Guest of honour

di Andreina Di Sanzo
guestofhonour-recensione

Segreti, bugie e tradimenti ancora una volta nel nuovo film di Atom Egoyan presentato in concorso a Venezia 76. Guest of Honour è un thriller familiare che indaga il rapporto genitori-figli e, così come accade spesso nel cinema del regista canadese (vedi The Captive e Devil’s Knot), le due generazioni vengono messe a confronto mostrandone tutta la disparità. 

Alla vigilia dei funerali del padre, Veronica racconta a un prete il complicato rapporto tra i due: un ambiguo ricordo porterà la protagonista a sostenere un senso di colpa che vorrà espiare nonostante la sua innocenza. Veronica infatti sceglie il carcere per sotterrare il passato per un crimine mai commesso, ma il rancore verso suo padre le resterà per sempre addosso.
Egoyan torna ai cari torbidi intrighi, ma questa volta lo fa scrivendo (è anche sceneggiatore) un film dalla trama debole e prevedibile; Guest of Honour manca di quel tocco tipico dei suoi noir e, se ormai capolavori come Exotica o Il dolce domani sono lontani, negli anni 2000 sembrava aver mantenuto un certo stile dal fascino sinistro.

Il protagonista Jim (David Thewlis) è un meticoloso ispettore sanitario che gira per controllare i ristoranti, impassibile e severo, conduce una vita solitaria non capendo la scelta della figlia di volersi costituire pur essendo innocente, finché non ascolta dalle sue parole il reale motivo. In un gioco di doppie confessioni, ricordi equivoci e tasselli da ricomporre, Guest of Honour non sostiene per intero una serie di spunti che inizialmente il film sembra avere. Anche la questione della tecnologia, così invasiva ma di supporto all’intreccio, che sempre costituisce un importante elemento nel cinema di Egoyan, qui viene solo accennata senza un affondo importante come in False verità o Chloe - Tra seduzione e inganno.

Il gioco sulla relatività del ricordo e sulla moltiplicazione di verità viene appiattito da una scrittura scialba dalle poche intuizioni. Anche i colpi di scena passano davanti senza stupire, forse per colpa di una struttura ormai ripetitiva e noiosa. Peccato per un regista così che ha comunque dei tratti riconoscibili e certe ossessioni da non trascurare, un vero ospite d’onore che lascia con l’amaro in bocca.

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Atom Egoyan David Thewlis Laysla De Oliveira Luke Wilson Rossif Sutherland 105 minuti
Canada, 2019
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Il Signor Diavolo

di Sara Mazzoni
Il signor diavolo - recensione film avati

Di Pupi Avati, classe 1938, non è certo nuova la vena horror, genere in cui ha esordito e che ha continuato a frequentare lungo l’intera carriera. Non è dunque una sorpresa che il suo film del 2019, Il signor diavolo, sia un nuovo capitolo nella sua esperienza orrifica.
Nella filmografia del regista bolognese spiccano titoli di culto come La casa dalle finestre che ridono, Zeder e L’arcano incantatore, con cui Avati stabilisce i canoni di un gotico padano ambientato nella bassa, tra Emilia e Romagna: La casa dalle finestre che ridono è il più iconico, caratterizzato dal fascino putrido di una vita rurale dipinta attraverso atmosfere da giallo all’italiana che travalicano nel weird; Zeder aumenta lo sguardo sull’occulto, anche se lo stile del regista aggiorna il canone classico alle rovine moderne di un casermone abbandonato degli anni ’80; L’arcano incantatore si sposta in montagna, con una storia esoterica che ha il sapore letterario di Arthur Machen e Algernon Blackwood. Con Il signor diavolo, Avati accetta il rischio del confronto col suo horror più famoso, scegliendo di raccontare nuovamente una storia paludosa, come quella di La casa dalle finestre che ridono. Il suo nuovo film si svolge tra Venezia e i grandi spazi della laguna, adattando il suo romanzo omonimo pubblicato nel 2018, che si differenzia dal film unicamente per la backstory del protagonista e per un particolare nello scioglimento finale.

Il signor diavolo è poco moderno perché non è un horror art-house dalle immagini suggestive, né un film commerciale rumoroso e movimentato. La cura visiva c’è, ma può risultare pacchiana: una fotografia fortemente desaturata, inquadrature che colgono sì la bellezza del paesaggio ma con un’estetica pericolosamente vicina a una qualsiasi foto turistica su Instagram. Eppure, da un altro verso il film è contemporaneo proprio nel suo cogliere il ritorno di un genere, il folk horror, che è sempre più presente nella cinematografia degli ultimi anni – si pensi a The Witch, Apostolo, Midsommar, o ai meno noti Kill List, Il rituale, Hagazussa, e si potrebbe andare avanti.
In questo senso, Il signor diavolo è apprezzabile. Come spesso accade nel folk horror, Venezia e la laguna sono raccontate come territori irreali: non sono la vera città o la vera campagna del Veneto, ma nemmeno vogliono esserlo. Sono luoghi della fantasia e della memoria, con una Venezia deserta, senza turisti, nell’immediato dopoguerra; la campagna spettrale, fatta di ampi spazi sul bordo dell’acqua. È però comprensibile che alcune caratteristiche del film possano far storcere il naso ai tanti che lo hanno stroncato, liquidandolo come se fosse una mediocre fiction Rai. È vero, qualcosa nella messa in scena non torna: tutto risulta fin troppo finto, tant’è che molti personaggi non parlano neanche in veneto, ma nell’irritante italiano neutro del doppiaggio (tranne Chiara Caselli, qui alle prese con un’eccellente incarnazione gotica).

Quest’artificiosità è però sempre centrata e pertinente al contenuto del film, che riprende in parte quel canone horror decisamente letterario già sperimentato da Avati nella sua cinematografia più vecchia. Il signor diavolo non è un film che vuole raccontare davvero il Veneto o la laguna del dopoguerra. Se è per questo, non vuole concentrarsi nemmeno sulla Democrazia Cristiana, nonostante il suo gancio di partenza sia il viaggio di un uomo della DC romana che viene inviato al nord. Soprattutto, Il signor diavolo non vuole usare il linguaggio del realismo, nemmeno quello magico che sembra sfiorare. È qui che troviamo il vero centro concettuale del film, quello che lo rende interessante. Il signor diavolo parla della forza della superstizione, e lo fa nel modo più diretto possibile: mostrando al pubblico l’allucinazione superstiziosa attraverso gli occhi di chi la sperimenta, come se fosse una realtà oggettiva. I narratori con cui abbiamo a che fare non possono essere altro che inaffidabili. Lo sappiamo dal primo istante, tanto più che gran parte del racconto ci arriva da un bambino. E questo meccanismo funziona, e suggestiona.

Il signor diavolo è un film classicamente weird, ma anche anticlericale e aspramente avverso alla realtà culturale che rappresenta, quella di un mondo contadino in cui la superstizione fa parte della vita quotidiana e dell’esperienza della realtà. In questo, ricorda esperimenti del folk horror britannico di altri tempi, come La pelle di Satana, che in un certo senso si può interpretare come l’allucinazione degli abitanti di un villaggio sperduto. Il film di Avati mette però il focus sul cattolicesimo nostrano, i cui rappresentanti istituzionali (la suora, il sagrestano) sono vissuti nelle campagne del dopoguerra come mediatori tra mondo dei vivi e mondo dei morti. Avati popola il suo film di queste figure, descrivendone puntualmente l’ignoranza e allo stesso tempo l’influenza culturale conferita loro dalla collocazione che hanno in quell’immaginario collettivo.

Come i suoi personaggi, persino noi spettatori che guardiamo il film – con tutti i filtri della narrativa postmoderna che abbiamo assimilato – dobbiamo avere il dubbio che ciò che ci viene mostrato possa essere vero, all’interno del suo mondo. Questo deve accadere nonostante tutti gli elementi seminati da regia e sceneggiatura ci indichino chiaramente che le cose non possono stare così. E allora, nonostante qualche sbavatura, il risultato è coerente, efficace e felicemente gotico.

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Pupi Avati Filippo Franchini Lino Capolicchio Cesare Cremonini Alessandro Haber 86 minuti
Italia 2019
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Saturday Fiction

di Matteo Marescalco
Saturday Fiction - Recensione Point Blank

Il volto elegante e deciso di Gong Li osserva ogni angolo della Shanghai del 1941, si sofferma su fotografie e poster del Cathay Hotel e indugia sui volti degli attori che, insieme a lei, porteranno in scena la piece che, in un gioco di specchi, ha il medesimo titolo di Saturday Fiction, l'ultimo film di Lou Ye. La diva cinese interpreta un'attrice che, dopo anni di assenza, torna nella sua città natale per interpretare un ruolo in una rappresentazione teatrale diretta dal suo ex marito. In realtà, però, la donna, oltre ad essere un'attrice, è anche una spia ed il suo obiettivo è scovare il luogo in cui il suo attuale marito è tenuto prigioniero. All'epoca, Shanghai era sotto l'occupazione giapponese ma i settori inglesi e francesi della città erano zona franca. A fare da sfondo alle vicende private è l'imminente attacco di Pearl Harbor, che incombe come un lupo famelico sulle esistenze dei personaggi in scena.

Fotografato in un bianco e nero accademico, Saturday Fiction assume i toni di una malinconica ballata che vorrebbe ondeggiare tra generi diversi e abbracciare improvvise deviazioni senza mai riuscire ad evadere, però, dall'asfissiante controllo a cui è sottoposto. I frammenti thriller, melodrammatici e da spy-story, persino la sparatoria finale degna di un action in grado di sparigliare le carte in tavola, finiscono per convivere senza sufficiente convinzione. Il racconto, infatti, resta imbrigliato tra le vecchie maglie dei confini tra rappresentazione e vita, palcoscenico e realtà, recitazione e verità. E la continua intersezione tra livelli diversi di meccanismi simulacrali ingolfa il film, privandolo di una fluidità che avrebbe giovato nella restituzione di un'atmosfera incerta e sospesa.

Ogni aspetto sembra studiato e restituito attraverso una serie di codici formali impossibile da aggirare, dal taglio delle inquadrature all'illuminazione delle scene, fino al soggettivismo più sfrenato che la visione della Storia in Saturday Fiction restituisce. Ogni singolo essere umano del film, infatti, sembra farsi carico della possibilità di cambiare il corso degli eventi attraverso le proprie decisioni, come se una semplice scelta individuale fosse in grado di decidere anche il destino altrui. È questa visione così soggettivista e concentrata sui singoli personaggi che porta ia relegare il background storico (e quindi corale) sullo sfondo e a privare il film di un contesto che lo avrebbe dotato di vitalità evitando la chiusura in un gioco di specchi fine a sé stesso.

Anche l'uso dei personaggi, ridotti a mere pedine prive di volontà nella scacchiera preordinata di uno scrittore onnisciente, non può che rendere ulteriormente claustrofobico un meccanismo narrativo che resta vittima dello scialbo grigiore delle immagini. Dispiace molto vedere un film del genere in cui la deriva estetizzante delle immagini agisce come anestetico sulla storia narrata, sullo sviluppo dei personaggi avulsi dalla realtà esterna e sullo spettatore, coinvolto in un gioco fine a sé stesso in cui è impossibile trovare il proprio spazio.

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Lou Ye Gong Li Mark Chao Tom Wlaschiha Joe Odagiri 126 minuti
Cina 2019
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Processo all'accusa - Il J'accuse di Roman Polanski

di Damiano Garofalo
J'accuse officer spy recensione film polanski

I riverberi delle polemiche accompagnano gli spettatori del Lido fin dall’inizio della proiezione del J’accuse di Roman Polanski, presentato in concorso a Venezia 76. E non potrebbe essere altrimenti, visti gli articoli di accusa, pubblicati nei giorni scorsi su alcune testate internazionali, contro il direttore Alberto Barbera, reo di aver selezionato, in un concorso che era già praticamente privo di registe, l'ultimo film dell'autore polacco-francese, sul quale pende ancora un ordine di estradizione per la violenza commessa su una ragazza minorenne quaranta anni fa. Da quella vicenda, Polanski ha girato 12 film, molti dei quali presentati in occasione dei più importanti festival di cinema internazionali, ottenendo una Palma d’oro, un Orso d’argento, un premio Oscar e due Golden Globe, ricevendo consensi di critica e pubblico in un mondo non ancora sconquassato dall’uragano #metoo.
La Presidente della giuria di Venezia 76, la regista argentina Lucrecia Martel, interpellata in conferenza stampa sull’argomento, ha dichiarato di non sentirsi in grado di scindere il giudizio sull’uomo da quello sulla sua opera e che, pur non avendolo ancora visto, non avrebbe applaudito il film del regista polacco (per poi scusarsi e ritrattare il giorno successivo, alle porte di una crisi diplomatica e di vociferate dimissioni “forzate”, e a fine festival premiare il film con il Leone d'argento). Come tanti ormai, noi oggi il film lo abbiamo visto e, provando invece a scindere il giudizio sull’uomo (che non vorremmo in questa sede esercitare, qualora ne avessimo uno) da quello sulla sua opera, abbiamo deciso di tornare a scriverne, per parlarne e discuterne.

Il film di Polanski sull’affaire Dreyfus prende in prestito il titolo del celebre editoriale pubblicato da Émile Zola il 13 gennaio 1898 sul quotidiano socialista «L’Aurore»: J’accuse. Se l’accusa di Zola si rivolgeva esplicitamente ai persecutori di Alfred Dreyfus, militare francese ebreo ingiustamente accusato dal tribunale militare transalpino di alto tradimento, e dunque alle irregolarità e alle illegalità da loro commesse durante lo svolgimento del processo, quella di Polanski non cade mai nel rischio (più volte annunciato, nei giorni precedenti, da chi il film non poteva ancora averlo visto) di richiamarsi, seppur indirettamente, alle sue personali vicende processuali del 1977.
J’accuse si apre con una lunga panoramica di fronte all’École militaire di Parigi in cui l’autore, con un testo in sovraimpressione, rivela subito come tutto quello che stiamo per vedere, dalla vicenda ai personaggi raccontati, sia in realtà «vero». Questo intento didattico definisce un preciso «disegno temporale», per prendere in prestito le parole che Jacques Rivette dedicava più di sessant’anni fa all’opera di Roberto Rossellini. Ed è proprio a questo disegno che si richiama la continua ricerca del «vero» del film. Polanski gira un film classico e formalmente essenziale, a tratti spiazzante per la sua fermezza filologica, con uno spirito molto poco incendiario e decisamente più orientato a una logica rosselliniana di apprendimento. Già dalle prime sequenze pensiamo ai lavori televisivi di Rossellini, alla compressione dei corpi negli spazi interni, a quella costante verifica delle molteplici possibilità didattiche del mezzo audiovisivo per inquadrare una  storia che, troppo spesso, sfugge alla ragione. Una proposta di cinema umanistico ed enciclopedico, che non pretende di riscrivere o revisionare la storia, ma che di contro permette di riflettere sul passato e porre in discussione la gerarchia dei punti di vista.

Chi si aspettava un film sulla drammatica vicenda personale e giudiziaria di Dreyfus, o ancor peggio su Polanski stesso, rimarrà deluso. Nella prima sequenza di fronte all’École militaire di Parigi, si diceva, assistiamo alla degradazione del militare ebreo, interpretato da un irriconoscibile Louis Garrell. Dreyfus è già stato condannato, e assieme a lui subiamo l’umiliazione della degradazione. Subito dopo, il militare sparisce nel fuori campo dell’affaire, per riapparire poi saltuariamente. Siamo già nel 1895, anno in cui finisce il secolo delle rivoluzioni e inizia l’epoca della modernità, con tutte le sue invenzioni tecniche (il telegrafo senza fili di Marconi e la nascita del cinematografo dei Lumière) e le sue storture ideologiche (lo spuntare dei nazionalismi e i prodromi dell’antisemitismo contemporaneo).
Lasciando Dreyfus ai margini e concentrandosi sull’affaire, dunque, Polanski non cade mai nel rischio di fare un film su se stesso: inizia restituendoci lo spirito del tempo, immergendo gradualmente lo spettatore nelle polemiche tra dreyfusards e antidreyfusards, per poi concentrare la vicenda attorno a un personaggio: il colonnello Georges Picquart (Jean Dujardin), come tutti naturalmente antisemita, ma una delle poche figure istituzionali a esercitare una qualche forma di dubbio sulla colpevolezza di Dreyfus. Così, Polanski mette in scena un processo al giustizialismo e all’intolleranza, brandendo il lume del dubbio contro quella follia incendiaria che oggi brucia in piazza le pagine de «L’Aurore», e che domani cancellerà le vite di milioni di esseri umani. Quella di Dreyfus è, probabilmente, l’ultima vittoria degli intellettuali all’interno delle istituzioni della società moderna (il ruolo organico di Zolà nella comunità), atto conclusivo di quello spirito umanista e illuminato che lascerà presto il posto alla drammatica lacerazione della storia che verrà.

Questo J’accuse incoraggia all’autoriflessione, a concentrarsi sulle parole e sui dettagli per mantenere vivo l’esercizio del dubbio, a superare i pregiudizi e il conformismo per cogliere sempre le differenze tra copia e originale (è una semplice, falsa attribuzione calligrafica di un bordereau a incastrare momentaneamente Dreyfus), a non rassegnarsi ai crimini del potere e a lottare per mantenere la pratiche del conflitto all’interno delle istituzioni stesse.

Articolo pubblicato in collaborazione con Cinema e storia - Rivista di studi interdisciplinari.

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State Funeral

di Damiano Garofalo
state funeral - recensione Sergey Loznitsa

Il 6 marzo 1953 si tengono a Mosca i funerali di Stalin. L’evento è imponente: più di un milione di russi scendono in piazza per rendere omaggio alla salma imbalsamata del leader sovietico, esposta al pubblico nella Sala delle colonne del Cremilino. Alla fine della giornata, il corpo viene sepolto accanto a quello di Lenin, nel mausoleo al centro della piazza Rossa. State Funeral di Sergei Loznitsa, presentato fuori concorso a Venezia 76, ricostruisce tramite filmati di archivio l’epicità e il coinvolgimento popolare di quella giornata. L’intento del film è riflettere sul culto della personalità di Stalin nella sua fase terminale. Appena tre anni dopo, infatti, inizierà il processo di destalinizzazione della società sovietica, che porterà a una revisione sostanziale dell’operato del leader comunista e al superamento di quella liturgia di massa che ne aveva accompagnato l’operato. Non a caso, Loznitsa si sofferma sui volti di centinaia di uomini e donne sconvolti dall’accaduto, utilizzando unicamente materiale d’archivio. L’autore, come nel precedente Process, decide di non sovrapporre alle immagini alcun testo informativo, né di utilizzare la voce fuori campo. Lascia spazio alle suggestioni generate dalle analogie tra i documenti audiovisivi, tratti soprattutto dal documentario Velikoe proshanie (1953), film collettivo di Grigoriy Aleksandrov e altri registi russi girato il giorno stesso del funerale, e dai filmati di propaganda provenienti dalla collezione del Russian State Documentary Film and Photo Archive di Krasnogorsk.

Per larghi tratti, State Funeral sembra quasi un film di finzione. Il lavoro di montaggio di Loznitsa agisce direttamente verso una risignificazione delle immagini, già girate negli anni cinquanta con chiari intenti propagandistici, nel presente. L’autore ucraino, alternando materiali a colori con filmati in bianco e nero, genera un nuovo racconto audiovisivo interamente fondato sul valore della testimonianza. Le inquadrature e i movimenti di macchina del passato, catturati da Loznitsa in tutto il loro senso cinematografico, vengono presi in prestito al fine di creare una nuova narrazione: quella di migliaia di uomini e donne, sinceramente sconvolti ed emotivamente provati, che partecipano a un grande spettacolo collettivo. Nel rinnovare, oggi, quella sensazione di condivisione di massa, il regista si tiene in disparte: non osserva con giudizio e compiacimento la sincerità di quella partecipazione, né si sofferma con distacco sul dispositivo illusorio di creazione del consenso. Ed è proprio sul senso dell’esperienza spettatoriale, come già in Austerlitz  che Loznitsa costruisce il suo film: monta primi piani insieme a campi lunghi, inventa raccordi ideali tra immagini provenienti da regimi documentali e archivi diversi, lavora incisivamente su campi e controcampi, seguendo le fiumane di persone che si muovono, in massa, per la piazza Rossa. A queste immagini, Loznitsa ne aggiunge altre (bellissime) in bianco e nero, provenienti per lo più da contesti contadini, dove centinaia di russi si radunano per apprendere, tramite radio, la notizia della morte di Stalin.

Per qualche minuto, Loznitsa esce dall’armonia della sua opera “aperta”, da cui entrare e uscire in qualsiasi momento, e si concentra sui discorsi di commemorazione preparati dai membri del comitato centrale: Malenkov, Kruscev e gli altri posano in riga sulla piazza Rossa, leggendo parole solenni in ricordo del leader scomparso. Nel frattempo, come sappiamo, stanno preparando la successione del potere. Dopo questa escursione, si torna ancora sulle folle in movimento. La musica classica (Mozart, Schubert, Shostakovich), utilizzata nel corso di tutti i 135 minuti, contribuisce sia al senso di maestosità dello spettacolo, sia a sottolineare la gravità del momento, leggibile sui volti delle persone. Dei cartelli finali, con font rosso su sfondo nero, ci riportano su una superficie (forse non necessaria), ricordandoci i milioni di morti attribuibili al dittatore sovietico e il processo di destalinizzazione di lì a venire. Quasi fosse, quello a cui abbiamo assistito, l’ultimo, tardivo atto di un mondo già disintegrato dalla Seconda guerra mondiale.

Articolo scritto in collaborazione con Cinema e storia - Rivista di studi interdisciplinari.

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Sergei Loznitsa 135 minuti
Lituania, Paesi Bassi 2019
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Waiting for the Barbarians

di Riccardo Bellini
waiting for the barbarians - recensione film ciro guerra

Un avamposto militare di un Impero imprecisato in un deserto non meglio definito. Fuori, la minaccia (concreta?) di un popolo nomade di cui non sappiamo niente. Dentro, giochi di potere tra ufficiali. All’orizzonte, un’infinita distesa di terra e polvere. Da queste prime suggestioni, verrebbe scontato richiamare alla memoria Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati. Ma a visione iniziata risulta chiaro come Waiting for the Barbarians, ultimo lungometraggio di Ciro Guerra, non abbia nulla o ben poco a che vedere con l’esistenzialismo dello scrittore bellunese. Adattamento dell’omonimo romanzo del Premio Nobel J. M. Coetzee, che firma anche la sceneggiatura, il film del regista colombiano è al contrario ancorato a uno sguardo socio-politico che l’indefinitezza spazio-temporale (solo il vago succedersi delle stagioni scandisce l’andamento della vicenda) scardina da precise coordinate storiche e, dunque, rende capace di aderire al nostro presente.

Waiting for the Barbarians è una riflessione su come il Potere, per legittimare e preservare sé stesso, abbia bisogno di un nemico; sui disastrosi risultati prodotti da politiche che, a caccia di narrazioni convincenti attraverso cui poter esercitare la propria forza, finiscono col creare nemici veri e temibili. Un potere che qui ha le sinistre sembianze del colonnello Joll (un granitico Johnny Depp con tanto di occhiali da sole molto glamour in anticipo sui tempi) e dell’ufficiale Mandel (Robert Pattinson). Alle loro torture, inferte ai prigionieri del campo per estorcere confessioni fasulle prodotte dalla paura e dal dolore, alle ingiustizie perpetrate in nome di deprecabili ideologie, si oppone il magistrato interpretato da un fiero e compassionevole Mark Rylance, mite ma coraggioso funzionario che, per aver preso in cura una nomade ferita dai militari e averla riaccompagnata in segreto dai parenti, verrà punito. Un braccio di ferro teso, che contrappone secondo la più classica delle logiche due essenze agli antipodi, poli di un confronto non solo tra bene e male ma anche tra ordine e caos, tra spirito di distruzione e cultura (il magistrato studia la lingua dei nomadi e colleziona oggetti a loro appartenenti), tra chi fomenta una guerra inutile e chi si prodiga per preservare la pace. In mezzo, quale linea di demarcazione pronta a far piombare tutto nel caos, il nemico, quell’entità generata dalle logiche imperialiste (e oggi possiamo tranquillamente dire sovraniste), attraverso violenza e intolleranza, odio e frustrazione, e in generale una falsa percezione della realtà, fino al punto in cui questa entità non diventa qualcosa di concreto e incontrollabile.  

Sa bene dove vuole condurre il suo film Ciro Guerra, che non a caso muta il finale del romanzo di Coetzee per mostrarci l’arrivo di questi “barbari” (come vengono definiti paradossalmente i nomadi dai coloni occidentali), nel momento in cui l’orizzonte illimitato, con tutte le possibilità di scoperta e conoscenza che l’infinito sottende, si tramuta nella finitezza di un confine diventato tristemente reale, tangibile, e minaccioso, foriero di una violenza invocata dal sangue versato. Un finale in cui le aperture metafisiche a un ignoto cui approcciarsi con rispetto e deferenza, si sfaldano in quell’ultima immagine tanto simbolica da farsi immediatamente concreta - e sull’opposizione tra chiusura e apertura gioca abilmente Guerra, nell’alternanza tra interni soffocanti, dove però può spesso esprimersi un barlume di amore, ed esterni che sono sempre più simili a una prigione a cielo aperto.

Cristallino nella sua esposizione, classico nel suo andamento piano e inesorabile, il limite di Waiting for the Barbarians sta nel suo ripetersi senza arricchire più di tanto una tesi indubbiamente lampante, che non aggiunge molto a ciò che già sappiamo e vediamo consumarsi nella realtà. Non manca comunque una piccola parentesi sulle difficoltà con cui i “barbari”, - quando l’uomo bianco è diventato ormai sinonimo di ostilità e la discriminazione comincia ad esercitarsi su entrambi i fronti, - si approcciano anche nei confronti di chi, come il magistrato, sta tentando di aiutarli. Girato per evocare immagini suggestive che richiamano tanto il western di frontiera americano (con un riferimento a Sentieri selvaggi nell’immagine della soglia aperta sulla radura) quanto, negli interni più angusti, un clima da dramma carcerario, l’ultima opera di Guerra è un film molto solido, riuscito negli intenti per quanto non sempre interessante. In definitiva, uno dei titoli più convincenti tra quelli proposti nelle ultime giornate del concorso alla 76 Mostra del Cinema di Venezia.

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Ciro Guerra Johnny Depp Robert Pattinson Mark Rylance 112 minuti
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La mafia non è più quella di una volta

di Giulio Casadei
La recensione di La mafia non è più quella di una volta

C’è un momento apparentemente secondario nel nuovo film di Franco Maresco che però sembra condensare ogni possibile discorso sul progetto. Ovvero quando i celebri fotografi siciliani Letizia Battaglia e Franco Zecchin si imbattono in una statua di Don Pino Puglisi nel quartiere Brancaccio di Palermo. A metà tra il serio e il faceto, i due notano una strana somiglianza con Berlusconi. Il collo, i capelli, la corporatura. Come se l’opera fosse stata realizzata prendendo a modello non solo il sacerdote ucciso da Cosa nostra nel 1993, ma anche l’ex premier. Mirabile sintesi di un certo rapporto incestuoso tra mafia e antimafia ed ennesima conferma della pervasività berlusconiana nel tessuto culturale, antropologico, sociale del paese. Aspetto già affrontato in Belluscone, di cui La Mafia non è più quella di una volta sembra una sorta di sequel. Eppure Maresco vuole dirci altro. Questa volta, ancor più che nel precedente, è attraverso una certa idea di rappresentazione che il regista siciliano formula il suo corrosivo ritratto sullo stato delle cose della Sicilia e dell’Italia. Inevitabile allora il ritorno dell’impresario Ciccio Mira (sempre, rigorosamente in bianco e nero), che cinque anni dopo Belluscone cerca una possibile redenzione con l’organizzazione di una serata evento in ricordo di Falcone e Borsellino. Una vera e propria farsa con tutto il peggio che l’impresario può offrire: vecchie ballerine, neomelodici di quart’ordine, musicisti col parrucchino e la chitarra scordata ecc… Serpeggia davanti e dietro le quinte il consueto clima omertoso. Neanche una parola viene pronunciata in ricordo dei due martiri dello stato né di condanna contro la mafia. Insomma, al di là delle apparenze tutto resta sempre uguale. A cambiare è solo la facciata, buona per rifarsi una verginità, allontanando le ombre sulla collusione mafiosa, e magari ottenere qualche finanziamento pubblico.

Se è vero che la mafia non è più quella di una volta, di certo non ha perso un briciolo di potere nel controllo capillare dei territori e delle coscienze. Si veda, ad esempio, il momento in cui un losco figuro invita il collaboratore di Ciccio Mira a smontare tutto e andarsene. Perché “qui non siamo al Politeama”. Come a dire che una certa idea di impegno civile non può esistere al di fuori di contesti borghesi e privilegiati. Nemmeno le baracconate di Ciccio Mira, che di quell’attivismo civico non è che un grottesco e patetico simulacro. E qui veniamo alla controparte degli eventi neomelodici di periferia, ovvero la manifestazione organizzata in ricordo di Falcone e Borsellino a 25 anni dalle stragi di Capaci e via d’Amelio. Sfilata di politici locali e nazionali, girotondi, cori da stadio, giochi per bambini. Un grande carnevale colorato ed infantile che sembra aver smarrito l’indignazione, la rabbia, la commozione. L’antimafia come stanco rituale che conviene solo a chi lo promuove. Mentre tutto intorno regna il silenzio. Nel palazzo di giustizia dove il Pm Nino Di Matteo si trova emarginato. Nelle strade di Palermo, dove vige sempre la vecchia regola d’oro dell’omertà e del diniego. E persino al Quirinale, dove il Presidente Mattarella evita ogni commento sulla trattativa Stato-Mafia e sulla condanna in primo grado al generale Mori e all’ex senatore forzista Marcello Dell’Utri.

Tra una rappresentazione e l’altra, si impone la figura di Letizia Battaglia che con i suoi scatti immortali ha saputo raccontare meglio di chiunque la violenza mafiosa. È a lei che Maresco affida il vero controcampo del film: è la prima a cogliere la deriva carnevalesca delle manifestazioni di piazza e delle ricorrenze, cosi come a stancarsi degli spettacoli di Ciccio Mira, e a bilanciare poi il pessimismo radicale del regista, esplicitando il metodo e la visione che sottende ogni inquadratura. E soprattutto opponendo una lucida e ferrea determinazione civica e politica. La realtà siciliana viene dunque passata al vaglio dell’occhio fotografico. Il solo evidentemente capace di smascherare la finzione che si cela dietro lo spettacolo dell’antimafia. Ma è chiaro che per Maresco la verità resta inconoscibile. Ancora una volta si diverte a mischiare le carte. Filma eventi reali come fossero sceneggiate e viceversa. Mette insieme materiale d’archivio e animazione, interviste frontali e pedinamenti, retroscena e derive nell’ossessione paranoide. Impossibile distinguere la fiction dal documentario. La memoria dalla sua falsa riproduzione. Tutto si salda in questo bellissimo e disperato racconto sull’Italia contemporanea che non può che concludersi ancora una volta in piazza, sancendo l’ennesima trasformazione di un impresario e di un paese in bilico tra folklore e orrore. Uno dei finali più eversivi di sempre.

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Franco Maresco Letizia Battaglia Ciccio Mira 107 minuti
Italia
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ZeroZeroZero - Episodi 1 e 2

di Matteo Marescalco
ZeroZeroZero - Recensione Point Blank

A dimostrazione dell’ampio interesse riservato dalla Mostra del Cinema di Venezia ai dispositivi mediali diversi da quello cinematografico è arrivata anche la seconda serie presentata durante quest’ultima edizione del festival lagunare. Dopo gli episodi 2 e 7 di The New Pope, infatti, è toccato ai primi due tasselli del mosaico che compone ZeroZeroZero adagiarsi sul tavolino su cui, poi, Sky Atlantic provvederà ad affiancare i restanti pezzi del puzzle.

E proprio come tasselli di un mosaico, i personaggi di questi primi episodi si muovono nell’ambito di macro-segmenti ben definiti ed ambientati in tre località differenti: l’Aspromonte, New Orleans e Monterrey. Si tratta dei tre vertici di quel triangolo su cui si concentra il mercato della cocaina nella serie diretta da Stefano Sollima, Janus Metz e Pablo Trapero e tratta dall’omonimo romanzo di Roberto Saviano. Questi due primi tasselli provvedono ad introdurre tutti i personaggi di cui seguiremo le traiettorie nel resto della prima stagione. In Calabria, un gruppo di giovani boss si ribella al potere decennale dell’anziano capofamiglia e prova a rovesciare a proprio favore le dinamiche interne al clan di appartenenza. Poi c’è la Louisiana di un'agiata famiglia di broker in quello che si promette essere uno dei segmenti più interessanti: padre, figlia e figlio hanno dedicato la loro vita a operazioni legali e a commerci illegali e provano a fare di tutto per salvare la loro azienda familiare. Infine, la parte ambientata in Messico presenta una serie di soldati appartenenti a squadroni della morte. Il loro compito è quello di colpire i cartelli nei loro punti deboli anche se il rischio della corruzione interna è ben presente e rischia di mandare a monte ogni operazione.

Sia ben chiaro, nonostante lo sguardo d’insieme del regista riesca ad amalgamare bene i frammenti esplosivi di cui si compone ogni episodio ambientato in un luogo differente, i tre ambienti portano con sé una serie di peculiarità e di differenze di grana grossa. La fame d’intrattenimento di Sollima è notevole e il regista riesce a declinarla seguendo spunti singolari e, a tratti, altalenanti. Com’è fisiologico, sono le parti ambientate in Italia a risultare le più derivative e le più aderenti ad alcuni stereotipi che semplificano il discorso di fondo, lasciandolo aderire a riferimenti narrativi ben distinguibili. Il maggior lavoro nella divisione in capitoli tra Compratori, Fornitori e Intermediari riguarda i segmenti messicani e americani. Il primo, infatti, segue la storyline di un soldato che si muove nelle tenebre, quasi un angelo della vendetta che si barcamena tra narcos e rapporti di amicizia con i suoi colleghi. Il suo personaggio schiude numerosi percorsi che attendiamo vengano sviluppati nelle successive puntate. I frammenti americani, a loro volta, contribuiscono ad allargare globalmente il senso dell’operazione e abbandonano le dinamiche dinamitarde ed action del Messico per concentrarsi su un dramma umano di natura familiare. In che modo la corruzione e il male sono radicati nella società, nella famiglia e nell’essere umano, andando ad innervare ogni tipo di rapporto tra persone appartenenti a luoghi diversi? Ovviamente, non è compito della serie co-diretta da Sollima quello di rispondere alla domanda ma di seguire la liquida espansione degli intrecci narrativi di un prodotto di inchiesta qui piegato alle esigenze di un racconto globale che attinge ad archetipi per rendere la propria struttura più forte e coesa. Per adesso, l’obiettivo è stato centrato in pieno.

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Stefano Sollima Gabriel Byrne Andrea Riseborough Dane DeHaan Harold Torres 50 minuti
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Babyteeth

di Matteo Berardini
babyteeth - recensione film

Un topos del racconto famigliare è il momento, necessario e a volte improrogabile, in cui i genitori accettano di mettersi da parte nella vita dei loro figli e di lasciare che questi trovino da soli la loro strada. È il controcampo del più classico dei coming of age, la vecchia generazione che compie un passo indietro, limitandosi tutt’al più al ruolo di guida, mentre la nuova impara a fare i propri conti con la vita. Babyteeth, brillante esordio al cinema di Shannon Murphy, è una commedia agrodolce e romantica in cui i genitori della protagonista, l’adolescente Milla malata terminale, si trovano nella posizione uguale e contraria a quella appena descritta. In questo caso la sfida non è quella di lasciare la propria figlia alla vita ma alla morte, accettando che la ragazza possa condividere quel momento limite con qualcuno che ama diverso da loro. Ovvero il giovane adulto borderline Moses, tossicodipendente fuggito di casa che si scopre, e via via accetta di essere, il custode della morte di Milla, essendo stato scelto come ultimo compagno e testimone. In questo senso Babyteeth non è tanto il racconto di una malattia – Milla è certamente terrorizzata ma altrettanto forte e decisa, mentre gli aspetti più clinici vengono tenuti fuori campo – quanto della sfida che i genitori Henry e Anna (gli ottimi Ben Mendelsohn ed Essie Davis) si trovano ad affrontare, incapaci come sono nelle loro evidenti difficoltà ad affiancare la figlia nel processo di accettazione della morte. Moses invece, da sempre abituato a esperienze limite, riesce con le sue contraddizioni e sofferenze a dare alla ragazza quello di cui ha bisogno, un amore che sia onnicomprensivo e comunque consapevole della fine. E alla fine della parabola di Milla sarà lui il lascito che la ragazza dona ai genitori, un nuovo figlio da accudire e di cui prendersi cura, affinché quel vuoto rimasto dietro di lei non diventi un buco nero distruttivo e fatale.

Tratto dall’omonimo testo teatrale di Rita Kalnejais, che adatta l’opera in sede di sceneggiatura, Babyteeth è un film di sorprendente delicatezza ed equilibrio, un esempio di come si possano raccontare storie viste e riviste, e dal forte rischio melodrammatico, senza indulgere nella gratuità ricattatoria o nella soluzione più facile. Il film di Murphy ricorda in questo senso la bellezza di Restless e la sua storia d’amore tra Enoch e Annabelle, materia simile e altrettanto pericolosa gestita però con grazia da Van Sant; rispetto a quello, Babyteeth intercetta più momenti tipici della love story adolescenziale ma mantiene comunque un grande controllo sui toni e le emozioni del racconto, che nella sua classicità non si risparmia diverse soluzioni narrative decisamente fuori dai canoni e funzionali ad approfondire in modo non banale i personaggi, soprattutto quelli dei genitori. Vengono così lasciati fuori campo tanti elementi superflui e inutilmente esplicativi, mentre si dà ampio spazio alla non-convenzionalità delle soluzioni adottate da Henry e Anna per gestire una soluzione terribile e dare alla figlia Milla tutta la felicità che può ricavare. Certo, quest’approccio porta con sé un paio di stonature evidenti, ma nell’insieme Babyteeth è un film solido e onesto, vicino ai suoi personaggi e capace di commuovere, coinvolgere ed emozionare senza apparire furbo e manipolatorio, riportando a verità uno dei temi più abusati e appiattiti dal teen movie di questi ultimi anni.

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Shannon Murphy Eliza Scanlen Toby Wallace Ben Mendelsohn Essie Davis 120 minuti
Australia 2019
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Citizen K

di Giovanni Bottiglieri
citizen k recensione film gibney

Una fiamma al petrolio rompe il silenzio e il freddo in un’enorme distesa di ghiaccio siberiano, un’immagine che tenta di catturare l’essenza dell’intera narrazione di Citizen K, film diretto da Alex Gibney e approdato alla sezione Fuori Concorso di Venezia 76.

A metà tra il documentario biografico e quello d’inchiesta, Citizen K racconta l’ascesa della classe dirigente post-sovietica. Il “Cittadino K” è Mikhail Khodorkovsky, un self-made man proveniente da una famiglia poverissima vissuta durante il comunismo. Al crollo di quest’ultimo Khodorkovsky ha a disposizione un piccolo capitale e la sua forte volontà di divenire ricco; del resto il periodo di transizione verso l’apertura al libero mercato favorisce gli uomini come Mikhail, che, in poco tempo, riescono ad accumulare enormi risorse e si impossessano delle più grandi aziende dello Stato sull’orlo del fallimento, creando, di fatto, un sistema oligarchico: da qui i magnati si accordano per spartirsi i settori economici vitali del Paese e nel frattempo presentano i primi tentativi di insediamento nel mondo politico.

Mikhail Khodorkovsky creò la prima banca commerciale nel proprio Paese e si occupò inizialmente di commercio di valuta; un’attività che via via non seguì più personalmente poiché spostò l’attenzione sulla Jukos, un colosso del petrolio russo di cui acquisì la maggioranza delle azioni per una cifra nettamente inferiore al valore di mercato. Questa vicenda è costellata di torbidi passaggi, che questo documentario non teme di segnalare, non mancando, quindi, di sottolineare una certa ambiguità proprie dei suoi protagonisti, nonostante si sviluppi una discreta empatia dato l’emergere dei numerosi aspetti dell’umanità narrata.
Il lavoro di Gibney mostra in parallelo il cambiamento delle figure istituzionali e il loro legame ormai indissolubile con gli “oligarchi”, un ristretto gruppo di businessmen che ebbero il potere di controllare e influenzare le sorti di milioni di cittadini russi; la presidenza di Boris Eltsin incarnava perfettamente quel tipo di ingenuità dei primi anni Novanta nei confronti del capitalismo e la fame di iniziativa privata e di sviluppo degli individui più scaltri.

L’ambiguità delle figure raccontate non risparmia nessuno, tantomeno il successore di Eltsin, attuale Presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin. Questi, in carica dall’anno 2000, ha pian piano riconquistato le grandi aziende finite in mano agli oligarchi costruendo un’immagine di uomo forte e infallibile. Col tempo, Putin ha progressivamente identificato la propria immagine con quella dell’intero Paese, con il risultato che qualunque attacco alla sua persona risultasse una minaccia per la Russia intera. Khodorkovsky fu l’unico, nel 2003, ad osare sfidare il presidente, accusandolo di corruzione e di aver favorito l’ascesa dei suoi più cari amici, creando, di fatto, il nuovo gotha dei settori industriali del Paese. Questi affronti furono puniti con dieci anni di carcere per il magnate e la Jukos, giustificati da una serie di false accuse che hanno avuto il doppio effetto di indebolire Khodorkovsky e rafforzare Putin come difensore degli interessi dello Stato.

Citizen K illustra limpidamente tutti gli scandali, la corruzione e i diversi passaggi del processo di decomunistizzazione del Paese e allo stesso tempo l’utilizzo del “nuovo” strumento televisivo nella costruzione dell’immagine pubblica del presidente Putin, che ha sconfitto i propri avversari e ha affermato l’indissolubile legame tra la sua figura e il Paese. I suoi oppositori, quasi tutti misteriosamente scomparsi o in esilio tentano delle flebili azioni, ma le minacce di morte sono sempre pronte ad affiorare anche nella capitale finanziaria d’Europa: Londra.

Articolo pubblicato in collaborazione con Cinema e Storia - Rivista di studi interdisciplinari.

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Alex Gibney 128 minuti
UK, USA 2019
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