Burning - L'amore brucia
Ritratto bruciante del mondo contemporaneo, il nuovo film di Lee Chang-dong è un capolavoro capace di raccontare tutto il peso dell’assenza e degli spettri che infestano questi tempi fuor di sesto.
«L'unica cosa di cui ci si può sentire in colpa è cedere terreno riguardo al proprio desiderio»
Lacan
Tutto brucia.
Desiderio, appetito, sogno, ossessione. Spettri. Siamo tutti ossessionati da spettri, dai fantasmi di ciò che siamo stati e abbiamo vissuto in passato, dai fantasmi di ciò che inseguiamo e bramiamo per il futuro. Posseduti da forme virtuali che non sono qui, nel tessuto fisico del presente, ma agiscono e generano conseguenze come se fossero reali. Per il pensatore Jacques Derrida questa “presenza dell’assenza” prende il nome di hauntologia, in un gioco di parole che fonde il termine ontologia (studio dell’essere in quanto tale e delle sue caratteristiche essenziali) con il verbo inglese to haunt (infestare, ossessionare). Il neologismo compare nell’opera Spettri di Marx e serve a sottolineare come ogni entità esista sulla base delle assenze che la precedono e la seguono; le nostre vite quotidiane con tutte le loro pulsioni e insoddisfazioni, desideri e angosce, sono circondate da fantasmi, un’infestazione che agisce sul qui e ora dalle due direzioni tracciate da ciò che non è più (e il cui effetto permane posticipato come esperienza, trauma, rimorso) e da ciò che ancora non è (il precipitare sull’oggi di aspettative, desideri, sogni). Tratto da un racconto breve di Haruki Murakami (a sua volta elaborazione di una storia di Faulkner, entrambi mantenuti come modelli), Burning – L’amore brucia è uno dei film che meglio racconta la cifra contemporanea di questa “causalità spettrale”, mettendo in scena un triangolo di personaggi scissi tra alienazione quotidiana e fame di vita, intenti a cercare un posto nel mondo nonostante il loro orizzonte sia infestato da assenze e fantasmi, passati e futuri.
Arma potente l’immaginazione. Può creare e disfare, alterare il reale e mistificare il vuoto. Gesti e sguardi se ben controllati trasformano l’aria in qualcos’altro, creano mandarini, gatti, omicidi. Ce lo insegna il personaggio di Hae-mi, ragazza insoddisfatta dal proprio lavoro che viaggia appena può e intanto studia pantomima, l’arte di fingere che vi sia ciò che non c’è. «Il trucco è dimenticare che i mandarini non ci sono», dice al suo ex compagno di scuola Jong-soo, aspirante scrittore che la derideva da bambino e la desidera da adulto, e che vive come in una bolla nella casa di campagna del padre, ora in carcere per un’accusa di aggressione. I due giovani si ritrovano, riprendono a conoscersi e vanno a letto assieme, ma dopo un viaggio di lei compare un terzo elemento a ricalibrare il quadro, il ricco e fascinoso Ben, serafico uomo d’affari che sembra il figlio prediletto della nuova economia coreana. Pezzo grosso dell’import-export si definisce lui, è un Gatsby dalle ricchezze misteriose per lo sguardo letterario di Jong-soo. Da qui, tra i tre personaggi viene a crearsi un rapporto ambiguo, in cui desideri, pulsioni e paure crescono come fiumi carsici e invisibili, emotività che assediano ogni gesto senza esplodere (quasi) mai.
Tra il thriller e il melodramma, Burning costruisce un racconto rarefatto che come le superfici più glaciali non può essere sfiorato senza che ci si resti in qualche modo attaccati. In questo senso il sesto film di Lee Chang-dong compie il miracolo di asciugare e congelare la sua materia, narrativa e stilistica, arrivando a un cuore selvaggio che brucia e lascia segni nel cuore e nella mente. Un risultato che il regista coreano – già autore di film straordinari come Poetry – raggiunge attraverso una sceneggiatura che bilancia magistralmente il dentro e il fuori campo, e grazie a un controllo stilistico che ha dell’incredibile. Tra i tanti momenti memorabili è impossibile non citare la lunga scena al crepuscolo nella casa di campagna di Jong-soo, un confronto che evolve in una danza tribale accompagnata dalle ultime luci del giorno, momento lynchiano da cui traspare tutta l’evanescenza del mondo e di questi personaggi, ai cui piedi sembra quasi di veder aprirsi una piccola scatoletta blu, da cui emergono i toni della paranoia e del thrilling che da quel momento domineranno sempre più il racconto.
Nel suo Spettri della mia vita, Mark Fisher recupera il concetto derridiano di hauntologia e lo mette in relazione alla lenta cancellazione del futuro, che nelle sue riflessioni si lega alla retromania della nostalgia postmoderna e diventa uno dei caratteri perspicui del vivere contemporaneo. Burning non è un film apertamente politico o teorico, se ne tiene ben lontano, eppure la sensibilità registica di Lee Chang-dong permette a questo triangolo di personaggi di diventare cartina tornasole di un momento storico in cui l’individuo è assediato da quelle condizioni di liquidità e alienazione che ben conosciamo, e che sono tipiche di quella che è stata definita logica culturale del tardo-capitalismo. L’insoddisfazione e l’angoscia sono palpabili ma per gran parte del racconto senza forma, come virtuale resta la tensione conflittuale tra Jong-soo e Ben, o la pulsione distruttiva e riequilibrante di quest’ultimo. Quel che si crea in questo rapporto a tre è un grumo invisibile eppure concretissimo, che si nutre di disparità classiste, compulsioni libidiche e bisogno disperato di trovare il proprio posto nel mondo, soprattutto se quel mondo è una landa post-ideologica priva di strutture sociali, economiche o di pensiero che possano fare da supporto e humus alla costruzione di un senso di sé. È il furto del futuro e il dominio dell’assenza, di ciò che è stato e che un tempo poteva essere, a rendere Burning un film impalpabile e assieme estremamente contemporaneo, urgente, capace di raccontare attraverso l’assenza di forme retoriche evidenti tutto il disagio e la non-realizzazione di questi tempi fuor di sesto.
«Non c’è giusto o sbagliato ma solo la moralità della natura» dice Ben a Jong-soo nel momento in cui confessa al ragazzo la sua passione piromane – o quello che, metaforicamente, rappresenta. Ben è l’unico dei tre protagonisti in grado di sfuggire all’assedio del virtuale e di afferrare il presente ricavandone certezze. Jong-soo dal canto suo deve accontentarsi invece dei riflessi di luce che una volta al giorno arrivano nella stanza di Hae-mi, spiragli di un mondo che si estende oltre le vetrate a specchio di una torre e che resta irraggiungibile. Per lui forse solo l’arma dell’immaginazione può funzionare a scardinare questa condizione di causalità spettrale, affinché il fantasma delle cose assenti venga esorcizzato dal reale e il lutto di ciò che è stato, genesi creativa del nuovo che verrà, possa finalmente compiersi. Nel finale il suo gesto è simile a quello di Ben, altrettanto radicale, per quanto forse solo immaginato. Ma del resto realtà e finzione danzano e si scambiano di posto, e nel loro fondersi si spezza finalmente la stretta asfissiante del fantasma, la presenza dell’assenza. E cosa purifica e azzera meglio del fuoco?
Tutto brucia.