Oasis

di Laura Delle Vedove
Oasis - recensione film lee chang dong

È comodo, quando si sente la necessità di inquadrare un oggetto d’arte, utilizzare il termine “poetico” a sottolinearne gli ipotetici caratteri che lo avvicinerebbero al tono della composizione in versi, quel mestiere di sfruttare i piccoli incidenti del reale astraendoli, per farne una metafora, il simbolo di un significato più puro, più chiaro. Non sempre l’operazione, tuttavia, è tecnicamente avvicinabile alla modalità poetica, metro di paragone in senso lato, più che specifico.

Ci sono dei momenti, nel cinema di Lee Chang-dong, che avvicinano la prosa (cinematografica) alla poesia. Letteralmente: sono elevazioni liriche, aperture potenziali, suggestioni, che somigliano da vicino al procedimento di esaltare un’informazione banale del reale per farne la traccia di un’esistenza in fieri, o soltanto in potenza. Succede spesso che in Oasis, la sua terza opera, alcuni dettagli del quotidiano (specialmente quello della giovane protagonista disabile) scappino dalla via ordinata del racconto per essere qualcos’altro, qualcosa che può solo essere interpretato, non conosciuto, spiegato, talvolta solo sentito; cioè una figura, anche riconoscibile, che ha come unico scopo quello di creare delle immagini (sulle immagini). E ritornano anche in Burning, con i giochi di luce sul muro che il giovane protagonista Jong-su riesce a cogliere come un attimo fortuito e al tempo stesso definitivo, la visione iniziatica, l’imprinting, il timbro che, in un certo senso, lo porterà a compiere tutti i suoi gesti da lì in poi. Punteggiature.

In Oasis le impressioni poetiche descrivono il mondo interiore della protagonista Gong-ju, anzi, sono la vita stessa che ella consuma in una casa-caverna come una contemporanea Kaspar Hauser, dove interlocutori e abitanti sono i riverberi di luce di uno specchio a mano, le ombre degli alberi che da fuori la finestra proiettano filamenti spettrali su un piccolo arazzo dalla decorazione etnica, un tableau vivant costituito da una giovane donna indiana, un elefante e un bambino. È così che le particelle di rifrazione solare si tramutano in una colomba bianca (diremmo il contrario, una colomba bianca ci introduce nell’appartamento per poi spogliarsi nel dato fisico della luce) e ancora, dopo, in una piccola compresenza di farfalle bianche svolazzanti. Volano in uno spazio ristretto. Questo è quello che vede Gong-ju, è quello che desidera, cullata dalle voci continue e ronzanti provenienti dalla radio, che l’accompagnano nel sonno: viviamo con lei i giorni della sua prigionia fisica, mentre, impariamo presto, la mente e il cuore funzionano alla perfezione.
Gong-ju è poco accudita dalla sua famiglia, che affitta un appartamento a suo nome mentre le sue cure sono appaltate a una vicina sufficientemente scrupolosa, ma che non le fornisce una presenza continuativa e amichevole. A Gong-ju danno da mangiare come a un gatto. Gong-ju non chiede niente, non vede quasi mai il cielo, ma sa come funziona il mondo.

Le divagazioni surrealiste di Lee Chang-dong stanno in punta di piedi: le colombe e le farfalle non si trasformano mai in uno stormo; Gong-ju e Jong-su non corrono a perdifiato urlando ciò nonostante e a tutti polmoni «ganbare», come in un film di Sion Sono. In Oasis, il dramma che si verifica ha una spinta vitalistica e un incedere tragico che mai si tramuta in un eccesso di pathos, in una cacofonia di segni e accumulazioni che declamino lo stordimento di una realtà impermeabile all’Alterità, tutta concentrata a rimanere nei binari dell’accettabile e dell’utile. Lee Chang-dong non alza mai il volume; in tutti i sensi, giacché lo stesso impiego musicale, pressoché assente, è calibrato in corrispondenza di un momento che si direbbe onirico – e, ancora, poetico. L’oasi dell’arazzo si anima, la trasposizione immaginifica di Gong-ju è resa sfondando drasticamente il confine con il piano di realtà: Jong-su è entrato nella sua vita, è innamorata.
Due solitudini si incontrano. Jong-su sente, inevitabilmente, ben prima di conoscere la ragazza, il click di un riconoscimento esistenziale che altrove, per lui, semplicemente non esiste. Se c’è qualcosa su cui Lee Chang-dong calca sono le linee narrative che descrivono la condizione di frustrazione, mortificazione drammatica di Jong-su: trattato come un disabile, inadatto a incastrarsi nei compartimenti stagni richiesti dalla famiglia-società (in toto), quando, a ben vedere, è la società stessa a farsi inerte, monca, inadeguata a seguire e a monitorare con amore la vitalità, l’esuberanza, l’iperattività, il turbinio girovago, apparentemente sconclusionato, “balordo” di Jong-su. È Jong-su ad assumersi la responsabilità di un crimine fattualmente compiuto dal fratello (quello che vede la morte del padre di Gong-ju); è Jong-su a prendersi cura di lei, dopo aver agito in maniera spostata e sacrilega tentando a tutti gli effetti uno stupro. È Jong-su a muovere i gesti di scusa e di pentimento, offrendole un mazzo di fiori, sebbene non fosse spettato a lui. È Jong-su a chiedere che venga ripetuta l’azione della preghiera salvifica per un’anima persa (la sua), salvo aprire e alzare gli occhi al cielo durante il raccoglimento, riconoscendo l’empietà e la vacuità dell’atto. Jong-su è la cartina tornasole di tutto il malessere di una società della quale egli è scarto e alla quale, al contempo, si sostituisce.

È chiaro che Lee Chang-dong assegni alla diversità il testimone di un ottimismo sepolto sotto i segni negativi degli eventi, perché è in quelle solitudini che ha fiducia. E allora c’è spazio, senza paura, per il romanticismo, per l’espressione del corpo, per quel ritrovarsi identici a un primo impatto: Jong-su si accovaccia per porsi all’altezza di Gong-ju (è l’unico a farlo), e le sue smorfie nervose e insaziate si rispecchiano, tramite il controcampo, nei tremori della sua disabilità. I corpi sono i re e le regine del cinema di Lee Chang-dong: ad essi si avvicina più che può, senza toccarli troppo, sempre col timore di scalfirli, conscio della loro impenetrabilità; i volti, su cui spesso e volentieri sorvola dall’alto, incontrandoli nell’asciuttezza mobile della sua regia, mai maldestra nel soppesare virtuosismo e rigorosità. L’unico modo per permettere all’attimo poetico di levarsi è quello di un realismo minimale, ma mai narcolettico o disciplinato, bensì aperto al prelievo del reale che evade, si trasforma, diventa sogno, possibilità: Gong-ju si alza, replica la mossa dell’amante che è seduta di fronte a lei sul vagone della metropolitana, con una bottiglia di plastica vuota colpisce Jong-su, vezzo ironico del suo amore; vorrebbe, saprebbe come, non può. Lee Chang-dong distilla così il sentimento irrealizzabile.

La cecità ai colori, a questi colori, è la nostra, quella di una società che fraintende un atto di amore con un abuso sessuale, e ancor peggio si dimentica, non pensa di chiedere, di dare il tempo affinché la domanda su quanto è veramente accaduto possa essere accolta ed esaurita: Gong-ju ricerca la vicinanza sensoriale, non la subisce; Jong-su non riesce a spiegare (come potrebbe?) la natura consenziente della loro unione. Il loro mutismo di fronte all’avversità che li colpisce è tutto fuorché deficitario; appare quasi una scelta, quella di una chiusura nell’intimità volta a proteggere e rispettare il loro mondo. L’unica esplicitazione d’intenti (e di sentimenti) non può che essere diretta l’uno verso l’altra – come nella straziante scena finale - in un dialogo esclusivo e biunivoco, e non in virtù di una legittimazione agli occhi di una collettività che non li ha mai visti veramente.

L’ineluttabilità della tragedia che prende atto non necessita di chiose, di spiegazioni, di chiusure che facciano quadrare i conti: l’emarginazione è destinata a perdurare, l’inconciliabilità mastodontica tra i due mondi è fattuale, endemica, situata all’interno di una struttura endogamica, castale. Tuttavia, il senso inossidabile del melodramma giace non solo nella critica feroce alle istituzioni di riferimento; crediamo cioè che l’impeto espressivo, del tutto umanista, di Lee Chang-dong  sottolinei, come una missione, le possibilità. Le possibilità degli incontri, terminali e perituri che siano, delle vicinanze, del potersi toccare anche mentre fuori tutto è morente.

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Lee Chang-dong So-Ri Moon Sul Kyoung-gu Ryoo Seung-wan 132 minuti
Corea del Sud 2002
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La rivincita delle sfigate

di Irene De Togni
Booksmart - la rivincita delle sfigate recensione film olivia wilde

Il teen drama è notoriamente uno dei generi più fortunati degli ultimi anni, al cinema come in televisione. Dai classici The Breakfast Club o Mean Girls ai recenti PEN15 o Lady Bird. I personaggi che vediamo muoversi fra i corridoi e le aule dei licei statunitensi sono spesso brillanti e memorabili ma anche, altrettanto spesso, intrappolati in caratterizzazioni e dinamiche narrative usurate e stanche. I codici del teen drama prendono, così, troppo volentieri la forma di stereotipi che non lasciano alle storie abbastanza spazio di formarsi ed esprimersi impedendo al genere di evolvere.
A distanza di trentaquattro anni da The Breakfast Club le figure della ragazza popolare ma antipatica, dell’atleta stupido o della secchiona senza vita sociale sembrano, in molti casi, così indissociabili dal racconto di formazione liceale d’oltreoceano, cinematografico e televisivo, da rendere impossibile una scrittura che non si concentri su di loro, anche solo per rimetterli in discussione o capovolgerli.

Anche il film di Olivia Wilde (regia) e Katie Silberman (sceneggiatura) inizia mettendoci di fronte ad un gruppo di personaggi dai tratti ben noti, funzionali a descrivere il contesto in cui si muovono le migliori amiche Molly (Beanie Feldstein) e Amy (Kaitlyn Dever), le due protagoniste di La rivincita delle sfigate (triste adattamento dell’originale Booksmart). Le due ragazze hanno scelto di concentrarsi sugli studi e sulle ambizioni future rinunciando a frequentare i compagni di classe al fuori delle attività scolastiche, e rifiutandosi di far esperienza di quella parte della vita adolescenziale fatta di socialità, alcool, droghe, sesso, beer-pong e house parties, perché giudicata non degna di conoscenza o, perlomeno, non produttrice di conoscenza utile.
Tuttavia l’appiattimento e la polarità iniziale vengono man mano disciolti da un film che rimette in discussione se stesso e le proprie premesse di genere servendosi delle proprie protagoniste e della loro storia. Alla vigilia della consegna dei diplomi, le due booksmart si rendono conto dell’importanza delle limitazioni che si sono auto-imposte negli anni e decidono di condensare in una notte tutte le esperienze mancate in passato. Il film svela allora la sua struttura di rocambolesca rincorsa dell’esperienza fondatrice e trasformatrice, del cambiamento, che prende le sembianze di una festa in casa del più popolare ragazzo del liceo.

È interessante notare come il punto di rottura e di (vera) partenza del film sia una delle situazioni più classiche del genere – il bagno della scuola, la ragazza che per caso sente i compagni parlare di lei, la pirandelliana realizzazione della propria multidimensionalità – di cui però, stavolta, viene valorizzata la parte più significativa, vale a dire la possibilità di cambiare lo status quo delle cose, di conoscere meglio e davvero l’altro, di farsi conoscere meglio dall’altro e da se stessi. A partire da questa disposizione al cambiamento e alla crescita, La rivincita delle sfigate procede associando al romanzo di formazione delle due ragazze la progressiva umanizzazione di loro stesse e dei compagni di liceo che per anni hanno visto tutti i giorni e che presto non vedranno più.

Quasi impazienti di disfarsi delle rappresentazioni appiattite cui spesso il genere costringe, Silberman e Wilde ritrovano finalmente una freschezza di scrittura e di regia nel ritrarre l’adolescenza. Ogni rapporto fra i personaggi di La rivincita delle sfigate sembra disinteressarsi ai codici sociali e narrativi e interessarsi di più al benessere, alla fecondità del rapporto stesso. Allo spettatore viene offerto il piacere di una progressiva scoperta nel corso della visione, fino al ritratto finale degli adolescenti alla consegna dei diplomi pieno di quell’energia e di quella benevolenza che derivano dall’accettazione di un percorso di crescita che ricorda molto le atmosfere con cui si chiudeva, all’epoca, Mean Girls: quelle di una battaglia finita, di una fase della vita che si conclude.

Sebbene il ritmo dinamico e cadenzato ne renda piacevole la visione, La rivincita delle sfigate è un film colmo di personaggi, linee narrative, stili registici – il pastiche imbastito dalla Wilde spazia dal videoclip all’animazione passando per l’indie, frutto dell’esperienza cinematografica e televisiva dell’attrice – ma quest’eterogeneità di toni e situazioni avrebbe necessitato forse di maggior spazio e respiro. Tuttavia il risultato è un lavoro cesellato, amato, nato dall’impazienza di raccontare una storia che non ha ancora trovato il giusto spazio e credito sugli schermi.

L’ossatura de La rivincita delle sfigate, è bene non dimenticarlo, è quella di una storia a due. Il percorso di formazione che le due protagoniste fanno lo fanno insieme, come coppia di migliori amiche. Al di là delle varie strizzate d’occhio al genere rom-com (su tutte, la scena finale in aeroporto) possiamo dire che la storia fra Molly ed Amy è una storia, se non di amore, sicuramente di coppia, da cui traspare tutta l’importanza del co-protagonismo, del compromesso, della coabitazione volontaria e preoccupata della scena. Deriva probabilmente da questo tutto l’entusiasmo della critica americana per l’esplosione nella cultura pop delle «female buddy dramedies», storie che parlano di un rapporto positivo, sano e benefico seppur conflittuale, fra due donne.

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Olivia Wilde Beanie Feldstein Kaitlyn Dever Jason Sudeikis Lisa Kudrow 105 minuti
USA 2019
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Peppermint Candy

di Samuel Antichi
Peppermint Candy - recensione film.jpg

Primavera 1999. Un uomo dall’aria persa e affranta si unisce a una rimpatriata di vecchi compagni di scuola. Ecco Yong Ho, nessuno sembra riconoscerlo, sono passati vent’anni e gli amici del liceo ne avevano perso le tracce. «Cosa farò ora che mi hai lasciato? Come vivrò senza di te? Come potrò andare avanti sapendo che mi hai dimenticato? Non può finire così… Ti prego, non andare via! Avevi un segreto?» canta a squarciagola l’uomo prima di dare in escandescenza, salire sul ponte della ferrovia e farsi travolgere da un treno. «Voglio tornare indietro!» sono le sue ultime parole.

Peppermint Candy di Lee Chang-dong ripercorre a ritroso la vita del protagonista svelando i segreti e i traumi che hanno portato l’uomo a compiere il gesto disperato. I flashback delineano episodi chiave nel trascorso di Yong Ho. Nello stesso anno, 1999, dopo aver divorziato e perso la figlia, affidata alla moglie, l’uomo riceve la visita inaspettata del marito di Sun Im, il suo primo amore di gioventù, che non lo ha dimenticato in punto di morte e chiede di rivederlo. Il racconto prosegue a ritroso, mostrando il fallimento del matrimonio di Yong Ho, così come della sua società commerciale. Il treno retrocede, il nastro si riavvolge mostrandoci la giovinezza passata in polizia e prima ancora nell’esercito. Il cerchio si chiude nel finale. È il 1979 e assistiamo a un incontro tra studenti in riva al fiume Han, nello stesso luogo in cui il protagonista compirà, vent’anni dopo, il gesto disperato visto in apertura. Qui Yong Ho incontra per la prima volta Sun Im, la quale gli regala una caramella alla menta, proveniente dalla fabbrica di dolciumi in cui lavora. I due sembrano già essere complici e parlano dei propri desideri, così come delle proprie preoccupazioni, sperando di poter passare il resto della vita insieme.

Come nel film precedente Green Fish (Chorok Mulgogi, 1997), anche in Peppermint Candy (Bakha Satang, 1999) i personaggi sono costretti a confrontarsi con il proprio passato. Due figure di reduci come quelle di Mak-Dong, protagonista del titolo precedente, e Yong Ho portano ancora sulla pelle e nel proprio inconscio, non totalmente assimiliate, le tracce di un passato traumatico. Se il primo dopo essere tornato dall’esercito entra in una banda criminale, il secondo si arruolerà in polizia, cercando un ambiente istituzionalizzato che possa legittimare il crimine di cui si è macchiato. Il viaggio a ritroso compiuto dal film mostra infatti il trauma primario che sembra aver cambiato definitivamente la vita di Yong Ho, condizionandone le azioni future. Nel 1980 a Gwuanju, le forze armate sedarono brutalmente una protesta studentesca contro la dittatura di Chun Doo-hwan, una pagina nerissima su cui si concentrano altri due titoli recenti come A Taxi Driver (Taeksi woonjunsa, 2017) e 1987 ­– When The Day Comes (1987, 2017). In quell’occasione l’uomo uccide, inavvertitamente, una giovane studentessa, confusa in un primo momento con la sua amata. Un destino nefasto che sembra venir predetto nel momento in cui, poco prima di unirsi ai propri compagni per la missione, a Yong Ho vengono fatte cadere tutte le caramelle alla menta regalategli da Sun Im. L’uccisione della giovane, come detto in precedenza, momento a cui lo spettatore giungerà quasi in conclusione, risulta essere qualcosa di represso o non risolto che continua a esercitare una forte influenza sul presente dell’uomo. Un momento che segna la perdita dell’innocenza, come avviene in Poetry (Shi, 2010) nel momento in cui l’anziana protagonista, secondo cui la poesia può essere creata solo a partire dalla pura bellezza, dovrà affrontare la cruda realtà che coinvolge il nipote, cambiando inevitabilmente prospettiva.

L’uccisione della giovane segna anche la fine di un possibile amore idilliaco, portando alle umiliazioni di Yong Ho nei confronti della donna, fino all’inevitabile rottura del rapporto. Il trauma represso resiste e persiste nelle ripetizioni del tempo presente attraverso un comportamento brutale e auto-distruttivo che segna l’animo dell’uomo. Ad ogni tappa della propria esistenza riemerge un vecchio dolore che amplifica l’odio che l’uomo prova per sé stesso, dalle torture compiute in polizia al tradimento della moglie. La dimensione singolare risulta essere specchio di quella di un paese che faticosamente sta cercando di farsi strada e di crescere rischiando però di produrre delle figure fantasmatiche stanche e insoddisfatte, pronte a far esplodere le proprie (com)pulsioni e ossessioni, come avviene d’altronde anche in Burning. In Peppermint Candy il trauma individuale diventa un trauma storico e culturale, mostrando una nazione che passa dalla dittatura militare alla democrazia e al sistema capitalistico, risoluta verso un ideale di progresso ma rifiutando alcun tipo di revisione critica del proprio passato.  Il percorso di elaborazione del trauma inizia nel momento in cui l’uomo decide di rompere l’integrità del processo storiografico lineare per intraprendere un viaggio nel passato e nella propria coscienza, con il fine di ritrovare e rivivere il primo e unico amore, riassaporare il sapore delle caramelle che gli regalava Sun Im, ricongiungersi con un oggetto perduto.

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Lee Chang-dong Sol Kyung-gu Moon So-ri Kim Yeo-jin 130 minuti
Corea del Sud 2000
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NOS4A2

di Leonardo Strano
Nos4a2 - recensione serie tv amazon prime video o'brien

Al centro di NOS4A2, quindi sotto la corteccia composta dai suoi sbiaditi arzigogoli narrativi e dal suo inerte impianto visivo, riposa una riflessione sulla formazione della personalità dell’individuo adolescente. Per la serie prodotta da Amazon Prime Video, creata da Jami O’Brien e tratta dall’omonimo romanzo di Joe Hill, questa presenza sotto copertura – continuamente vivificata e dichiarata con rimandi maldestri dalla sponda drammaturgica e dalla controparte formale – è l’unica spinta legittimante, l’unico elemento di possibile interesse capace di giustificare l’intera produzione: la storia, canonica ma sempre infuocata, della fratturazione dell’idealtipo famigliare, della sofferenza che si rifugia nell’inconscio e dell’individuo adolescente costretto a fronteggiare tempeste psicologiche per comporre il puzzle del suo carattere nel mondo adulto, infatti, certo non richiede mai un impegno cerebrale agile ma almeno solletica un potenziale tentativo di partecipazione emotiva, grazie al riflusso continuo del sentimento e al potere convincente del trasporto patetico.

La storia della crescita identitaria di Vic McQueen (Ashleigh Cummings), della scomparsa di alcuni bambini e delle azioni di un “Mefistofele” motorizzato di nome Charlie Manx (Zachary Quinto), è quindi facilmente identificabile come un ammasso narrativo poco interessante costruito sulla base di un presupposto attraente, in cui si può scomporre il visibile narrativo dall’invisibile tematico e riscontrare le modalità con cui la serie organizza le proprie configurazioni per comunicare il nucleo della sua storia. La critica a NOS4A2 si dispiega soprattutto per l’insufficienza con cui queste stesse configurazioni concretano il loro contenuto: attraverso i codici ambientali dell’horror, la serie cerca di intensificare i suoi nuclei tematici - tra i quali il percorso di formazione è uno dei tracciati semioticamente più densi – e lo fa costruendo una metafora in cui il dramma famigliare si pone come avventura contro il male; il tentativo – anche consapevole, come enuncia la stessa protagonista - è funzionale sulla carta ma poco sullo schermo, dove una dilatazione non giustificata dei tempi del racconto sbriciola la forza dei pochi simboli presenti.

Anche le buone idee – come lo stress suscitano nei personaggi dal valore emotivo degli oggetti – vengono compresse sotto al peso di un masochismo espressivo che non è tanto causato dall'incapacità ma dallo spreco di occasione. La potenzialità di un racconto horror sulle scelte che si compiono a causa del dolore provocato dalla propria diversità, dal lutto virtualmente avviluppatosi nell’inconscio, dai sensi di colpa tramandati in eredità dai propri genitori, rimangono posizionate sul fondo di un’immagine pigra che non educa mai la grammatica visiva per valorizzare il senso, e appiattisce anche la profondità significante del simbolo. Rimane così abbandonato – anche dal punto di vista formale - il discorso sulla crescita come comprensione del dolore necessario e del male ambiguo, come consapevolezza dell’impossibilità delle scorciatoie e dell’inevitabilità del sacrificio di alcuni affetti, come salvezza del ricordo dell’infanzia e a un tempo scioglimento dall’ingenuità “natalizia” del bene.

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Ashleigh Cummings Zachary Quinto Olafur Darri Olafsson Virginia Kull Ebon Moss-Bachrach 1 stagione da 10 episodi
Usa 2019
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The Rider - Il sogno di un cowboy

di Attilio Palmieri
The rider - recensione film

Non c'è genere più americano del western. Sembra una frase fatta, ma per quanto questo genere negli anni sia diventato un modo di raccontare il mondo declinabile geograficamente in tanti modi, la natura originaria risiede inevitabilmente negli Stati Uniti d'America, la cui cultura fondativa è legata inscindibilmente al rapporto tra le due nature del territorio, quella selvaggia e quella civilizzata. Non è possibile capire gli Stati Uniti se non si parte da questo livello di lettura, se non si parte da un popolo senza storia e senza un'identità costruita nei secoli, ma unito grazie all'occupazione di una terra un tempo considerata selvaggia e alla costruzione di una società capace di mescolare identità, tradizioni, provenienze, etnie e religioni.

Che fine ha fatto la frontiera oggi? Per molti è sparita perché anche gli spazi selvaggi sono molto più controllati rispetto a cento anni fa; per altri è semplicemente da ricercare in altri posti (in Australia, per esempio); per altri ancora ha assunto nuove forme, come quella dei confini come quello tra Messico e Stati Uniti, o quelli tra quartieri abitati da classi sociali profondamente differenti.
Nonostante abbia conosciuto alti e bassi, oscillazioni tra momenti di maggiore popolarità e altri di quasi insignificanza per l'opinione pubblica, il western continua ad essere così centrale nell'identità americana che cinema e televisione non smettono di riprenderlo, riscriverlo, rivisitarlo, che si tratti della versione fantascientifica proposta da Westworld o della riformulazione digitale del classicismo realizzata da GodlessPer quanto il concetto di frontiera sia completamente diverso da quello di centocinquanta anni fa, lo spazio americano è ancora qualcosa di una grandezza inafferrabile, per certi versi incomprensibile agli occhi di chi non lo ha mai vissuto ed esplorato, tanto da essere ancora oggi un elemento fondamentale non solo delle rappresentazioni audiovisive, ma prima di tutto della costruzione di comunità. È da qui che parte The Rider, film di Chloé Zhao presentato nel 2017 a Cannes, uscito in sempre più sale negli Stati Uniti a seguito dei tanti premi vinti e arrivato qui in Italia solo nel 2019, a cavallo tra l'estate e l'autunno. Si tratta del secondo lungometraggio dell'autrice cinese, dopo l'ottimo esordio intitolato Songs My Brother Taught Me.

Proprio durante le riprese del suo primo film, Zhao conosce Brady Jandreau, con il quale sviluppa un rapporto sempre più stretto e dal quale rimane profondamente affascinata. Potrebbe sembrare un appunto superfluo all'analisi del film, ma a ben vedere non lo è affatto, perché lo stile di Zhao, il modo in cui il film è scritto e girato, le atmosfere che costruisce e in generale l'approccio alla materia narrata da parte della regista riflettono in maniera evidente il rapporto tra l'autrice e il suo protagonista.
La storia è quella di un mandriano campione di rodeo che rimane vittima di un incidente che gli lascia traumi e ferite molto profonde, oltre alla consapevolezza di non poter più partecipare a un rodeo. Tutto il film racconta ciò che succede dopo l'incidente, la vita del protagonista, quella della sua famiglia e il dramma di una persona che aveva poco e si ritrova senza più nulla. O quasi.

La storia quindi è quella vera di Brady Jandreau e tutti gli interpreti non solo sono non professionisti ma recitano nella parte di loro stessi conferendo una sensazione di verità impressionante alle immagini di Zhao, grazie anche alla capacità dell'autrice di dirigerli, considerando anche che non si tratta di un documentario ma di un film di finzione a tutti gli effetti.
Il lavoro di Zhao è un western in piena regola, in particolare per come la regista utilizza lo spazio, mostrando un paesaggio sterminato e selvaggio, una natura assolutamente indifferente rispetto all'essere umano, che è per quest'ultimo una componente essenziale della sua esistenza ma che di lui si disinteressa totalmente, sottolineando puntualmente la sua irrilevanza.

Lo sguardo di Zhao è ricchissimo di cose da raccontare, soprattutto perché guarda all'America in maniera molto diversa dalla tipica prospettiva statunitense, un punto di vista completamente immune alla retorica del sogno americano in cui a ogni caduta deve corrispondere una rinascita, in cui i protagonisti sono spesso antieroi maledetti e affascinanti e figure che vivono nella consapevolezza che impegnandosi al massimo, mettendocela tutta, non c'è sogno che non può essere raggiunto.
L'autrice è una donna cinese formatasi negli Stati Uniti e pertanto racconta la sua storia dal punto di vista di un'immigrata che guarda all'America in maniera molto diversa rispetto ai narratori statunitensi, restituendo un nichilismo e una disperazione che non conoscono alcun'indulgenza, alcun magnetismo e al contempo non sono mai trattati enfatizzando i sentimenti e il dolore dei personaggi. L'esemplificazione di questo discorso emerge nel paragone tra il film di Zhao e Il temerario di Nicholas Ray. Con il film del 1952, interpretato da uno straordinario Robert Mitchum, The Rider ha in comune il contesto e il protagonista, ovvero un campione di rodeo, ma vi si discosta profondamente perché privo dell'aura di tragedia che ammanta il protagonista del film di Ray di un fascino che appartiene solo ai fenomeni (e ai divi come Mitchum). La strada scelta dall'autrice è invece quella di un realismo che fa della malinconia del contesto messo in scena la sua cifra principale, grazie anche a uno stile che alla messa in scena della leggenda preferisce quella intensa e lancinante della vita, con tutti i suoi misteri e le sue sofferenze.

The Rider è uno struggente western contemporaneo diretto da una regista classe 1982 che a partire dalla tragedia di un uomo si allarga al ritratto della sua comunità e del suo mondo; un soggetto che l'autrice descrive con grande trasporto, tirando fuori un'autenticità davvero impressionate dai personaggi e dagli spazi messi in scena. Analogamente a quanto fatto da Kelly Reichardt in alcuni suoi film, Chloé Zhao fa il punto sul western americano privandolo totalmente del mito, riuscendo a utilizzare il genere per raccontare una faccia desolante e desolata dell'America contemporanea, un mondo fatto di relitti umani – che sotto certi aspetti ricorda The Wrestler (ma con un finale antitetico e molto più coraggioso) – ma anche di seconde possibilità in cui riscoprire l'amore per la propria terra, la propria famiglia e i propri amici.

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Chloé Zhao Brady Jandreau Mooney Tim Jandreau 105 minuti
USA 2017
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Yesterday

di Veronica Vituzzi
Yesterday - film boyle beatles

Jack Malik è un musicista mediocre oramai sul punto di abbandonare i suoi sogni di gloria, quando una notte fa un brutto incidente con la bicicletta e finisce in ospedale. La causa è un misterioso black out elettrico mondiale di 12 secondi: perché sia accaduto, non si sa. Quel che importante è che Jack, una volta ripresosi, scopre di essere l’unico a ricordare chi siano i Beatles. In pratica, nessuno ha mai ascoltato le loro canzoni, perché il gruppo non è mai esistito. La tentazione, per un cantautore fallito, è enorme: perché non provare a sfondare avendo a disposizione un’enorme quantità di capolavori da spacciare per propri?

Yesterday non è un capolavoro, né un’opera perfetta. Ma gli si perdonano tutti i difetti perché suvvia, l’idea di base è troppo interessante e stuzzichevole per non pretendere almeno una visione. Come sarebbe il mondo senza i Beatles? Se di solito soggetti del genere, improntati a immaginari futuri alternativi, preferiscono dedicarsi agli storici nodi politici (se Hitler avesse vinto la guerra, se Kennedy non fosse stato ucciso etc), il film di Danny Boyle accetta con leggerezza un compito molto più arduo, ovvero riscrivere una società presente privata di un suo elemento culturale fondamentale. Anzi, ad essere onesti, vista l’incredibile influenza sulla musica, sull’arte e sulla società dell’opera dei quattro di Liverpool, il mondo alternativo di Jack (da cui sono stati cancellate con nonchalance anche le sigarette e la Coca-Cola) si direbbe perfino troppo simile al nostro.

D’altra parte i limiti della sceneggiatura di Richard Curtis potrebbero considerarsi fisiologici, perché la carne concettuale al fuoco è anche troppa, e infinite sono le possibili speculazioni narrative da elaborare. Yesterday preferisce soffermarsi sull’idea più semplice di un genio del passato trasportato al presente, perché il vero concetto alla base della storia sta nel provare a immaginare cosa succederebbe se i Beatles iniziassero a fare musica oggi. Il film postula un quasi immediato, aprioristico successo universale, dimenticando forse che parte della fama di John Paul George e Ringo stava nel loro essere proprio quei tipi là, in quel momento storico, con quelle specifiche doti canore, quello specifico immaginario estetico e quelle irripetibili sessioni di registrazione in studio: un mondo con la musica dei Beatles senza i Beatles stessi è pur sempre ancora molto triste.

Il successo di Jack aka i Beatles in Yesterday è dunque assoluto e ovviamente digitale, traslato in milioni di likes e condivisioni sui social network, e pompato da un’industria musicale odierna, incarnata nella cattivissima manager di Jack, che ha venduto l’anima al mercato e cerca di costruire a tavolino con attente ricerche di mercato e strategie di marketing un successo più monetario che artistico. Le pressioni di questa Beatlemania alternativa, unite al senso di colpa per l’essere considerato a torto un genio incredibile, mettono in crisi il protagonista che, come nelle più classiche storie di fama improvvisa, rischia di perdere di vista ciò che conta di più nella sua vita. Ma d’altra parte la trama non mancherà di offrirgli, tramite colpo di scena finale, la possibilità di redimersi visto che alla fine tutto quel che ti serve è l’amore.

Film allegro e piacevole, poco originale  ma con un soggetto davvero molto interessante, Yesterday conquista per la curiosità che ispira, e per i numerosi scenari che lascia immaginare allo spettatore, nonché per il puro e semplice fatto di offrire una colonna sonora al 99% firmata dai Beatles (il che non è poco). In fondo, come tanti altri biopic musicali, bastano le canzoni a far dimenticare qualunque difetto di scrittura, e Boyle lo sa bene, divertendosi a dirigerlo senza impegnarsi troppo. Eppure non si può fare a meno di cercare tra le righe un collegamento malinconico con il suo ultimo film precedente, T2 Trainspotting, con cui condivide lo stesso nostalgico ritorno alla memoria del passato. Ripensare al tempo che fu, ascoltando la grande musica di una volta: forse l’unico modo per rendere sopportabile un presente incomprensibile e troppo complesso, da cui si vorrebbe solo fuggire.

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Danny Boyle Himesh Patel Lily James Ed Sheeran 116 minuti
Regno Unito, Russia, Cina 2019
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American Factory

di Emanuele Di Nicola
American Factory di Steven Bognar e Julia Reichert

American Factory racconta una storia incredibile, quindi vera: la vicenda dello stabilimento General Motors di Moraine (Dayton, Ohio) che dopo aver dichiarato fallimento fu acquistato dai cinesi nel 2016. La nuova proprietà ha riaperto la fabbrica e assunto i lavoratori licenziati, circa duemila, facendo ripartire la produzione con il nome di Fuyao Glass America, specializzata in vetro per automobili. Presentato al Sundance 2019, il documentario di Steven Bognar e Julia Reichert è il primo film prodotto dalla Higher Ground Productions di Barack e Michelle Obama, disponibile su Netflix.

I due registi entrano nella fabbrica per tracciare l’intero disegno: le immagini dell’incipit recuperano il cinema delle origini di Michael Moore, sembrano tratte da Roger & Me, dove la General Motors (ancora) chiudeva lo stabilimento di Flint lasciando disoccupata praticamente tutta la popolazione in età da lavoro. Lo stesso accade a Dayton, sotto i colpi della crisi economica, con la GM che procede alla dismissione del sito, lasciandosi dietro il panorama desolato che vediamo all’inizio. Sembra la dinamica classica di una chiusura aziendale, ma... qui c’è il colpo di scena: l’intervento della cinese Fuyao guidata dal presidente Cao Dewang che sceglie di comprare l'impianto. L’azienda viene riaperta. Divisa tra lavoratori americani e cinesi, la produzione riprende e la cinepresa cattura gli addetti orientali con il caporeparto che spiega le differenze tra Usa e Cina: «Qui potete fare battute sul presidente e non succederà nulla», afferma. Intanto i lavoratori americani, rimasti inoccupati con conseguenze devastanti (come la perdita del mutuo), iniziano a tornare al loro posto.

La cronaca di un'integrazione? Tecnicamente sì, visto che americani e cinesi operano insieme all’interno del nuovo marchio. Ma di fatto non è così, almeno non nella sfumatura tradizionale del termine: Bognar e Reichert scavano, osservano, mostrano e intervistano. Ciò che scoprono svela gradualmente la realtà della situazione: se gli operai sono naturalmente contenti di riavere l’impiego, questi tornano però a paga dimezzata e viene chiesta loro una produttività molto più elevata rispetto al passato. Le misure di sicurezza si abbassano: vediamo persone frugare tra i vetri senza occhiali né guanti adeguati. Ma, soprattutto, la dichiarazione d’intenti arriva dal presidente Cao: «Il sindacato avrebbe effetti gravi sulla produzione. Se qui dentro c’è un sindacato io chiudo». La dinamica diviene tristemente chiara: si accetta una riduzione dei diritti pur di mantenere il posto di lavoro, fino all’estromissione dell’organizzazione che quei diritti li reclama. Si arriva, nella seconda parte, a un paradossale referendum sulla presenza in azienda dell’Uaw (United Automobile Workers), il sindacato dell’auto: gli operai sono chiamati a votare, ormai intimiditi, e il no vince nettamente.

Ecco allora emergere la logica del cinese che “salva” la fabbrica americana: è un’esportazione non solo di impresa, ma anche di comportamento sul luogo di lavoro, condotta sociale, insomma di un modo di stare al mondo. Le miniere dei film di Jia Zhangke arrivano sul suolo americano, la guerra del lavoro ci entra in casa, così i cinesi di Dayton cantano una canzone aziendale e ne troviamo perfino uno che riflette sulla “pigrizia” del lavoro occidentale: «otto giorni di pausa al mese, si lavora solo otto ore al giorno, una vita comoda», fa notare. Ed è così, se paragonato ai loro turni di dodici ore con due giorni di riposo mensili: il piano è proprio questo, trascinare gli americani nell'iper-lavoro cinese per aumentare i guadagni dei capi. La riuscita è inevitabile e può essere un sinistro modello per il presente, non per il futuro, così il sogno americano vede il certificato di morte. Se agli Usa sostituiamo l’Europa o l’Italia, poi, il risultato è lo stesso.

Ma il nodo è ancora più complesso. Tra difficoltà per i bassi salari e aumento degli incidenti, vediamo anche un operaio americano stringere una tenera amicizia con un collega cinese: «lo considero mio fratello», dice. Bognar e Reichert sfaccettano la questione mostrando la possibilità del contatto, l’opportunità della vicinanza per lavorare che diventa personale e intima, ipotizzando così una nuova comunità transnazionale in cui uomini agli antipodi operano insieme e diventano amici. Nella loro registrazione amara c'è quindi una traccia umanista.
La proprietà però continua il suo gioco al ribasso: il mantra è migliorare la competitività, gli operai poco produttivi o anziani vengono licenziati. Attraverso un processo di svelamento progressivo, i cineasti ci portano alla vera sostanza di American Factory, titolo antifrastico ma anche “vero”, perché l’azienda resta sul terreno americano anche se i nativi si sentono ormai stranieri. Il film è la storia di un problema aperto. Con sguardo rigoroso, cambi di prospettiva e senza retorica, registra con il documentario ciò che Stéphane Brizé aveva mostrato nella finzione di In guerra: oggi c’è un conflitto del lavoro in atto, una guerra tra poveri tutti contro tutti, dove il capitale è il nemico invisibile. Lì la testa della multinazionale non si vedeva perché collocata all’estero; qui c’è il volto compiacente di Cao Dewang, che chiacchiera amabilmente con quelli a cui taglia i diritti. Ma poco cambia. Nell’ultimo squarcio i registi lo seguono fino in Cina, catturando le sue riflessioni: «mi chiedo se sono un benefattore o un peccatore, ma solo quando sono triste». Non è un villain Cao, è un segno del tempo: come l’automazione incipiente che prevede il taglio di altri posti di lavoro domani. Le macchine sostituiranno gli uomini. Rivediamolo tra vent’anni American Factory: forse sembrerà un horror previsionale.

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Steven Bognar Julia Reichert 115 minuti
USA 2019
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Rotta contraria

di Donato Guida
Rotta contraria di Stefano Grossi

Il filo sottile che lega Italia e Albania ha certamente origini antiche: fin dal XV secolo gli arbëreshë (gli albanesi d'Italia) hanno popolato la nostra nazione creando folte comunità nelle zone insulari e nel sud Italia. Considerando invece il passato più recente, è innegabile che ancora oggi restano vivide nella nostra mente le impressionanti immagini di quello che accadde l’8 agosto del ‘91: caduto il regime comunista, la nave Vlora venne improvvisamente presa d’assalto dalla folla dirigendosi poi verso l’Italia con, a bordo, migliaia di albanesi alla disperata ricerca di “un’America adriatica”.

Le parole di Fatos Lobonja, intellettuale albanese indipendente, risuonano forti nel bel documentario di Stefano Grossi, Rotta contraria: “Se volete vedervi allo specchio, guardate l’Albania, che è un po’ una caricatura dell’Occidente”. Figlia di un recente boom economico, oggi Tirana sembra rispecchiare la capitale di una new economy folle e aggressiva, dove nuovi giovani yuppies, dalle postazioni dei loro call-center, propongono quotidianamente innumerevoli offerte telefoniche. Dare un volto a queste voci, vuol dire parallelamente fare luce su una storia di povertà, privazioni e sofferenze che, oggi, sembrano lontane nel tempo. Talmente distanti che il fascino della nuova ricchezza albanese ha richiamato giovani italiani, viaggiatori nella direzione opposta, ormai stufi di attendere una proposta lavorativa che tarda ad arrivare. I figli della terra che meno di trent’anni prima offriva una prospettiva di guadagno, volano quindi oggi verso un rivalutato nuovo mondo, alla ricerca di nuove possibilità.

Rotta contraria è uno schiaffo in pieno volto: opera corale di un regista navigato, mostra un lucido spaccato economico e sociale che viaggia sul filo comunicante, storico e diretto, che collega due coste del Mar Adriatico. I protagonisti che raccontano la loro vita, la loro esperienza, i loro sogni, sono disarmanti nella sincerità espressa, italiani o albanesi che siano. Le interviste ai protagonisti sono costantemente intervallate da immagini di repertorio e la storia albanese prende corpo poco alla volta; il “presente raccontato” sembra essere un raccordo tra un passato ancora non del tutto cancellato, e un futuro ricco di aspettative e speranze. La paura del vecchio regime comunista lascia oggi spazio a nuove strategie di business; la possibilità di essere incarcerati per pensieri diversi da quelli obbligati, viene sostituita dalla possibilità, da parte del lavoratore, di poter scegliere tra dieci diverse offerte di lavoro dopo neanche tre giorni dall’invio del proprio curriculum. Grazie alle sue interviste, Stefano Grossi restituisce in immagini le parole Fatos Lubonja, mostrando, in 75 minuti, il passaggio "dalla tragica irrealtà isolazionista del regime comunista di Henver Hoxha all'altrettanto tragica irrealtà d'importazione del modello turbo-capitalista". Un modello che, tuttavia, oggi sembra essere insostituibile.

Presentato al Bari International Film Festival, Rotta contraria racconta una realtà ancora sconosciuta e, allo stesso tempo, affascinante. La regia di Grossi non interferisce con la linearità dei racconti degli intervistati, la macchina da presa sembra quasi voler scomparire, ma al contempo il regista invita i protagonisti a rendere partecipe lo spettatore dello sviluppo di questo mondo nuovo; una neonata America che sembra non porsi limiti di crescita. Un El dorado che oggi richiama a sé non solo i suoi figli fuggiti meno di trent’anni fa, ma anche i giovani italiani che, stretti tra incertezze e precariato, seguendo la rotta inversa aspirano a un futuro migliore.

 

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Stefano Grossi 75 minuti
Italia, Albania 2018
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Gloria mundi

di Matteo Berardini
Gloria mundi - recensione film

Dividi et impera. Come un virus ad alto rendimento il capitalismo si diffonde infettando, permea negli organismi con cui entra in contatto e da dentro disgrega, crea conflitto, disumanizza. Si moltiplica riproducendo l’immagine di sé, che impone come unica possibilità di organizzazione sociale. Come restare umani, all’interno di un realismo capitalista che sembra ormai fuori controllo? A otto anni da Le nevi del Kilimangiaro, Robert Guédiguian torna a raccontare il tessuto sociale di Marsiglia nel pieno dei suoi conflitti umani e delle tensioni generate dalle storture tardocapitaliste. Torna alla città che ama, la sua città, che da sempre è regina del suo cinema e ispirazione costante di uno sguardo politico che fa il paio, da una parte e l’altra della Manica, con il cinema di sociale di Ken Loach. Come per il regista inglese, anche per Guédiguian il cinema è anzitutto strumento per affrontare le contraddizioni e i traumi suscitati dal capitalismo; Gloria mundi, in particolare, porta questo discorso all’interno di una famiglia di cui racconta la crisi, il perdersi, quando la forza dei legali affettivi si sfalda e tutti i valori di riferimento iniziano a essere dettati da logiche di mercato e aspirazioni neoliberiste.

Sylvie e Richard sono due coniugi piccoloborghesi con due figlie: la prima, Mathilda, è nata dal precedente matrimonio di Sylvie e vive oggi in profonde difficoltà economiche; la seconda, Aurore, è sposata con il rampante Bruno, e assieme portano avanti un monte dei pegni in forte espansione. Mathilda ha appena dato alla luce la piccola Gloria, ma nella situazione di crisi in cui vive avrebbe bisogno di un forte appoggio dalla famiglia. Peccato che gli unici che possano veramente essere d’aiuto, Aurore e Bruno, preferiscano pensare al loro tornaconto piuttosto che rendersi disponibili.

Il taglio che divide la vecchia e nuova generazione di questo racconto famigliare è netto, chirurgico. Se i padri e le madri sono ancora in grado di alimentare sentimenti di solidarietà, empatia e affetto, e vivono pronti a caricarsi sulle spalle le responsabilità e i doveri che quei sentimenti vanno a comportare, i giovani raccontati da Guédiguian sembrano invece persi tra ingenuità estrema (Mathilda) o egoistico cinismo (Aurore e Bruno). Gloria mundi cerca in parte di riflettere la complessità del reale, ma per le poche volte che vi riesce (come nel tema dello sciopero che riguarda Sylvie) altrettante e più volte opta invece per un approccio manicheo, schietto, sicuramente militante e sentito ma anche ingenuo per come divide il mondo in due cercando soluzioni rappresentative semplice a problemi invece ben più articolati.
Per Guédiguian questa nuova generazione francese sembra davvero non avere scampo se non sperare nell’intervento salvifico dei padri, persa com’è tra edonismo, superficialità, distacco e sistematico egoismo. Piuttosto che riunirsi e fortificarsi attorno alla nuova nata, la famiglia di Gloria mundi si sfalda sotto il peso delle sfide economiche dei tempi, a cui non riesce a far fronte e che anzi fanno da innesco agli istinti più bassi della natura umana. Non è un caso che Guédiguian metta in bocca allo squallido personaggio di Bruno, darwinista sociale dalla morale spicciola, il nome di Macron come modello di impegno personale per la riuscita individuale. Guédiguian è evidentemente disgustato dalle derive politiche del suo paese, e preoccupato per la tenuta umana delle relazioni e dei legami che dovrebbero fare da rete in caso di avversità. Peccato però che per mettere in scena questo discorso di denuncia il regista francese faccia suo un approccio così schematico e semplicistico, macchinoso nello scioglimento narrativo e per di più messo in scena con un’enfasi a volte davvero fuori controllo (su tutte, la terribile scena del pre-finale). Peccato, perché quando invece il film si adagia sui corpi e volti che meglio conosce, sui personaggi della vecchia guardia incarnati da Jean-Pierre Darroussin, Gérard Meylan e Arian Ascaride (vincitrice qui della Colpa Volpi), trova una cifra intima e sospesa che tanto riesce a dire del semplice affetto e della dignità umana.

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Robert Guédiguian Arian Ascaride Jean-Pierre Darroussin Gérard Meylan Anaïs Demoustier Robinson Stévenin 107 minuti
Francia, Italia 2019
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The End? L'inferno fuori

di Giorgio Sedona
The End? L'inferno fuori di Daniele Misischia

Nella difficoltà di trovarsi negli scomodi panni dell’inventore di storie nuove (d'altronde già nel ‘300 Petrarca sosteneva che tutto fosse già stato scritto e pensato e per rifarlo – con originalità - bastava cambiarne il metodo di rappresentazione) Daniele Misischia (regista e sceneggiatore), insieme ai fratelli Manetti nei panni di produttori, in The End? L'inferno fuori adotta uno stratagemma molto contemporaneo: il cut & paste di soluzioni cinematografiche già viste, conosciute ed amate, ridefinite e ricomposte poi attraverso una miscela pop vincente. Con un inizio algido alla Schumacher (come in Un giorno di ordinaria follia) e proseguendo unendo le unità drammatiche di tempo e luogo (come in Zombie), la scrittura, per budget e/o per necessità di massimizzare un’idea basata sull’economia delle risorse, ristringe ancora di più le possibilità dinamiche dei protagonisti all’interno di un ascensore bloccato tra due piani di un grande ufficio (Devil e Piano 17 degli stessi Manetti Bros), e dopo aver esteso il concetto di fuori campo drammatico tramite l’utilizzo della voce over (esempi: Berberian Sound Studio e, in particolare, Pontypool) tende verso un finale mathesoniano (o boyleriano, tipo 28 giorno dopo); Misischia, quindi, riesce nell’operazione cine-sartoriale tagliando e cucendo un mash-up che, tra una suggestione cinematografica e l’altra, trova il suo spessore d’originalità e di divertimento su di un abito interpretativo disegnato su misura per il suo protagonista. Alessandro Roja, svestiti i panni del dandy criminale, è un lucido e sadico uomo d’affari, disposto a tutto pur di calpestare chiunque lo ostacoli. In prossimità della chiusura di un importante affare, resta bloccato nell’ascensore del suo ufficio, da lì inizia un incubo zombie che si consuma dentro a mura di vetro in una Roma glaciale come l’animo dei suoi abitanti.

Misischia si cimenta in un film che per l’80% della sua durata è contenuto dentro un unico spazio ristretto. La capacità del regista di creare estesioni spaziali, attraverso un sapiente uso della mdp, concede al film la giusta frenesia della narrazione scavalcando le sabbie mobili della stagnazione ritmica narrativa; inoltre, la capacità di dilatarne lo spazio gli consente di non restare ingabbiato nella sua limitata ampiezza scenica. La voce over del telefono\interfono, meccanismo che consente di fuoriuscire dalla ristrettezza del cabinato attraverso la possibilità dell’accadimento fuori campo, è il giusto veicolo per far evolvere la narrazione zombiesca lasciando su di Roja l’onere della centralità attoriale. La Roma di Misischia è una città livida, senza alcun compromesso, spietata quanto la fame di successo affaristico rappresentato e che non si consuma nell’opposizione tra i vivi e i morti. Anzi, all’archetipo sociale zombiesco il regista oppone una scalata verso i vertici dell’azienda, una scalata orizzontale, in una strage di colletti bianchi, di colleghi letteralmente calpestati, il tutto in una quotidianità lavorativa che si tinge di morsi e sangue. L’atmosfera orrorifica è insaporita dal dialetto romanesco che stempera in commedia le sequenze, non risultando mai stucchevole ma concedendo, come spesso accade con generi annoverati nella postmodernità cinematografica, un sapore grottesco figlio di una rilettura comedy di un genere orrorifico già ampiamente trattato.

Attraverso il Manetti Touch Misischia fa rendere al meglio un genere geneticamente importante, delicato ed continuamente riproposto (ma ancora riproponibile) come lo zombie-movie dando nuova energia ad una narrazione di per sé prevedibile, liberandola dalla trappola dell’eccessivo budget produttivo e dell’integrale ripetività tematica ed espressiva.

Categoria
Daniele Misischia Alessandro Roja Euridice Axen Claudio Camilli Carolina Crescentini Benedetta Cimatti Roberto Scotto Pagliara Giada Caruso Daniele Misischia 100 minuti
Italia, 2018
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