Western Stars

di Matteo Marescalco
Western Stars - Recensione Film Springsteen

Non poteva essere più struggente di così il film concerto diretto da Thom Zimny e Bruce Springsteen e realizzato in occasione del lancio dell’ultimo album del Boss, a cui bastano un fienile, una band ed un’orchestra di trenta elementi per surriscaldare l’ambiente e provocare pericolosi incendi emotivi.

Western Stars è un’ode musicale all’immaginario statunitense, durante la quale Springsteen ci prende per mano e ci conduce tra i fantasmi di un’esistenza che sembra aver vissuto mille vite. Le canzoni del nuovo album consentono al cantautore di assumere diverse identità e di vestire i panni di uno stunt-man ferito, di un cavaliere in erba che cerca di curare il suo cuore spezzato allevando cavalli, e di un cowboy che rimembra il proprio passato. Ma, soprattutto, Springsteen trova aspetti di sé stesso in ognuno dei personaggi raccontati, immergendoci in un’atmosfera di intimità che si avvale anche della collaborazione della moglie da una vita, Patti Scialfa.

Ne conseguono una seduta psicanalitica e una confessione in prima persona a cuore aperto, struggente proprio perché basata su semplici e magmatiche verità che abbracciano l’amore, la famiglia, la solitudine, l’amicizia e la libertà. Springsteen afferra il volante della sua macchina e inizia un viaggio lungo una vita intera. Ogni canzone è accompagnata da immagini tipiche della cultura americana che strappano il tessuto narrativo e aprono squarci sul tempo passato. In tal senso, assistere a Western Stars è come viaggiare in epoche diverse dalla nostra e trovarvi frammenti della propria identità: come fosse un sacerdote laico, il Boss inserisce filmati d’archivio, facendoli dialogare con la sua orchestra e dando vita ad un percorso mistico che inneggia alla vita e al potere mitopoietico delle narrazioni orali.

La ballata nel buio è, ovviamente, costellata da fantasmi e spettri che rimettono in gioco i nostri fallimenti, i sensi di colpa e le occasioni perse. Probabilmente, tutte queste deviazioni mentali non appartengono al tessuto narrativo di un film che, però, è in grado di chiamarle e di suggerircele. In questo straordinario dialogo con il fuori campo e con il non detto risiede il potere trascendentale di Western Stars. Nella storia della ragazza del New Jersey che ha ridotto il nostro cuore a pezzi è impossibile non trovare una parte di un passato che ci ha costretti alla fuga a bordo di un’auto che continua a macinare chilometri su chilometri, in attesa di giungere a casa. Probabilmente, però, non esiste nemmeno una vera casa ma soltanto attimi durante i quali riflettere su tutto ciò che abbiamo perso e che non c’è più, ma che continua a far sentire la sua presenza dall’aldilà.

Ciò che rimane di questa ballata sono gli scarti e gli imprevisti, l’ampiezza e la profondità della casualità, la vertigine degli attimi da cogliere. Perché, se una casa non esiste più, è ancora possibile danzare sotto le stelle del nostro destino e lasciarsi andare a un viaggio immaginario che potrebbe rapirci senza riportarci indietro. Oz non è mai stato a tal punto struggente e privo di steccati come in questo Western Stars, che offre il proprio corpo a qualsiasi lettura possibile.

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Thom Zimny Bruce Springsteen Bruce Springsteen Patti Scialfa 83 minuti
USA 2019
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Adoration

di Emanuele Di Nicola
Adoration di Fabrice du Welz

Ormai non c’è dubbio: l’amore è al centro del cinema di Fabrice du Welz. Ma non è un amore tradizionalmente inteso, quello spirito romantico cine-letterario che dispensa sospiri: la sua è un’indagine sull’amore deforme, il tainted love, per sondare fin dove può spingersi l’estremizzazione malsana del sentimento. Ecco allora che si chiude la trilogia delle Ardenne iniziata con Calvaire (2004), e dopo Alleluia (2014) arriva Adoration: dopo un’invocazione arriva un’adorazione, appunto, con i due titoli che dialogano intimamente tra loro. Presentato prima a Locarno e poi alla Festa del cinema di Roma nella sezione parallela Alice nella città, Adoration è la storia di una fuga d’amore: il dodicenne Paul (Thomas Gioria, quello de L’affido), figlio di una dottoressa in un ospedale psichiatrico, si innamora di Gloria (Fantine Harduin, quella di Happy End: in un ruolo - anche qui - in dialogo col film di Haneke), una giovane paziente che sembra avere disturbi mentali, anche se lei nega. È l’inizio di una breve conoscenza che istituisce un contatto emotivo tra i due: quando una dottoressa li sorprende insieme, però, Gloria la spinge giù dalle scale lasciando così intravedere la sua vera natura. La ragazza convince Paul: la accompagnerà per la campagna belga, per centinaia di chilometri, fino alla casa dei nonni che nella sua mente è l’unico rifugio possibile. I due scappano.

Il precedente Alleluia inscenava la parabola di una coppia criminale, tratta da una storia vera: l’infermiera Gloria (ancora) che incontra Michel rispondendo all’annuncio su una rivista. Da ipotetica vittima si trasforma in complice dell’uomo, specializzato in truffe contro donne sole: di volta in volta, però, Gloria è incapace di sopportare la gelosia e decide di uccidere le prede di Michel, configurando i due come la classica coppia assassina. Adoration lavora sullo stesso terreno, ma opera un ribaltamento dei ruoli: se lì era l’uomo a dominare e la donna a spingersi oltre per amore, qui è invece la ragazza l’elemento forte della coppia, il punto trainante, e il ragazzo è colui che viola le regole per seguirla. Dove può arrivare l’amore? Per l’autore è chiaro: Amore (con la maiuscola) non conosce i limiti della morale e ridisegna quelli dell’etica. Così seguiamo il movimento degli amanti criminali, che ricordano da vicino il film di François Ozon del 1998 (Les amants criminels: Alice che convince Luc a eliminare un amico - uguale - e i due che si gettano nel bosco - uguale). Quella tra Paul e Gloria si presenta quindi come un’altalena emozionale: tra momenti di profonda tenerezza ed esplosioni di paranoia e follia, il giovane asseconda la ragazza in un rapporto fatto di alti e bassi, di incomprensioni e slanci, di passi avanti e indietro. Ma c’è un punto fermo: “È la mia ragazza” dice Paul, ponendo questa essenza come regola statutaria, ferrea ed intoccabile. Cupido ha già scoccato la sua freccia.

Il cinema di Fabrice du Welz non si può però costringere nell’ameno recinto della “storia”. La grandezza del racconto del quarantasettenne belga è infatti soprattutto nell’immagine: girato in uno sporco e terrigno 16 mm, il regista e il direttore della fotografia Manuel Dacosse si lanciano letteralmente all’inseguimento dei protagonisti, vanno loro dietro, insieme si immergono nell’acqua e rotolano nel fango. Così l’ossessione amorosa si fa tangibile, si ritrova nei contatti tra i due, nelle distanze e negli avvicinamenti, nel mondo intorno. E così l’avanzare della storia diviene una miniera di istanti allegorici: basti pensare alla prima apparizione di Gloria, mostrata in soggettiva di Paul che si trova davanti il suo viso ingrandito dopo un capitombolo, con un effetto deformante che già propone la ragazza - bella e pericolosa - come una fata del male; oppure ai giovani in canoa che si immergono nella nebbia del fiume in una sorta di Stige, magnifico quadro pittorico tipico del cinema duwelziano.

Fondamentale è poi il personaggio interpretato da Benoît Poelvoorde, che gli amanti incontrano prima di arrivare alla scelta definitiva. Vedovo eremita che ha lasciato la società per osservare una specie di uccelli che vivono sempre in coppia, la sua figura offre l’ipotesi di una dimensione trascendente e conduce Paul al gesto finale: realizzata la follia di Gloria, appurata la sua malattia, l’abbandono sembra la soluzione più sensata. Ed è proprio qui che du Welz ribalta le attese, spacca l’etica convenzionale e lancia la sua provocazione: perché Gloria si può solo adorare.

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Fabrice du Welz Thomas Gioria Fantine Harduin Benoît Poelvoorde 98 minuti
Belgio
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Judy

di Matteo Marescalco
Judy - Recensione Film Goold

Come quella di Judy Garland negli anni ’50 del secolo scorso, anche la carriera di Renée Zellweger ha subito una brusca interruzione tra il 2009 ed il 2016, periodo durante il quale l’attrice che ha prestato il volto alla celebre Bridget Jones è stata ostracizzata dal mondo hollywoodiano. Per tale ragione, i motivi di interesse nei confronti di un film che avrebbe potuto dar vita ad un cortocircuito tra la vita delle due interpreti, e costruire un dialogo relativamente agli aspetti privati e pubblici della loro esistenza, promettevano bene.

Judy di Rupert Goold prende in esame l’inizio e la fine della carriera della Garland, escludendo tutto ciò che è compreso tra la promessa fattale da Louis B. Mayer («Tu hai una voce che potrebbe portarti ad Oz») e la fine della carriera. Questa scelta di escludere la (sua) vita dal tessuto narrativo del film ha delle naturali conseguenze sul suo sviluppo. Perché ciò che più manca in Judy sono proprio il cuore e l’anima. La Garland arriva a Londra durante l’inverno 1968. La voce non è più quella di una volta e l’attrice versa in pessime condizioni economiche. A ciò si aggiunge la drammatica fine dell’ennesimo matrimonio, un feeling difficile con il pubblico ed i traumi dell’infanzia che non l’hanno mai abbandonata.

Per certi versi, questo film diretto da un regista teatrale somiglia molto a Seberg, presentato in anteprima in occasione dell’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Entrambi, infatti, sono costruiti sui corpi scenici delle loro protagoniste con l’obiettivo non tanto velato di lanciare Kristen Stewart e Renée Zellweger verso la nomination agli Oscar. Mentre, tuttavia, l’interpretazione della prima funziona e salva dal tracollo la semplificazione applicata al film da Benedict Andrews, la medesima cosa non vale relativamente alla seconda performance. Sotterrato da una quantità esagerata di make-up, il volto della Zellweger finisce per somigliare ad una creazione gommosa priva di vitalità e a scomparire sotto il peso di innumerevoli faccette che provocano il solo risultato di rendere poco credibile lo sforzo attoriale.

Ogni aspetto potenzialmente provvido di sfaccettature melodrammatiche è trattato superficialmente e la sensazione che si ha è quella di una svogliata partita a tennis in cui ogni atleta segue puntigliosamente il compitino che gli è stato affidato, senza lasciare spazio al coraggio di osare. È un vero peccato che non ci sia mai spazio per il sogno né tantomeno per un adattamento che trovi la forza di uscire dai rigidi confini del biopic tradizionale per abbracciare lo spettro di un’infanzia irrimediabilmente perduta. Judy non riesce mai a penetrare veramente l’infernale incanto del mondo di Oz e dello spettacolo hollywoodiano e, in tal modo, non riesce a restituire alcunché a uno spettatore che perde rapidamente interesse nei confronti di questo cinema compassionevole che, in fin dei conti, assolve di continuo sé stesso e seppellisce i propri demoni.

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Rupert Goold Renée Zellweger Bella Ramsey Rufus Sewell Michael Gambon Andy Nyman 118 minuti
Regno Unito 2019
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Waves

di Matteo Berardini
Waves recensione film

Ci sono film che riflettono sulle dinamiche dello sguardo contemporaneo, ponendosi domande e mettendo in evidenza criticità e contraddizioni insite nell’atto di creare (e vivere) il cinema oggi. Ci sono film invece che bypassano ogni prospettiva intellettuale per vivere direttamente quello sguardo, assorbendo i fattori che determinano oggi il rapporto tra le nuove generazioni e le loro immagini per riproporli senza filtri sullo schermo, nutrendosene in quanto nuovi elementi di costruzione di un racconto. Waves di Trey Edward Shults (già autore del valido It Comes at Night) è uno di questi film, un’opera che vive di impostazioni Instragram e chat su smartphone senza farsi mai ipermediale. Non c’è collage di linguaggi diversi in Waves, non ci sono inserti social, messaggi in sovrimpressione o estratti di video digitale; al loro posto troviamo immagini che sono figlie naturali dell’iconosfera social e rappresentazione diretta, disincantata, del dispositivo colto nel suo uso quotidiano – compresa la dimensione drammatica, non a caso nel film diversi degli snodi narrativi principali sono affidati a chat tra i protagonisti. Da questo punto di vista Waves è un film necessariamente successivo alla convergenza tra immagine e portabilità digitale, quando ormai nuove generazioni sono nate e cresciute in un diverso orizzonte mediale e non serve più lavorare sulla schizofrenia dei linguaggi e la crescente porosità del confine tra reale e rappresentazione – un approccio, per chiamare in causa uno dei primi film dedicato all’argomento, a là Redacted. Non a caso la storia raccontata da Shults è un dramma giovanile fatto di amori liceali, pressioni famigliari e violenza incancrenita, ma anche di rinascita e apertura e confronto con la fine per maturare e scoprirsi adulti. Un racconto di formazione circolare, scandito da un progressivo chiudersi e riaprirsi del formato dell’immagine e diviso in due parti, in cui la prima appare la più stilizzata, aggressiva e strettamente contemporanea, mentre la seconda cerca nei suoi intenti catartici di ricucire lo strappo con la classicità del racconto cercando una sintesi di passato e presente che possa valere tanto a livello narrativo quanto a livello di linguaggio.

Al centro del racconto troviamo due fratelli, Tyler ed Emily, nuova generazione di una famiglia di colore arrivata al benessere altoborghese ma ancora carica di tensioni. Il padre dei due ragazzi è un modello famigliare forte, non violento dal punto di vista fisico ma certamente pressante, severo, attento a ricordare al figlio come la sua condizione black lo renda sempre un elemento vulnerabile del tessuto sociale. Bersaglio di aspettative e attenzioni costanti, Tyler cerca comunque di vivere la sua adolescenza con maggior naturalezza possibile, consumando molti di quegli elementi di autorappresentazione black che oggi conquistano status e spazi maggiori nella scena culturale americana. Zazzera ossigenata come il Frank Ocean di Blond, Tyler si muove tra le nuove forme di r&b e il pop di Pharrell Williams, e con lui si muove trasversale lo sguardo di Shults, bravissimo nel calarsi in una dimensione socioculturale che non lo rappresenta direttamente ma di cui, evidentemente, riesce a parlare i linguaggi e le emozioni. È soprattutto la forza emotiva il miglior pregio di Waves, una capacità rara di evocare sentimenti importanti e complessi con un’estetica sì contemporanea e giovane ma ben lontana dalle soluzioni prefabbricate e in serie che dominano ormai tanto cinema indie americano. Shults piuttosto sembra guardare alla realtà e ai suoi protagonisti allo stesso modo di Xavier Dolan, non solo per il ricorso espressivo alla variazione di formati visto già in Mommy, ma anche e soprattutto per la naturalezza con cui il racconto si assembla a partire dalle forme base della cultura pop vissuta dai protagonisti. Quello di Mommy e Waves è davvero un cinema figlio del suo tempo, lì gli anni Novanta e qui i nuovi anni Venti, e poco importa se il film di Shults funziona a corrente alternata, a volte costretto dalla sua stessa struttura a manipolare le necessità del racconto, intrappolando i personaggi e le loro evoluzioni in un discorso circolare a priori. La forza e l’impatto emotivo del film ne escono comunque intatti, a volte strazianti, e davvero in linea con lo sguardo dei suoi giovani, nuovi spettatori.

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Trey Edward Shults Kelvin Harrison Jr. Lucas Hedges Taylor Russell Alexa Demie Renée Elise Goldsberry Sterling K. Brown 135 minuti
USA 2019
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Honey Boy

di Matteo Berardini
Honey Boy - recensione film shia labeouf

Amare ma non essere in grado di vivere il proprio amore. Darsi, sacrificarsi, eppure continuamente cedere, perdere di fronte la rabbia, il risentimento, il dolore che non conosce argine e cerca piuttosto di propagarsi, spezzare tutt’attorno, moltiplicarsi come un’entità vampiresca che propaga l’abuso. Ci sono figure personali che falliscono e continuano a fallire, persone chiamate dalla vita a ricoprire un ruolo che non riesce a determinarle, educarle, e che anzi in quello spazio trovano un luogo di contaminazione che rischia di alimentare un effetto domino, un passaggio inter-generazionale di disfunzionalità e sofferenza. Perché anche il dolore necessita dei suoi anticorpi, globuli bianchi ed enzimi vitali che assorbiamo crescendo e ci aiutano a vivere, a gestire le difficoltà della vita.
Cronaca vuole che a una baby star come Shia LaBeouf, divo dello show business Disney già a dodici anni, questo passaggio sia mancato, sostituito da un’infanzia e adolescenza condivise con un padre violento ed ex tossico, innamorato certo di suo figlio ma incapace di dare spazio a quell’amore. Da quest’esperienza il giovane Shia esce sulla cresta dell’onda mediatica, volto di blockbuster di grido ma anche persona spezzata, traumatizzata, sola in un’alienante routine cinematografica e afflitta da quello che, giunto il capolinea del centro di riabilitazione, viene definito senza mezzi termini disturbo da stress post-traumatico. Da quest’esperienza di rehab, pausa forzata imposta dalla giustizia americana ma anche inizio di uno scavo interiore non più rimandabile, LaBeouf ricava la forza per confrontarsi con il passato e dare forma di sceneggiatura al suo dolore, ai ricordi e ai traumi, all’amore dato, ricevuto, sprecato, portando lo strumento del cinema al massimo livello di introspezione. Honey Boy non è altro che questo, un processo di autoanalisi per dare forma al dolore e sviluppare da sé un sistema immunitario atto a gestirlo; LaBeouf scrive la sua storia e impersona suo padre, cercando negli strumenti immedesimanti della recitazione quel contatto che prima mancava.

Gioca a carte scoperte LaBeouf, strutturando il suo Honey Boy su due piani temporali. Il primo, più vicino a noi, nasce da un momento di rottura: il doppio adulto di LaBeouf (ribattezzato Otis Lort e impersonato da Lucas Hedges) è un attore di blockbuster costretto dal tribunale ad andare in clinica, dove inizia un percorso che apre le porte della memoria e prende forma di progetto cinematografico; il secondo, in flashback, è il farsi di quel film immaginato e la ricostruzione del periodo più buio vissuto dal piccolo Otis assieme a suo padre, un campo minato di esperienze limite in cui il protagonista deve confrontarsi con le mancanze, gli eccessi e la violenza (fisica e psicologica) di una figura paterna che tenta ma continuamente fallisce.

Sa emozionare e coinvolgere Honey Boy, opera a cuore aperto che nasce da un’esigenza personale ma riesce a parlare una lingua universale, evocando sentimenti intimi e assieme collettivi insiti nel rapporto padre-figlio. La vita di Otis da piccolo – incarnato da Noah Jupe, sorprendente e vera acqua della vita del film – è un costellarsi di promesse strappate e mai mantenute, dolcezze mancate o scoperte in posti inaspettati, come la breve, intima parentesi con l’anonima vicina di casa impersonata da FKA Twigs. LaBeouf, che si occupa in solitaria della sceneggiatura mentre affida la regia all’amica e autrice di video-arte Alma Har'el, cerca di dosare l’evocazione della sofferenza e la necessità di aprirsi alla grazia, alla bellezza ricercata dal piccolo Otis, ma il film non sempre trova l’equilibrio necessario a rendere giustizia a entrambi gli sguardi in gioco, come se – e in fondo giustamente – l’evocazione del passato personale fosse una pulsazione irregolare troppo dolorosa mentre il punto di vista del padre di Otis conservi una cifra di intimità insondabile, inconoscibile. Ma a pesare soprattutto sul film, e sul suo potenziale di racconto sincero e disarmante, è il fatto che il suo tessuto visivo sia impregnato di un’estetica indie preconfezionata e già testata a tavolino, come se la materia narrata fosse un magma talmente incandescente da necessitare un inquadramento stilistico il più possibile riconoscibile, rassicurante. Tuttavia il discorso portato avanti da LaBeouf è chiaro, e prende di petto le questioni dell’abuso e della dipendenza senza spettacolarizzare mai il dolore: a un certo della propria vita si arriva a un bivio, in cui o si iniziano ad affrontare i propri demoni interiori o si soccombe a essi, perdendo in umanità ed empatia un tassello alla volta. In questo senso appare inevitabile, per quanto meccanicistica, la scelta da parte dell’attore di calarsi nei panni di suo padre, portando al limite questo strumento cinematografico di rievocazione e superamento del trauma con il quale tentare di spezzare l’eterno ritorno. Il risultato è un dialogo che concilia necessità personali e cinematografiche, comunica con il suo pubblico e parla in modo sincero la lingua dell’infanzia. Al netto di tutto, non è poco per un confronto con i propri fantasmi.

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Alma Har'el Shia LaBeouf Lucas Hedges Noah Jupe FKA Twigs Martin Starr9 93 minuti
USA 2019
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Rewind

di Veronica Vituzzi
Rewind - recensione film

La telecamera è sempre stata presente nella memoria di Sasha Neulinger: per tutta la sua infanzia il padre non ha mai smesso di trovare un buon motivo per effettuare una ripresa, fossero feste di compleanno, partite di hockey o qualunque occasione per stare insieme ai parenti. D’altra parte non è una pratica comune conservare i ricordi gioiosi di una famiglia in video e fotografie? Ma ciò che sembra una raccolta infinita di sorrisi e battute verso la camera diviene in Rewind la chiave nascosta di una storia vera tragica e disturbante, raccontata dallo stesso Sasha ora adulto, qui protagonista, intervistatore e autore del proprio percorso filmico a ritroso nel tempo.

I nastri video del padre Henry nascondono, come minuscoli indizi di un’indagine, i sintomi impercettibili di un disagio latente. Sasha bambino inizia ad avere strane reazioni, scatti rabbiosi o esagitati verso i genitori e la sorella, il volto infantile deformato da smorfie grottesche e spaventate.  Qualcosa non va chiaramente, né in lui né nei filmati di questa famiglia apparentemente felice che recita la serenità e il divertimento davanti alla camera. Sono dettagli minimi, impossibili da cogliere se non al rallentatore: la carezza furtiva di un parente, uno sguardo abbassato a terra, una risata troppo isterica per essere genuina.  La verità è tutta lì, evidente ma indecifrabile.

Ciò che Rewind rivela riavvolgendo il nastro indietro è una devastante storia di abusi, perpetuata come un gene malefico di generazione in generazione: Sasha abusato come la sorella dai due zii e dal cugino fin dalla più tenera età; il padre e il fratello minore abusati dal fratello maggiore; il cugino stupratore a sua volta abusato da piccolo. Sarà Sasha il primo a spezzare la catena, rivelando le violenze subite e chiedendo giustizia in tribunale. Il suo film è la reiterazione visiva di quella coraggiosa confessione, e nasce dall’urgenza di imprimere su immagine la verità e la denuncia dei fatti, facendo i nomi dei violentatori e descrivendo passo per passo non solo i propri abusi ma anche quelli vissuti dal padre da piccolo.

Da questo punto in poi Rewind trascende ogni giudizio critico, perché il suo obiettivo non è quello di essere un’opera ben fatta né di conquistare lo spettatore, ma semplicemente raccontare ogni cosa nei minimi dettagli, anche a costo di risultare respingente o disturbante, sbattendo la verità sullo schermo per tramandarla di spettatore in spettatore e facendo così dell’immagine filmica l’antidoto all’abuso che tanti bambini violentati portano con sé, diventando spesso da grandi a loro volta pedofili. Perché il padre di Sasha non aveva mai detto una parola su ciò che aveva vissuto nella propria infanzia, arrivando a far interagire con assoluta tranquillità i propri carnefici coi figli piccoli? L’ammissione arriva candida e colma di vergogna: non sapeva di aver subito una violenza sessuale. Non sapeva nemmeno di cosa si trattasse, né che potesse riguardare altri oltre a lui. La soluzione proposta da Rewind al riguardo è semplice: parlare della violenza sessuale, parlane a ogni costo, cercare interlocutori – in questo caso, lo stesso pubblico – abbattere lo stigma del silenzio e dell’omertà.

È importante notare che come Henry padre si mette dietro la telecamera per porre un filtro fra lui e la realtà, filmando ossessivamente senza mai vedere realmente cosa quei filmati nascondevano, Sasha diviene regista per entrare epidermicamente a contatto con quella realtà dolorosa. Rewind è racconto confessionale, nuda rivelazione, ma anche denuncia definitiva, soprattutto del ruolo dello zio Howard, il primo a iniziare il ciclo delle violenze sessuali. Un uomo anziano colpevole di atti atroci, e pur tuttavia oggi persona libera e stimata: e allora, laddove la giustizia non riesca a fare il suo corso, che ci pensi il cinema. D’altra parte, se per Sasha la narrazione della propria storia è la definitiva catarsi da un passato che per primo è stato impresso da una telecamera e oggi torna svelato ancora una volta entro uno schermo, è proprio perché al cinema è qui affidato il ruolo finale, potentissimo e supremo, di farsi portavoce incontrastato del vero anche quando tutti vogliono nasconderlo e reprimerlo. Ora tocca solo agli spettatori saper guardare, e saper ascoltare.

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Sasha Neulinger 87 minuti
USA 2019
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Il varco - Once More Unto the Breach

di Samuel Antichi
Il varco - Once More Unto the Breach

1941. Il Regno d’Italia si unì all’Operazione Barbarossa, promossa dalla Germania nazista, che prevedeva l’invasione dell’Unione Sovietica. A luglio i primi soldati partirono per il fronte orientale che divenne teatro di alcune delle più sanguinose e brutali battaglie della Seconda Guerra Mondiale. Federico Ferrone e Michele Manzolini, già autori de Il treno va a Mosca (2013), decidono di raccontare la campagna di Russia nella loro ultima opera, Il varco, utilizzando materiale d’archivio proveniente dall’Istituto Luce e da Home Movies - Archivio nazionale del film di famiglia. L’immagine d’archivio diventa immagine della memoria che riprende vita attraverso una testimonianza anonima, un racconto finzionale liberamente ispirato alle vite e ai diari dei militari Guido Balzani, Remo Canetta, Adolfo Franzini, Nuto Revelli, Enrico Chierici e Mario Rigoni Stern. La voice over di Emidio Clementi racconta l’esperienza di un soldato italiano di origine russa, che parte in treno verso l’Ucraina, attraversando la Moldavia, la Romania e l’Ungheria. Accolti in un primo momento come salvatori, i militari italiani iniziano ad avventurarsi in un territorio desolato, spettrale, ormai ridotto in macerie dall’esercito sovietico nel corso dell’arretramento.

Le immagini d’archivio che in un primo momento mostrano una serie di volti gioiosi e felici, un viaggio in treno verso l’oriente animato da preziosi e affettuosi incontri con le popolazioni locali, iniziano, progressivamente, a rivelare un paesaggio completamente devastato dal fuoco del conflitto. «I cadaveri abbrustoliti dalla benzina assomigliano a verruche della terra. Nelle trincee piene d’acqua galleggiano maschere antigas. Ovunque odore di carne fradicia e piscio» commenta la voice over mentre vengono mostrate le immagini di un plotone allontanarsi da un edificio in fiamme, verso un orizzonte sconfinato e apparentemente privo di qualsiasi forma di vita. I soldati man mano perdono ogni entusiasmo, la vittoria si allontana sempre di più mentre ad avanzare è un inverno rigidissimo. Il protagonista inizia a ripensare alla propria amata mentre affiorano anche gli angoscianti ricordi di guerra - la campagna d’Africa - che continuano a perseguitarlo. «A volte, mentre si sta dormendo veniamo svegliati da rumori sinistri. “Partigiani” urlano alcuni. A me sembrano più strani animali, o spiriti in pena che vagano in cerca di riposo» prosegue la voice over.

Nonostante non vengano mostrate scene particolarmente crude o effettivamente riconducibili ad un conflitto a fuoco, escluso un filmato ripreso in notturna, la traccia del trauma della guerra si insinua profondamente nelle immagini e diviene presenza dislocata, repressa, latente. Attraverso la pratica filmica dell’archiveology, come approccio metodologico critico e principio epistemico, manipolando e ri-montando materiali d’archivio il film promuove un processo di “rimemorazione”, di revisione e di ri-attivazione del passato nel presente. Una volta ricontestualizzate e inserite all’interno di una narrazione, le immagini d’archivio acquisiscono infatti un nuovo valore testimoniale e traumatico. Nonostante non mostrino uno scenario violento e luttuoso, e siano state realizzate con altre intenzioni, agli occhi dello spettatore non possono che rappresentare la tragica realtà del conflitto, senza pietismo o vittimismo. Riposizionate in un nuovo circuito di senso, vanno a costituirsi come oggetti funzionali alla costruzione di una memoria collettiva.

L’immagine di repertorio diventa quindi strumento attivo di ordine conoscitivo, capace di rileggere e riformulare il passato storico, inoltre, nel momento in cui viene re-inserita in un discorso intermediale. Le immagini di repertorio vengono infatti alternate a riprese effettuate nel presente in alcuni territori, teatro della Seconda Guerra Mondiale, dove ora si sta combattendo un altro conflitto, la guerra del Donbass, come sottolineano, in apertura del film, alcuni “intertitoli”. Il paesaggio è nuovamente in rovina, un traumascape, e nonostante sembri apparentemente anonimo e privo di vita conserva e incarna le tracce di un trauma, è un luogo infestato dai fantasmi del passato, uno spazio in cui collidono l’immaginazione e la memoria repressa.

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Federico Ferrone, Michele Manzolini 70 minuti
Italia, 2019
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Made in Italy

di Maria Cafagna
Made in Italy serie tv

Blake Snyder dedica il primo capitolo del suo manuale di sceneggiatura Save the cat al pitch. Per vendere il progetto o per pitcharlo come si dice, appunto, in gergo è necessario avere le idee chiare sulla storia, il genere e il pubblico a cui si vuole arrivare. Una delle cose che Snyder consiglia di non fare è presentare lidea per una storia accoppiando due film di successo sperando che ci siano gli elementi che piacciono a qualcuno. Secondo Snyder, questo è un modo di pitchare che si usa per risparmiare tempo ma che è meglio non utilizzare. Non è difficile però immaginare che molte serie italiane siano nate proprio così. È appunto il caso di Made in Italy, ora su Amazon Prime e dalla prossima primavera anche su Canale 5: è un incrocio tra Il Diavolo veste Prada e La Meglio Gioventù.

Irene (Greta Ferro), studentessa universitaria, approda un po per caso e un po per gioco alla redazione di Allure, celebre settimanale di moda. Siamo a metà degli anni 70 e mentre i tumulti e gli scioperi scuotono lItalia, a Milano nasce il nostro pret-a-porter: Giorgio Armani, Krizia, Versace e molti altri creano lo stile italiano che renderà il Made in Italy un marchio di eccellenza famoso in tutto il mondo. Irene viene da una famiglia piccolo-borghese e non conosce la moda, anche se la mamma sartina le ha dato le nozioni necessarie per riconoscere i tessuti di qualità, ma grazie alla sua intraprendenza riesce a guadagnarsi la fiducia della temibile capo-redattrice Rita Pasini (Margherita Buy) e a ottenere in poco tempo un posto di tutto rilievo allinterno della redazione.

Prodotto da Taodue Film e The Family, Made in Italy è il primo risultato frutto dellincontro tra Mediaset e le piattaforme streaming. Non si tratta però di una semplice incursione occasionale: nelle scorse settimane, il Biscione ha siglato un accordo per 200 milioni di euro con Netflix per la produzione di ben sette lungometraggi. Una vera e propria rivoluzione per unazienda che fino a poco tempo fa muoveva guerra a YouTube! Insieme a diversi tentativi più o meno riusciti di svecchiare soprattutto lammiraglia Canale 5, Mediaset sta dimostrando la volontà di aprirsi a nuovi linguaggi e a nuovi strumenti di fruizione della serialità, e questa non può che essere una buona notizia per il pubblico italiano. Già la Rai si era cimentata in co-produzioni internazionali con titoli come lAmica Geniale e Il Nome della Rosa e, soprattutto, con il servizio di streaming Rai Play sempre più centrale nellofferta del servizio pubblico. Insomma, la televisione generalista sta cambiando o meglio, vorrebbe cambiare. Ma se con la Rai abbiamo assistito a prodotti davvero interessanti (appunto lAmica Geniale, ma anche La linea verticale di Mattia Torre, lanciata interamente sulla piattaforma streaming prima di approdare in chiaro), con Made in Italy Mediaset sbaglia clamorosamente la prima.

La serie inizia come una copia-carbone de Il Diavolo veste Prada, riadattando contesti e situazioni  del film con Meryl Streep, tanto da chiedersi se non si tratti di un reboot. Prosegue poi allontanandosi piano piano dal genere comedy per diventare un melò con inserti divulgativi da rotocalco televisivo del pomeriggio. La trama, che pure poteva regalare spunti interessanti, procede in maniera sempre più inverosimile con dei risvolti a tratti grotteschi, per arrivare a un finale che lascia a dir poco perplessi. La moda, quella che dà il nome al titolo e attorno a cui dovrebbe girare la storia, si trasforma in una passerella, sì, ma per gli attori che interpretano gli stilisti, facendo capolino ogni tanto tra le story line dei protagonisti, senza acquisire mai la centralità che meriterebbe.

Diretta da Luca Lucini e Ago Panini, Made in Italy è schiacciata dal bisogno di essere generalista e allo stesso momento dalla voglia di essere un prodotto diverso, un ibrido che vuole parlare a tutti ma che, in fondo, non riesce a parlare a nessuno. Resta da chiedersi, a questo punto, cosa voglia fare Mediaset da grande: contaminare le piattaforme streaming con la tv generalista o portare la tv generalista verso nuovi linguaggi? Made in Italy arriverà in chiaro nella prossima primavera: vedremo, ascolti alla mano, se e in che modo verrà accolta dal grande pubblico. Intanto, molti tra coloro che lhanno vista in streaming lhanno definita unoccasione sprecata, quando la definizione più appropriata, a voler essere espliciti, sarebbe unaltra: Made in Italy è un autentico disastro.

 

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Ago Panini Luca Lucini Margherita Buy Greta Ferro Raoul Bova Claudia Pandolfi Enrico Lo Verso 1 stagione da 8 episodi
Italia, 2019
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Roma Golpe Capitale

di Giorgio Sedona
Roma golpe capitale recensione di Francesco Cordio

“Chi rifiuta il sogno deve masturbarsi con la realtà.” Ennio Flaiano – Taccuino del Marziano

Sembra quasi un monito, impresso sul Taccuino del Marziano sul quale il grande “marziano” Flaiano, addita i peccati di una Roma, ma soprattutto di una romanità, provinciale. Chi rifiuta il sogno, del marziano aggiungiamo noi, è costretto a masturbarsi con la vile realtà. Realtà fatta di sotterfugi, oscurantismi politici, lotti edilizi da accaparrarsi con le armi e con i denti, zone di interessi da parte di poteri sommersi, incensati. Città complessa quanto eterna, tanto grande da non poter contenere nell’interezza la sua globalità in espansione. Città dei Poteri e dei potenti, città dalle due anime, notturna e solare, goliardica e pastorale, come veniva tratteggiata ne La Dolce Vita proprio dallo scrittore pescarese. E se il marziano arrivasse nella città eterna, e nel documentario di Francesco Cordio, Roma Golpe Capitale, il marziano ha un nome ed un cognome preciso, Ignazio Marino, simbolo contemporaneo di tutti i marziani - e non portato a simbolo di un pensiero politico (ed è in questo distinguo la forza del documentario, e sarà in questo distinguo la sua resistenza temporale) - e se nella sua venuta aprisse uno spiraglio nella complessità tentacolare della città, in quanto rappresentante di una altera visione, diversa, programmatica, semplice, visionaria, ecco che i poteri terrestri non lo capirebbero. Come nella morale de L’ultimo terrestre di Gipi il Grigio, o i Grigi, che conoscono veramente cosa è bene e cosa è male, in quanto esseri al di fuori della (imperfetta) razza umana, non verranno capiti ma fraintesi, perfino ostacolati. Il documentario fa della ricerca, e della ricostruzione a posteriori della parabola ascendente\discendente al campidoglio capitolino, un motivo di chiarezza procedendo nei passi certi e sicuri del reportage di stampo giornalistico.

Documenti ed interviste post sindacatura, dello stesso Marino da Philadelphia dove torna a svolgere la specializzazione in chirurgia e che ritorna a discutere e raccontare aneddoti sulla sua amministrazione, all’ex procuratore nazionale antimafia Carlo Caselli che introduce lo spettatore negli oscuri meandri dell’interesse politico ed economico dei pochi rispetto alla libertà dei molti arrivando a definire i poteri occulti ostacolati dalla visione marziana, a Federica Angeli, cronista minacciata e sotto scorta, ai suoi assessori Caudo e Danese, a Tonelli fondatore del blog Romafaschifo, per giungere infine nei saloni dove il sole non volge per non essere di riflesso al suo Santissimo splendore. Non un modo per restaurare un’immagine, violata dal superficiale ma deflagrante, battage sui famosi e famigerati “scontrini”, battage tanto cutaneo quanto inidoneo ad approfondire, ed incapace a vendersi come comunicazione mediale precisa ed argomentativa di una sindacatura, gli aspetti più sotterranei delle manovre sociali ed economiche risolutrici dell’amministrazione comunale dell’ex sindaco. Cordio non vuole agiograficamente volgere l’attenzione nei confronti di un uomo politico ma verso un marziano umano che la città l’ha saputa leggere prima di mettere in pratica alcune manovre risanatrici. Ovviamente Roma aveva i suoi problemi dovuti alle precedenti amministrazioni e alla complessità di una metropoli così estesa come risulta essere, problemi congeniti del prima e del dopo Marino, uno dei pochi, uno dei soli, che ha almeno provato a sanare il sanabile ponendo il cittadino, colui quindi che realmente abita la città, al centro del suo progetto di risanamento. E se prima restava masturbarsi con la vile realtà, tanto da eiaculare frodi ed assolutismi oggi purtroppo non rimane che continuare a farlo, ovviamente sempre dalle bassezze lungimiranti di noi imperfetti terrestri.

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Francesco Cordio 109 minuti
Italia, 2018
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La ragazza del tempo — Weathering With You

di Laura Delle Vedove
weathering-with-you - recensione film

La ragazza del tempo, o meglio Weathering With You. Fare il tempo con te, fare il tempo insieme. L’unione e il tempo (atmosferico), anche cronologico. Le ossessioni di Makoto Shinkai sono tutte qui, riavvolte e dispiegate nel corso del suo fare cinema. Anche Weathering With You affronta una mancanza, poi un (ri)trovamento, una lotta contro il tempo, una separazione, un’unione. Ancora più ottimista Shinkai, che intreccia qui la vicenda di due preadolescenti in una Tokyo colpita da perenni piogge. L’elemento atmosferico, vero attante, non è solo un fattore ambientale, scenografico, mirante alla creazione di un’atmosfera, o il riverbero figurato delle emozioni dei suoi personaggi, ma l’espressione tangibile del legame trascendente e insieme corporeo che l’uomo ha con la Natura, e con tutte le sue forme. La neve che ritarda l’arrivo alla stazione di Takaki in 5 cm al secondo, la lieve pioggia che scandisce gli incontri di Takao e la signora Yukari ne Il giardino delle parole, che interrompono le conversazioni al principio dell’estate, la cometa eccezionale che determina la scomparsa (e il ritrovamento) di Mitsuha in Your Name: finalmente la Natura, e il suo precipitato segreto, insondabile, fantastico, diviene assoluta protagonista. Non solo, e forse suo malgrado, diventa una questione sociale, che Shinkai prova a risolvere tramite gli usuali superpoteri dell’Amore che travolgono i due protagonisti Hodaka e Hina.

Come Mitsuha, oppressa da una vita poco stimolante nel piccolo paese di Itomori, anche Hodaka, scappato dalla sua isola senza nome per raggiungere la città, «finalmente non si sente più soffocare». Adolescenti sempre veri, articolati, vivono nella turbolenza della loro stagione. Hina è una portatrice di sereno, è in grado di fermare le precipitazioni per riaccendere il sole per qualche ora (così, comicamente, Hodaka e Hina si inventano un business). Non solo, è anche una Sacerdotessa del Tempo, come si tramanda da secoli nelle leggende della tradizione giapponese, destinata a farsi vittima sacrificale, e così a dissolversi nello Spazio. Shinkai, allora, sembra erige la Natura e la sua forza cataclismatica a motore e matrice principale, perché l’uomo è indissolubilmente legato a essa, ma fatica a trovare un compimento alla riflessione ecologica/ambientalista che in maniera così evidente si fa avanti tra i solchi del racconto: l’umanesimo di Shinkai è talmente forte, il suo è un credo religioso e indefesso, che la retorica del sentimento, non sempre raccontata con lucidità, deve vincere a tutti i costi sulla possibilità di intercedere con la Natura, alla quale l’uomo, quindi, deve dichiararsi per sempre subordinato.

Così Tokyo ritorna a essere una laguna inondata da piogge torrenziali, e l’uomo deve limitarsi a cambiare domicilio, adattandosi a essa – la Natura si riprende ciò che è suo. Eppure «il mondo non è sempre stato pazzo, siamo stati noi a cambiarlo», dice Hodaka, combattuto dal senso di colpa per aver sacrificato le buone sorti del clima nel tentativo di salvare Hina dal suo destino avverso. Hina ora deve pensare a vivere per se stessa. Affermazioni che portano con sé il peso fin troppo borderline della loro naiveté, il bello e il cattivo della poetica del loro autore, immersa in un fantasy disinvolto, disinibito. Ma che cosa hanno cambiato, esattamente, Hina e Hodaka? Weathering With You è colmo di evocazioni immaginifiche, statement importanti ma di sovente contraddittori, che non sempre s’intrecciano in tutt’uno organico. Più fortunatamente, Shinkai non ha bisogno di ambiziosi cripticismi per dispiegare la sua fede romantica, che qui esprime anche mediante un voice over illustrativo, eppure sembra incespicare quando, al di fuori della sua comfort zone, prova, non del tutto intenzionalmente, a dirci qualcosa di più tangente e attuale rispetto al panismo, o a quella partecipazione mistica di levybruhliana memoria di cui i suoi film sono intrisi. In Weathering With You, allora, pur potendo, non si deve incidere sulla Natura, cambiandone il corso, giacché questo significherebbe sacrificare il soggetto amato. E così Shinkai rinuncia, senza curarsene, a una potenziale riflessione sul rapporto Uomo/Natura in virtù dell’Amore a tutti i costi. Cosa rimane? Il Tempo è un mistero, e solo da un secolo l’uomo ne studia il passo metereologico. Ecco, allora, il fato, e con esso l’enigma, degli amanti che riescono a riconoscersi pur dimenticando il loro nome, o di Hina che viene ritrovata da Hodaka, sebbene priva dei suoi poteri, ancora in preghiera. È un sentire antico, idealista, quello di Shinkai, senza far sconti all’attualità, di cui comunque ritroviamo i segni (il leitmotiv della disoccupazione/sfruttamento giovanile, affrontato giustamente nei toni della commedia). Shinkai, sprofondato nel fantastico da cui non vuole uscire, Shinkai ancora più melodrammatico ed esuberante, ancora più dettagliatamente urbano, ancora più eroicamente romantico, consolida uno stile a rischio di manierismo, capace di limpidissime intuizioni ma anche di calcoli maldestri di ritmo e montaggio, mentre risuona l’eco (fin troppo ridondante) dell’equilibrio perfetto tra accessibilità commerciale e complessità narrativa che fu Your Name, soltanto tre anni fa. Cosa fare, dunque? Alleggerire. Riportare al tono minimale che tanto bene aveva fatto a Il giardino delle parole. Sfoltire gli accanimenti di segno negativo, dal sapore thriller, che intralciano qui il protagonista (quella società con cui Shinkai però non vuole fare i conti). Sottrarre. Si presenta per Shinkai un dilemma comune: quando si è già eccelsi nel proprio, cosa fare per non perderne l’incanto? Come deviare?

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Makoto Shinkai 112 minuti
Giappone 2019
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