescere in diretta di Alberto Gottardo e Francesca Sironi

Margherita e Giulia sono due bambine di dodici e nove anni e vivono a Giugliano, in provincia di Napoli. La loro quotidianità sembra essere la stessa di molte coetanee: la scuola, i compiti a casa, una passeggiata, una gita al lago, un po’ di relax sul divano. Se non fosse che tutto ciò che fanno – andare al centro commerciale, mangiare una pizza, scartare un regalo – viene filmato e poi condiviso su youtube, dove le ragazzine hanno un canale (gestito dai genitori) che vanta più di trecentomila follower. Video che arrivano fino a due milioni di visualizzazioni, girati spesso dal papà che ha trasformato la cameretta delle figlie in un set cinematografico; fan che commentano a tutte le ore a volte con entusiasmo e a volte – invece – con astio e disapprovazione; e ancora fan che fermano le due bambine per strada sperando in una foto o in un autografo, come fossero piccole dive su un red carpet.

Prodotto da Somewhere studio e Sky Atlantic, Marghe e Giulia, crescere in diretta è stato realizzato da Alberto Gottardo e Francesca Sironi, registi che si avvicinano al cinema con alle spalle percorsi che riguardano, rispettivamente, la fotografia e il giornalismo. Di fronte a un soggetto come quello scelto dai due autori ci si sente inevitabilmente in difficoltà, quasi intimiditi. Da un lato è impossibile, a ben guardare, non porre in atto una (ulteriore) concreta invasione di quell’ambiente intimo e familiare che, sebbene volontariamente, si sottopone già a una continua sovraesposizione scopica. Dall’altro si comprende appieno l’urgenza di raccontare e approfondire un caso che trascende la sua singolarità per farsi segno e sintesi di fenomeni dalla portata molto più ampia e di estrema stringente attualità.

Tuttavia Gottardo e Sironi riescono a trovare, con naturalezza e agilità, l’unica chiave espressiva possibile per sviluppare questo non facile progetto: scelgono la più assoluta e attenta sospensione del giudizio, scelta che peraltro rende meno problematica la necessità di doversi muovere, inevitabilmente, dentro alla realtà rappresentata, in virtù della fiducia accordata ai registi dai “non attori” protagonisti, ovvero le due piccole youtuber e i loro genitori Luigi e Maria. È lo spettatore, dunque, che viene chiamato a vagliare con cautela e soppesare con cura questa resa fenomenologica di un reale che, pur se restituito semplicemente nudo e crudo a livello linguistico, resta tuttavia densissimo di implicazione sociologiche, se non psicologiche e – ovviamente -  etiche.

Del resto era il 1967 quando Jacques Tati, in Playtime, rinchiudeva il suo spaesato Monsieur Hulot in un appartamento-vetrina, ipotizzando uno sguardo spettatoriale che fosse teoricamente esterno ma praticamente interno, in nome di una totale, destabilizzante cancellazione del privato ormai all’ordine del giorno in una fredda e respingente Parigi futuristica. Se a questo si somma la capillare pervasività delle tecnologie contemporanee, dove, per forza di cose, come insegna McLuhan “il medium è il messaggio”, si arriva a un inevitabile cortocircuito. Il desiderio di migliaia di persone (è possibile non definirlo voyeristico?) di guardare una ragazzina che “piange a dirotto per 5 minuti” – questo il titolo del video più cliccato – stravolta dalla felicità per aver ricevuto in regalo un preziosissimo iPhone, si sposa perfettamente al desiderio (è possibile non definirlo narcisistico?)  che il “mondo” assista, certifichi e in un certo senso  renda questa felicità pubblicamente esibita più vera del vero.

Non vogliamo qui di entrare nel merito delle scelte genitoriali operate dai protagonisti del documentario – rispetto alle quali si aprirebbe un discorso infinitamente ampio, giustamente complesso - ma piuttosto di rimarcare il potenziale del cinema (documentario e non) come spazio essenziale di riflessione sul reale, poiché di fatto sa esserne insostituibile luogo di condensazione di segnali che rivelano cruciali mutamenti del sentire e anticipazioni dell’agire sociale.

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Alberto Gottardo Francesca Sironi 64 minuti
Italia, 2019
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Submergence

di Leonardo Gregorio
Submergence - recensione film wenders

C’è qualcosa, del cinema di Wim Wenders, che continua a stupire, perfino a commuovere, una misteriosa trasparenza  fuori tempo di questo cinema, una fede nel racconto del mondo, anche se il mondo sembra aver smarrito ogni senso plausibile, possibile, determinato. Quasi più nessuno crede in Wenders, ormai. Da molto. Wenders come «guru vieppiù convinto del proprio ruolo». «Un cinema che compiace, un cinema che fa sembrare intelligente e sensibile un pubblico di mediocri e colti benestanti, un cinema che è insieme scaltro e riduttivo e quasi sempre kitsch». Ecco, Fofi almeno, anni fa, la metteva in questi termini.  Oggi, spesso, il regista tedesco ha la volatilità di un post, è una battuta rapida, un’irrisione social (dunque brillante). Eppure, è difficile trovare qualcosa che assomigli alla verità che questo autore, ancora, anche nella sue involuzioni, nelle intuizioni e negli approdi meno esaltanti, continua a coltivare: una verità che può non coincidere con la credibilità, né ha pretese assolute o tantomeno assolutorie, piuttosto è una verità ideale, una verità in progress, sensibile, imperfetta, desiderabile. Submergence (era al Festival di Toronto 2017 e in pochi si sono accorti del suo passaggio nelle sale in Italia ad agosto di quest’anno) da tale punto di vista è emblematico. 

Tratto dall’omonimo romanzo di J.M. Ledgard, il film fa dei suoi due protagonisti i vettori di questa ricerca, affida tutto – anche quello che allo spettatore non è dato sapere –  al loro amore che circola nel tempo e nello spazio e al ricordo che pulsa costante, che consente loro di non capitolare. Una biomatematica ossessionata dai fondali oceanici, dalla vita senza luce, lei; lui, uomo dell’intelligence britannica. In Normandia, sulla spiaggia, si innamorano in un niente. Lui poi parte per la Somalia, lei per un’importante operazione sottomarina. James verrà catturato dai fondamentalisti islamici; Danielle arriverà in profondità. 

Un film insieme freddo e caldo, diviso tra una parte e l’altra, tra un prima e un dopo, unione e separazione tra lei e lui, tra la profondità e le superficie, l’acqua e la terra, il buio e la luce, lo spazio profondo e un’Africa tremenda, tra Alicia Vikander e James McAvoy. Un film che si alimenta di mélo e thriller sul filo perenne del pensiero, del ricordo che ricama il dettaglio, la parola, gli sguardi, la vicinanza e la perdita. Opera produttivamente pensata per il grande mercato, mentre l’occhio e la memoria ritornano per alcuni istanti a Jean Vigo;  film che si potrebbe vedere anche a ritroso, dalla fine all’inizio; che attraverso l’amore non terminato chiede al mondo di sottrarsi alla catastrofe. È un film che è fragile e stucchevole insieme, tanto collocabile, identificabile, quanto ingenuamente “scoperto”, rinchiuso in un “illusione” che si affida ai suoi personaggi senza bleffare mai, in un “come se” continuo, fluido: come se i personaggi potessero in ogni inquadratura auto-descriversi pienamente, attribuirsi sempre senso, colmare lacune, occupare il tempo, lo spazio, il sentimento, il loro, quello del mondo, quello del film.  Come se il cinema potesse bastare, sempre, anche quando in sommersione, in submergence appunto, portandosi dietro, dentro, al fondo, ogni traiettoria, ogni percezione, ogni gioco di riflessi, di scrittura, di montaggio, di porzione del mondo. Ecco, Submergence è l’evidente verità ideale, oggi, di Wenders, e ci dice che il cinema, anche quando “non funziona”, anche quando sbaglia, forse ha visto qualcosa che non abbiamo visto noi.

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Wim Wenders James McAvoy Alicia Vikander 112 minuti
Germania, Francia, Spagna, USA 2017
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The Boys

di Alessandro Gaudiano
The Boys – recensione serie tv Amazon Video

I supereroi sono ovunque. Al cinema, in edicola, tra gli scaffali dei giocattoli, nelle confezioni dei cereali. Li troviamo in casa nostra, alla TV, o come forme poligonali delle nostre fantasie digitali. Una mitologia pop pervasiva, anche troppo, che da tempo ha sviluppato i propri anticorpi in una ricca serie di parodie, critiche e decostruzioni. A corrodere la maschera di vigilanti in costume e superuomini disumani ci hanno già pensato Alan Moore, Frank Miller e molti altri; tra questi, troviamo anche il britannico Garth Ennis, che ha scritto il fumetto Preacher e, appunto, The Boys.

Dopo Preacher, anche The Boys gode di un adattamento web televisivo, distribuito ancora una volta da Amazon Prime Video. I Boys sono una squadra sgangherata che si occupa di lottare in segreto contro i supereroi e unita da un desiderio di giustizia o, più spesso, di vendetta. I supereroi tendono, in questo universo immaginativo, a militare tra le file dei cattivi. Molti di loro sono corrotti dall'eccesso di potere e di celebrità, mentre la loro immagine pubblica è attentamente costruita e controllata da dipartimenti di marketing e social media manager. I più famosi tra essi sono i Sette, eroi di interi generazioni e salvatori della patria con molti scheletri nell'armadio. Le vittime dei "danni collaterali" o delle brutalità dei supereroi sono costrette al silenzio o ai margini della visibilità pubblica. Hugh (Jack Quaid) è uno di questi: la propria ragazza gli esplode letteralmente tra le mani. "Hughie" viene reclutato da Billy Butcher (Karl Urban) per vendicarsi del torto subito; Billy è convinto che tutti i supereroi siano pericolosi e che vadano eliminati, ma la questione si complica quando Hugh si innamora di Starlight (Erin Moriarty), ragazza giovane e idealista che è appena entrata a far parte dei Sette.

The Boys, al netto di qualche difetto di scrittura, funziona. Funziona, prima di tutto, perché è ben confezionata e si attesta su una qualità visiva e un livello produttivo elevati. La scelta degli attori è tra le migliori che si potessero concepire; in particolare, Karl Urban e Antony Starr (nei panni dell'inquietante Homelander) danno alla serie un valore aggiunto inestimabile con le loro interpretazioni. La decostruzione dell'epica del supereroe non è, invece, nulla di nuovo, né lo sono l'umorismo nero o gli eccessi di violenza che contraddistinguono la serie (e che sono comunque temperati rispetto ai parossismi del fumetto). Se si trattasse solo di questo, potremmo definirla come una serie innocua e tornare all'azione sanguinosa di Preacher, alla comicità sguaiata di The Tick oppure ai film di Watchmen, Hancock o Kick-Ass.

Piuttosto, The Boys punta ad aggiornare questo discorso a dinamiche a noi più vicine, adattando il fumetto di oltre dieci anni fa ad un racconto televisivo adeguatamente ripensato per il nuovo formato e le dinamiche dei social network dei tardi anni Dieci. Non è un caso, per esempio, che la tetra multinazionale che sponsorizza i Sette ricordi molto da vicino la Walt Disney Company che, ricordiamo, ha assorbito Marvel nel 2009. Nè sorprende che i Sette siano così simili a personaggi che ben conosciamo, come Superman, Capitan America, Daredevil o Aquaman. Buona parte della trama ruota attorno a indici di gradimento, engagement sui social media, lobbismo a livello politico e militare, manipolazione dell'opinione pubblica. Ad esempio, quando Starlight prova a salvare una ragazza da una violenza sessuale, viene punita perché nessuno ha filmato l'evento in modo da garantirle un ritorno d'immagine. Un'altra eroina, Queen Maeve (Dominique McElligott), le confessa che non si ricorda nemmeno più l'ultima volta in cui ha davvero salvato la vita di qualcuno. L'eroismo, qui, è una questione pubblicitaria.

Questo è il mondo di The Boys: un mondo dominato dal denaro, cinico, pragmatico. I supereroi sono solo degli uomini con passioni e difetti molto umani, con un potere enorme a loro disposizione. Del mito, qui, resta solo l'asimmetria di potere tra chi sta in cima all'Olimpo e le masse brulicanti alle sue pendici. Forse, il punto più alto toccato dalla serie arriva nel momento in cui fa convergere la retorica teocon americana con la vocazione messianica dei supereroi, uomini toccati dalla "grazia" di un potere apparentemente inspiegabile. Esaltati da preghiere e scenografie religiose, i supereroi diventano i santoni e predicatori di un'America confusa e adorante. Ma la serie tocca da vicino molti altri temi difficili, dal movimento #MeToo alla politica estera statunitense in Medio Oriente, con esiti non sempre impeccabili ma mai banali.

Più in generale, la serie sorprende e dà il suo meglio quando mette in scena, e demolisce, la società che ha prodotto e che sembra avere sempre più bisogno di eroi, super o tradizionali. Non tutti i temi e i protagonisti riescono ad essere adeguatamente sviluppati nel corso delle prime otto puntate, ma è molto chiaro che i produttori hanno deciso di puntare da subito su una seconda stagione, già confermata, per sviluppare un arco narrativo ben più ampio. Va letta in questo senso la natura puramente funzionale di un finale di stagione che, in realtà, serve solo a porre ulteriori domande e stimolare la curiosità per ciò che verrà in futuro: in questo senso, The Boys ottiene il risultato sperato.

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Karl Urban Jack Quaid Antony Starr Erin Moriarty 1 stagione da 8 episodi
USA, 2019
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C'era una volta a... Hollywood

di Matteo Berardini
C'era una volta a Hollywood - recensione film Tarantino

Chi ne fa una questione di stile, non si troverà più di tanto in questo C’era una volta a… Hollywood. Ci si chiederà, magari, dov’è il pulp e l’ironia metacinematografica? Dove sono le secchiate di sangue e gli ammiccamenti avantpop, le battute forbite e le soluzioni b-movie amate, assorbite e risputate fuori? Dov’è la mano tarantiniana, che gioca e manipola il cinema post-post quello che volete? Ma il fatto è che il primo a non essere più tarantiniano, e già The Hateful Eight ce lo aveva detto benissimo, è proprio Quentin Tarantino, che arrivato alle soglie del decimo film ci regala un’opera intima e romantica come mai prima, un gesto d’amore fatto da chi anzitutto vuole restituire qualcosa al cinema, ai suoi mondi infiniti e ai personaggi umanissimi ed esagerati e sofferti che li hanno popolati, e che da questo dono ricava la favola definitiva sull’America e sulla sua natura essenziale di terra dell’immagine.

È un rapporto pervasivo e inscindibile quello che lega gli Stati Uniti al loro immaginario, alla loro capacità di definire sé stessi e il loro orizzonte di valori, miti, leggende, attraverso la moltiplicazione e il consumo delle immagini. C’era una volta a… Hollywood mostra un paese intessuto di immagini, ossessionato da grandi e piccoli schermi che diventano lo strumento non tanto per conoscere e plasmare il mondo quanto noi stessi e l’idea e l’immagine che abbiamo di noi, dei nostri ricordi, del nostro amore. Non è mai stato così sfacciato e generoso Tarantino, perdutamente innamorato e perso in un film che resuscita il cinema anni ’60 alle porte della rivoluzione innescata dalla New Hollywood ma assorbe in sé anche il serial anni ’50, la prima televisione di massa, l’ossessione per i pilot e il panico di vecchie star del b-movie che sanno di non trovare spazio nella nuova stagione cinematografica in arrivo. Impresso nell’ocra pastoso e sporco di terra tipico di quel tempo, il racconto dell’amicizia tra Rick Dalton e Cliff Booth però è tutt’altro che un gesto intellettuale di archeologia cinefila fine a sé stessa; Tarantino vive ovviamente dei suoi e dei nostri feticismi, ma l’amore e la consapevolezza che trasudano da C’era una volta a… Hollywood rendono questo film non solo un miracolo filologico e citazionistico spuntato direttamente dal passato, ma un’elegia umanissima e vitale dedicata alla fine di un’era e all’infinita carrellata di volti e corpi che hanno alimentato quella macchina magica e salvifica anche a discapito di loro stessi e delle loro esistenze. I said, baby, baby, baby, you're out of time, cantano i Rolling Stones mentre Sharon Tate vive le sue ultime ore e tutte le infinite insegne di Los Angeles si accendono, una alla volta, una carrellata di neon e lampade incandescenti e scritte e fasci di luce che tagliano la notte, come una coltre di cinema che accompagna la dama di un regno incantato al suo appuntamento col destino, o a quello che forse è un nuovo inizio che redime e risolve le storture del reale.

Ogni favola è un atto d’amore, un racconto che narriamo a chi amiamo per condividere e far rivivere qualcosa che non è stato, che quasi è stato, e che nel frame dell’inquadratura può e finalmente riesce a essere. Sulla scia di Bastardi senza gloria, Tarantino continua a chiamare in causa la Storia e i drammi collettivi, passando dall’orrore del genocidio alla schiavitù sudista per approdare qui al trauma per eccellenza del sogno californiano, la summer of love che in una notte di sangue si rovescia di senso e diventa il marchio a fuoco di un incubo, l’orrore silente che abbiamo amato e cresciuto e che si risveglia per porre fine a ogni forma d’innocenza. Ma non è solo questo Sharon Tate, meravigliosa ed eterea Margot Robbie, una figura leggiadra e innocente che si muove sognante a dieci centimetri da terra, che svolazza tra le vie di Los Angeles e si rifugia poi in sala per ritrovarsi sul grande schermo, emozionandosi come una bambina mentre il pubblico ride e grida e fa il tifo per lei. In fondo, a cosa serve il miracolo di questa scatola magica, che cattura e preserva fantasmi e tempo, o genera ricordi e realtà nuove, se non a preservare questa sacra innocenza? I bastardi, armati di esplosivo e dna da b-movie, hanno potuto regalare al mondo una vendetta di fuoco e la fine tempestiva della guerra; C’era una volta a… Hollywood invece si spinge un passo più in là e devia la mano e il coltello prima ancora che il trauma sia compiuto, cambiando la Storia grazie all’intervento di due outsiders in cerca di un lieto fine, principi azzurri alcolizzati e depressi e marchiati nel corpo che ancora non hanno trovato la loro principessa.

Assieme, Rick Dalton e Cliff Booth sono davvero il segno di quanto il cinema di Tarantino sia libero da schematismi e dottrine precostituite, e sempre più lontano dai gesti eversivi con cui negli anni Novanta decostruiva un’industria tutta e il suo immaginario. Viene in mente l’intervista di David Foster Wallace a Larry McCaffery, in cui lo scrittore lamentava nei nuovi autori postmoderni l’incapacità di chiudere con l’ironia e la dissacrazione, e la non volontà di mettere da parte lo stile per riprendere a costruire. Ecco, il cinema di Tarantino è invece oggi pura ricostruzione, è dialogo con il passato ma non cinefilia cieca e moribonda, è un cuore classico che sempre più si nutre della forza primigena del campo/controcampo e della profondità di campo, è la scoperta dell’emozione e dell’empatia, il dilagare di quel sentimento rimasto finora sottotraccia in questo cinema, esploso tutt’al più in pochi momenti di umanissimo dolore. La storia d’amore fraterno tra Rick Dalton e Cliff Booth è Tarantino come non lo abbiamo mai visto, in un film che come mai prima gira a vuoto e si intesse sul quotidiano susseguirsi degli eventi, e che in quest’andatura orizzontale, pressoché antinarrativa, restituisce due personaggi complessi e fragili alle prese con il tempo che scorre e tutto cambia. E in questa celebrazione della finzione cinematografica, e di tutto ciò che in essa si crea, vive e poi scompare, Tarantino riesce anche a dire l’ultima parola su quel rapporto tra violenza e immagine che da sempre attraversa il suo cinema. Buca lo schermo il momento in cui l’incarnazione di Patricia Krenwinkel, una dei tre componenti della famiglia Manson presente quella fatidica notte, afferma di volersi vendicare di tutti quei divi che da anni vomitano violenza e fascismo attraverso i loro serial e film trasmessi in televisione. In un contrappasso delizioso sarà poi lei a finire carbonizzata nella prima vera escalation pulp del film, a sottolineare definitivamente la povertà di ogni rapporto causa effetto tra la violenza cinematografica e quella reale, e anzi la forza rigeneratrice e vitale che può avere questo grande castello immaginario e magico e carico d’amore che è il cinema. Anche, e soprattutto, quando assume la forma di un lanciafiamme brucia-nazisti adattato alla difesa del sogno e della quiete domestica.

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Quentin Tarantino Leonardo DiCaprio Brad Pitt Margot Robbie Emile Hirsch Margaret Qualley Bruce Dern Kurt Russell Al Pacino Luke Perry Timothy Olyphant 161 minuti
UK, USA 2019
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La vita invisibile di Eurídice Gusmão

di Domenico Saracino
 La vita invisibile di Euridice Gusmao - recensione film Ainouz

Amarsi tanto, d’un amore festante, fatto di complicità e risa, e poi, d’improvviso, credersi lontane, divise, perdute, fino a diventarlo davvero, lontane, divise, perdute. La vita invisibile di Eurídice Gusmão, il film di Karim Aïnouz che ha trionfato nella sezione Un certain regard di Cannes 2019 e viene ora distribuito nelle sale italiane da Officine Ubu, è un ritratto toccante della separazione ingiusta e forzata di due indivisibili sorelle nel Brasile degli anni ’50 a causa delle idee retrograde di un padre crudele, riflesso di una cultura patriarcale dominata dal machismo.

Che Guida (Júlia Stockler) e Euridice (Carol Duarte) si staccheranno l’una dall’altra – per poi cercarsi, chiamarsi, rincorrersi, fino a smarrirsi del tutto – lo si intende già nell’incipit onirico e simbolico, quando le due giovani donne finiscono per allontanarsi e le voci, come in cerca di spettri, invocano invano il nome altrui tra la natura oscenamente lussureggiante di un bosco sopra le alture di Rio de Janeiro (che è di per sé chiaramente allegorico, un invito ad abbandonarsi mollemente e lascivamente all’esuberanza vegetale).
È questa scena iniziale, preternaturale e sospesa, fotografata con una certa granularità e vividezza da Hélène Louvart e accompagnata dalla musica diafana di Benedikt Schiefer, a fissare il tono del racconto, a farne sin da subito un melodramma fosco, dai toni (pre)romantici, fatto di vecchi pianoforti su cui suonare Chopin, di vento e luce cangiante (come per l’arrivo di un temporale) spesso filtrata dalla vegetazione, dalle nuvole o dalle finestre, di interni ombrosi e inquieti, di scambi epistolari, lettere scritte a mano con passione e aspettativa, ma mai ricevute.
Una perfetta corrispondenza lega queste scelte di scrittura e regia alle vite delle due protagoniste, alle violenze subite e alle storie d’amore fallite di Guida e Euridice, la prima sedotta, illusa e tradita dal marinaio greco con cui decide di fuggire, finendo ragazza madre e facendosi ripudiare dal padre, la seconda sposata con un uomo che vorrebbe relegarla alla cura domestica, al soddisfacimento sessuale e alla procreazione, indifferente ai sogni e desideri di lei.

In La vita invisibile di Eurídice Gusmão un alone di saudade avvolge le case, i vestiti (che si vorrebbero fare a pezzi perché hanno addosso le colpe di chi li indossa), gli sguardi, come se tutto fosse tremendamente instabile, fragile, pronto a cedere sotto i colpi del destino e del tempo, a disgregarsi fino all’ultimo atomo. Il film di Aïnouz è un’elegia sull’amore malriposto e sulle corrispondenze mancate (sia nella relazione di coppia che nel rapporto reciso tra le sorelle), una carezza alle donne spezzate da uomini infami e dal modello societario che hanno costruito.
Da questo punto di vista il regista e videoartista brasiliano mostra una delicatezza e un pudore straordinari, arrivando a sfocare l’immagine di Euridice nel momento in cui si palesano i segni più strazianti della psicosi a cui le menzogne del padre, l’assenza della sorella e l’estraneità del marito l’hanno portata. E sebbene, a differenza di altri lavori di Aïnouz, qui i temi LGBT non vengano toccati direttamente, non si può non vedere nella scelta di far evolvere la convivenza di Guida e di suo figlio con l’ex prostituta Filomena in una vera e propria famiglia, una favorevole disposizione alla genitorialità lesbica e alla famiglia di fatto. Un’idea di progresso e di libertà molto differente dall’aberrante disegno politico regressivo di Bolsonaro.

Nonostante il film non eluda mai la rappresentazione delle tante forme di crudeltà e insensibilità di cui soprattutto gli uomini si macchiano e non trascuri di mostrarne le conseguenze, La vita invisibile di Eurídice Gusmão è un’opera dedicata alla forza delle donne, alla loro capacità di resistere alla disumanità di certi comportamenti, agli sconquassamenti di certi destini.

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Karim Aïnouz Carol Duarte Júlia Stockler Barbara Santos 139 minuti
Brasile 2019
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Guest of honour

di Andreina Di Sanzo
guestofhonour-recensione

Segreti, bugie e tradimenti ancora una volta nel nuovo film di Atom Egoyan presentato in concorso a Venezia 76. Guest of Honour è un thriller familiare che indaga il rapporto genitori-figli e, così come accade spesso nel cinema del regista canadese (vedi The Captive e Devil’s Knot), le due generazioni vengono messe a confronto mostrandone tutta la disparità. 

Alla vigilia dei funerali del padre, Veronica racconta a un prete il complicato rapporto tra i due: un ambiguo ricordo porterà la protagonista a sostenere un senso di colpa che vorrà espiare nonostante la sua innocenza. Veronica infatti sceglie il carcere per sotterrare il passato per un crimine mai commesso, ma il rancore verso suo padre le resterà per sempre addosso.
Egoyan torna ai cari torbidi intrighi, ma questa volta lo fa scrivendo (è anche sceneggiatore) un film dalla trama debole e prevedibile; Guest of Honour manca di quel tocco tipico dei suoi noir e, se ormai capolavori come Exotica o Il dolce domani sono lontani, negli anni 2000 sembrava aver mantenuto un certo stile dal fascino sinistro.

Il protagonista Jim (David Thewlis) è un meticoloso ispettore sanitario che gira per controllare i ristoranti, impassibile e severo, conduce una vita solitaria non capendo la scelta della figlia di volersi costituire pur essendo innocente, finché non ascolta dalle sue parole il reale motivo. In un gioco di doppie confessioni, ricordi equivoci e tasselli da ricomporre, Guest of Honour non sostiene per intero una serie di spunti che inizialmente il film sembra avere. Anche la questione della tecnologia, così invasiva ma di supporto all’intreccio, che sempre costituisce un importante elemento nel cinema di Egoyan, qui viene solo accennata senza un affondo importante come in False verità o Chloe - Tra seduzione e inganno.

Il gioco sulla relatività del ricordo e sulla moltiplicazione di verità viene appiattito da una scrittura scialba dalle poche intuizioni. Anche i colpi di scena passano davanti senza stupire, forse per colpa di una struttura ormai ripetitiva e noiosa. Peccato per un regista così che ha comunque dei tratti riconoscibili e certe ossessioni da non trascurare, un vero ospite d’onore che lascia con l’amaro in bocca.

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Atom Egoyan David Thewlis Laysla De Oliveira Luke Wilson Rossif Sutherland 105 minuti
Canada, 2019
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Il Signor Diavolo

di Sara Mazzoni
Il signor diavolo - recensione film avati

Di Pupi Avati, classe 1938, non è certo nuova la vena horror, genere in cui ha esordito e che ha continuato a frequentare lungo l’intera carriera. Non è dunque una sorpresa che il suo film del 2019, Il signor diavolo, sia un nuovo capitolo nella sua esperienza orrifica.
Nella filmografia del regista bolognese spiccano titoli di culto come La casa dalle finestre che ridono, Zeder e L’arcano incantatore, con cui Avati stabilisce i canoni di un gotico padano ambientato nella bassa, tra Emilia e Romagna: La casa dalle finestre che ridono è il più iconico, caratterizzato dal fascino putrido di una vita rurale dipinta attraverso atmosfere da giallo all’italiana che travalicano nel weird; Zeder aumenta lo sguardo sull’occulto, anche se lo stile del regista aggiorna il canone classico alle rovine moderne di un casermone abbandonato degli anni ’80; L’arcano incantatore si sposta in montagna, con una storia esoterica che ha il sapore letterario di Arthur Machen e Algernon Blackwood. Con Il signor diavolo, Avati accetta il rischio del confronto col suo horror più famoso, scegliendo di raccontare nuovamente una storia paludosa, come quella di La casa dalle finestre che ridono. Il suo nuovo film si svolge tra Venezia e i grandi spazi della laguna, adattando il suo romanzo omonimo pubblicato nel 2018, che si differenzia dal film unicamente per la backstory del protagonista e per un particolare nello scioglimento finale.

Il signor diavolo è poco moderno perché non è un horror art-house dalle immagini suggestive, né un film commerciale rumoroso e movimentato. La cura visiva c’è, ma può risultare pacchiana: una fotografia fortemente desaturata, inquadrature che colgono sì la bellezza del paesaggio ma con un’estetica pericolosamente vicina a una qualsiasi foto turistica su Instagram. Eppure, da un altro verso il film è contemporaneo proprio nel suo cogliere il ritorno di un genere, il folk horror, che è sempre più presente nella cinematografia degli ultimi anni – si pensi a The Witch, Apostolo, Midsommar, o ai meno noti Kill List, Il rituale, Hagazussa, e si potrebbe andare avanti.
In questo senso, Il signor diavolo è apprezzabile. Come spesso accade nel folk horror, Venezia e la laguna sono raccontate come territori irreali: non sono la vera città o la vera campagna del Veneto, ma nemmeno vogliono esserlo. Sono luoghi della fantasia e della memoria, con una Venezia deserta, senza turisti, nell’immediato dopoguerra; la campagna spettrale, fatta di ampi spazi sul bordo dell’acqua. È però comprensibile che alcune caratteristiche del film possano far storcere il naso ai tanti che lo hanno stroncato, liquidandolo come se fosse una mediocre fiction Rai. È vero, qualcosa nella messa in scena non torna: tutto risulta fin troppo finto, tant’è che molti personaggi non parlano neanche in veneto, ma nell’irritante italiano neutro del doppiaggio (tranne Chiara Caselli, qui alle prese con un’eccellente incarnazione gotica).

Quest’artificiosità è però sempre centrata e pertinente al contenuto del film, che riprende in parte quel canone horror decisamente letterario già sperimentato da Avati nella sua cinematografia più vecchia. Il signor diavolo non è un film che vuole raccontare davvero il Veneto o la laguna del dopoguerra. Se è per questo, non vuole concentrarsi nemmeno sulla Democrazia Cristiana, nonostante il suo gancio di partenza sia il viaggio di un uomo della DC romana che viene inviato al nord. Soprattutto, Il signor diavolo non vuole usare il linguaggio del realismo, nemmeno quello magico che sembra sfiorare. È qui che troviamo il vero centro concettuale del film, quello che lo rende interessante. Il signor diavolo parla della forza della superstizione, e lo fa nel modo più diretto possibile: mostrando al pubblico l’allucinazione superstiziosa attraverso gli occhi di chi la sperimenta, come se fosse una realtà oggettiva. I narratori con cui abbiamo a che fare non possono essere altro che inaffidabili. Lo sappiamo dal primo istante, tanto più che gran parte del racconto ci arriva da un bambino. E questo meccanismo funziona, e suggestiona.

Il signor diavolo è un film classicamente weird, ma anche anticlericale e aspramente avverso alla realtà culturale che rappresenta, quella di un mondo contadino in cui la superstizione fa parte della vita quotidiana e dell’esperienza della realtà. In questo, ricorda esperimenti del folk horror britannico di altri tempi, come La pelle di Satana, che in un certo senso si può interpretare come l’allucinazione degli abitanti di un villaggio sperduto. Il film di Avati mette però il focus sul cattolicesimo nostrano, i cui rappresentanti istituzionali (la suora, il sagrestano) sono vissuti nelle campagne del dopoguerra come mediatori tra mondo dei vivi e mondo dei morti. Avati popola il suo film di queste figure, descrivendone puntualmente l’ignoranza e allo stesso tempo l’influenza culturale conferita loro dalla collocazione che hanno in quell’immaginario collettivo.

Come i suoi personaggi, persino noi spettatori che guardiamo il film – con tutti i filtri della narrativa postmoderna che abbiamo assimilato – dobbiamo avere il dubbio che ciò che ci viene mostrato possa essere vero, all’interno del suo mondo. Questo deve accadere nonostante tutti gli elementi seminati da regia e sceneggiatura ci indichino chiaramente che le cose non possono stare così. E allora, nonostante qualche sbavatura, il risultato è coerente, efficace e felicemente gotico.

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Pupi Avati Filippo Franchini Lino Capolicchio Cesare Cremonini Alessandro Haber 86 minuti
Italia 2019
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