Honey Boy

di Matteo Berardini
Honey Boy - recensione film shia labeouf

Amare ma non essere in grado di vivere il proprio amore. Darsi, sacrificarsi, eppure continuamente cedere, perdere di fronte la rabbia, il risentimento, il dolore che non conosce argine e cerca piuttosto di propagarsi, spezzare tutt’attorno, moltiplicarsi come un’entità vampiresca che propaga l’abuso. Ci sono figure personali che falliscono e continuano a fallire, persone chiamate dalla vita a ricoprire un ruolo che non riesce a determinarle, educarle, e che anzi in quello spazio trovano un luogo di contaminazione che rischia di alimentare un effetto domino, un passaggio inter-generazionale di disfunzionalità e sofferenza. Perché anche il dolore necessita dei suoi anticorpi, globuli bianchi ed enzimi vitali che assorbiamo crescendo e ci aiutano a vivere, a gestire le difficoltà della vita.
Cronaca vuole che a una baby star come Shia LaBeouf, divo dello show business Disney già a dodici anni, questo passaggio sia mancato, sostituito da un’infanzia e adolescenza condivise con un padre violento ed ex tossico, innamorato certo di suo figlio ma incapace di dare spazio a quell’amore. Da quest’esperienza il giovane Shia esce sulla cresta dell’onda mediatica, volto di blockbuster di grido ma anche persona spezzata, traumatizzata, sola in un’alienante routine cinematografica e afflitta da quello che, giunto il capolinea del centro di riabilitazione, viene definito senza mezzi termini disturbo da stress post-traumatico. Da quest’esperienza di rehab, pausa forzata imposta dalla giustizia americana ma anche inizio di uno scavo interiore non più rimandabile, LaBeouf ricava la forza per confrontarsi con il passato e dare forma di sceneggiatura al suo dolore, ai ricordi e ai traumi, all’amore dato, ricevuto, sprecato, portando lo strumento del cinema al massimo livello di introspezione. Honey Boy non è altro che questo, un processo di autoanalisi per dare forma al dolore e sviluppare da sé un sistema immunitario atto a gestirlo; LaBeouf scrive la sua storia e impersona suo padre, cercando negli strumenti immedesimanti della recitazione quel contatto che prima mancava.

Gioca a carte scoperte LaBeouf, strutturando il suo Honey Boy su due piani temporali. Il primo, più vicino a noi, nasce da un momento di rottura: il doppio adulto di LaBeouf (ribattezzato Otis Lort e impersonato da Lucas Hedges) è un attore di blockbuster costretto dal tribunale ad andare in clinica, dove inizia un percorso che apre le porte della memoria e prende forma di progetto cinematografico; il secondo, in flashback, è il farsi di quel film immaginato e la ricostruzione del periodo più buio vissuto dal piccolo Otis assieme a suo padre, un campo minato di esperienze limite in cui il protagonista deve confrontarsi con le mancanze, gli eccessi e la violenza (fisica e psicologica) di una figura paterna che tenta ma continuamente fallisce.

Sa emozionare e coinvolgere Honey Boy, opera a cuore aperto che nasce da un’esigenza personale ma riesce a parlare una lingua universale, evocando sentimenti intimi e assieme collettivi insiti nel rapporto padre-figlio. La vita di Otis da piccolo – incarnato da Noah Jupe, sorprendente e vera acqua della vita del film – è un costellarsi di promesse strappate e mai mantenute, dolcezze mancate o scoperte in posti inaspettati, come la breve, intima parentesi con l’anonima vicina di casa impersonata da FKA Twigs. LaBeouf, che si occupa in solitaria della sceneggiatura mentre affida la regia all’amica e autrice di video-arte Alma Har'el, cerca di dosare l’evocazione della sofferenza e la necessità di aprirsi alla grazia, alla bellezza ricercata dal piccolo Otis, ma il film non sempre trova l’equilibrio necessario a rendere giustizia a entrambi gli sguardi in gioco, come se – e in fondo giustamente – l’evocazione del passato personale fosse una pulsazione irregolare troppo dolorosa mentre il punto di vista del padre di Otis conservi una cifra di intimità insondabile, inconoscibile. Ma a pesare soprattutto sul film, e sul suo potenziale di racconto sincero e disarmante, è il fatto che il suo tessuto visivo sia impregnato di un’estetica indie preconfezionata e già testata a tavolino, come se la materia narrata fosse un magma talmente incandescente da necessitare un inquadramento stilistico il più possibile riconoscibile, rassicurante. Tuttavia il discorso portato avanti da LaBeouf è chiaro, e prende di petto le questioni dell’abuso e della dipendenza senza spettacolarizzare mai il dolore: a un certo della propria vita si arriva a un bivio, in cui o si iniziano ad affrontare i propri demoni interiori o si soccombe a essi, perdendo in umanità ed empatia un tassello alla volta. In questo senso appare inevitabile, per quanto meccanicistica, la scelta da parte dell’attore di calarsi nei panni di suo padre, portando al limite questo strumento cinematografico di rievocazione e superamento del trauma con il quale tentare di spezzare l’eterno ritorno. Il risultato è un dialogo che concilia necessità personali e cinematografiche, comunica con il suo pubblico e parla in modo sincero la lingua dell’infanzia. Al netto di tutto, non è poco per un confronto con i propri fantasmi.

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Alma Har'el Shia LaBeouf Lucas Hedges Noah Jupe FKA Twigs Martin Starr9 93 minuti
USA 2019
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Rewind

di Veronica Vituzzi
Rewind - recensione film

La telecamera è sempre stata presente nella memoria di Sasha Neulinger: per tutta la sua infanzia il padre non ha mai smesso di trovare un buon motivo per effettuare una ripresa, fossero feste di compleanno, partite di hockey o qualunque occasione per stare insieme ai parenti. D’altra parte non è una pratica comune conservare i ricordi gioiosi di una famiglia in video e fotografie? Ma ciò che sembra una raccolta infinita di sorrisi e battute verso la camera diviene in Rewind la chiave nascosta di una storia vera tragica e disturbante, raccontata dallo stesso Sasha ora adulto, qui protagonista, intervistatore e autore del proprio percorso filmico a ritroso nel tempo.

I nastri video del padre Henry nascondono, come minuscoli indizi di un’indagine, i sintomi impercettibili di un disagio latente. Sasha bambino inizia ad avere strane reazioni, scatti rabbiosi o esagitati verso i genitori e la sorella, il volto infantile deformato da smorfie grottesche e spaventate.  Qualcosa non va chiaramente, né in lui né nei filmati di questa famiglia apparentemente felice che recita la serenità e il divertimento davanti alla camera. Sono dettagli minimi, impossibili da cogliere se non al rallentatore: la carezza furtiva di un parente, uno sguardo abbassato a terra, una risata troppo isterica per essere genuina.  La verità è tutta lì, evidente ma indecifrabile.

Ciò che Rewind rivela riavvolgendo il nastro indietro è una devastante storia di abusi, perpetuata come un gene malefico di generazione in generazione: Sasha abusato come la sorella dai due zii e dal cugino fin dalla più tenera età; il padre e il fratello minore abusati dal fratello maggiore; il cugino stupratore a sua volta abusato da piccolo. Sarà Sasha il primo a spezzare la catena, rivelando le violenze subite e chiedendo giustizia in tribunale. Il suo film è la reiterazione visiva di quella coraggiosa confessione, e nasce dall’urgenza di imprimere su immagine la verità e la denuncia dei fatti, facendo i nomi dei violentatori e descrivendo passo per passo non solo i propri abusi ma anche quelli vissuti dal padre da piccolo.

Da questo punto in poi Rewind trascende ogni giudizio critico, perché il suo obiettivo non è quello di essere un’opera ben fatta né di conquistare lo spettatore, ma semplicemente raccontare ogni cosa nei minimi dettagli, anche a costo di risultare respingente o disturbante, sbattendo la verità sullo schermo per tramandarla di spettatore in spettatore e facendo così dell’immagine filmica l’antidoto all’abuso che tanti bambini violentati portano con sé, diventando spesso da grandi a loro volta pedofili. Perché il padre di Sasha non aveva mai detto una parola su ciò che aveva vissuto nella propria infanzia, arrivando a far interagire con assoluta tranquillità i propri carnefici coi figli piccoli? L’ammissione arriva candida e colma di vergogna: non sapeva di aver subito una violenza sessuale. Non sapeva nemmeno di cosa si trattasse, né che potesse riguardare altri oltre a lui. La soluzione proposta da Rewind al riguardo è semplice: parlare della violenza sessuale, parlane a ogni costo, cercare interlocutori – in questo caso, lo stesso pubblico – abbattere lo stigma del silenzio e dell’omertà.

È importante notare che come Henry padre si mette dietro la telecamera per porre un filtro fra lui e la realtà, filmando ossessivamente senza mai vedere realmente cosa quei filmati nascondevano, Sasha diviene regista per entrare epidermicamente a contatto con quella realtà dolorosa. Rewind è racconto confessionale, nuda rivelazione, ma anche denuncia definitiva, soprattutto del ruolo dello zio Howard, il primo a iniziare il ciclo delle violenze sessuali. Un uomo anziano colpevole di atti atroci, e pur tuttavia oggi persona libera e stimata: e allora, laddove la giustizia non riesca a fare il suo corso, che ci pensi il cinema. D’altra parte, se per Sasha la narrazione della propria storia è la definitiva catarsi da un passato che per primo è stato impresso da una telecamera e oggi torna svelato ancora una volta entro uno schermo, è proprio perché al cinema è qui affidato il ruolo finale, potentissimo e supremo, di farsi portavoce incontrastato del vero anche quando tutti vogliono nasconderlo e reprimerlo. Ora tocca solo agli spettatori saper guardare, e saper ascoltare.

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Sasha Neulinger 87 minuti
USA 2019
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Il varco - Once More Unto the Breach

di Samuel Antichi
Il varco - Once More Unto the Breach

1941. Il Regno d’Italia si unì all’Operazione Barbarossa, promossa dalla Germania nazista, che prevedeva l’invasione dell’Unione Sovietica. A luglio i primi soldati partirono per il fronte orientale che divenne teatro di alcune delle più sanguinose e brutali battaglie della Seconda Guerra Mondiale. Federico Ferrone e Michele Manzolini, già autori de Il treno va a Mosca (2013), decidono di raccontare la campagna di Russia nella loro ultima opera, Il varco, utilizzando materiale d’archivio proveniente dall’Istituto Luce e da Home Movies - Archivio nazionale del film di famiglia. L’immagine d’archivio diventa immagine della memoria che riprende vita attraverso una testimonianza anonima, un racconto finzionale liberamente ispirato alle vite e ai diari dei militari Guido Balzani, Remo Canetta, Adolfo Franzini, Nuto Revelli, Enrico Chierici e Mario Rigoni Stern. La voice over di Emidio Clementi racconta l’esperienza di un soldato italiano di origine russa, che parte in treno verso l’Ucraina, attraversando la Moldavia, la Romania e l’Ungheria. Accolti in un primo momento come salvatori, i militari italiani iniziano ad avventurarsi in un territorio desolato, spettrale, ormai ridotto in macerie dall’esercito sovietico nel corso dell’arretramento.

Le immagini d’archivio che in un primo momento mostrano una serie di volti gioiosi e felici, un viaggio in treno verso l’oriente animato da preziosi e affettuosi incontri con le popolazioni locali, iniziano, progressivamente, a rivelare un paesaggio completamente devastato dal fuoco del conflitto. «I cadaveri abbrustoliti dalla benzina assomigliano a verruche della terra. Nelle trincee piene d’acqua galleggiano maschere antigas. Ovunque odore di carne fradicia e piscio» commenta la voice over mentre vengono mostrate le immagini di un plotone allontanarsi da un edificio in fiamme, verso un orizzonte sconfinato e apparentemente privo di qualsiasi forma di vita. I soldati man mano perdono ogni entusiasmo, la vittoria si allontana sempre di più mentre ad avanzare è un inverno rigidissimo. Il protagonista inizia a ripensare alla propria amata mentre affiorano anche gli angoscianti ricordi di guerra - la campagna d’Africa - che continuano a perseguitarlo. «A volte, mentre si sta dormendo veniamo svegliati da rumori sinistri. “Partigiani” urlano alcuni. A me sembrano più strani animali, o spiriti in pena che vagano in cerca di riposo» prosegue la voice over.

Nonostante non vengano mostrate scene particolarmente crude o effettivamente riconducibili ad un conflitto a fuoco, escluso un filmato ripreso in notturna, la traccia del trauma della guerra si insinua profondamente nelle immagini e diviene presenza dislocata, repressa, latente. Attraverso la pratica filmica dell’archiveology, come approccio metodologico critico e principio epistemico, manipolando e ri-montando materiali d’archivio il film promuove un processo di “rimemorazione”, di revisione e di ri-attivazione del passato nel presente. Una volta ricontestualizzate e inserite all’interno di una narrazione, le immagini d’archivio acquisiscono infatti un nuovo valore testimoniale e traumatico. Nonostante non mostrino uno scenario violento e luttuoso, e siano state realizzate con altre intenzioni, agli occhi dello spettatore non possono che rappresentare la tragica realtà del conflitto, senza pietismo o vittimismo. Riposizionate in un nuovo circuito di senso, vanno a costituirsi come oggetti funzionali alla costruzione di una memoria collettiva.

L’immagine di repertorio diventa quindi strumento attivo di ordine conoscitivo, capace di rileggere e riformulare il passato storico, inoltre, nel momento in cui viene re-inserita in un discorso intermediale. Le immagini di repertorio vengono infatti alternate a riprese effettuate nel presente in alcuni territori, teatro della Seconda Guerra Mondiale, dove ora si sta combattendo un altro conflitto, la guerra del Donbass, come sottolineano, in apertura del film, alcuni “intertitoli”. Il paesaggio è nuovamente in rovina, un traumascape, e nonostante sembri apparentemente anonimo e privo di vita conserva e incarna le tracce di un trauma, è un luogo infestato dai fantasmi del passato, uno spazio in cui collidono l’immaginazione e la memoria repressa.

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Federico Ferrone, Michele Manzolini 70 minuti
Italia, 2019
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Made in Italy

di Maria Cafagna
Made in Italy serie tv

Blake Snyder dedica il primo capitolo del suo manuale di sceneggiatura Save the cat al pitch. Per vendere il progetto o per pitcharlo come si dice, appunto, in gergo è necessario avere le idee chiare sulla storia, il genere e il pubblico a cui si vuole arrivare. Una delle cose che Snyder consiglia di non fare è presentare lidea per una storia accoppiando due film di successo sperando che ci siano gli elementi che piacciono a qualcuno. Secondo Snyder, questo è un modo di pitchare che si usa per risparmiare tempo ma che è meglio non utilizzare. Non è difficile però immaginare che molte serie italiane siano nate proprio così. È appunto il caso di Made in Italy, ora su Amazon Prime e dalla prossima primavera anche su Canale 5: è un incrocio tra Il Diavolo veste Prada e La Meglio Gioventù.

Irene (Greta Ferro), studentessa universitaria, approda un po per caso e un po per gioco alla redazione di Allure, celebre settimanale di moda. Siamo a metà degli anni 70 e mentre i tumulti e gli scioperi scuotono lItalia, a Milano nasce il nostro pret-a-porter: Giorgio Armani, Krizia, Versace e molti altri creano lo stile italiano che renderà il Made in Italy un marchio di eccellenza famoso in tutto il mondo. Irene viene da una famiglia piccolo-borghese e non conosce la moda, anche se la mamma sartina le ha dato le nozioni necessarie per riconoscere i tessuti di qualità, ma grazie alla sua intraprendenza riesce a guadagnarsi la fiducia della temibile capo-redattrice Rita Pasini (Margherita Buy) e a ottenere in poco tempo un posto di tutto rilievo allinterno della redazione.

Prodotto da Taodue Film e The Family, Made in Italy è il primo risultato frutto dellincontro tra Mediaset e le piattaforme streaming. Non si tratta però di una semplice incursione occasionale: nelle scorse settimane, il Biscione ha siglato un accordo per 200 milioni di euro con Netflix per la produzione di ben sette lungometraggi. Una vera e propria rivoluzione per unazienda che fino a poco tempo fa muoveva guerra a YouTube! Insieme a diversi tentativi più o meno riusciti di svecchiare soprattutto lammiraglia Canale 5, Mediaset sta dimostrando la volontà di aprirsi a nuovi linguaggi e a nuovi strumenti di fruizione della serialità, e questa non può che essere una buona notizia per il pubblico italiano. Già la Rai si era cimentata in co-produzioni internazionali con titoli come lAmica Geniale e Il Nome della Rosa e, soprattutto, con il servizio di streaming Rai Play sempre più centrale nellofferta del servizio pubblico. Insomma, la televisione generalista sta cambiando o meglio, vorrebbe cambiare. Ma se con la Rai abbiamo assistito a prodotti davvero interessanti (appunto lAmica Geniale, ma anche La linea verticale di Mattia Torre, lanciata interamente sulla piattaforma streaming prima di approdare in chiaro), con Made in Italy Mediaset sbaglia clamorosamente la prima.

La serie inizia come una copia-carbone de Il Diavolo veste Prada, riadattando contesti e situazioni  del film con Meryl Streep, tanto da chiedersi se non si tratti di un reboot. Prosegue poi allontanandosi piano piano dal genere comedy per diventare un melò con inserti divulgativi da rotocalco televisivo del pomeriggio. La trama, che pure poteva regalare spunti interessanti, procede in maniera sempre più inverosimile con dei risvolti a tratti grotteschi, per arrivare a un finale che lascia a dir poco perplessi. La moda, quella che dà il nome al titolo e attorno a cui dovrebbe girare la storia, si trasforma in una passerella, sì, ma per gli attori che interpretano gli stilisti, facendo capolino ogni tanto tra le story line dei protagonisti, senza acquisire mai la centralità che meriterebbe.

Diretta da Luca Lucini e Ago Panini, Made in Italy è schiacciata dal bisogno di essere generalista e allo stesso momento dalla voglia di essere un prodotto diverso, un ibrido che vuole parlare a tutti ma che, in fondo, non riesce a parlare a nessuno. Resta da chiedersi, a questo punto, cosa voglia fare Mediaset da grande: contaminare le piattaforme streaming con la tv generalista o portare la tv generalista verso nuovi linguaggi? Made in Italy arriverà in chiaro nella prossima primavera: vedremo, ascolti alla mano, se e in che modo verrà accolta dal grande pubblico. Intanto, molti tra coloro che lhanno vista in streaming lhanno definita unoccasione sprecata, quando la definizione più appropriata, a voler essere espliciti, sarebbe unaltra: Made in Italy è un autentico disastro.

 

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Ago Panini Luca Lucini Margherita Buy Greta Ferro Raoul Bova Claudia Pandolfi Enrico Lo Verso 1 stagione da 8 episodi
Italia, 2019
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Roma Golpe Capitale

di Giorgio Sedona
Roma golpe capitale recensione di Francesco Cordio

“Chi rifiuta il sogno deve masturbarsi con la realtà.” Ennio Flaiano – Taccuino del Marziano

Sembra quasi un monito, impresso sul Taccuino del Marziano sul quale il grande “marziano” Flaiano, addita i peccati di una Roma, ma soprattutto di una romanità, provinciale. Chi rifiuta il sogno, del marziano aggiungiamo noi, è costretto a masturbarsi con la vile realtà. Realtà fatta di sotterfugi, oscurantismi politici, lotti edilizi da accaparrarsi con le armi e con i denti, zone di interessi da parte di poteri sommersi, incensati. Città complessa quanto eterna, tanto grande da non poter contenere nell’interezza la sua globalità in espansione. Città dei Poteri e dei potenti, città dalle due anime, notturna e solare, goliardica e pastorale, come veniva tratteggiata ne La Dolce Vita proprio dallo scrittore pescarese. E se il marziano arrivasse nella città eterna, e nel documentario di Francesco Cordio, Roma Golpe Capitale, il marziano ha un nome ed un cognome preciso, Ignazio Marino, simbolo contemporaneo di tutti i marziani - e non portato a simbolo di un pensiero politico (ed è in questo distinguo la forza del documentario, e sarà in questo distinguo la sua resistenza temporale) - e se nella sua venuta aprisse uno spiraglio nella complessità tentacolare della città, in quanto rappresentante di una altera visione, diversa, programmatica, semplice, visionaria, ecco che i poteri terrestri non lo capirebbero. Come nella morale de L’ultimo terrestre di Gipi il Grigio, o i Grigi, che conoscono veramente cosa è bene e cosa è male, in quanto esseri al di fuori della (imperfetta) razza umana, non verranno capiti ma fraintesi, perfino ostacolati. Il documentario fa della ricerca, e della ricostruzione a posteriori della parabola ascendente\discendente al campidoglio capitolino, un motivo di chiarezza procedendo nei passi certi e sicuri del reportage di stampo giornalistico.

Documenti ed interviste post sindacatura, dello stesso Marino da Philadelphia dove torna a svolgere la specializzazione in chirurgia e che ritorna a discutere e raccontare aneddoti sulla sua amministrazione, all’ex procuratore nazionale antimafia Carlo Caselli che introduce lo spettatore negli oscuri meandri dell’interesse politico ed economico dei pochi rispetto alla libertà dei molti arrivando a definire i poteri occulti ostacolati dalla visione marziana, a Federica Angeli, cronista minacciata e sotto scorta, ai suoi assessori Caudo e Danese, a Tonelli fondatore del blog Romafaschifo, per giungere infine nei saloni dove il sole non volge per non essere di riflesso al suo Santissimo splendore. Non un modo per restaurare un’immagine, violata dal superficiale ma deflagrante, battage sui famosi e famigerati “scontrini”, battage tanto cutaneo quanto inidoneo ad approfondire, ed incapace a vendersi come comunicazione mediale precisa ed argomentativa di una sindacatura, gli aspetti più sotterranei delle manovre sociali ed economiche risolutrici dell’amministrazione comunale dell’ex sindaco. Cordio non vuole agiograficamente volgere l’attenzione nei confronti di un uomo politico ma verso un marziano umano che la città l’ha saputa leggere prima di mettere in pratica alcune manovre risanatrici. Ovviamente Roma aveva i suoi problemi dovuti alle precedenti amministrazioni e alla complessità di una metropoli così estesa come risulta essere, problemi congeniti del prima e del dopo Marino, uno dei pochi, uno dei soli, che ha almeno provato a sanare il sanabile ponendo il cittadino, colui quindi che realmente abita la città, al centro del suo progetto di risanamento. E se prima restava masturbarsi con la vile realtà, tanto da eiaculare frodi ed assolutismi oggi purtroppo non rimane che continuare a farlo, ovviamente sempre dalle bassezze lungimiranti di noi imperfetti terrestri.

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Francesco Cordio 109 minuti
Italia, 2018
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La ragazza del tempo — Weathering With You

di Laura Delle Vedove
weathering-with-you - recensione film

La ragazza del tempo, o meglio Weathering With You. Fare il tempo con te, fare il tempo insieme. L’unione e il tempo (atmosferico), anche cronologico. Le ossessioni di Makoto Shinkai sono tutte qui, riavvolte e dispiegate nel corso del suo fare cinema. Anche Weathering With You affronta una mancanza, poi un (ri)trovamento, una lotta contro il tempo, una separazione, un’unione. Ancora più ottimista Shinkai, che intreccia qui la vicenda di due preadolescenti in una Tokyo colpita da perenni piogge. L’elemento atmosferico, vero attante, non è solo un fattore ambientale, scenografico, mirante alla creazione di un’atmosfera, o il riverbero figurato delle emozioni dei suoi personaggi, ma l’espressione tangibile del legame trascendente e insieme corporeo che l’uomo ha con la Natura, e con tutte le sue forme. La neve che ritarda l’arrivo alla stazione di Takaki in 5 cm al secondo, la lieve pioggia che scandisce gli incontri di Takao e la signora Yukari ne Il giardino delle parole, che interrompono le conversazioni al principio dell’estate, la cometa eccezionale che determina la scomparsa (e il ritrovamento) di Mitsuha in Your Name: finalmente la Natura, e il suo precipitato segreto, insondabile, fantastico, diviene assoluta protagonista. Non solo, e forse suo malgrado, diventa una questione sociale, che Shinkai prova a risolvere tramite gli usuali superpoteri dell’Amore che travolgono i due protagonisti Hodaka e Hina.

Come Mitsuha, oppressa da una vita poco stimolante nel piccolo paese di Itomori, anche Hodaka, scappato dalla sua isola senza nome per raggiungere la città, «finalmente non si sente più soffocare». Adolescenti sempre veri, articolati, vivono nella turbolenza della loro stagione. Hina è una portatrice di sereno, è in grado di fermare le precipitazioni per riaccendere il sole per qualche ora (così, comicamente, Hodaka e Hina si inventano un business). Non solo, è anche una Sacerdotessa del Tempo, come si tramanda da secoli nelle leggende della tradizione giapponese, destinata a farsi vittima sacrificale, e così a dissolversi nello Spazio. Shinkai, allora, sembra erige la Natura e la sua forza cataclismatica a motore e matrice principale, perché l’uomo è indissolubilmente legato a essa, ma fatica a trovare un compimento alla riflessione ecologica/ambientalista che in maniera così evidente si fa avanti tra i solchi del racconto: l’umanesimo di Shinkai è talmente forte, il suo è un credo religioso e indefesso, che la retorica del sentimento, non sempre raccontata con lucidità, deve vincere a tutti i costi sulla possibilità di intercedere con la Natura, alla quale l’uomo, quindi, deve dichiararsi per sempre subordinato.

Così Tokyo ritorna a essere una laguna inondata da piogge torrenziali, e l’uomo deve limitarsi a cambiare domicilio, adattandosi a essa – la Natura si riprende ciò che è suo. Eppure «il mondo non è sempre stato pazzo, siamo stati noi a cambiarlo», dice Hodaka, combattuto dal senso di colpa per aver sacrificato le buone sorti del clima nel tentativo di salvare Hina dal suo destino avverso. Hina ora deve pensare a vivere per se stessa. Affermazioni che portano con sé il peso fin troppo borderline della loro naiveté, il bello e il cattivo della poetica del loro autore, immersa in un fantasy disinvolto, disinibito. Ma che cosa hanno cambiato, esattamente, Hina e Hodaka? Weathering With You è colmo di evocazioni immaginifiche, statement importanti ma di sovente contraddittori, che non sempre s’intrecciano in tutt’uno organico. Più fortunatamente, Shinkai non ha bisogno di ambiziosi cripticismi per dispiegare la sua fede romantica, che qui esprime anche mediante un voice over illustrativo, eppure sembra incespicare quando, al di fuori della sua comfort zone, prova, non del tutto intenzionalmente, a dirci qualcosa di più tangente e attuale rispetto al panismo, o a quella partecipazione mistica di levybruhliana memoria di cui i suoi film sono intrisi. In Weathering With You, allora, pur potendo, non si deve incidere sulla Natura, cambiandone il corso, giacché questo significherebbe sacrificare il soggetto amato. E così Shinkai rinuncia, senza curarsene, a una potenziale riflessione sul rapporto Uomo/Natura in virtù dell’Amore a tutti i costi. Cosa rimane? Il Tempo è un mistero, e solo da un secolo l’uomo ne studia il passo metereologico. Ecco, allora, il fato, e con esso l’enigma, degli amanti che riescono a riconoscersi pur dimenticando il loro nome, o di Hina che viene ritrovata da Hodaka, sebbene priva dei suoi poteri, ancora in preghiera. È un sentire antico, idealista, quello di Shinkai, senza far sconti all’attualità, di cui comunque ritroviamo i segni (il leitmotiv della disoccupazione/sfruttamento giovanile, affrontato giustamente nei toni della commedia). Shinkai, sprofondato nel fantastico da cui non vuole uscire, Shinkai ancora più melodrammatico ed esuberante, ancora più dettagliatamente urbano, ancora più eroicamente romantico, consolida uno stile a rischio di manierismo, capace di limpidissime intuizioni ma anche di calcoli maldestri di ritmo e montaggio, mentre risuona l’eco (fin troppo ridondante) dell’equilibrio perfetto tra accessibilità commerciale e complessità narrativa che fu Your Name, soltanto tre anni fa. Cosa fare, dunque? Alleggerire. Riportare al tono minimale che tanto bene aveva fatto a Il giardino delle parole. Sfoltire gli accanimenti di segno negativo, dal sapore thriller, che intralciano qui il protagonista (quella società con cui Shinkai però non vuole fare i conti). Sottrarre. Si presenta per Shinkai un dilemma comune: quando si è già eccelsi nel proprio, cosa fare per non perderne l’incanto? Come deviare?

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Makoto Shinkai 112 minuti
Giappone 2019
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Euphoria - Stagione 1

di Elvira Del Guercio
Euphoria - recensione serie tv hbo

Euphoria è un universo iperreale, stratificato, traslato. Non c’è pretesa di verità, o meglio, di verosimiglianza assoluta nella rappresentazione di questa gioventù formicolante, dissezionata puntata dopo puntata dall’onnisciente voce fuori campo di Rue (Zendaya): la vita dei ragazzi e delle ragazze che Sam Levinson raffigura pare così scorrere sotto uno strato di epidermidi e corpi denso e magmatico, fatto di eccesso, immagini innaturali e, come muovendosi in uno stato di trance “euforica” incontrollata, di continue allitterazioni visive e sonore. Ma soprattutto di fantasmi. A inseguire questa gioventù è lo spettro di qualcuno o qualcosa, madri, padri, aspettative e angosce, finendo in questo modo per contorcersi sul solo e unico presente: esacerbati all’ennesima potenza, i giovani di Euphoria sono tutti disseminati in una specie di alveare cybernetico, quello dei social, l’unico in cui ci si può conoscere “davvero” e nel profondo (come nel caso di Jules e Nate) e in cui si possono trarre profitto e vantaggio personali dal revenge porn, come agirà infatti Kat. C’è poi il sesso visto come necessaria iniziazione, performativo, vischioso e vissuto unicamente in sé stessi e mai nel completamento con l’altro e nell’altro.

Si tratta di temi per la maggior parte già accennati nel precedente Assassination Nation, che molti hanno definito come il riadattamento nell’epoca dei social network di Le regole dell’attrazione di Roger Avary, e di cui Levinson condivide, oltre che la coralità dei punti di vista – e quindi una direzione specifica nella scrittura, volta a un colpo d’occhio cumulativo –  anche una riproposizione amorale e disinteressata della materia; conservando la medesima forza deflagrante della serie HBO, il film si rivelerà però essere una feroce e sanguinaria satira dell’America contemporanea, carnevalizzata e ridotta a macchietta.
La narrazione si dipana qui intorno alle figure delle quattro protagoniste che incarnano in un certo senso la disinibizione, il “peccato” che andrà a rivelare il reale e squallido volto del cittadino medio americano: turbato dalla nudità, da ciò che fuoriesce dai propri parametri esistenziali e impossibilitato a riconoscersi al di fuori del proprio Io, come se non ci potesse essere altra realtà al di fuori di quella standardizzata da un’etica congelata e monocorde. Tuttavia, se nel film ciò che si poteva comprendere erano unicamente le idee rincalzate dalle quattro ragazze e mai le rispettive individualità, in Euphoria si assiste, all’inizio di ogni puntata, all’indagine acuminata dei singoli, squadernati dalla voce profetica di Rue, per poi riuscire a comprenderne il ruolo o l’atteggiamento all’interno della comunità, per cui l’approccio di Levinson si configura in questo senso meno spiccatamente politico e più intimista.

Attraverso uno stile fondato sul grado più alto di artificio e stilizzazione dell’immagine, eccentrica e coi piani scomposti, la messa in scena bizzarra e difforme e aderente al mondo raccontato, Levinson costruisce un teen drama a sé stante, che intende dissigillare e mandare in crisi le categorie rappresentative del suddetto genere alla stregua di serie come Sex Education, e lo fa delineando anche alcuni particolari personaggi. Ci vorrebbe tanto altro spazio per rivelarne le contraddizioni e le debolezze, poiché tutti vengono equamente e spudoratamente sviscerati. Senza moralismi e retorica. Ed è forse il personaggio di Jules più che Rue che, d’altra parte, le fa da contraltare, a definire il senso complessivo dell’opera di Levinson: reso come in una condizione di permanente incandescenza, si potrebbe dire che Jules incarni una minaccia all’ordine precostituito, a tutto ciò che è consono, pronto, anzi pronta, a ridefinirsi, a rinascere sempre: una nuova possibilità di essere al mondo.

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Sam Levinson Zendaya Maude Apatow Eric Dane Jacob Elordi 1 stagione da 8 episodi
USA 2019
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Motherless Brooklyn - I segreti di una città

di Matteo Marescalco
Motherless Brooklyn - Recensione Film Norton

«È come se avessi un lato totalmente anarchico nel mio cervello che vuole gettare tutto nel caos ma, allo stesso tempo, tenere qualsiasi cosa sotto stretto controllo».
L'affermazione di Lionel Essrog è in grado di sintetizzare il personaggio tipo interpretato da Edward Norton durante la sua carriera e anche il suo approccio al genere in occasione delle due regie curate, Tentazioni d'amore e, appunto, Motherless Brooklyn - I segreti di una città, progetto della vita che l'attore ha coltivato durante gli ultimi 19 anni e tratto dall'omonimo romanzo di Jonathan Lethem. Il personaggio di Lionel dice di avere il vetro dentro il cervello, è un detective privato affetto dalla sindrome di Tourette e si ritrova a indagare sull'omicidio del suo amico e mentore Frank Minna (Bruce Willis). Con pochi indizi alla mano, Essrog si trova coinvolto in un oscuro gorgo di corruzione e violenza, speculazioni edilizie e faide familiari.

Il secondo film diretto da Norton è un coagulo schizofrenico di note dissonanti. La scelta spiazzante consiste nell'enorme lavoro portato avanti dall'attore, regista e sceneggiatore nei confronti del materiale di partenza, la cui narrazione viene traslata alla New York degli anni '50. La memoria della Seconda Guerra Mondiale è ancora gravosa sulle spalle, lo spettro della Grande Crisi aleggia sulla città e le alte sfere del potere vorrebbero ricostruire il tessuto metropolitano per trasformare la Grande Mela in una città diversa e moderna. Tra i bassifondi di Brooklyn e i jazz-club di Harlem, si consumano le indagini di un detective che filtra gli eventi attraverso il suo punto di vista e li restituisce mediante la sua voce narrante. Motherless Brooklyn rappresenta la trasformazione e la sublimazione in film del personaggio Edward Norton ma rispecchia anche la metamorfosi a cui è sottoposta la città di New York. Il tessuto epidermico, infatti, è curato allo stremo e, probabilmente, raffredda a sproposito le spinte melodrammatiche e le pulsioni sanguigne che, sottocute, caratterizzano il genere del noir. Le scelte fotografiche certosine privano di bollore la materia scelta e danno vita ad una deriva estetizzante che pone una barriera tra spettatore ed immagini - in modo contrario alle scelte classiche dell'ultima regia di Ben Affleck che, proprio nelle immagini vulcaniche del cinema di genere e nel suo sguardo fuori campo intravedeva l'ultima possibilità edenica di redenzione.

Piuttosto che dar vita ad una costruzione audiovisiva compatta ed essenziale, Norton si abbandona a un approccio ricco di digressioni labirintiche, come fosse nel mezzo di una jam-session alla quale si affida per detonare dall'interno la classicità del genere. I suoi scatti improvvisi, i tic nervosi e i continui «If» si trasformano in partitura musicale e scandiscono il ritmo del racconto più di quanto non faccia il montaggio relativamente alle immagini. Lontana da ogni volontà programmatica, la musicalità estrema di Motherless Brooklyn passa attraverso la sua fluvialità letteraria. Le associazioni verbali di Lionel seguono l'andirivieni delle onde del suo cervello e (s)formano un film che vive di pause e intermezzi.

Non dubitiamo che Norton abbia amato allo stremo il progetto intrapreso, fino a restarne intrappolato e a trasformarlo in un ibrido dissennato e ricco di sottotesti che tendono alla dispersione. Probabilmente, il maggiore difetto del film consiste proprio in questo lavoro superficiale, che finisce per spegnere gli intrighi e la gigantesca matassa da dipanare attraverso un nervosismo caleidoscopico e le improvvisazioni patologiche. Anche i germi capaci di far esplodere ogni contraddizione si rivelano più ammansiti di quanto ci si sarebbe aspettato, sancendo i limiti di un'anarchia tenuta troppo spesso sotto stretto controllo.

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Edward Norton Edward Norton Gugu Mbatha-Raw Willem Dafoe Bruce Willis Alec Baldwin Bobby Cannavale Cherry Jones Leslie Mann 144 minuti
USA 2019
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Assassination Nation

di Mattia Caruso
Assassination Nation - recensione film levinson

«Questo è il vostro mondo, lo avete costruito voi. Non prendetevela con me. Io sono arrivata adesso». Si sfoga così, sguardo in macchina e fare agguerrito, Lily (Odessa Young), protagonista e capro espiatorio ideale di Assassination Nation di Sam Levinson (figlio di Barry), quasi un calco delle stesse parole che userà, qualche tempo dopo, la sua coetanea Rue nel pilota di Euphoria, serie evento firmata dallo stesso autore.

Sono mondi comunicanti, del resto, i teen drama di Levinson, così platealmente codificati da farsi immediatamente racconti universali, terreno fertile e congeniale – quando usato sapientemente – per parlare del presente e delle sue derive, non solo generazionali. Una narrazione inevitabilmente (e necessariamente) urlata, eccessiva, sopra le righe, sin da un incipit che grida i suoi temi a tutto schermo (ABUSO, OMOFOBIA, TRANSFOBIA, SESSISMO, MASCOLINITÀ TOSSICA, VIOLENZA, BULLISMO, RAZZISMO), sbattendoli direttamente in faccia allo spettatore, in un concentrato ipertrofico capace di farsi quintessenza di un intero genere.

Del racconto adolescenziale, d'altronde, Assassination Nation pare avere proprio tutto, a partire dalle sue premesse, con quella prima parte che insegue modelli risaputi (in una sorta di ibrido che mescola Mean Girls a Spring Breakers), aggiornandoli però al gusto contemporaneo e a uno sguardo decisamente più crudo, scorretto e insolito della media. Proprio come in Euphoria, il mondo di Lily e compagne pare infatti attraversato da linee invisibili, traiettorie che ne descrivono i rapporti, i desideri, le dinamiche sociali e virtuali, con tutti i paradossi, le degenerazioni e le anomalie del caso. Ma cosa succede se su questo mondo ipercodificato, fatto di party, foto erotiche, pettegolezzi social, tradimenti e insicurezze, viene sganciata una bomba? Cosa succede se, per esempio, un misterioso hacker comincia a rendere pubblici i segreti contenuti negli smartphone e nei pc di mezza città?
È qui che le dinamiche del teen drama irrompono prepotentemente nel mondo (e nei generi) degli adulti, e la commedia lascia presto il posto a un horror distopico pericolosamente vicino a The Purge, dando vita a una caccia alle streghe (non è un caso che la città dove Levinson decide di ambientare la vicenda sia proprio Salem) sgradevole e respingente nella sua cocente attualità.
Un cambio di tono e prospettiva repentino e inaspettato, che il regista gestisce però con mano ferma e consapevole, senza mai prendersi veramente sul serio o cadere in un eccessivo didascalismo, mettendo in scena un mondo malato e marcio sin dalle fondamenta, pronto a scagliarsi sul primo capro espiatorio a portata di mano pur di lavarsi la coscienza.

Il risultato è un film che accatasta, uno sull'altro, temi fondamentali ed estremamente attuali con un gusto per l'eccesso in grado di infarcire di rimandi e significati impensati la sua parabola di vendetta (i riferimenti si sprecano: dai pinku eiga giapponesi fino a Revenge, passando per Carrie), il suo viaggio di formazione alla ricerca di un'immagine e di un ruolo libero da qualsiasi imposizione o condizionamento.
Tra esplosioni di violenza e sfacciati vezzi stilistici (gli stessi che troveremo nella serie targata HBO), fatti di split screen, luci al neon e piani sequenza impazziti, Assassination Nation, dietro il suo gusto patinato per l'assurdo e per l'exploitation, si rivela così un perfetto specchio dei nostri tempi, un Black Mirror appena più cinico e brutale, grido rabbioso e liberatorio di un'intera generazione vittima di una barbarie e di un grottesco che non le appartengono ma con cui è tragicamente chiamata a confrontarsi.

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Sam Levinson Odessa Young Suki Waterhouse Hari Nef Bella Thorne Bill Skarsgård 110 minuti
USA 2018
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Più de la vita

di Carmen Albergo
Più de la vita - recensione film Rivi

Un uomo, artista eclettico (pittore, musicista, performer, fondatore del TAM teatro-musica, "artigiano" delle arti visive) e il suo personalissimo black mirror. Lo schermo come specchio di brame e pulsioni nell'adoperarsi con qualsiasi dispotivo capace di riprodurre e ridefinire un inesauribile estro creativo, un rigore sperimentale che negli anni non ha mai smesso d'ardere con la medesima intensità, pur cambiando l'uomo e i suoi orizzonti. L'uomo che riflette (con) se stesso e su se stesso. Questo il caleidoscopico universo concentrato in Più de la vita, documentario prodotto da Kublai Film e firmato dalla video artista multimediale Raffaella Rivi, che abbraccia la quarantennale parabola artistica e filosofica del maestro padovano Michele Sambin, intellettuale e pionere delle tecnologie e delle arti.

Programmaticamente, l'inquadratura da subito lo ritrare nella posa simultanea (più che posizione) di guardato e spettatore insieme, arrovellato in uno sdoppiamento dialettico che attraversa e supera gli spazi fisici e mentali, amplificando la percezione del tempo memoriale e svelando una dimensione iper-linguistica che non può che eccedere i limiti relazionali della vita lineare - individuale. Un'estensione virtuale, in cui sono faccia a faccia il figlio, il Sé-opera, che ha generato il proprio padre, il Sé – Autore. Un loop concentrico, il crescendo di una spirale in cui concetti e percezioni si espandono, costituiscono il cuore della poliedrica ricerca di Sambin sul potenziale del connubio immagine-suono; una esplorazione che trova nell'audiovisivo il miglior campo sinestesico di comprensione e rifrazione. I corpi, umani, materici o astratti che siano, diventano cromatiche partiture sonore in movimento, richiamo polisensoriale a lasciarsi trasportare nelle fantasticherie dell'immaginario d'artista, lì dove il video è atto trasformante, che non fissa e eternizza l'istante, ma genera e moltiplica la visione, finalmente emancipata dall'autore.  

Da un lato le sonorità raccordano il flusso di sequenze che va dall'attualità al repertorio  (dall' l'installazione fondante "Il tempo consuma le immagini, il tempo consuma i suoni" , alla rielaborazione tarkovskijana "Il sogno di Andrej", passando per l'esperienza del Teatro – Carcere e la drammaturgia strumentale per bambini) dall'altro i commenti recitati in voice over dallo stesso Sambin, sono sia ancoraggi al presente che slanci per nuove incursioni al passato. Tracce e varchi di memorie, ogni passaggio ricompone uno dopo l'altro il percorso creativo e utopistico di un autore che, sin dalle primissime armi, persegue l'intento di rivoluzionare il mondo attraverso idee sintomatiche del contemporaneo e dei suoi congegni, artefatti o naturali. Comunicare idee o sabotare idee? Le operazioni Sambiniane decontestualizzano e destabilizzano i ragionevoli legami causa-effetto, per poter scandire un battito ancora sopito di nuove energie e prospettive ed innestare in questi nuovi solchi le radici sensibili dell'essere. Tutto senza mai scostarsi dalle proprie radici. Gran parte del racconto visivo, fatta eccezione per le riproposizioni d'archivio, si dispiega infatti tra le mura domestiche delle sue due abitazioni, la casa natale nel centro di Padova e la casa-ovile nella campagna salentina, oasi d'artista eretta a propria immagine e somiglianza, spazio d'arte da vivere (bianca, essenziale, lucente, modulabile), ulteriore specchio - quintessenza di sé.

Raffella Rivi realizza un resoconto tutt'altro che descrittivo e conclusivo, mettendo a punto (più che in-scenare) una sorta di ipertesto diaristico tutto da scoprire, in cui nulla è posto a caso, i manufatti, gli arnesi, gli sguardi e le parole nello scambio di battute con l'unica interlocustrice in campo - la compagna artistica Pierangela Allegro - diventano dei link di rimando ad un diverso approfondimento-interrogazione. E' autore anche chi guarda? Stanca più lavorare o riposare? C'è differenza tra potare un ulivo e suonare il violoncello? se risposte ci sono, sono regola di vita dello stesso protagonista: "nei luoghi in cui abito tutto deve funzionare e se funziona c'è bellezza". La bellezza che impegna tutta la vita senza sosta e fatica, come il clarinetto che sfuggente e leggiadro oscilla tra le nuvole, favoloso metronomo dei sogni.

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Raffaella Rivi Michele Sambin Pierangela Allegri 60 minuti
Italia, 2019
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