Submergence

di Leonardo Gregorio
Submergence - recensione film wenders

C’è qualcosa, del cinema di Wim Wenders, che continua a stupire, perfino a commuovere, una misteriosa trasparenza  fuori tempo di questo cinema, una fede nel racconto del mondo, anche se il mondo sembra aver smarrito ogni senso plausibile, possibile, determinato. Quasi più nessuno crede in Wenders, ormai. Da molto. Wenders come «guru vieppiù convinto del proprio ruolo». «Un cinema che compiace, un cinema che fa sembrare intelligente e sensibile un pubblico di mediocri e colti benestanti, un cinema che è insieme scaltro e riduttivo e quasi sempre kitsch». Ecco, Fofi almeno, anni fa, la metteva in questi termini.  Oggi, spesso, il regista tedesco ha la volatilità di un post, è una battuta rapida, un’irrisione social (dunque brillante). Eppure, è difficile trovare qualcosa che assomigli alla verità che questo autore, ancora, anche nella sue involuzioni, nelle intuizioni e negli approdi meno esaltanti, continua a coltivare: una verità che può non coincidere con la credibilità, né ha pretese assolute o tantomeno assolutorie, piuttosto è una verità ideale, una verità in progress, sensibile, imperfetta, desiderabile. Submergence (era al Festival di Toronto 2017 e in pochi si sono accorti del suo passaggio nelle sale in Italia ad agosto di quest’anno) da tale punto di vista è emblematico. 

Tratto dall’omonimo romanzo di J.M. Ledgard, il film fa dei suoi due protagonisti i vettori di questa ricerca, affida tutto – anche quello che allo spettatore non è dato sapere –  al loro amore che circola nel tempo e nello spazio e al ricordo che pulsa costante, che consente loro di non capitolare. Una biomatematica ossessionata dai fondali oceanici, dalla vita senza luce, lei; lui, uomo dell’intelligence britannica. In Normandia, sulla spiaggia, si innamorano in un niente. Lui poi parte per la Somalia, lei per un’importante operazione sottomarina. James verrà catturato dai fondamentalisti islamici; Danielle arriverà in profondità. 

Un film insieme freddo e caldo, diviso tra una parte e l’altra, tra un prima e un dopo, unione e separazione tra lei e lui, tra la profondità e le superficie, l’acqua e la terra, il buio e la luce, lo spazio profondo e un’Africa tremenda, tra Alicia Vikander e James McAvoy. Un film che si alimenta di mélo e thriller sul filo perenne del pensiero, del ricordo che ricama il dettaglio, la parola, gli sguardi, la vicinanza e la perdita. Opera produttivamente pensata per il grande mercato, mentre l’occhio e la memoria ritornano per alcuni istanti a Jean Vigo;  film che si potrebbe vedere anche a ritroso, dalla fine all’inizio; che attraverso l’amore non terminato chiede al mondo di sottrarsi alla catastrofe. È un film che è fragile e stucchevole insieme, tanto collocabile, identificabile, quanto ingenuamente “scoperto”, rinchiuso in un “illusione” che si affida ai suoi personaggi senza bleffare mai, in un “come se” continuo, fluido: come se i personaggi potessero in ogni inquadratura auto-descriversi pienamente, attribuirsi sempre senso, colmare lacune, occupare il tempo, lo spazio, il sentimento, il loro, quello del mondo, quello del film.  Come se il cinema potesse bastare, sempre, anche quando in sommersione, in submergence appunto, portandosi dietro, dentro, al fondo, ogni traiettoria, ogni percezione, ogni gioco di riflessi, di scrittura, di montaggio, di porzione del mondo. Ecco, Submergence è l’evidente verità ideale, oggi, di Wenders, e ci dice che il cinema, anche quando “non funziona”, anche quando sbaglia, forse ha visto qualcosa che non abbiamo visto noi.

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Wim Wenders James McAvoy Alicia Vikander 112 minuti
Germania, Francia, Spagna, USA 2017
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The Boys

di Alessandro Gaudiano
The Boys – recensione serie tv Amazon Video

I supereroi sono ovunque. Al cinema, in edicola, tra gli scaffali dei giocattoli, nelle confezioni dei cereali. Li troviamo in casa nostra, alla TV, o come forme poligonali delle nostre fantasie digitali. Una mitologia pop pervasiva, anche troppo, che da tempo ha sviluppato i propri anticorpi in una ricca serie di parodie, critiche e decostruzioni. A corrodere la maschera di vigilanti in costume e superuomini disumani ci hanno già pensato Alan Moore, Frank Miller e molti altri; tra questi, troviamo anche il britannico Garth Ennis, che ha scritto il fumetto Preacher e, appunto, The Boys.

Dopo Preacher, anche The Boys gode di un adattamento web televisivo, distribuito ancora una volta da Amazon Prime Video. I Boys sono una squadra sgangherata che si occupa di lottare in segreto contro i supereroi e unita da un desiderio di giustizia o, più spesso, di vendetta. I supereroi tendono, in questo universo immaginativo, a militare tra le file dei cattivi. Molti di loro sono corrotti dall'eccesso di potere e di celebrità, mentre la loro immagine pubblica è attentamente costruita e controllata da dipartimenti di marketing e social media manager. I più famosi tra essi sono i Sette, eroi di interi generazioni e salvatori della patria con molti scheletri nell'armadio. Le vittime dei "danni collaterali" o delle brutalità dei supereroi sono costrette al silenzio o ai margini della visibilità pubblica. Hugh (Jack Quaid) è uno di questi: la propria ragazza gli esplode letteralmente tra le mani. "Hughie" viene reclutato da Billy Butcher (Karl Urban) per vendicarsi del torto subito; Billy è convinto che tutti i supereroi siano pericolosi e che vadano eliminati, ma la questione si complica quando Hugh si innamora di Starlight (Erin Moriarty), ragazza giovane e idealista che è appena entrata a far parte dei Sette.

The Boys, al netto di qualche difetto di scrittura, funziona. Funziona, prima di tutto, perché è ben confezionata e si attesta su una qualità visiva e un livello produttivo elevati. La scelta degli attori è tra le migliori che si potessero concepire; in particolare, Karl Urban e Antony Starr (nei panni dell'inquietante Homelander) danno alla serie un valore aggiunto inestimabile con le loro interpretazioni. La decostruzione dell'epica del supereroe non è, invece, nulla di nuovo, né lo sono l'umorismo nero o gli eccessi di violenza che contraddistinguono la serie (e che sono comunque temperati rispetto ai parossismi del fumetto). Se si trattasse solo di questo, potremmo definirla come una serie innocua e tornare all'azione sanguinosa di Preacher, alla comicità sguaiata di The Tick oppure ai film di Watchmen, Hancock o Kick-Ass.

Piuttosto, The Boys punta ad aggiornare questo discorso a dinamiche a noi più vicine, adattando il fumetto di oltre dieci anni fa ad un racconto televisivo adeguatamente ripensato per il nuovo formato e le dinamiche dei social network dei tardi anni Dieci. Non è un caso, per esempio, che la tetra multinazionale che sponsorizza i Sette ricordi molto da vicino la Walt Disney Company che, ricordiamo, ha assorbito Marvel nel 2009. Nè sorprende che i Sette siano così simili a personaggi che ben conosciamo, come Superman, Capitan America, Daredevil o Aquaman. Buona parte della trama ruota attorno a indici di gradimento, engagement sui social media, lobbismo a livello politico e militare, manipolazione dell'opinione pubblica. Ad esempio, quando Starlight prova a salvare una ragazza da una violenza sessuale, viene punita perché nessuno ha filmato l'evento in modo da garantirle un ritorno d'immagine. Un'altra eroina, Queen Maeve (Dominique McElligott), le confessa che non si ricorda nemmeno più l'ultima volta in cui ha davvero salvato la vita di qualcuno. L'eroismo, qui, è una questione pubblicitaria.

Questo è il mondo di The Boys: un mondo dominato dal denaro, cinico, pragmatico. I supereroi sono solo degli uomini con passioni e difetti molto umani, con un potere enorme a loro disposizione. Del mito, qui, resta solo l'asimmetria di potere tra chi sta in cima all'Olimpo e le masse brulicanti alle sue pendici. Forse, il punto più alto toccato dalla serie arriva nel momento in cui fa convergere la retorica teocon americana con la vocazione messianica dei supereroi, uomini toccati dalla "grazia" di un potere apparentemente inspiegabile. Esaltati da preghiere e scenografie religiose, i supereroi diventano i santoni e predicatori di un'America confusa e adorante. Ma la serie tocca da vicino molti altri temi difficili, dal movimento #MeToo alla politica estera statunitense in Medio Oriente, con esiti non sempre impeccabili ma mai banali.

Più in generale, la serie sorprende e dà il suo meglio quando mette in scena, e demolisce, la società che ha prodotto e che sembra avere sempre più bisogno di eroi, super o tradizionali. Non tutti i temi e i protagonisti riescono ad essere adeguatamente sviluppati nel corso delle prime otto puntate, ma è molto chiaro che i produttori hanno deciso di puntare da subito su una seconda stagione, già confermata, per sviluppare un arco narrativo ben più ampio. Va letta in questo senso la natura puramente funzionale di un finale di stagione che, in realtà, serve solo a porre ulteriori domande e stimolare la curiosità per ciò che verrà in futuro: in questo senso, The Boys ottiene il risultato sperato.

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Karl Urban Jack Quaid Antony Starr Erin Moriarty 1 stagione da 8 episodi
USA, 2019
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C'era una volta a... Hollywood

di Matteo Berardini
C'era una volta a Hollywood - recensione film Tarantino

Chi ne fa una questione di stile, non si troverà più di tanto in questo C’era una volta a… Hollywood. Ci si chiederà, magari, dov’è il pulp e l’ironia metacinematografica? Dove sono le secchiate di sangue e gli ammiccamenti avantpop, le battute forbite e le soluzioni b-movie amate, assorbite e risputate fuori? Dov’è la mano tarantiniana, che gioca e manipola il cinema post-post quello che volete? Ma il fatto è che il primo a non essere più tarantiniano, e già The Hateful Eight ce lo aveva detto benissimo, è proprio Quentin Tarantino, che arrivato alle soglie del decimo film ci regala un’opera intima e romantica come mai prima, un gesto d’amore fatto da chi anzitutto vuole restituire qualcosa al cinema, ai suoi mondi infiniti e ai personaggi umanissimi ed esagerati e sofferti che li hanno popolati, e che da questo dono ricava la favola definitiva sull’America e sulla sua natura essenziale di terra dell’immagine.

È un rapporto pervasivo e inscindibile quello che lega gli Stati Uniti al loro immaginario, alla loro capacità di definire sé stessi e il loro orizzonte di valori, miti, leggende, attraverso la moltiplicazione e il consumo delle immagini. C’era una volta a… Hollywood mostra un paese intessuto di immagini, ossessionato da grandi e piccoli schermi che diventano lo strumento non tanto per conoscere e plasmare il mondo quanto noi stessi e l’idea e l’immagine che abbiamo di noi, dei nostri ricordi, del nostro amore. Non è mai stato così sfacciato e generoso Tarantino, perdutamente innamorato e perso in un film che resuscita il cinema anni ’60 alle porte della rivoluzione innescata dalla New Hollywood ma assorbe in sé anche il serial anni ’50, la prima televisione di massa, l’ossessione per i pilot e il panico di vecchie star del b-movie che sanno di non trovare spazio nella nuova stagione cinematografica in arrivo. Impresso nell’ocra pastoso e sporco di terra tipico di quel tempo, il racconto dell’amicizia tra Rick Dalton e Cliff Booth però è tutt’altro che un gesto intellettuale di archeologia cinefila fine a sé stessa; Tarantino vive ovviamente dei suoi e dei nostri feticismi, ma l’amore e la consapevolezza che trasudano da C’era una volta a… Hollywood rendono questo film non solo un miracolo filologico e citazionistico spuntato direttamente dal passato, ma un’elegia umanissima e vitale dedicata alla fine di un’era e all’infinita carrellata di volti e corpi che hanno alimentato quella macchina magica e salvifica anche a discapito di loro stessi e delle loro esistenze. I said, baby, baby, baby, you're out of time, cantano i Rolling Stones mentre Sharon Tate vive le sue ultime ore e tutte le infinite insegne di Los Angeles si accendono, una alla volta, una carrellata di neon e lampade incandescenti e scritte e fasci di luce che tagliano la notte, come una coltre di cinema che accompagna la dama di un regno incantato al suo appuntamento col destino, o a quello che forse è un nuovo inizio che redime e risolve le storture del reale.

Ogni favola è un atto d’amore, un racconto che narriamo a chi amiamo per condividere e far rivivere qualcosa che non è stato, che quasi è stato, e che nel frame dell’inquadratura può e finalmente riesce a essere. Sulla scia di Bastardi senza gloria, Tarantino continua a chiamare in causa la Storia e i drammi collettivi, passando dall’orrore del genocidio alla schiavitù sudista per approdare qui al trauma per eccellenza del sogno californiano, la summer of love che in una notte di sangue si rovescia di senso e diventa il marchio a fuoco di un incubo, l’orrore silente che abbiamo amato e cresciuto e che si risveglia per porre fine a ogni forma d’innocenza. Ma non è solo questo Sharon Tate, meravigliosa ed eterea Margot Robbie, una figura leggiadra e innocente che si muove sognante a dieci centimetri da terra, che svolazza tra le vie di Los Angeles e si rifugia poi in sala per ritrovarsi sul grande schermo, emozionandosi come una bambina mentre il pubblico ride e grida e fa il tifo per lei. In fondo, a cosa serve il miracolo di questa scatola magica, che cattura e preserva fantasmi e tempo, o genera ricordi e realtà nuove, se non a preservare questa sacra innocenza? I bastardi, armati di esplosivo e dna da b-movie, hanno potuto regalare al mondo una vendetta di fuoco e la fine tempestiva della guerra; C’era una volta a… Hollywood invece si spinge un passo più in là e devia la mano e il coltello prima ancora che il trauma sia compiuto, cambiando la Storia grazie all’intervento di due outsiders in cerca di un lieto fine, principi azzurri alcolizzati e depressi e marchiati nel corpo che ancora non hanno trovato la loro principessa.

Assieme, Rick Dalton e Cliff Booth sono davvero il segno di quanto il cinema di Tarantino sia libero da schematismi e dottrine precostituite, e sempre più lontano dai gesti eversivi con cui negli anni Novanta decostruiva un’industria tutta e il suo immaginario. Viene in mente l’intervista di David Foster Wallace a Larry McCaffery, in cui lo scrittore lamentava nei nuovi autori postmoderni l’incapacità di chiudere con l’ironia e la dissacrazione, e la non volontà di mettere da parte lo stile per riprendere a costruire. Ecco, il cinema di Tarantino è invece oggi pura ricostruzione, è dialogo con il passato ma non cinefilia cieca e moribonda, è un cuore classico che sempre più si nutre della forza primigena del campo/controcampo e della profondità di campo, è la scoperta dell’emozione e dell’empatia, il dilagare di quel sentimento rimasto finora sottotraccia in questo cinema, esploso tutt’al più in pochi momenti di umanissimo dolore. La storia d’amore fraterno tra Rick Dalton e Cliff Booth è Tarantino come non lo abbiamo mai visto, in un film che come mai prima gira a vuoto e si intesse sul quotidiano susseguirsi degli eventi, e che in quest’andatura orizzontale, pressoché antinarrativa, restituisce due personaggi complessi e fragili alle prese con il tempo che scorre e tutto cambia. E in questa celebrazione della finzione cinematografica, e di tutto ciò che in essa si crea, vive e poi scompare, Tarantino riesce anche a dire l’ultima parola su quel rapporto tra violenza e immagine che da sempre attraversa il suo cinema. Buca lo schermo il momento in cui l’incarnazione di Patricia Krenwinkel, una dei tre componenti della famiglia Manson presente quella fatidica notte, afferma di volersi vendicare di tutti quei divi che da anni vomitano violenza e fascismo attraverso i loro serial e film trasmessi in televisione. In un contrappasso delizioso sarà poi lei a finire carbonizzata nella prima vera escalation pulp del film, a sottolineare definitivamente la povertà di ogni rapporto causa effetto tra la violenza cinematografica e quella reale, e anzi la forza rigeneratrice e vitale che può avere questo grande castello immaginario e magico e carico d’amore che è il cinema. Anche, e soprattutto, quando assume la forma di un lanciafiamme brucia-nazisti adattato alla difesa del sogno e della quiete domestica.

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Quentin Tarantino Leonardo DiCaprio Brad Pitt Margot Robbie Emile Hirsch Margaret Qualley Bruce Dern Kurt Russell Al Pacino Luke Perry Timothy Olyphant 161 minuti
UK, USA 2019
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La vita invisibile di Eurídice Gusmão

di Domenico Saracino
 La vita invisibile di Euridice Gusmao - recensione film Ainouz

Amarsi tanto, d’un amore festante, fatto di complicità e risa, e poi, d’improvviso, credersi lontane, divise, perdute, fino a diventarlo davvero, lontane, divise, perdute. La vita invisibile di Eurídice Gusmão, il film di Karim Aïnouz che ha trionfato nella sezione Un certain regard di Cannes 2019 e viene ora distribuito nelle sale italiane da Officine Ubu, è un ritratto toccante della separazione ingiusta e forzata di due indivisibili sorelle nel Brasile degli anni ’50 a causa delle idee retrograde di un padre crudele, riflesso di una cultura patriarcale dominata dal machismo.

Che Guida (Júlia Stockler) e Euridice (Carol Duarte) si staccheranno l’una dall’altra – per poi cercarsi, chiamarsi, rincorrersi, fino a smarrirsi del tutto – lo si intende già nell’incipit onirico e simbolico, quando le due giovani donne finiscono per allontanarsi e le voci, come in cerca di spettri, invocano invano il nome altrui tra la natura oscenamente lussureggiante di un bosco sopra le alture di Rio de Janeiro (che è di per sé chiaramente allegorico, un invito ad abbandonarsi mollemente e lascivamente all’esuberanza vegetale).
È questa scena iniziale, preternaturale e sospesa, fotografata con una certa granularità e vividezza da Hélène Louvart e accompagnata dalla musica diafana di Benedikt Schiefer, a fissare il tono del racconto, a farne sin da subito un melodramma fosco, dai toni (pre)romantici, fatto di vecchi pianoforti su cui suonare Chopin, di vento e luce cangiante (come per l’arrivo di un temporale) spesso filtrata dalla vegetazione, dalle nuvole o dalle finestre, di interni ombrosi e inquieti, di scambi epistolari, lettere scritte a mano con passione e aspettativa, ma mai ricevute.
Una perfetta corrispondenza lega queste scelte di scrittura e regia alle vite delle due protagoniste, alle violenze subite e alle storie d’amore fallite di Guida e Euridice, la prima sedotta, illusa e tradita dal marinaio greco con cui decide di fuggire, finendo ragazza madre e facendosi ripudiare dal padre, la seconda sposata con un uomo che vorrebbe relegarla alla cura domestica, al soddisfacimento sessuale e alla procreazione, indifferente ai sogni e desideri di lei.

In La vita invisibile di Eurídice Gusmão un alone di saudade avvolge le case, i vestiti (che si vorrebbero fare a pezzi perché hanno addosso le colpe di chi li indossa), gli sguardi, come se tutto fosse tremendamente instabile, fragile, pronto a cedere sotto i colpi del destino e del tempo, a disgregarsi fino all’ultimo atomo. Il film di Aïnouz è un’elegia sull’amore malriposto e sulle corrispondenze mancate (sia nella relazione di coppia che nel rapporto reciso tra le sorelle), una carezza alle donne spezzate da uomini infami e dal modello societario che hanno costruito.
Da questo punto di vista il regista e videoartista brasiliano mostra una delicatezza e un pudore straordinari, arrivando a sfocare l’immagine di Euridice nel momento in cui si palesano i segni più strazianti della psicosi a cui le menzogne del padre, l’assenza della sorella e l’estraneità del marito l’hanno portata. E sebbene, a differenza di altri lavori di Aïnouz, qui i temi LGBT non vengano toccati direttamente, non si può non vedere nella scelta di far evolvere la convivenza di Guida e di suo figlio con l’ex prostituta Filomena in una vera e propria famiglia, una favorevole disposizione alla genitorialità lesbica e alla famiglia di fatto. Un’idea di progresso e di libertà molto differente dall’aberrante disegno politico regressivo di Bolsonaro.

Nonostante il film non eluda mai la rappresentazione delle tante forme di crudeltà e insensibilità di cui soprattutto gli uomini si macchiano e non trascuri di mostrarne le conseguenze, La vita invisibile di Eurídice Gusmão è un’opera dedicata alla forza delle donne, alla loro capacità di resistere alla disumanità di certi comportamenti, agli sconquassamenti di certi destini.

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Karim Aïnouz Carol Duarte Júlia Stockler Barbara Santos 139 minuti
Brasile 2019
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Guest of honour

di Andreina Di Sanzo
guestofhonour-recensione

Segreti, bugie e tradimenti ancora una volta nel nuovo film di Atom Egoyan presentato in concorso a Venezia 76. Guest of Honour è un thriller familiare che indaga il rapporto genitori-figli e, così come accade spesso nel cinema del regista canadese (vedi The Captive e Devil’s Knot), le due generazioni vengono messe a confronto mostrandone tutta la disparità. 

Alla vigilia dei funerali del padre, Veronica racconta a un prete il complicato rapporto tra i due: un ambiguo ricordo porterà la protagonista a sostenere un senso di colpa che vorrà espiare nonostante la sua innocenza. Veronica infatti sceglie il carcere per sotterrare il passato per un crimine mai commesso, ma il rancore verso suo padre le resterà per sempre addosso.
Egoyan torna ai cari torbidi intrighi, ma questa volta lo fa scrivendo (è anche sceneggiatore) un film dalla trama debole e prevedibile; Guest of Honour manca di quel tocco tipico dei suoi noir e, se ormai capolavori come Exotica o Il dolce domani sono lontani, negli anni 2000 sembrava aver mantenuto un certo stile dal fascino sinistro.

Il protagonista Jim (David Thewlis) è un meticoloso ispettore sanitario che gira per controllare i ristoranti, impassibile e severo, conduce una vita solitaria non capendo la scelta della figlia di volersi costituire pur essendo innocente, finché non ascolta dalle sue parole il reale motivo. In un gioco di doppie confessioni, ricordi equivoci e tasselli da ricomporre, Guest of Honour non sostiene per intero una serie di spunti che inizialmente il film sembra avere. Anche la questione della tecnologia, così invasiva ma di supporto all’intreccio, che sempre costituisce un importante elemento nel cinema di Egoyan, qui viene solo accennata senza un affondo importante come in False verità o Chloe - Tra seduzione e inganno.

Il gioco sulla relatività del ricordo e sulla moltiplicazione di verità viene appiattito da una scrittura scialba dalle poche intuizioni. Anche i colpi di scena passano davanti senza stupire, forse per colpa di una struttura ormai ripetitiva e noiosa. Peccato per un regista così che ha comunque dei tratti riconoscibili e certe ossessioni da non trascurare, un vero ospite d’onore che lascia con l’amaro in bocca.

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Atom Egoyan David Thewlis Laysla De Oliveira Luke Wilson Rossif Sutherland 105 minuti
Canada, 2019
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Il Signor Diavolo

di Sara Mazzoni
Il signor diavolo - recensione film avati

Di Pupi Avati, classe 1938, non è certo nuova la vena horror, genere in cui ha esordito e che ha continuato a frequentare lungo l’intera carriera. Non è dunque una sorpresa che il suo film del 2019, Il signor diavolo, sia un nuovo capitolo nella sua esperienza orrifica.
Nella filmografia del regista bolognese spiccano titoli di culto come La casa dalle finestre che ridono, Zeder e L’arcano incantatore, con cui Avati stabilisce i canoni di un gotico padano ambientato nella bassa, tra Emilia e Romagna: La casa dalle finestre che ridono è il più iconico, caratterizzato dal fascino putrido di una vita rurale dipinta attraverso atmosfere da giallo all’italiana che travalicano nel weird; Zeder aumenta lo sguardo sull’occulto, anche se lo stile del regista aggiorna il canone classico alle rovine moderne di un casermone abbandonato degli anni ’80; L’arcano incantatore si sposta in montagna, con una storia esoterica che ha il sapore letterario di Arthur Machen e Algernon Blackwood. Con Il signor diavolo, Avati accetta il rischio del confronto col suo horror più famoso, scegliendo di raccontare nuovamente una storia paludosa, come quella di La casa dalle finestre che ridono. Il suo nuovo film si svolge tra Venezia e i grandi spazi della laguna, adattando il suo romanzo omonimo pubblicato nel 2018, che si differenzia dal film unicamente per la backstory del protagonista e per un particolare nello scioglimento finale.

Il signor diavolo è poco moderno perché non è un horror art-house dalle immagini suggestive, né un film commerciale rumoroso e movimentato. La cura visiva c’è, ma può risultare pacchiana: una fotografia fortemente desaturata, inquadrature che colgono sì la bellezza del paesaggio ma con un’estetica pericolosamente vicina a una qualsiasi foto turistica su Instagram. Eppure, da un altro verso il film è contemporaneo proprio nel suo cogliere il ritorno di un genere, il folk horror, che è sempre più presente nella cinematografia degli ultimi anni – si pensi a The Witch, Apostolo, Midsommar, o ai meno noti Kill List, Il rituale, Hagazussa, e si potrebbe andare avanti.
In questo senso, Il signor diavolo è apprezzabile. Come spesso accade nel folk horror, Venezia e la laguna sono raccontate come territori irreali: non sono la vera città o la vera campagna del Veneto, ma nemmeno vogliono esserlo. Sono luoghi della fantasia e della memoria, con una Venezia deserta, senza turisti, nell’immediato dopoguerra; la campagna spettrale, fatta di ampi spazi sul bordo dell’acqua. È però comprensibile che alcune caratteristiche del film possano far storcere il naso ai tanti che lo hanno stroncato, liquidandolo come se fosse una mediocre fiction Rai. È vero, qualcosa nella messa in scena non torna: tutto risulta fin troppo finto, tant’è che molti personaggi non parlano neanche in veneto, ma nell’irritante italiano neutro del doppiaggio (tranne Chiara Caselli, qui alle prese con un’eccellente incarnazione gotica).

Quest’artificiosità è però sempre centrata e pertinente al contenuto del film, che riprende in parte quel canone horror decisamente letterario già sperimentato da Avati nella sua cinematografia più vecchia. Il signor diavolo non è un film che vuole raccontare davvero il Veneto o la laguna del dopoguerra. Se è per questo, non vuole concentrarsi nemmeno sulla Democrazia Cristiana, nonostante il suo gancio di partenza sia il viaggio di un uomo della DC romana che viene inviato al nord. Soprattutto, Il signor diavolo non vuole usare il linguaggio del realismo, nemmeno quello magico che sembra sfiorare. È qui che troviamo il vero centro concettuale del film, quello che lo rende interessante. Il signor diavolo parla della forza della superstizione, e lo fa nel modo più diretto possibile: mostrando al pubblico l’allucinazione superstiziosa attraverso gli occhi di chi la sperimenta, come se fosse una realtà oggettiva. I narratori con cui abbiamo a che fare non possono essere altro che inaffidabili. Lo sappiamo dal primo istante, tanto più che gran parte del racconto ci arriva da un bambino. E questo meccanismo funziona, e suggestiona.

Il signor diavolo è un film classicamente weird, ma anche anticlericale e aspramente avverso alla realtà culturale che rappresenta, quella di un mondo contadino in cui la superstizione fa parte della vita quotidiana e dell’esperienza della realtà. In questo, ricorda esperimenti del folk horror britannico di altri tempi, come La pelle di Satana, che in un certo senso si può interpretare come l’allucinazione degli abitanti di un villaggio sperduto. Il film di Avati mette però il focus sul cattolicesimo nostrano, i cui rappresentanti istituzionali (la suora, il sagrestano) sono vissuti nelle campagne del dopoguerra come mediatori tra mondo dei vivi e mondo dei morti. Avati popola il suo film di queste figure, descrivendone puntualmente l’ignoranza e allo stesso tempo l’influenza culturale conferita loro dalla collocazione che hanno in quell’immaginario collettivo.

Come i suoi personaggi, persino noi spettatori che guardiamo il film – con tutti i filtri della narrativa postmoderna che abbiamo assimilato – dobbiamo avere il dubbio che ciò che ci viene mostrato possa essere vero, all’interno del suo mondo. Questo deve accadere nonostante tutti gli elementi seminati da regia e sceneggiatura ci indichino chiaramente che le cose non possono stare così. E allora, nonostante qualche sbavatura, il risultato è coerente, efficace e felicemente gotico.

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Pupi Avati Filippo Franchini Lino Capolicchio Cesare Cremonini Alessandro Haber 86 minuti
Italia 2019
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Saturday Fiction

di Matteo Marescalco
Saturday Fiction - Recensione Point Blank

Il volto elegante e deciso di Gong Li osserva ogni angolo della Shanghai del 1941, si sofferma su fotografie e poster del Cathay Hotel e indugia sui volti degli attori che, insieme a lei, porteranno in scena la piece che, in un gioco di specchi, ha il medesimo titolo di Saturday Fiction, l'ultimo film di Lou Ye. La diva cinese interpreta un'attrice che, dopo anni di assenza, torna nella sua città natale per interpretare un ruolo in una rappresentazione teatrale diretta dal suo ex marito. In realtà, però, la donna, oltre ad essere un'attrice, è anche una spia ed il suo obiettivo è scovare il luogo in cui il suo attuale marito è tenuto prigioniero. All'epoca, Shanghai era sotto l'occupazione giapponese ma i settori inglesi e francesi della città erano zona franca. A fare da sfondo alle vicende private è l'imminente attacco di Pearl Harbor, che incombe come un lupo famelico sulle esistenze dei personaggi in scena.

Fotografato in un bianco e nero accademico, Saturday Fiction assume i toni di una malinconica ballata che vorrebbe ondeggiare tra generi diversi e abbracciare improvvise deviazioni senza mai riuscire ad evadere, però, dall'asfissiante controllo a cui è sottoposto. I frammenti thriller, melodrammatici e da spy-story, persino la sparatoria finale degna di un action in grado di sparigliare le carte in tavola, finiscono per convivere senza sufficiente convinzione. Il racconto, infatti, resta imbrigliato tra le vecchie maglie dei confini tra rappresentazione e vita, palcoscenico e realtà, recitazione e verità. E la continua intersezione tra livelli diversi di meccanismi simulacrali ingolfa il film, privandolo di una fluidità che avrebbe giovato nella restituzione di un'atmosfera incerta e sospesa.

Ogni aspetto sembra studiato e restituito attraverso una serie di codici formali impossibile da aggirare, dal taglio delle inquadrature all'illuminazione delle scene, fino al soggettivismo più sfrenato che la visione della Storia in Saturday Fiction restituisce. Ogni singolo essere umano del film, infatti, sembra farsi carico della possibilità di cambiare il corso degli eventi attraverso le proprie decisioni, come se una semplice scelta individuale fosse in grado di decidere anche il destino altrui. È questa visione così soggettivista e concentrata sui singoli personaggi che porta ia relegare il background storico (e quindi corale) sullo sfondo e a privare il film di un contesto che lo avrebbe dotato di vitalità evitando la chiusura in un gioco di specchi fine a sé stesso.

Anche l'uso dei personaggi, ridotti a mere pedine prive di volontà nella scacchiera preordinata di uno scrittore onnisciente, non può che rendere ulteriormente claustrofobico un meccanismo narrativo che resta vittima dello scialbo grigiore delle immagini. Dispiace molto vedere un film del genere in cui la deriva estetizzante delle immagini agisce come anestetico sulla storia narrata, sullo sviluppo dei personaggi avulsi dalla realtà esterna e sullo spettatore, coinvolto in un gioco fine a sé stesso in cui è impossibile trovare il proprio spazio.

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Lou Ye Gong Li Mark Chao Tom Wlaschiha Joe Odagiri 126 minuti
Cina 2019
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Processo all'accusa - Il J'accuse di Roman Polanski

di Damiano Garofalo
J'accuse officer spy recensione film polanski

I riverberi delle polemiche accompagnano gli spettatori del Lido fin dall’inizio della proiezione del J’accuse di Roman Polanski, presentato in concorso a Venezia 76. E non potrebbe essere altrimenti, visti gli articoli di accusa, pubblicati nei giorni scorsi su alcune testate internazionali, contro il direttore Alberto Barbera, reo di aver selezionato, in un concorso che era già praticamente privo di registe, l'ultimo film dell'autore polacco-francese, sul quale pende ancora un ordine di estradizione per la violenza commessa su una ragazza minorenne quaranta anni fa. Da quella vicenda, Polanski ha girato 12 film, molti dei quali presentati in occasione dei più importanti festival di cinema internazionali, ottenendo una Palma d’oro, un Orso d’argento, un premio Oscar e due Golden Globe, ricevendo consensi di critica e pubblico in un mondo non ancora sconquassato dall’uragano #metoo.
La Presidente della giuria di Venezia 76, la regista argentina Lucrecia Martel, interpellata in conferenza stampa sull’argomento, ha dichiarato di non sentirsi in grado di scindere il giudizio sull’uomo da quello sulla sua opera e che, pur non avendolo ancora visto, non avrebbe applaudito il film del regista polacco (per poi scusarsi e ritrattare il giorno successivo, alle porte di una crisi diplomatica e di vociferate dimissioni “forzate”, e a fine festival premiare il film con il Leone d'argento). Come tanti ormai, noi oggi il film lo abbiamo visto e, provando invece a scindere il giudizio sull’uomo (che non vorremmo in questa sede esercitare, qualora ne avessimo uno) da quello sulla sua opera, abbiamo deciso di tornare a scriverne, per parlarne e discuterne.

Il film di Polanski sull’affaire Dreyfus prende in prestito il titolo del celebre editoriale pubblicato da Émile Zola il 13 gennaio 1898 sul quotidiano socialista «L’Aurore»: J’accuse. Se l’accusa di Zola si rivolgeva esplicitamente ai persecutori di Alfred Dreyfus, militare francese ebreo ingiustamente accusato dal tribunale militare transalpino di alto tradimento, e dunque alle irregolarità e alle illegalità da loro commesse durante lo svolgimento del processo, quella di Polanski non cade mai nel rischio (più volte annunciato, nei giorni precedenti, da chi il film non poteva ancora averlo visto) di richiamarsi, seppur indirettamente, alle sue personali vicende processuali del 1977.
J’accuse si apre con una lunga panoramica di fronte all’École militaire di Parigi in cui l’autore, con un testo in sovraimpressione, rivela subito come tutto quello che stiamo per vedere, dalla vicenda ai personaggi raccontati, sia in realtà «vero». Questo intento didattico definisce un preciso «disegno temporale», per prendere in prestito le parole che Jacques Rivette dedicava più di sessant’anni fa all’opera di Roberto Rossellini. Ed è proprio a questo disegno che si richiama la continua ricerca del «vero» del film. Polanski gira un film classico e formalmente essenziale, a tratti spiazzante per la sua fermezza filologica, con uno spirito molto poco incendiario e decisamente più orientato a una logica rosselliniana di apprendimento. Già dalle prime sequenze pensiamo ai lavori televisivi di Rossellini, alla compressione dei corpi negli spazi interni, a quella costante verifica delle molteplici possibilità didattiche del mezzo audiovisivo per inquadrare una  storia che, troppo spesso, sfugge alla ragione. Una proposta di cinema umanistico ed enciclopedico, che non pretende di riscrivere o revisionare la storia, ma che di contro permette di riflettere sul passato e porre in discussione la gerarchia dei punti di vista.

Chi si aspettava un film sulla drammatica vicenda personale e giudiziaria di Dreyfus, o ancor peggio su Polanski stesso, rimarrà deluso. Nella prima sequenza di fronte all’École militaire di Parigi, si diceva, assistiamo alla degradazione del militare ebreo, interpretato da un irriconoscibile Louis Garrell. Dreyfus è già stato condannato, e assieme a lui subiamo l’umiliazione della degradazione. Subito dopo, il militare sparisce nel fuori campo dell’affaire, per riapparire poi saltuariamente. Siamo già nel 1895, anno in cui finisce il secolo delle rivoluzioni e inizia l’epoca della modernità, con tutte le sue invenzioni tecniche (il telegrafo senza fili di Marconi e la nascita del cinematografo dei Lumière) e le sue storture ideologiche (lo spuntare dei nazionalismi e i prodromi dell’antisemitismo contemporaneo).
Lasciando Dreyfus ai margini e concentrandosi sull’affaire, dunque, Polanski non cade mai nel rischio di fare un film su se stesso: inizia restituendoci lo spirito del tempo, immergendo gradualmente lo spettatore nelle polemiche tra dreyfusards e antidreyfusards, per poi concentrare la vicenda attorno a un personaggio: il colonnello Georges Picquart (Jean Dujardin), come tutti naturalmente antisemita, ma una delle poche figure istituzionali a esercitare una qualche forma di dubbio sulla colpevolezza di Dreyfus. Così, Polanski mette in scena un processo al giustizialismo e all’intolleranza, brandendo il lume del dubbio contro quella follia incendiaria che oggi brucia in piazza le pagine de «L’Aurore», e che domani cancellerà le vite di milioni di esseri umani. Quella di Dreyfus è, probabilmente, l’ultima vittoria degli intellettuali all’interno delle istituzioni della società moderna (il ruolo organico di Zolà nella comunità), atto conclusivo di quello spirito umanista e illuminato che lascerà presto il posto alla drammatica lacerazione della storia che verrà.

Questo J’accuse incoraggia all’autoriflessione, a concentrarsi sulle parole e sui dettagli per mantenere vivo l’esercizio del dubbio, a superare i pregiudizi e il conformismo per cogliere sempre le differenze tra copia e originale (è una semplice, falsa attribuzione calligrafica di un bordereau a incastrare momentaneamente Dreyfus), a non rassegnarsi ai crimini del potere e a lottare per mantenere la pratiche del conflitto all’interno delle istituzioni stesse.

Articolo pubblicato in collaborazione con Cinema e storia - Rivista di studi interdisciplinari.

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State Funeral

di Damiano Garofalo
state funeral - recensione Sergey Loznitsa

Il 6 marzo 1953 si tengono a Mosca i funerali di Stalin. L’evento è imponente: più di un milione di russi scendono in piazza per rendere omaggio alla salma imbalsamata del leader sovietico, esposta al pubblico nella Sala delle colonne del Cremilino. Alla fine della giornata, il corpo viene sepolto accanto a quello di Lenin, nel mausoleo al centro della piazza Rossa. State Funeral di Sergei Loznitsa, presentato fuori concorso a Venezia 76, ricostruisce tramite filmati di archivio l’epicità e il coinvolgimento popolare di quella giornata. L’intento del film è riflettere sul culto della personalità di Stalin nella sua fase terminale. Appena tre anni dopo, infatti, inizierà il processo di destalinizzazione della società sovietica, che porterà a una revisione sostanziale dell’operato del leader comunista e al superamento di quella liturgia di massa che ne aveva accompagnato l’operato. Non a caso, Loznitsa si sofferma sui volti di centinaia di uomini e donne sconvolti dall’accaduto, utilizzando unicamente materiale d’archivio. L’autore, come nel precedente Process, decide di non sovrapporre alle immagini alcun testo informativo, né di utilizzare la voce fuori campo. Lascia spazio alle suggestioni generate dalle analogie tra i documenti audiovisivi, tratti soprattutto dal documentario Velikoe proshanie (1953), film collettivo di Grigoriy Aleksandrov e altri registi russi girato il giorno stesso del funerale, e dai filmati di propaganda provenienti dalla collezione del Russian State Documentary Film and Photo Archive di Krasnogorsk.

Per larghi tratti, State Funeral sembra quasi un film di finzione. Il lavoro di montaggio di Loznitsa agisce direttamente verso una risignificazione delle immagini, già girate negli anni cinquanta con chiari intenti propagandistici, nel presente. L’autore ucraino, alternando materiali a colori con filmati in bianco e nero, genera un nuovo racconto audiovisivo interamente fondato sul valore della testimonianza. Le inquadrature e i movimenti di macchina del passato, catturati da Loznitsa in tutto il loro senso cinematografico, vengono presi in prestito al fine di creare una nuova narrazione: quella di migliaia di uomini e donne, sinceramente sconvolti ed emotivamente provati, che partecipano a un grande spettacolo collettivo. Nel rinnovare, oggi, quella sensazione di condivisione di massa, il regista si tiene in disparte: non osserva con giudizio e compiacimento la sincerità di quella partecipazione, né si sofferma con distacco sul dispositivo illusorio di creazione del consenso. Ed è proprio sul senso dell’esperienza spettatoriale, come già in Austerlitz  che Loznitsa costruisce il suo film: monta primi piani insieme a campi lunghi, inventa raccordi ideali tra immagini provenienti da regimi documentali e archivi diversi, lavora incisivamente su campi e controcampi, seguendo le fiumane di persone che si muovono, in massa, per la piazza Rossa. A queste immagini, Loznitsa ne aggiunge altre (bellissime) in bianco e nero, provenienti per lo più da contesti contadini, dove centinaia di russi si radunano per apprendere, tramite radio, la notizia della morte di Stalin.

Per qualche minuto, Loznitsa esce dall’armonia della sua opera “aperta”, da cui entrare e uscire in qualsiasi momento, e si concentra sui discorsi di commemorazione preparati dai membri del comitato centrale: Malenkov, Kruscev e gli altri posano in riga sulla piazza Rossa, leggendo parole solenni in ricordo del leader scomparso. Nel frattempo, come sappiamo, stanno preparando la successione del potere. Dopo questa escursione, si torna ancora sulle folle in movimento. La musica classica (Mozart, Schubert, Shostakovich), utilizzata nel corso di tutti i 135 minuti, contribuisce sia al senso di maestosità dello spettacolo, sia a sottolineare la gravità del momento, leggibile sui volti delle persone. Dei cartelli finali, con font rosso su sfondo nero, ci riportano su una superficie (forse non necessaria), ricordandoci i milioni di morti attribuibili al dittatore sovietico e il processo di destalinizzazione di lì a venire. Quasi fosse, quello a cui abbiamo assistito, l’ultimo, tardivo atto di un mondo già disintegrato dalla Seconda guerra mondiale.

Articolo scritto in collaborazione con Cinema e storia - Rivista di studi interdisciplinari.

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Sergei Loznitsa 135 minuti
Lituania, Paesi Bassi 2019
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Waiting for the Barbarians

di Riccardo Bellini
waiting for the barbarians - recensione film ciro guerra

Un avamposto militare di un Impero imprecisato in un deserto non meglio definito. Fuori, la minaccia (concreta?) di un popolo nomade di cui non sappiamo niente. Dentro, giochi di potere tra ufficiali. All’orizzonte, un’infinita distesa di terra e polvere. Da queste prime suggestioni, verrebbe scontato richiamare alla memoria Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati. Ma a visione iniziata risulta chiaro come Waiting for the Barbarians, ultimo lungometraggio di Ciro Guerra, non abbia nulla o ben poco a che vedere con l’esistenzialismo dello scrittore bellunese. Adattamento dell’omonimo romanzo del Premio Nobel J. M. Coetzee, che firma anche la sceneggiatura, il film del regista colombiano è al contrario ancorato a uno sguardo socio-politico che l’indefinitezza spazio-temporale (solo il vago succedersi delle stagioni scandisce l’andamento della vicenda) scardina da precise coordinate storiche e, dunque, rende capace di aderire al nostro presente.

Waiting for the Barbarians è una riflessione su come il Potere, per legittimare e preservare sé stesso, abbia bisogno di un nemico; sui disastrosi risultati prodotti da politiche che, a caccia di narrazioni convincenti attraverso cui poter esercitare la propria forza, finiscono col creare nemici veri e temibili. Un potere che qui ha le sinistre sembianze del colonnello Joll (un granitico Johnny Depp con tanto di occhiali da sole molto glamour in anticipo sui tempi) e dell’ufficiale Mandel (Robert Pattinson). Alle loro torture, inferte ai prigionieri del campo per estorcere confessioni fasulle prodotte dalla paura e dal dolore, alle ingiustizie perpetrate in nome di deprecabili ideologie, si oppone il magistrato interpretato da un fiero e compassionevole Mark Rylance, mite ma coraggioso funzionario che, per aver preso in cura una nomade ferita dai militari e averla riaccompagnata in segreto dai parenti, verrà punito. Un braccio di ferro teso, che contrappone secondo la più classica delle logiche due essenze agli antipodi, poli di un confronto non solo tra bene e male ma anche tra ordine e caos, tra spirito di distruzione e cultura (il magistrato studia la lingua dei nomadi e colleziona oggetti a loro appartenenti), tra chi fomenta una guerra inutile e chi si prodiga per preservare la pace. In mezzo, quale linea di demarcazione pronta a far piombare tutto nel caos, il nemico, quell’entità generata dalle logiche imperialiste (e oggi possiamo tranquillamente dire sovraniste), attraverso violenza e intolleranza, odio e frustrazione, e in generale una falsa percezione della realtà, fino al punto in cui questa entità non diventa qualcosa di concreto e incontrollabile.  

Sa bene dove vuole condurre il suo film Ciro Guerra, che non a caso muta il finale del romanzo di Coetzee per mostrarci l’arrivo di questi “barbari” (come vengono definiti paradossalmente i nomadi dai coloni occidentali), nel momento in cui l’orizzonte illimitato, con tutte le possibilità di scoperta e conoscenza che l’infinito sottende, si tramuta nella finitezza di un confine diventato tristemente reale, tangibile, e minaccioso, foriero di una violenza invocata dal sangue versato. Un finale in cui le aperture metafisiche a un ignoto cui approcciarsi con rispetto e deferenza, si sfaldano in quell’ultima immagine tanto simbolica da farsi immediatamente concreta - e sull’opposizione tra chiusura e apertura gioca abilmente Guerra, nell’alternanza tra interni soffocanti, dove però può spesso esprimersi un barlume di amore, ed esterni che sono sempre più simili a una prigione a cielo aperto.

Cristallino nella sua esposizione, classico nel suo andamento piano e inesorabile, il limite di Waiting for the Barbarians sta nel suo ripetersi senza arricchire più di tanto una tesi indubbiamente lampante, che non aggiunge molto a ciò che già sappiamo e vediamo consumarsi nella realtà. Non manca comunque una piccola parentesi sulle difficoltà con cui i “barbari”, - quando l’uomo bianco è diventato ormai sinonimo di ostilità e la discriminazione comincia ad esercitarsi su entrambi i fronti, - si approcciano anche nei confronti di chi, come il magistrato, sta tentando di aiutarli. Girato per evocare immagini suggestive che richiamano tanto il western di frontiera americano (con un riferimento a Sentieri selvaggi nell’immagine della soglia aperta sulla radura) quanto, negli interni più angusti, un clima da dramma carcerario, l’ultima opera di Guerra è un film molto solido, riuscito negli intenti per quanto non sempre interessante. In definitiva, uno dei titoli più convincenti tra quelli proposti nelle ultime giornate del concorso alla 76 Mostra del Cinema di Venezia.

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Ciro Guerra Johnny Depp Robert Pattinson Mark Rylance 112 minuti
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