L'ufficiale e la spia

di Samuele Sestieri
J'Accuse

Erano anni che Roman Polanski voleva realizzare un film sul caso Dreyfus, la celebre vicenda fine ottocentesca del giovane capitano francese accusato di essere un informatore dei tedeschi. Inseguito, atteso, di nuovo posticipato, L'ufficiale e la spia (J'accuse) ha fatto rima, per un lungo periodo, col destino stesso del regista. In questo faccia a faccia con la Storia ha preso corpo l’idea di un doppio, un doloroso autoritratto iscritto nel cuore del tempo.

L'ufficiale e la spia è il processo a un intero mondo di valori. Tenacemente privo di climax o retorica, è un oggetto cinematografico che sfugge ed avvolge nel suo andamento ipnotico. Come un quadro impressionista cui viene negato l’elisir dell’istante perfetto, L'ufficiale e la spia si muove tra lasciti dreyeriani e cul de sac di proporzioni storiche. Scatena un urlo muto, strozzato, che parte dal 1895 e risuona oggi più forte che mai. Il passato è la terribile ossessione che ha alimentato l’intera filmografia del regista e torna puntuale a manifestarsi.
D’altronde il caso Dreyfus, alla vigilia del Novecento, fu presagio oscuro ed esemplare di ciò che sarebbe venuto: il germe dell’odio che coltiva i mostri, l’antisemitismo e la caccia alle streghe quale rito sociale. Per Polanski L'ufficiale e la spia diviene l'atto di rivolta definitivo. L'autore sottrae, rallenta, frena, scivola continuamente dal centro mettendo ai margini il protagonista della storia, Dreyfus. Elegge invece tutta l’umanità, tutta l’empatia, nella figura di Georges Picquart (un Dujardin mai stato così grande): l’ufficiale francese nominato a capo della sezione antispionaggio è l’uomo onesto che illumina i falsi della Storia, ultimo detentore di una morale dimenticata. Proprio lui, alla fine, dovrà arrendersi al tempo...il film, beffardo, ci dice che anche Picquart appartiene al mondo dei vincitori mentre Dreyfus perde tutto, sempre, comunque. Anche nella vittoria.

In perfetta continuità con le tendenze kammerspiel del cinema polanskiano, il film sembra tutto chiuso in interni. Polanski lavora su quest’acuta, asfissiante compressione di spazi, costruisce poli di tensione che non esplodono mai. Imprime sempre più a fondo, sapendo che la vera ferita è quella che non sanguina. Una spina nella carne: si pensi all’incredibile lavoro di sottotoni della prima parte, alla centralità schiacciante del potere orale, all’amore proibito degli amanti –  ai margini, quasi fuoricampo. Del resto il film è completamente teso in questa contrazione (c’è perfino uno zoom che amplia quest’idea di soffocamento) e anche quando si incendia non esplode mai veramente: si bruciano i libri di Zola, la rabbia diviene insopportabile, eppure si inscena sempre la stessa commedia in piena, prodigiosa Belle Époque.

 Il cielo è plumbeo, il tribunale sembra un teatro (quasi come nell'ultimo Bellocchio lasciando da parte il suo lirismo grottesco), i personaggi, deponenti, si lasciano muovere come pedine del tempo. Non c’è più la furia de L’uomo nell’ombra, c’è la Storia che prosegue in tutta la sua crudeltà. La sua maledizione è quella del continuare. L’intero film è fagocitato dalla centralità della parola, strumento di controllo, di potere e informazione. Ma soprattutto coefficiente di narrazione (il verbo politico è sempre stato narrativo e il caso Dreyfus è esemplare nel dimostrarlo). Tutta questa narrazione, del resto, pare bloccata in posa frontale. Tenta di muoversi sul palco della Storia: ha bisogno di attori, registi e scrittori. Ma soprattutto ha bisogno degli errori.

Mai come in L'ufficiale e la spia Polanski era stato così rosselliniano: bisogna fare luce. È il dovere morale del film. Bisogna illuminare di nuovo le rovine dimenticate, trovare le vie di fuga, dire di no (straordinaria la flânerie finale di Picquart e l’amante che, alla richiesta di matrimonio, risponde un no che suona come un "j'accuse" perché loro non sono fatti così, loro sono diversi). Polanski sa che il tempo non può lasciare la sua presa, che i mostri tornano sempre perché vivono dentro di noi. Sa che si irrigidiscono fino a farsi istituzione, norma vigente, regime sociale. Alcuni personaggi, inquilini del suo cinema, si erano rifuggiati infine nella follia. Oggi non c’è tempo per essere folli ma bisogna rimanere lucidi.
In questa battaglia - perché dalla parola non si fugge - Polanski segue il suo personale dangerous method consapevole che la peste c’è sempre stata, impressa lì nel solco stesso della memoria. O meglio ancora: in un dossier frettoloso e facilmente archiviato dove la Storia è pronta a cadere. Ancora una volta, oggi più che mai, abbiamo bisogno del cinema di Roman Polanski.

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Roman Polanski Jean Dujardin Louis Garrel Emmanuelle Seigner Mathieu Amalric 126 minuti
Francia, Italia 2019
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Il sindaco del Rione Sanità

di Matteo Berardini
il sindaco del rione sanità recensione film martone

Storia di due città, di due mondi e ordini morali: della vita civile e borghese, che è legale ma anche ipocrita e avida; della vita criminale, spesso invisibile alla luce del giorno ma comunque trasversale e presente, geometrica nel suo esercizio piramidale della violenza e della giustizia morale. Da una parte c’è il padre di famiglia, Arturo Santaniello, panettiere in crescita grazie al duro lavoro ma in rotta totale con il figlio, la moglie ammazzata anni addietro per un colpo di pistola partito durante un regolamento di conti nelle strade; dall’altra Antonio Barracano, il Don, l’uomo di potere e fiducia da cui vanno tutti i poveracci e gli ignoranti e i criminali del quartiere, tutti coloro che vivono volenti o nolenti la Napoli malavitosa ma non hanno abbastanza soldi e potere e conoscenze da poter dire la loro sulla giustizia. Così il figlio di Arturo, Rafiluccio, disperato e determinato a uccidere il padre pur di riprendersi quanto gli spetta per diritto naturale. Ma prima di ogni gesto si deve appunto passare per lui, Don Antonio, che come il re Salomone autorizza e decide, si sostituisce a uno Stato che non c’è e rivendica titolo e doveri del giudice morale. Perché lui è Il sindaco del Rione Sanità.

Continua il corpo a corpo tra Mario Martone e la tradizione culturale italiana, quel confronto assetato di verità nuove e bellezze antiche, quell’interrogare i testi, letterari o teatrali che siano, che sono come tesori da riscoprire, voci potenti da riascoltare, testamenti da strappare allo studio polveroso della tradizione e ricondurre al qui e ora. È così che Don Antonio Barracano, vecchio boss di 75 anni creato dal testo di Eduardo De Filippo nel 1960, emanazione ottocentesca di un modo arcaico di intendere il potere camorristico e le sue irrisolte implicazioni morali, rinasce nel corpo trentottenne di Francesco Di Leva – bravissimo, e come lui tutti gli attori del collettivo NEST - Napoli Est Teatro con cui Martone portava sul palco nel 2017 l’adattamento che qui diventa cinema. Il sindaco del Rione Sanità infatti rispetta filologicamente il testo di De Filippo ma lo fa precipitare nell’estetica seriale di Gomorra, specchio di una contemporaneità in cui i boss sono ormai giovanissimi, la violenza dilaga e imbestia, gli abiti sono all’ultima moda e i colpi di pistola si alternano ai versi di una musica rap. Camaleontico, Martone trova per il suo cinema un modo nuovo e vitale di guardare al mondo che lo circonda, di cui evoca storture scomode e irrisolte, mostrando come i due volti di Napoli siano indissolubilmente legati l’uno all’altro. È un rapporto questo che tocca lo Stato e la sua assenza, le connivenze e le concessioni, i fallimenti, e che può risolversi solo temporaneamente con l’esercizio personalistico della giustizia.

Personaggio complesso quello di Don Antonio Barracano, sicuramente discutibile e figlio di una forma diversa di violenza, a cui De Filippo affianca con una struttura duale la figura del medico disilluso, amico di una vita e complice riluttante nel piano di gestione etica del territorio esercitato dal Don. Il dottore infatti è stanco di salvare criminali che ripetutamente, nonostante le indicazioni del Sindaco, tornano a esprimersi con la violenza e l’illegalità. Per questo, nella versione originaria di De Filippo, dopo che Barracano compie la sua ultima cena e si lascia morire per stroncare l’ennesima spirale di sangue e vendette, il medico contravviene alle indicazioni del Don e ne dichiara fallito il progetto, prospettando un’alternativa legale dai tempi certo più lunghi e sofferti ma dai frutti più duraturi. Martone invece, con quello che è l’unico intervento di scrittura sul copione originale, decide di tagliare questa decisione finale e lasciare l’opera in sospeso. Come se, dopo le utopie e le rivoluzioni messe in scena in Capri Revolution, non volesse sigillare del tutto il piano di Barracano e stroncarne così le ambizioni e i sogni pacificatori. Ma le tensioni morali sono ancora tutte lì, infiltrate nel sogno di giustizia e alimentate da un’ambiguità violenta e prevaricatrice.

Con quasi dieci lungometraggi e trenta anni di carriera cinematografica alle spalle, Mario Martone si conferma uno dei registi più importanti del cinema italiano, intellettuale nel senso più vitale e attento e creativo del termine. Il suo cinema, colto e sempre umanissimo, si reinventa ancora una volta e con Il sindaco del Rione Sanità scopre tempi impeccabili da commedia brillante, con un ritmo serrato che alterna battute e picchi drammatici mentre un lavoro attentissimo sui corpi degli attori valorizza ogni sguardo e piccolo gesto.

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Mario Martone Francesco Di Leva Massimilano Gallo Roberto De Francesco 115 minuti
Italia 2019
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Ad Astra

di Giulio Casadei
recensione Ad Astra di James Gray

« Avrei dovuto provare qualcosa » dice con stupore l’astronauta Roy McBride, ripensando ad un incidente che lo ha portato ad un passo dalla morte. Eppure il suo cuore è rimasto impassibile. Ottanta battiti al minuto. Una macchina perfetta, incapace di provare emozioni. Inscalfibile, persino davanti alla fine del proprio matrimonio. Nel lavoro di astronauta non sono ammessi cedimenti. Alla minima incertezza si viene rispediti a casa. Bisogna restare focalizzati sull’obiettivo. Asettici. Freddi. Distaccati. Un controllo estremo del proprio mondo interiore che nasconde, come nel caso di Roy McBride, un’anima inquieta sempre tentata dalla via di fuga. Diviso tra la fedeltà al proprio ruolo, alla propria missione, di diretta emanazione paterna, e il tradimento delle emozioni. Impossibile una sintesi: uno pregiudica l’altro. Ma cosa succede quando entrambi i poli sono riconducibili alla stessa persona, ovvero al proprio padre? Ed è qui che si gioca l’ultimo, magnifico, film di James Gray. Vera e propria summa di tutto il suo cinema. Quasi una “resa dei conti” finale con i propri fantasmi. Ritornano gli aspetti ricorrenti: i vincoli familiari, il senso di appartenenza ad una comunità, l’ossessione che marca a fuoco l’esistenza, i disturbi emotivi e relazionali del protagonista. Ad Astra potrebbe essere considerato come il seguito ideale di Civiltà perduta, la sua versione epurata e astratta. Questa volta dalla parte del figlio, di colui che ha ereditato l’amore per l’avventura, l’esplorazione di mondi e culture sconosciute, dovendo però rinunciare alla presenza del padre, risucchiato nel vortice delle ossessioni. Ed è proprio il figlio a doversi mettere sulle sue tracce per un confronto finale che ha il sapore del bilancio ma che allo stesso tempo offre l’ipotesi di una nuova possibilità. Non è un caso che questa resa dei conti avvenga sul terreno della fantascienza, ovvero con il genere che più di ogni altro assolutizza i termini del discorso, riducendo fino al grado zero il tempo e lo spazio, e costringendo i corpi in un contesto senza vie di fuga. Come un appuntamento inevitabile con il destino. 

Nella ricerca del padre fino ai confini dell’universo, McBride è chiamato ad affrontare la sfida più difficile della sua vita, ovvero spingersi fin dove solo il padre si era spinto, provando ad essere all’altezza delle eccezionali orme paterne che ne hanno fatto una leggenda dell’esplorazione spaziale. Inevitabile il confronto con il lascito del padre: la passione per l’astronautica, l’amore per il cinema classico ed in particolare il musical, una forte etica del lavoro. Ma anche l’aridità dei sentimenti, la solitudine. In questo lento e doloroso viaggio fuori e dentro di sé, McBride è costretto ad affrancarsi progressivamente da tutte le difese erette nel corso degli anni. Far uscire quello che si era cercato di addomesticare, reprimere, attraverso una lingua che possa tradurre concretamente i propri sentimenti, trasformare i monologhi in una lingua condivisa. Si riaffacciano il ricordo della donna amata e altri frammenti di memoria persi nel tempo. Un percorso intimista segnato dalla scoperta della propria vulnerabilità, dall’emersione delle proprie ferite, accompagnato dall’avanzare inesorabile delle lacrime, trattenute fino quasi al finale. 

Ad Astra traccia la parabola di uno sguardo che deve reimparare a vedere e che per farlo ha bisogno della singolarità delle emozioni. Le sole capaci di donare volume, consistenza, profondità alle immagini. Per quanto belli possano essere i pianeti scoperti dal padre, essi non sono niente senza sguardo affettivo. Non hanno luci né ombre. Sono soltanto la traccia inerte di uno sguardo accecato dalle proprie ossessioni e dunque incapace di accettare ciò che le immagini da lui stesso immortalate rivelano in tutta la loro semplicità. Non c’è alcun mistero da svelare, nessun altro pianeta sconosciuto o popolo alieno. Per giungere a questa consapevolezza, McBride deve in qualche modo disimparare la tecnica, superare la fredda prassi scientifica, correndo il rischio di far saltare tutti i parametri, di non essere più in grado di compiere “lucidamente” il proprio lavoro, di non essere più considerato idoneo. Per eguagliare e superare la traiettoria paterna deve rimettere in discussione alcuni principi cardine del suo lavoro, opporre alla possibilità (sempre aperta) della scoperta, la concretezza delle emozioni e delle relazioni. Dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo. Colmare la distanza che ci separa dall’altro. 

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James Gray Brad Pitt Tommy Lee Jones Ruth Negga Liv Tyler Donald Sutherland 124 minuti
USA
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The Perfect Candidate

di Riccardo Bellini
the perfect candidate - recensione film Al Mansour

Maryam è una giovane dottoressa pronta a candidarsi alle elezioni comunali del proprio paese per asfaltare la strada dissestata che, ogni giorno, conduce le ambulanze all'ospedale in cui lavora. Peccato che ci troviamo in Arabia Saudita, dove (nella realtà) soltanto nell'agosto del 2019 è stata abolita la legge che impediva alle donne di viaggiare all'estero senza l'autorizzazione di un "tutore" (la stessa Maryam viene rimandata a casa dall’aeroporto per lo stesso motivo). Figurarsi partecipare da candidate alla vita politica locale. E infatti bastano le dichiarazioni della ragazza per scatenare l'ostilità e l'indignazione dei concittadini, donne comprese. Ma Maryam è decisa ad andare fino in fondo e tentare l'inaudito. Con The Perfect Candidate, Haifaa Al Mansour torna così nella sua terra natale, - dopo gli occidentali Marey Shalley e Nappily Ever After (distribuito da Netflix), - e al cinema di denuncia. Un ritorno che trova una collocazione, all'interno del concorso della 76 Mostra del cinema di Venezia, destinato a suscitare perplessità più che comprensibili.  

In una edizione del Festival inaugurata dalle discutibili dichiarazioni della presidentessa Laura Martel rivolte a Roman Polanski, The Perfect Candidate dimostra quantomeno che, quando si parla di cinema, continueremo a preferire i grandi registi ai talenti mediocri, indipendentemente dal fatto che siano o no brave persone. Come del resto continueremo a ribadire che non bastano buoni sentimenti e nobili intenti per rendere efficace la portata del proprio messaggio. Sono al contrario necessari una visione estetica, un approccio stilistico, o per lo meno la capacità di sviluppare un’idea che non si limiti alle sue premesse essenziali, tutte cose di cui è carente il film di Haifaa Al Mansour. Appiattito da una sceneggiatura con poche intuizioni veramente fortunate (Maryam che per la propria campagna elettorale trae ispirazione dal video di un bifolco repubblicano degli Stati Uniti) e dalla totale assenza di un’autentica componente espressiva, The Perfect Candidate incarna i limiti di un cinema politicamente militante che attenua la forza della propria causa nel momento in cui si disinteressa alla forma.

È interessante il tentativo di accomunare le difficoltà incontrate da Maryam - che si confronta con un ambiente apertamente avverso - a quelle più subdole con cui deve fare i conti il padre, musicista di matrimoni e per questo vittima di pregiudizi classisti da parte della comunità. Soluzione che permette senz’altro di espandere lo sguardo morale verso una società ancora profondamente bigotta e reazionaria, attraverso pochi dialoghi e alcuni dettagli (almeno per quanto riguarda la storia del padre, più didascalica risulta invece la parte di Maryam). Come del resto è apprezzabile il coraggio e la determinazione con cui l’attrice Mila Al Zahrani dà vita alla protagonista. Ma, nella reiterazione delle situazioni e nell’insistenza con cui si afferma lo stesso (importante) messaggio senza la capacità di approfondirlo, anche le idee migliori restano relegate a livello di meri spunti.

Haifaa Al Mansour è una di quelle personalità la cui importanza storica supera quella artistica. Se essa, unica regista dell’Arabia Saudita, è riuscita a scalfire anche in minima parte un sistema oppressivo con il suo esempio lo si deve in primis al coraggio del gesto, all’urgenza di una voce che ha deciso di non assecondare il pensiero egemone. E questo non possiamo sottovalutarlo. Ma nel momento in cui siamo chiamati a valutare l’opera all’interno di un concorso come quello veneziano, allora non possiamo astenerci dal dire che è davvero troppo poco. 

 

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Haifaa Al Mansour Mila Al Zahrani 101 minuti
Arabia Saudita 2019
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Pelikanblut (Pelican Blood)

di Samuele Sestieri
Pelican Blood

Il pellicano resuscita i cuccioli col proprio stesso sangue: dai retaggi cristiani - tracce iconografiche di un passato che non muore mai - alla magia nera il passo sembrerebbe enorme, eppure tutto è possibile nell’opera seconda di Katrin Gebbe.

Pelikanblut (Pelican Blood) inizia come un dramma familiare con mamma Nina Hoss che vive insieme alla figlia adottiva in un allevamento di cavalli. Accoglie in casa la piccola Raya, bambina dal passato traumatico, e fin da subito le dona un amore incondizionato. Ma – come da tradizione – lo sguardo della bambina si fa oscuro, inquieto, custode di segreti inconfessabili. Gradualmente si insinuano tutti i tasselli del più classico degli horror familiari: morsi, schiaffi e dispetti crudeli, terribili disegni sulle pareti, incendi falliti, grida in stile Friedkin, deviazioni scatologiche e il solito armamentario da bimbo malefico.

Pelican Blood ci fa credere, per qualche istante, all’improbabile medico di turno che dispiega tutte le diagnosi psicologiche del caso. Pensiamo di aver inquadrato il film quando ci viene detto – parole, parole, parole! – che  la piccola Raya non prova sentimenti, non conosce né odio né amore. Da quel momento Pelican Blood sembrerebbe procedere in modo programmatico. La madre, come il pellicano del titolo, tenta di far rinascere Raya: le dona tutto l’amore del mondo, la allatta come una neonata, si prende cura della bimba in modo tanto estremo da sfiorare la patologia. L’amore materno, si sa, non conosce confini. Ma poi, all’improvviso, il film inverte la tendenza, scopre che c’è qualcos’altro. Qualcosa che non può essere detto né dimostrato, qualcosa che eccede la teoria e lascia emergere un mondo sommerso e primordiale, quello dei riti e della magia, dei mostri che ci abitano e dei diavoli che non ci hanno mai abbandonati. Esiste un resto e questo resto ritorna finalmente al centro.

Improvvisamente Pelican Blood si fa beffe delle piste costruite fino a quel momento, perfino della relazione amorosa che avrebbe potuto salvare la donna. Si fa beffe delle analisi scientifiche, delle ipotesi cliniche, della logica medica e trasforma la maternità in un viaggio nel tempo.

Pelican Blood ci proietta in un mondo arcaico e notturno dove riaffiorano, come in sogno, antichi rituali dimenticati. Con afflato pagano, il film scivola nei territori oscuri dei culti e delle streghe, degli incantesimi e dei demoni che abitano la carne. Smette di inquadrare il male e si fa piuttosto esperienza del male. Katrin Gebbe  ha il coraggio di disattendere le aspettative, di sfidare il buonsenso, di prendersi il suo tempo – che è un tempo altro, sospeso, malato - ricercando le radici di un genere – l’horror – che troppo spesso ha lasciato fuori casa il suo stesso germe fondativo: l’irrazionale.

Pelican Blood fa del fuoricampo il regno privilegiato del mistero e del soprannaturale, perché il diavolo è invisibile ma si congela negli occhi di chi guarda (magnifici i tre ralenti che suggellano il film prima delle dissolvenze incrociate: lo sguardo contamina il mondo, gli occhi sono il vero agente patogeno, la matrice di ogni orrore). Imprevedibile, Pelican Blood fugge via dalle zone di comfort, diventa film inatteso e un po’ spregiudicato, che non cade nella provocazione grand guignol ma lavora sapientemente sulle atmosfere che lentamente ci avvolgono e spaventano. La paura ritorna a popolare la foresta: nel bosco della nostra infanzia la scienza non può nulla. La mente della bambina diventa un labirinto impossibile da decodificare mentre il corpo si fa ricettacolo del male. L’esorcismo non basta, bisogna tornare al sacrificio animale e alle antiche logiche tribali, al voodoo e alla magia nera. E, soprattutto, bisogno crederci. Pelican Blood in fondo parla di questo: dell’amore come insindacabile atto di fede, gesto esemplare di rivolta a un tempo – il nostro – che ha smesso di credere a tutto ciò che è incredibile. Solo quest’ennesima mother cinematografica può vincere il male perché lei vede le cose che solo i bambini vedono.

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Katrin Gebbe Nina Hoss Yana Marinova Murathan Muslu 121 minuti
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Le verità

di Matteo Berardini
La verite - film koreeda venezia

Fabienne e Lumir, madre e figlia, la prima grande attrice del cinema francese, la seconda sceneggiatrice sposata a un attore americano di serie b con problemi di alcolismo. Una famiglia che ruota attorno al set e alla magia del cinema, e che si riunisce in Francia nella lussuosa casa di Fabienne per festeggiare l’uscita editoriale delle sue memorie. Il titolo è Le verità, il contenuto decisamente meno, come si accorgerà ben presto Lumir. Intanto la figlia di lei guarda estasiata la grande casa della nonna, torreggiante e avvolta da un ricco giardino: «è come un castello!» dice sorpresa e divertita; «sì, ma dietro c’è costruita una prigione», replica la mamma. In questo scambio di battute, che apre il film e torna un’altra volta in corso d’opera, c’è la cifra e il motore primo del cinema intimista di Hirokazu Kore'eda, da sempre interessato a raccontare le intessiture agrodolci della vita famigliare, il doppio volto – costruttivo ma anche opprimente, accogliente ma condizionante – dei legami affettivi e fondanti che costituiscono la vita insieme. Per questo Le verità  è un film che programmaticamente nega sé stesso e gioca con il concetto di verità moltiplicandone i punti di vista, le possibilità, fino a trovare nella mise en abîme del set e della finzione artistica l’esemplificazione ideale dell’aporia intrinseca ai rapporti famigliari, al loro essere allo stesso tempo castello e prigione.

Fresco di Palma d’oro per uno dei suoi film più belli (Un affare di famiglia), Kore'eda si apre per la prima volta alla produzione internazionale, gira in francese e inglese reclutando un cast di divi (Catherine Deneuve, Juliette Binoche, Ethan Hawke) e prende a prestito il titolo di uno dei film più belli di Clouzot, Le verità appunto, feroce atto d’accusa contro l'ipocrisia borghese della Francia anni Sessanta incarnato da Brigitte Bardot.
Qui a tenere banco è invece la Deneuve, sulla quale il regista giapponese – ispirandosi a una sua opera teatrale scritta 15 anni fa – costruisce la figura di una decadente attrice storica del cinema francese, sorta di Norma Desmond circondata da ex mariti, mariti mancati, mariti attuali, un ginepraio di maschi irrisolti e incerti e perpetuamente infantili che fa da controcampo alla centralità femminea del racconto (in particolare nel rapporto madre-figlia) ma che è anche, nella sua sterilità un po’ pigra e superficiale, il primo campanello d’allarme di una generale povertà d’indagine e scavo psicologico.

Afflitto da una frivolezza per cui la leggiadria sotto le righe dei migliori film di Kore'eda trascolora qui in leggerezza e banalità, Le verità chiama a raccolta tre generazioni femminili, nonna, madre e figlia, e di queste cerca di catturare i vari punti di vista senza riuscire però a conquistarne nessuno; nel corso del racconto emergono tracce di quel realismo magico che popola il mondo dell’infanzia, ritornano i fantasmi di traumi e conflittualità insiti nel rapporto madre-figlia, si moltiplicano le asperità egocentriche di una donna matura che sente la vecchiaia e la dismissione del suo ruolo come una minaccia incombente, ma in questo gioco di doppi manca sempre un momento di reale confronto, uno spazio di approfondimento drammatico. Sulla carta tale ruolo dovrebbe essere svolto dalla dimensione meta-testuale della storia, alla quale Kore'eda affida il compito di far emergere e problematizzare i rapporti affettivi, ma vuoi l’affastellarsi di riferimenti cinefili gratuiti, vuoi la volontà di non andare mai a fondo nelle tensioni evocate, preservando un costante tono da commedia brillante, la struttura specchiata del film nel film, che tanto richiama l'ultimo Assayas, non ha il respiro e il coraggio necessari a far cambiare marcia al racconto.

Il risultato non sembra essere né dramma da camera né ricostruzione sotto le righe di universi famigliari complessi (come comunque riuscivano a essere, pur come opere minori, film come Ritratto di famiglia con tempesta); dispiace dirlo, perché comunque il film in piccolo funziona e regala anche momenti di grazia, ma Le verità è un lavoro in tono fortemente minore, che banalizza le tematiche del suo regista e sembra nascere da un patteggiamento tra apertura internazionale e sguardo personale a deciso svantaggio della seconda.

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Hirokazu Kore'eda Catherine Deneuve Juliette Binoche Ethan Hawke Manon Clavel 107 minuti
Francia, Giappone 2019
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Midsommar - Il villaggio dei dannati

di Saverio Felici
Midsommar recensione film Aster.

La fretta di trovare nuovi Maestri e rinnovare il volto all'industria cinematografica americana ha già creato tanti paradossi critici, ma la maniera in cui l'ansia da prestazione ha pregiudicato Midsommar lascia veramente l'amaro in bocca. Il villaggio dei dannati (che nulla c'entra con il classico di Wolf Rilla) arriva a un anno dall'acclamatissimo debutto di Ari Aster, quell'Hereditary frettolosamente portato in trionfo quale (ennesima) pietra miliare dell'horror contemporaneo. Il film del 2018 mostrava in realtà una padronanza ancora da trovare (durata fuori controllo, svolte melodrammatiche pretestuose, una certa tendenza a “citare” modelli riconosciuti); ma lo sguardo autoriale c'era già, gelido e cattivo, seppur centrato su un cliché del cinema indipendente americano come quello della dysfunctional family.

Midsommar è il più prevedibile degli atti due: il prodotto di un regista troppo giovane e non del tutto sicuro delle doti attribuitegli, che cerca senza molta convinzione di ripagare aspettative esagerate, finendo per mettere in luce più i propri difetti congeniti che non le nascenti capacità. Queste ultime emergono tra le righe, nei dialoghi e nelle interazioni dei personaggi: non certo nella componente horror, genere che Aster, come molti colleghi provenienti dallo stesso retroterra indie, sembra intendere più come noioso compromesso che come vocazione.
Il resto è un film che dura letteralmente il doppio di quanto regga la magrissima premessa, stira due idee di numero in un processo per accumulo di scenette, e affoga uno striminzito apologo sulle dinamiche di potere nelle relazioni “tossiche” in 150 minuti di ridondante indecisione.

Midsommar, dunque: il festival di mezza estate della comune hippie-pagano-new age di Pelle (Vilhelm Blomgren), che ha invitato il suo gruppo di amici americani a trascorrere lì in Svezia le festività. Giocando con la dramatis personae dello slasher, Aster compone l'organico del gruppo per archetipi, in una costruzione da commedia di caratteri che è sicuramente la parte migliore del film. Al seguito dell'affabile svedese ci sono il nerd serioso (William Jackson Harper), il matto che vuole solo fare sesso (Will Poulter), il belloccio mezzo scemo (Jack Reynor) e la sua ragazza “verginella” e un po' repressa (Florence Pough). Dove il plot andrà a parare Aster non fa nulla per nasconderlo (il film ha anche la bella pensata di auto-spoilerarsi inquadrando ripetutamente in profondità di campo quadri e dipinti rappresentati gli sviluppi della storia – il che per un racconto di due ore e mezza giocato sulla suspense non è il massimo). Più che sull'attesa della violenza, il tutto è centrato sul rapporto tra Dani/Pough e Christian/Reynor. Dani porta dentro di sé un trauma inconcepibile (come già in Hereditary, il dramma viaggia sul crinale dell'autoparodia, con donne che strillano il loro dolore come invasate mulinando le braccia), ed è attaccata a lui come la bambina sola e ferita che in fondo è. Ma Christian è, senza mezzi termini, un cretino, e la disgrazia di questa relazione è il cuore di quella che in fondo non è che una rom-com, appena spruzzata di weird.

Come intuibile già in Hereditary e palesato in Midsommar, ad Aster l'horror sta stretto. Ciò si riflette in un disinteresse totale nei confronti di quel perturbante che dovrebbe muovere il film: i toni sono il bianco e l'azzurrino, la luce dell'estate, il cielo splendente e i grandi prati verdi. Tutto è pulito, illuminato e simmetrico. Persino le minacciose rocce millenarie coperte di rune paiono levigate con la pietra pomice. Non è chiaro se il gioco di Aster sia rivelare l'anima sinistra di ciò che percepiamo come rassicurante (in quel caso non ci riesce), o se, più probabile, semplicemente non si ponga il problema. La sua è una commedia indie, e come tale è fotografata. Più che di Ken Russell, siamo dalle parti del primo Wes Anderson.
In queste vesti, Midsommar dà il suo meglio. Così come Hereditary dedicava il grosso del suo spazio al deteriorarsi dei rapporti interni alla disastrata famiglia Graham, qui è la convivenza forzata a rivelare in tutto il loro veleno le reali dinamiche del gruppo di “amici”. Grande lavoro viene chiesto dunque al cast: Il migliore del mazzo è ovviamente Will Poulter, ma il suo ruolo è marginale; non reggono invece i due protagonisti, troppo incolori per rappresentare quel tormento che, in teoria, dovrebbe animarli, espresso a gran pianti e poco altro. Il film gioca con i suoi personaggi e si avvia, lento lento, a rivelare le sue criticità nel secondo tempo.

Cosa definisce un remake? Oggi la pratica è talmente sdoganata, che decidere se presentarsi espressamente come tale è pura scelta di marketing. Suspiria 2018 sarebbe stato identificato come remake del Suspiria 1977, se avesse portato un altro titolo? Probabilmente no: sono film diversi, opposti, e ad accomunarli c'è solo un blandissimo spunto di partenza. Midsommar, pur guardandosi bene dal rivelarlo, è in tutto e per tutto un remale del The Wicker Man di Robin Hardy. Ne ha l'idea di partenza, lo sviluppo, sequenze e props, e l'intero terzo atto. Si parlava di due idee di numero: se una è il rapporto di coppia che racconta, l'altra consiste nel replicare quanto del film del 1973 deve aver appassionato il giovane Aster. Questa sgradevole tendenza a copiare a man bassa rimane il tratto del regista che meno va giù; ancor più vista l'ingenuità del rifarsi pari pari ad opere arcinote e di pubblico dominio. Se Hereditary era tutto sommato una più raffinata rilettura di Rosemary's Baby (meno il finale ripreso inquadratura per inquadratura dal The Witch di Eggers), qui non ci si preoccupa neanche di rielaborare: Midsommar è Wicker Man e basta, e il generico sottotesto sentimentale rappresenta l'unica pretesa di originalità.

Aster ha dunque molto da dare al cinema, ma forse dopo un film e mezzo ha già dato tutto all'horror. Il passaggio al dramma da camera appare a questo punto come l'unica mossa possibile: abbandonare definitivamente il Genere, per approdare a racconti di coppie in crisi e drammi familiari. Non che finora, in fondo, abbia fatto altro.

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Ari Aster Florence Pugh Jack Reynor William Jackson Harper Will Poulter Vilhelm Blomgren 147 minuti
USA 2019
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The Wind

di Pietro Lafiandra
the wind - recensione film

Che The Witch fosse destinato a diventare un ulteriore punto di ancoraggio per una potenziale nuova leva di registi che si sarebbero confrontati con l’horror lo si poteva intuire facilmente. Il primo lungometraggio di Dave Eggers contiene tutti quegli elementi (i ritmi dilatati, la fotografia plumbea, la recitazione compassata, la rinuncia al jump scare) tipici dell’horror d’autore ma che trovano nuova linfa nella ricostruzione certosina di un preciso contesto storico-geografico (la campagna inglese del XVII secolo), con le sue tradizioni, la sua lingua e il suo accento, la fisicità dei suoi abitanti. Un contesto ritratto attraverso lo small world di una famiglia del New England allontanata dalla comunità religiosa per l’eccessiva rigidità mostrata dal capo famiglia nell’interpretazione della dottrina. In The Witch, attraverso i cinque membri che costituiscono il nucleo famigliare, non veniva rappresentato il solo sgretolarsi dei rapporti tra i personaggi sotto la paura dell’altro, il timore del demonio e della punizione divina, ma si ricostruivano le paure di una comunità intera. I drammi, le credenze, le superstizioni di un’epoca venivano filtrate dal film di genere.

Vista la risonanza e l’impatto (seppur con qualche anno di ritardo) avuto dal film anche in Europa, non sorprende che per questa sua opera prima Emma Tammi provi a inserirsi nella scia di The Witch recuperando – tra le altre sue caratteristiche distintive – quel fuoco sulla figura femminile inserita in un mondo (l’Inghilterra protestante nel cult di Eggers, il Far West per The Wind) fallocentrico e sospettoso nei confronti delle donne, figure fantasmatiche e intermittenti, passive dietro a uomini-mariti-padri che ne decidono le sorti e con i quali sono destinate a entrare in rapporto oppositivo.
È sempre stato così nel cinema western, il cinema “maschile” per eccellenza ma che vede nella conquista della donna un fattore nobilitante (Per un pugno di dollari), un oggetto di contesa (Sentieri selvaggi), un casus belli (Johnny Guitar). Anche in The Wind il motore della storia è l’avvento di una donna, un doppelgänger che più che scatenare reazioni negli uomini conduce Lizzy a un progressivo stato d’ansia e follia minimizzato dal marito, un tormento ben simboleggiato dal vento che dà il titolo al film, primo suono diegetico e rumore bianco che accompagna la protagonista dalla prima all’ultima scena, dando corpo a fantasmi e apparizioni di diversa natura, a volte animali, a volte maschili, che provano a penetrare nella casa, il suo orizzonte accartocciato nel mezzo di una radura che, come il marito, isola la donna dal mondo esterno, lasciandola sola e possibile preda di tutte le deformità che la pianura cova in seno.

The Wind fallisce però proprio dove The Witch trovava il suo massimo compimento: l’inserimento dell’allucinazione e dell’elemento orrorifico in uno scenario iperrealistico. L’horror di Eggers funzionava alla perfezione grazie all’attenzione maniacale del regista ai particolari: dalle scelte di casting e la ricostruzione linguistica al timbro degli attori – quello baritonale di Ralph Ineson in particolare – oltre al perfetto equilibrio tra reale e fantastico, dramma e incubo. Seppur calato nell’ambientazione scarna della campagna, il panorama di The Witch era connotato da una natura (il bosco) minacciosa e prevaricante, mentre la pianura di The Wind è solo accennata, non scandagliata, un fondale inefficace nel tentativo di restituire tanto l’agorafobia quanto, per opposizione, la claustrofobia. Soprattutto, Eggers calava alla perfezione la sua storia di rancori famigliari all’interno di un flusso di eventi iper-scandito e in una temporalità, per quanto a cavallo tra immaginazione e reale, ben definita, nella quale era facile seguire lo scorrere degli eventi. Qui, lo spettatore rischia di perdersi, non sapendo quale sguardo adottare per tutta la durata del film, se quello esterno di chi è estraneo agli eventi o quello della protagonista, senza che questa instabilità identitaria – a causa di un’introspezione approssimativa e superficiale dei personaggi principali, Lizzy su tutti – possa mai risultare un motivo d’interesse o un’ambiguità capace di generare ansia. Accade così che The Wind resti un film dalle buone premesse e dall’ottima resa estetica, ma incapace di restare appiccicato addosso al suo pubblico.

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Emma Tammi Caitlin Gerard Miles Anderson Julia Goldani Telles 86 minuti
USA 2018
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The World Is Flat

di Elvira Del Guercio
the world is flat - recensione film

Spesso ci si domanda di che cosa si parla quando si parla di cinema francese. Le risposte possono essere le più vaghe e superficiali, tra la naïveté di chi crede si tratti soltanto di un impianto artificioso di fiumi di parole e dialoghi consumati in interni suburbani, e la caparbietà di chi da una storia esige per forza l’incidente scatenante, potremmo dire quel coup de foudre necessario affinché curiosità e attenzione si destino. La realtà non è però così manichea. Il cinema francese ha da sempre potuto conglobare tutta la complessa varietà di codici e generi cinematografici – si pensi agli anni ’70/80 come momento di maggiore sperimentazione, tra la Nouvelle Vague, Lelouch, Sautet, il polar e tanto altro – riuscendo a conservare un proprio marchio distintivo specialmente nella costruzione psicologica dei personaggi. Un’attenzione, quindi, rivolta all’inner space, agli slanci e afflati verso l’esterno che ne risulta in questo senso una propagazione ed estensione. Sembra che il primo lungometraggio di Matteo Carrega Bertolini, anima cosmopolita divisa tra Francia, Svizzera e Italia, lasci collimare tutti questi elementi, pervenendo a un prodotto esile nella durata ma oltremodo evocativo, cristallino.

The World Is Flat è un racconto di crescita e formazione di più individui in cui l’amicizia e il suo evolversi (o involvere) hanno un ruolo determinante, facendo da collante dei singoli microcosmi rappresentati. Carrega Bertolini ci parla di un’amicizia che si sviluppa nell’arco di tre anni tra il timido Jean e l’impavido Antoine, incontrato per caso in un bistrò dopo essersi negato del divertimento a una festa, un rapporto teso tra gli orrori di un quotidiano sempre uguale che vampirizza autenticità e sentimenti e le difficoltà a emergere in ciò che ci si era prefissati di diventare. Il ritmo della narrazione ha così un incedere particolare, a metà tra la coralità di punti di vista e situazioni di stampo altmaniano e il loro dilazionarsi nel tempo come se dietro la macchina da presa ci fosse un tale Philippe Garrel. Non per caso è un bianco e nero traslucido a connotare la flagranza e chiarezza dell’immagine, come sono anche reminiscenze “garreliane” l’alternanza di toni chiari e scuri sui volti anche in relazione agli stati d’animo che cambiano, e quell’ostinato seguire e inseguire i personaggi nei loro andirivieni sia fisici che emotivi, come se la macchina da presa li pedinasse e non se ne volesse mai staccare. Noto connubio cinema-vita.

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Matteo Carrega Bertolini Nicolas Foussard Federico Uguccioni Bérangère McNeese 76 minuti
Francia, Italia, Svizzera 2018
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Lee Anne Schmitt - Frontiera e politica dell'immagine

di Andreina Di Sanzo
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I paesaggi parlano, raccontano, suggeriscono, non smettono di dirci cosa siamo e cosa siamo stati. Lee Anne Schmitt, a cui l’ultimo Festival di Pesaro ha dedicato una personale, lavora da sempre dialogando con il paesaggio americano e nel suo celebre California Company Town (2008) attraversa le citta-azienda della California, luoghi che testimoniano il declino e il fallimento dei progetti industriali, lasciati completamente alla deriva. Lo sguardo della Schmitt, che gira in 16 mm, da sola, percorrendo la desolazione dell’altra California, lontana dallo sbrilluccichio di Los Angeles o dalla coolness di San Francisco, si fa testimone del cambiamento causato dal sogno capitalista che crolla lasciando segni indelebili. Terminato nel 2008, su California Company Town Anne si dedica per circa quattro anni, un film-saggio che punteggia l’orizzonte di quel sogno americano svanito per nostre stesse mani e, come in una sorta di guida turistica, passa di città in città contemplando, con una serie di inquadrature fisse, quanto la natura sia stata deturpata dall’intervento dell’uomo nelle sue deliranti utopie. Uomo e natura che tornano ancora in The Last Buffalo Hunt (2011) realizzato insieme a Lee Lynch, un altro film-saggio che racconta dello sterminio dei bufali da parte dei cacciatori dello Utah, braccatori spietati che provano godimento nel momento in cui la loro preda viene uccisa, eccitazione pari a quella sessuale seguita dagli immancabili scatti con la carcassa dell’animale proprio come i ricchi austriaci di Seidl in Safari. I turisti della caccia mostrano i loro trofei come fossero paia di scarpe di una qualsiasi ragazza appassionata di moda. Alle origini di questo sterminio vi è il razzismo nei confronti dei nativi dello Utah, che proprio dai bufali traevano sostentamento, e di quelle uccisioni viene mostrato lo scuoiamento, il sangue e la crudeltà con cui i cacciatori si accaniscono, galvanizzati dalla carneficina. Come in guerra.

Pur ripercorrendo la storia americana e realizzando un cinema che intavola un discorso politico ampio, la filmografia di Lee Anne Schmitt, come ha affermato la regista stessa, «è un atto autobiografico», in cui la dimensione soggettiva, come in tutti i film-saggio veramente degni di portare questa etichetta, ha una notevole importanza e fa da veicolo per raggiungere i grandi temi cari all'opera dell'autrice. Le tematiche della Schmitt sono il razzismo, la storia americana, la guerra, il capitalismo e le sue conseguenze, l’impatto uomo-natura, problematiche così grandi da spaventare e che sceglie sempre di affrontare nel formato 16 mm, una decisione precisa che «permette un lavoro di osservazione accurato sul tipo di rapporto esistente tra lo sviluppo del paesaggio e le persone che ne sono influenzate, prestandosi a raccontare tematiche storiche e sociali degli Stati Uniti». Anche in Purge This Land (2017), soffermandosi sulle vicende di John Brown, attivista che si batteva per l’abolizione della schiavitù, la Schmitt mescola autobiografia con storia americana e grandi battaglie civili. Il documentario viene dedicato a suo figlio e pone una questione strettamente personale: sposata a un afroamericano (compositore delle musiche del film in questione,) la regista si chiede come potrà mai questo ragazzo vivere da nero negli Stati Uniti.

Il cinema di Lee Anne Schmitt è tutto attraversato dalla profonda dualità tra il soggettivo e l’universale, tra il particolare e il generale, l’uno sempre imprescindibile per l’altro, l’uno punto di partenza per arrivare all’altro. La pacatezza e l’andamento cullante della sua voce, che utilizza in tutti i suoi film, qui la voce di una madre, si rivolge allo spettatore raccontando, descrivendo, contemplando per esortarlo a una più grande riflessione. Il suo cinema fornisce gli strumenti, personali e storici, affinché certe parti di America, certe storie americane, non vengano dimenticate e siano il monito per una militanza continua. Perché questi suicide landscapes, queste terre di confine, topografico e metaforico, che una donna decide di voler raccontare, sono il mondo che spesso si sceglie di non guardare. La Storia come l’autobiografia possono essere entrambi le armi per comprendere, conoscere e ridare dimensione politica e militante all’immagine.

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Lee Anne Schmitt
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