Midsommar - Il villaggio dei dannati

di Saverio Felici
Midsommar recensione film Aster.

La fretta di trovare nuovi Maestri e rinnovare il volto all'industria cinematografica americana ha già creato tanti paradossi critici, ma la maniera in cui l'ansia da prestazione ha pregiudicato Midsommar lascia veramente l'amaro in bocca. Il villaggio dei dannati (che nulla c'entra con il classico di Wolf Rilla) arriva a un anno dall'acclamatissimo debutto di Ari Aster, quell'Hereditary frettolosamente portato in trionfo quale (ennesima) pietra miliare dell'horror contemporaneo. Il film del 2018 mostrava in realtà una padronanza ancora da trovare (durata fuori controllo, svolte melodrammatiche pretestuose, una certa tendenza a “citare” modelli riconosciuti); ma lo sguardo autoriale c'era già, gelido e cattivo, seppur centrato su un cliché del cinema indipendente americano come quello della dysfunctional family.

Midsommar è il più prevedibile degli atti due: il prodotto di un regista troppo giovane e non del tutto sicuro delle doti attribuitegli, che cerca senza molta convinzione di ripagare aspettative esagerate, finendo per mettere in luce più i propri difetti congeniti che non le nascenti capacità. Queste ultime emergono tra le righe, nei dialoghi e nelle interazioni dei personaggi: non certo nella componente horror, genere che Aster, come molti colleghi provenienti dallo stesso retroterra indie, sembra intendere più come noioso compromesso che come vocazione.
Il resto è un film che dura letteralmente il doppio di quanto regga la magrissima premessa, stira due idee di numero in un processo per accumulo di scenette, e affoga uno striminzito apologo sulle dinamiche di potere nelle relazioni “tossiche” in 150 minuti di ridondante indecisione.

Midsommar, dunque: il festival di mezza estate della comune hippie-pagano-new age di Pelle (Vilhelm Blomgren), che ha invitato il suo gruppo di amici americani a trascorrere lì in Svezia le festività. Giocando con la dramatis personae dello slasher, Aster compone l'organico del gruppo per archetipi, in una costruzione da commedia di caratteri che è sicuramente la parte migliore del film. Al seguito dell'affabile svedese ci sono il nerd serioso (William Jackson Harper), il matto che vuole solo fare sesso (Will Poulter), il belloccio mezzo scemo (Jack Reynor) e la sua ragazza “verginella” e un po' repressa (Florence Pough). Dove il plot andrà a parare Aster non fa nulla per nasconderlo (il film ha anche la bella pensata di auto-spoilerarsi inquadrando ripetutamente in profondità di campo quadri e dipinti rappresentati gli sviluppi della storia – il che per un racconto di due ore e mezza giocato sulla suspense non è il massimo). Più che sull'attesa della violenza, il tutto è centrato sul rapporto tra Dani/Pough e Christian/Reynor. Dani porta dentro di sé un trauma inconcepibile (come già in Hereditary, il dramma viaggia sul crinale dell'autoparodia, con donne che strillano il loro dolore come invasate mulinando le braccia), ed è attaccata a lui come la bambina sola e ferita che in fondo è. Ma Christian è, senza mezzi termini, un cretino, e la disgrazia di questa relazione è il cuore di quella che in fondo non è che una rom-com, appena spruzzata di weird.

Come intuibile già in Hereditary e palesato in Midsommar, ad Aster l'horror sta stretto. Ciò si riflette in un disinteresse totale nei confronti di quel perturbante che dovrebbe muovere il film: i toni sono il bianco e l'azzurrino, la luce dell'estate, il cielo splendente e i grandi prati verdi. Tutto è pulito, illuminato e simmetrico. Persino le minacciose rocce millenarie coperte di rune paiono levigate con la pietra pomice. Non è chiaro se il gioco di Aster sia rivelare l'anima sinistra di ciò che percepiamo come rassicurante (in quel caso non ci riesce), o se, più probabile, semplicemente non si ponga il problema. La sua è una commedia indie, e come tale è fotografata. Più che di Ken Russell, siamo dalle parti del primo Wes Anderson.
In queste vesti, Midsommar dà il suo meglio. Così come Hereditary dedicava il grosso del suo spazio al deteriorarsi dei rapporti interni alla disastrata famiglia Graham, qui è la convivenza forzata a rivelare in tutto il loro veleno le reali dinamiche del gruppo di “amici”. Grande lavoro viene chiesto dunque al cast: Il migliore del mazzo è ovviamente Will Poulter, ma il suo ruolo è marginale; non reggono invece i due protagonisti, troppo incolori per rappresentare quel tormento che, in teoria, dovrebbe animarli, espresso a gran pianti e poco altro. Il film gioca con i suoi personaggi e si avvia, lento lento, a rivelare le sue criticità nel secondo tempo.

Cosa definisce un remake? Oggi la pratica è talmente sdoganata, che decidere se presentarsi espressamente come tale è pura scelta di marketing. Suspiria 2018 sarebbe stato identificato come remake del Suspiria 1977, se avesse portato un altro titolo? Probabilmente no: sono film diversi, opposti, e ad accomunarli c'è solo un blandissimo spunto di partenza. Midsommar, pur guardandosi bene dal rivelarlo, è in tutto e per tutto un remale del The Wicker Man di Robin Hardy. Ne ha l'idea di partenza, lo sviluppo, sequenze e props, e l'intero terzo atto. Si parlava di due idee di numero: se una è il rapporto di coppia che racconta, l'altra consiste nel replicare quanto del film del 1973 deve aver appassionato il giovane Aster. Questa sgradevole tendenza a copiare a man bassa rimane il tratto del regista che meno va giù; ancor più vista l'ingenuità del rifarsi pari pari ad opere arcinote e di pubblico dominio. Se Hereditary era tutto sommato una più raffinata rilettura di Rosemary's Baby (meno il finale ripreso inquadratura per inquadratura dal The Witch di Eggers), qui non ci si preoccupa neanche di rielaborare: Midsommar è Wicker Man e basta, e il generico sottotesto sentimentale rappresenta l'unica pretesa di originalità.

Aster ha dunque molto da dare al cinema, ma forse dopo un film e mezzo ha già dato tutto all'horror. Il passaggio al dramma da camera appare a questo punto come l'unica mossa possibile: abbandonare definitivamente il Genere, per approdare a racconti di coppie in crisi e drammi familiari. Non che finora, in fondo, abbia fatto altro.

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Ari Aster Florence Pugh Jack Reynor William Jackson Harper Will Poulter Vilhelm Blomgren 147 minuti
USA 2019
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The Wind

di Pietro Lafiandra
the wind - recensione film

Che The Witch fosse destinato a diventare un ulteriore punto di ancoraggio per una potenziale nuova leva di registi che si sarebbero confrontati con l’horror lo si poteva intuire facilmente. Il primo lungometraggio di Dave Eggers contiene tutti quegli elementi (i ritmi dilatati, la fotografia plumbea, la recitazione compassata, la rinuncia al jump scare) tipici dell’horror d’autore ma che trovano nuova linfa nella ricostruzione certosina di un preciso contesto storico-geografico (la campagna inglese del XVII secolo), con le sue tradizioni, la sua lingua e il suo accento, la fisicità dei suoi abitanti. Un contesto ritratto attraverso lo small world di una famiglia del New England allontanata dalla comunità religiosa per l’eccessiva rigidità mostrata dal capo famiglia nell’interpretazione della dottrina. In The Witch, attraverso i cinque membri che costituiscono il nucleo famigliare, non veniva rappresentato il solo sgretolarsi dei rapporti tra i personaggi sotto la paura dell’altro, il timore del demonio e della punizione divina, ma si ricostruivano le paure di una comunità intera. I drammi, le credenze, le superstizioni di un’epoca venivano filtrate dal film di genere.

Vista la risonanza e l’impatto (seppur con qualche anno di ritardo) avuto dal film anche in Europa, non sorprende che per questa sua opera prima Emma Tammi provi a inserirsi nella scia di The Witch recuperando – tra le altre sue caratteristiche distintive – quel fuoco sulla figura femminile inserita in un mondo (l’Inghilterra protestante nel cult di Eggers, il Far West per The Wind) fallocentrico e sospettoso nei confronti delle donne, figure fantasmatiche e intermittenti, passive dietro a uomini-mariti-padri che ne decidono le sorti e con i quali sono destinate a entrare in rapporto oppositivo.
È sempre stato così nel cinema western, il cinema “maschile” per eccellenza ma che vede nella conquista della donna un fattore nobilitante (Per un pugno di dollari), un oggetto di contesa (Sentieri selvaggi), un casus belli (Johnny Guitar). Anche in The Wind il motore della storia è l’avvento di una donna, un doppelgänger che più che scatenare reazioni negli uomini conduce Lizzy a un progressivo stato d’ansia e follia minimizzato dal marito, un tormento ben simboleggiato dal vento che dà il titolo al film, primo suono diegetico e rumore bianco che accompagna la protagonista dalla prima all’ultima scena, dando corpo a fantasmi e apparizioni di diversa natura, a volte animali, a volte maschili, che provano a penetrare nella casa, il suo orizzonte accartocciato nel mezzo di una radura che, come il marito, isola la donna dal mondo esterno, lasciandola sola e possibile preda di tutte le deformità che la pianura cova in seno.

The Wind fallisce però proprio dove The Witch trovava il suo massimo compimento: l’inserimento dell’allucinazione e dell’elemento orrorifico in uno scenario iperrealistico. L’horror di Eggers funzionava alla perfezione grazie all’attenzione maniacale del regista ai particolari: dalle scelte di casting e la ricostruzione linguistica al timbro degli attori – quello baritonale di Ralph Ineson in particolare – oltre al perfetto equilibrio tra reale e fantastico, dramma e incubo. Seppur calato nell’ambientazione scarna della campagna, il panorama di The Witch era connotato da una natura (il bosco) minacciosa e prevaricante, mentre la pianura di The Wind è solo accennata, non scandagliata, un fondale inefficace nel tentativo di restituire tanto l’agorafobia quanto, per opposizione, la claustrofobia. Soprattutto, Eggers calava alla perfezione la sua storia di rancori famigliari all’interno di un flusso di eventi iper-scandito e in una temporalità, per quanto a cavallo tra immaginazione e reale, ben definita, nella quale era facile seguire lo scorrere degli eventi. Qui, lo spettatore rischia di perdersi, non sapendo quale sguardo adottare per tutta la durata del film, se quello esterno di chi è estraneo agli eventi o quello della protagonista, senza che questa instabilità identitaria – a causa di un’introspezione approssimativa e superficiale dei personaggi principali, Lizzy su tutti – possa mai risultare un motivo d’interesse o un’ambiguità capace di generare ansia. Accade così che The Wind resti un film dalle buone premesse e dall’ottima resa estetica, ma incapace di restare appiccicato addosso al suo pubblico.

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Emma Tammi Caitlin Gerard Miles Anderson Julia Goldani Telles 86 minuti
USA 2018
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The World Is Flat

di Elvira Del Guercio
the world is flat - recensione film

Spesso ci si domanda di che cosa si parla quando si parla di cinema francese. Le risposte possono essere le più vaghe e superficiali, tra la naïveté di chi crede si tratti soltanto di un impianto artificioso di fiumi di parole e dialoghi consumati in interni suburbani, e la caparbietà di chi da una storia esige per forza l’incidente scatenante, potremmo dire quel coup de foudre necessario affinché curiosità e attenzione si destino. La realtà non è però così manichea. Il cinema francese ha da sempre potuto conglobare tutta la complessa varietà di codici e generi cinematografici – si pensi agli anni ’70/80 come momento di maggiore sperimentazione, tra la Nouvelle Vague, Lelouch, Sautet, il polar e tanto altro – riuscendo a conservare un proprio marchio distintivo specialmente nella costruzione psicologica dei personaggi. Un’attenzione, quindi, rivolta all’inner space, agli slanci e afflati verso l’esterno che ne risulta in questo senso una propagazione ed estensione. Sembra che il primo lungometraggio di Matteo Carrega Bertolini, anima cosmopolita divisa tra Francia, Svizzera e Italia, lasci collimare tutti questi elementi, pervenendo a un prodotto esile nella durata ma oltremodo evocativo, cristallino.

The World Is Flat è un racconto di crescita e formazione di più individui in cui l’amicizia e il suo evolversi (o involvere) hanno un ruolo determinante, facendo da collante dei singoli microcosmi rappresentati. Carrega Bertolini ci parla di un’amicizia che si sviluppa nell’arco di tre anni tra il timido Jean e l’impavido Antoine, incontrato per caso in un bistrò dopo essersi negato del divertimento a una festa, un rapporto teso tra gli orrori di un quotidiano sempre uguale che vampirizza autenticità e sentimenti e le difficoltà a emergere in ciò che ci si era prefissati di diventare. Il ritmo della narrazione ha così un incedere particolare, a metà tra la coralità di punti di vista e situazioni di stampo altmaniano e il loro dilazionarsi nel tempo come se dietro la macchina da presa ci fosse un tale Philippe Garrel. Non per caso è un bianco e nero traslucido a connotare la flagranza e chiarezza dell’immagine, come sono anche reminiscenze “garreliane” l’alternanza di toni chiari e scuri sui volti anche in relazione agli stati d’animo che cambiano, e quell’ostinato seguire e inseguire i personaggi nei loro andirivieni sia fisici che emotivi, come se la macchina da presa li pedinasse e non se ne volesse mai staccare. Noto connubio cinema-vita.

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Matteo Carrega Bertolini Nicolas Foussard Federico Uguccioni Bérangère McNeese 76 minuti
Francia, Italia, Svizzera 2018
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Lee Anne Schmitt - Frontiera e politica dell'immagine

di Andreina Di Sanzo
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I paesaggi parlano, raccontano, suggeriscono, non smettono di dirci cosa siamo e cosa siamo stati. Lee Anne Schmitt, a cui l’ultimo Festival di Pesaro ha dedicato una personale, lavora da sempre dialogando con il paesaggio americano e nel suo celebre California Company Town (2008) attraversa le citta-azienda della California, luoghi che testimoniano il declino e il fallimento dei progetti industriali, lasciati completamente alla deriva. Lo sguardo della Schmitt, che gira in 16 mm, da sola, percorrendo la desolazione dell’altra California, lontana dallo sbrilluccichio di Los Angeles o dalla coolness di San Francisco, si fa testimone del cambiamento causato dal sogno capitalista che crolla lasciando segni indelebili. Terminato nel 2008, su California Company Town Anne si dedica per circa quattro anni, un film-saggio che punteggia l’orizzonte di quel sogno americano svanito per nostre stesse mani e, come in una sorta di guida turistica, passa di città in città contemplando, con una serie di inquadrature fisse, quanto la natura sia stata deturpata dall’intervento dell’uomo nelle sue deliranti utopie. Uomo e natura che tornano ancora in The Last Buffalo Hunt (2011) realizzato insieme a Lee Lynch, un altro film-saggio che racconta dello sterminio dei bufali da parte dei cacciatori dello Utah, braccatori spietati che provano godimento nel momento in cui la loro preda viene uccisa, eccitazione pari a quella sessuale seguita dagli immancabili scatti con la carcassa dell’animale proprio come i ricchi austriaci di Seidl in Safari. I turisti della caccia mostrano i loro trofei come fossero paia di scarpe di una qualsiasi ragazza appassionata di moda. Alle origini di questo sterminio vi è il razzismo nei confronti dei nativi dello Utah, che proprio dai bufali traevano sostentamento, e di quelle uccisioni viene mostrato lo scuoiamento, il sangue e la crudeltà con cui i cacciatori si accaniscono, galvanizzati dalla carneficina. Come in guerra.

Pur ripercorrendo la storia americana e realizzando un cinema che intavola un discorso politico ampio, la filmografia di Lee Anne Schmitt, come ha affermato la regista stessa, «è un atto autobiografico», in cui la dimensione soggettiva, come in tutti i film-saggio veramente degni di portare questa etichetta, ha una notevole importanza e fa da veicolo per raggiungere i grandi temi cari all'opera dell'autrice. Le tematiche della Schmitt sono il razzismo, la storia americana, la guerra, il capitalismo e le sue conseguenze, l’impatto uomo-natura, problematiche così grandi da spaventare e che sceglie sempre di affrontare nel formato 16 mm, una decisione precisa che «permette un lavoro di osservazione accurato sul tipo di rapporto esistente tra lo sviluppo del paesaggio e le persone che ne sono influenzate, prestandosi a raccontare tematiche storiche e sociali degli Stati Uniti». Anche in Purge This Land (2017), soffermandosi sulle vicende di John Brown, attivista che si batteva per l’abolizione della schiavitù, la Schmitt mescola autobiografia con storia americana e grandi battaglie civili. Il documentario viene dedicato a suo figlio e pone una questione strettamente personale: sposata a un afroamericano (compositore delle musiche del film in questione,) la regista si chiede come potrà mai questo ragazzo vivere da nero negli Stati Uniti.

Il cinema di Lee Anne Schmitt è tutto attraversato dalla profonda dualità tra il soggettivo e l’universale, tra il particolare e il generale, l’uno sempre imprescindibile per l’altro, l’uno punto di partenza per arrivare all’altro. La pacatezza e l’andamento cullante della sua voce, che utilizza in tutti i suoi film, qui la voce di una madre, si rivolge allo spettatore raccontando, descrivendo, contemplando per esortarlo a una più grande riflessione. Il suo cinema fornisce gli strumenti, personali e storici, affinché certe parti di America, certe storie americane, non vengano dimenticate e siano il monito per una militanza continua. Perché questi suicide landscapes, queste terre di confine, topografico e metaforico, che una donna decide di voler raccontare, sono il mondo che spesso si sceglie di non guardare. La Storia come l’autobiografia possono essere entrambi le armi per comprendere, conoscere e ridare dimensione politica e militante all’immagine.

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Lee Anne Schmitt
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Fiore gemello

di Veronica Vituzzi
fiore gemello recensione film

Anna si allontana sempre di più da tutto e tutti. Fugge da qualcuno, evita gli spazi affollati. Basim tenta di avvicinarsi alle persone, vuole lavorare, viaggia alla ricerca di un posto dove vivere. Il primo incontro casuale fra i due è composto da questa danza di opposti che si completano: Basim si introduce nell’inquadratura per salvare Anna da due tipi molesti, Anna ne esce fuori e scappa via. Ma quando il ragazzo, una volta raggiuntala, capisce che lei, praticamente muta, non reagisce a nessun approccio, la saluta e si allontana. Solo allora, finalmente, Anna decide di entrare nell’inquadratura insieme a Basim, e fare insieme la stessa strada. Visivamente e no.

Fiore gemello costruisce tutto il rapporto fra i due protagonisti su questa metafora di due boccioli distinti ma uniti dal medesimo stelo: maschio/femmina, bianco/nero, italiano/straniero, in regola/clandestino, mutismo/parole, Anna che fugge via da qualcosa – da un uomo misterioso che la insegue – Basim che viaggia verso qualcosa. Eppure, una volta che si incontrano, i due ragazzi divengono parti dello stesso insieme. Parliamo di un film fatto di gesti e poche parole, quest’ultime perlopiù pronunciate in francese da Basim che è originario della Costa D’Avorio. La consuetudine di cenni e movimenti diviene pian piano una sorta di danza, un’armonia fisica creata dalla fiducia crescente fra Basim e Anna che imparano a ridere insieme, a scherzare, a guardarsi, fino a stringersi nell’abbraccio di due corpi oramai uniti oltre ogni differenza.

Il talento della regista Laura Luchetti sta nel saldare fermamente questa rappresentazione cosi tenera e delicata a un’ambiente e un paesaggio vivissimi, molteplici, dinamici. La natura, fatta di mari, spiagge, prati e boschi, insetti e uccelli, sole vivido e notti cristalline, avvolge in un parallelo e morbido abbraccio i personaggi, li accoglie in sé e li riconosce come propri elementi. Non a caso dunque ritorna l’assonanza metaforica con le piante, poiché Basim e Anna spuntano ripetutamente dall’inquadratura come fiori, i loro corpi e i loro gesti sono coesi con tutto ciò che li circonda, ed è a questo creato primordiale che sembra dirigersi il loro viaggio improvvisato.  Il mondo degli uomini, a confronto, pare vuoto, incoerente, crudele, destinato a corrompersi e cadere a pezzi come il vecchio edificio abbandonato dove i due ragazzi si rifugiano.

D’altra parte tutti gli altri personaggi di Fiore gemello sono uomini: comparse anonime, oppure vittime inerti e carnefici maneschi. L’antagonista del film è l’uomo con cui lavorava il padre di Anna, un individuo massiccio che si occupa di traffico clandestino di migranti e che vuole ritrovare la ragazza che gli è fuggita dopo il loro ultimo tragico incontro. Il suo è lo stato perenne di chi si identifica come straniero nel mondo e denuncia una solitudine che lo aliena dalla natura entro la quale invece i protagonisti si incastrano così bene, una natura benevola e salvifica che esso non sa riconoscere. Ecco allora che l’unica persona oltre a Basim che cerca di proteggere Anna è un fioraio (Giorgio Colangeli) che la fa lavorare in mezzo alle piante; gli altri uomini sono invece forieri di aggressioni e sfruttamenti che avvengono dentro le macchine, sui motorini, davanti ai supermercati, nascosti nei vicoli. Hanno divelto le proprie radici dal suolo, e sono divenuti bestie anziché flora.

Film intenso e delicato, che unisce la passione dello sguardo alla tenerezza del racconto, Fiore gemello è un’opera letteralmente da vedere perché la costruzione gentile di ogni sua inquadratura accarezza gli occhi dello spettatore e sa ispirare la visione di una – chissà - utopica ma istintiva connessione con la natura: non ideale arcadico ma una felice invenzione cinematografica.

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Laura Luchetti Anastasyia Bogach Kalill Kone Giorgio Colangeli Aniello Arena Fausto Verginelli 95 minuti
Italia 2018
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Square

di Riccardo Bellini
Square - recensione film bregula

L’arte, e di conseguenza il ruolo dell’artista, possono ancora cambiare le cose in modo concreto? In un mondo dove anche il messaggio più nobile rischia continuamente di trasformarsi in prodotto indifferenziato, svuotato di senso, è ancora possibile uno sconvolgimento che porti a una matura presenza di coscienza? Che rapporto si instaura, oggi come prima, tra l’artista e il pubblico al quale ci si rivolge? La regista e video-artista polacca Karolina Bregula è partita da questi quesiti per il suo Square, ultimo film in concorso al 55° Pesaro Film Festival, al cui centro si instaura proprio il terrore verso l’eventualità di una domanda che non verrà mai posta. Nella piazza di una cittadina in Taiwan, infatti, una statua nascosta da alcuni cespugli inizia a parlare ai passanti ripetendo in continuazione, prima con tono gentile e poi in modo sempre più insistente, la frase “vorrei farti una domanda”. La curiosità di alcuni abitanti e lo scetticismo di altri si trasformano presto in preoccupazione e aperta ostilità, fino a che la situazione non diventa insostenibile, quando la statua inizia ad urlare senza sosta le stesse parole.

Nella sua essenzialità narrativa, Square ci pone di fronte a un quadro arido e preoccupante di coscienze sopite, in cui interrogarsi su stessi e sul mondo che ci circonda è già di per sé un atto sovversivo. Dinanzi al pericolo di una domanda, le reazioni sono diverse ma quasi tutte poco consolanti: c’è chi rifiuta perentoriamente questa eventualità, fino a dare vita a gruppi reazionari, chi nella sua indolente indifferenza spera che accada qualcosa senza darsi la pena di intervenire, e chi semplicemente si lascia cullare dal canto della statua, forse disinteressato a comprendere il valore di quelle parole. La mobilità di pensiero invocata con fiducia e poi urlata dalla statua, si scontra con la fissità di una società alienata nella sua asfissiante routine, tanto nel lavoro quanto nella vita privata. Momenti che Bregula ci restituisce nella loro coercizione attraverso lente inquadrature a macchina fissa abitate da figure che si muovono con lentezza a tratti disumanizzante, in totale contrasto con la concitazione della macchina a mano delle scene meta-filmiche ambientate a Varsavia, in cui la stessa regista, in corsa verso una meta imprecisata, espone guardando in macchina le ragioni che l’hanno portata a realizzare il film.

Tanto nella quotidianità di chi vive passivamente la propria vita, quanto nella ricerca dell’artista mosso dall’urgenza del cambiamento, la parola risulta così impotente, trasformata in refrain sempre più privo di senso, ripetuto dai passanti ma mai assimilato con coscienza. Inevitabile - e poco ottimista - risulta allora il cortocircuito cui arriva Square: scontata l’impossibilità di trasmettere il contenuto del messaggio, non resta che rigurgitare la protesta presa in quanto tale. La parola perde di significato, trasformata prima in canto - e dunque in ritmo e melodia -, reiterata fino allo sfinimento e poi ridotta in urlo disperato, unico modo per sconvolgere. Con la scelta di inserire l’installazione artistica all’interno della finzione narrativa - la statua nascosta dal cespuglio e la circoscrizione dello spazio, limitato appunto a una piazza, fanno pensare proprio a una sorta di installazione da museo in cui coinvolgere direttamente il pubblico - Bregula lega ancora di più la riflessione sull’efficacia dell’arte al nostro presente, attenta però a non sottrarre al proprio lavoro una valenza che resta, nell’incomunicabilità tra artista e pubblico, di portata più universale. Se nel finale si arriva sì allo sconvolgimento ma non alla presa di coscienza tanto cercata - tranne forse che per pochi -, e se delle istanze che muovono l’artista sembra sopravvivere soltanto la disperazione per una missione frustrata, resa ancora più incomprensibile a chi non vuole scardinare le proprie certezze, - non importa quanto illusorie -, l’ultima inquadratura ci concede comunque, timidamente, la possibilità di una piccola speranza.

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Karolina Bregula Karolina Bregula 78 minuti
Polonia, Taiwan 2018
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Shéhérazade

di Domenico Saracino
 Shéhérazade - recensione film Jean Bernard Marlin

Ci sono posti – e momenti, condizioni, circostanze – in cui l’amore muore o si affila. In cui avvizzisce o si fa largo, con lenta dolcezza, nei gineprai oscuri che la vita a volte ci riserva. La periferia marsigliese in cui è ambientata Shéhérazade, vigorosa opera prima di Jean-Bernard Marlin, è uno di questi spazi ostili, una di quelle fratte in cui inciampare e farsi male è più facile che altrove.

Zach (Dylan Robert), giovanissimo beur non ancora maggiorenne, si è già trovato invischiato in scippi, rapine e aggressioni. È finito in carcere per qualche mese e anche se si augura di non tornarci mai più (“à jamais” risponde alla guardia che scarcerandolo gli dice “à bientôt”) non fa molto per restare fuori dai guai.  Sheherazade (Kenza Fortas), la prostituta del titolo di cui il ragazzo diventa protettore – dopo aver capito che la madre, disoccupata e impotente, non lo avrebbe aiutato – batte per strada, costretta a subire ogni giorno l’umiliazione di rapporti sessuali indesiderati e dello sprezzo altrui.  Entrambi vivono in una città multietnica con alti tassi di povertà, disoccupazione e dispersione scolastica, una metropoli che fa fatica ad emanciparsi dal proprio passato di capitale del traffico mondiale di droga e della criminalità organizzata.

Su questo fronte lo sguardo di Marlin, nato e cresciuto nella grande città portuale francese, non fa sconti: le inquadrature strette, la claustrofobia urbana che si respira, con le luci livide che si allargano a macchia, fino a molestare il quadro filmico, come se tutto fosse filmato attraverso un finestrino sporco, non fanno che enfatizzare il senso di soffocamento e di rassegnazione che pervade luoghi e personaggi. Così come alcune linee di dialogo dai toni amaramente apodittici (“A Marsiglia è come i soldi”, dice Zach di una tavoletta di hashish con cui intende pagare Shéhérazade quando si incontrano per la prima volta, prima di innamorarsi l’uno dell’altro). Eppure dietro gli atteggiamenti da duri, Zach e Shéhérazade non sono che bambini costretti a crescere e svilirsi troppo in fretta: lei con il suo pollice da succhiare, lui con la sua paura del buio. Marlin li segue con rispetto e delicatezza, li lascia liberi di compiere i loro errori, senza denigrarli, senza giudizi, ma con profondo riguardo.
Ad interpretarli due giovani attori non professionisti, capaci di sfoderare performance notevolissime, entrambe premiate con il César per la migliore promessa. Kenza Fortas, cresciuta tra le strade di Belle de Mai, uno dei quartieri più difficili della città, avendo mollato la scuola a 16 anni. E poi Robert, che con il suo personaggio condivide praticamente tutto: la residenza a Marsiglia, l’origine straniera (e a tal proposito sono interessanti le immagini d’archivio all’inizio del film, con gli immigrati in arrivo a Marsiglia, sulla musica moroderiana di Keli Hlodversson, Sad Disco), persino la detenzione nello stesso carcere, luogo in cui si trovava quando ha appreso del casting di Shéhérazade.

È l’amore tra i due – inizialmente intimidito, schiacciato, assottigliato fino a scomparire per paure e dolori, eppure proprio per questo capace di farsi aguzzo, resistente, una volta scoperto e nutrito – a dare forza e poesia al film, ad affrancarlo dalla pur pregevole (ma tutto sommato consueta) “trattazione” neorealistica. L’amore capace di fiorire anche negli ambienti più desertificati (nel puro senso etimologico: abbandonati, dis-connessi, vuoti), l’amore come balzo fuori dal baratro, come riabilitazione alla vita.
Shera è per Zach una figura trasformativa, trasfigurante, non meno di quanto la sua celebre omonima lo sia stata in Le mille e una notte per lo scià accecato dalla rabbia, trasformato in mostro femminicida da un adulterio mal digerito e un’insana voglia di vendetta, ma ancora capace di pentirsi e di redimersi grazie al potere delle storie e dell’amore.

La grandezza di Marlin sta proprio qui, nell’aver creduto fino in fondo al miracolo del gesto amoroso. Condensato meravigliosamente nel bellissimo finale, con quel dolce fatto apposta per lui, passato tra le sbarre ottuse che li separano, le mani che si cercano e si lasciano con una promessa: “Ti aspetterò”.

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Jean-Bernard Marlin Dylan Robert Kenza Fortas Idir Azougli 116 minuti
Francia 2018
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Chernobyl

di Saverio Felici
Chernobyl recensione serie tv HBO Renck

Chissà la gioia di Craig Mazin, ideatore e sceneggiatore di Chernobyl, di fronte al coro di sopracciglia alzate e battutine che ha accolto l'atteso arrivo del suo magnum opus. Praticamente nessuna recensione apparsa online ha fatto a meno di rimarcare sarcasticamente il suo curriculum, ironizzando su come l'autore di copioni per Scary Movie 3 e 4 (grandissimi film peraltro) e della saga di Una notte da leoni avesse infine sentito l'urgenza esistenziale di una svolta “seria”. Come se una carriera al servizio della commedia fosse da ritenersi implicitamente inferiore alla “televisione di qualità”, un marchio di vergogna con l'approdo al dramma come unica forma di redenzione concessa. Ironia a parte, l'operazione peculiare lo è senz'altro: il Chernobyl HBO è uno dei grandi eventi televisivi dell'anno, oltre che un essenziale reminder di cosa sia capace la madre di tutte le case di produzione televisive moderne quando non ancorata agli obblighi del fan service e alle pretese di un pubblico ingestibile (leggasi Game of Thrones). Chernobyl è l'opera della vita dell'autore di Scary Movie 3, almeno a leggere i credits: quanto poi sia legittimo parlare di “autori” in un contesto ultra-strutturato e così frammentario in termini decisionali quale quello della televisione, resta un discorso ancora tutto da valutare. Chernobyl è un trionfo di scrittura e regia, ma come ogni grande opera televisiva è soprattutto un trionfo produttivo.

Riassumere Chernobyl non è cosa da farsi. Come nelle opere di David Simon (che ha endorsato entusiasta la miniserie), i singoli personaggi e le moltitudini di sottotrame e punti di vista convergono al servizio di un racconto d'insieme, atto a fornire il ritratto di qualcosa di altrimenti irrappresentabile. Una città, un periodo, o la più spaventosa catastrofe ambientale della storia dell'umanità. Qui, i punti focali del racconto sono le drammatiche operazioni condotte da tre protagonisti per contenere il disastro e individuarne le cause: il fisico nucleare Valerij Legasov (Jared Harris – uno dei più grandi attori viventi né più né meno), il generale Boris Shcherbina (Skarsgard), la scienziata Ulana Khomyuk (Watson). Attorno a loro, ruotano le storie di civili, pompieri, soldati, ricercatori, politici, e ovviamente delle istituzioni, determinate a trovare i colpevoli e negare ogni responsabilità dello Stato nella follia annunciata della corsa al nucleare.

Mazin e il regista Johan Renck (factotum televisivo con Breaking Bad e The Walking Dead in portfolio) calibrano il racconto al millimetro, dando fondo a tutti i trucchi del mestiere cinematografico. L'obbiettivo, un'autentica sfida, è articolare una panoramica multiforme e bizantina che risulti inattaccabile su tre piani: il racconto di suspense, il report scientifico divulgativo, e il film di denuncia. Una volta tanto, di film si può parlare sul serio: il formato da miniserie si presenta veramente come quello di un lungometraggio di 6 ore, pensato per l'era del binge e dello streaming, e in cui i titoli di coda a intervalli di 70 minuti servono solo a tirare il fiato prima di ripartire. Dunque, la tensione narrativa è tenuta insieme da una serie di elementi provenienti dal mondo delle sale più che da quello della tv. Attraverso la struttura a mosaico (Simon, ancora) e la ricerca ossessiva e meticolosa del dettaglio iperrealista, Chernobyl si porta a tratti quasi nel territorio di Peter Berg, e dei suoi lavoro di cronaca-action “storie vere” in coppia con Mark Wahlberg. I trick ritmici sono quelli: la scansione temporale implacabile (minuti, ore, giorni, un bollettino di guerra) e ovviamente l'utilizzo sapiente del flashback e dei tempi incrociati; non tanto subordinati a “scombinare le carte”, quanto a riportarci costantemente a rivivere, ogni volta da un nuovo punto di vista, i momenti chiave della vicenda. Quando gli errori umani o le drammatiche casualità si sarebbero rivelati tasselli di un'Apocalisse sventata.

A livello tematico, la serie sa dividersi tra il succitato modello action di Berg e il classico concetto di dramma di denuncia, mirato ad agitare le coscienze, lodare gli eroi e invocare una piuttosto generica indignazione da parte del pubblico. Il vero “obiettivo” di Chernobyl in tal senso emerge solamente nel quinto e ultimo atto del dramma. L'episodio finale rappresenta un significativo colpo di coda, in cui lo scarto di tono improvviso ci porta dal fuoco e il fumo del Disastro all'algida aula di tribunale dove un processo farsa voluto dal Cremlino si appresta a condannare i colpevoli e disconoscere ogni implicazione del Partito. E' il momento in cui Chernobyl rallenta, indottrina (con tanto di grafici e modellini), mostra le carte e lancia il suo potente j'accuse contro il pericolo della menzogna politica. I copioni di Mazin non si fanno problemi a sposare un punto di vista, come certi prodotti sono inevitabilmente chiamati a fare: la sconsiderata e conclamata follia di Anatoly Dyatlov non avrebbe avuto le conseguenze che ha avuto, se gli organi di informazione moscoviti non avessero per primi mentito sulla stabilità e la sicurezza dei propri giocattoli apocalittici. Alla resa dei conti contro le invisibili e spaventose istituzioni rosse, Legasov, Shscerbina e Khomyuk ribadiranno l'importanza della presa di posizione individuale, dell'umano nella macchina, per contrastare l'inumano di quegli apparati burocratici per cui è normale “mentire fino a dimenticarsi di farlo”. Una chiamata alle responsabilità felicemente individualista, quasi spielberghiana. C'è chi ha parlato anche di Schindler's List, e anche questo paragone è centrato: la bontà e il coraggio di piccoli grandi uomini blue collar, chiamati a rimediare alle catastrofi volute da grandi piccoli uomini white collar. Un manifesto che ci riporta alla natura più americana del prodotto. In senso positivo, ovviamente.

In senso negativo, il retroterra ideologico di Chernobyl e il suo fine sottilmente propagandistico non sono esattamente nascosti tra le righe. E se la notizia che la Russia preparerà una propria serie in risposta resta un clickbait (è in produzione da anni, e ci resterà ancora a lungo), è ancora una volta importante provare a leggere oltre il “messaggio”, e arrivare a scorgere i motori sociali dietro una produzione di largo consumo. L'insistita e appassionata requisitoria contro i malefici valori dell'URSS, a molti (persino in America, il che è tutto dire) ha fatto comprensibilmente storcere il naso. L'intera operazione, così attenta nel sottolineare l'ipocrita malvagità del regime sovietico come “peccatore originale” e primo vero nemico dei working class heroes protagonisti, si ascrive a quella robusta corrente propagandistica del mainstream americano contemporaneo che ha recentemente riscoperto il Comunismo storico come nemico da affrontare. La denuncia di Chernobyl, l'intrattenimento basso di Red Sparrow, persino il biopic innocuo di Nureyev: nell'ultimo anno, con lo spauracchio di Putin e il suo legame di potere con il Presidente USA, la Russia politica è tornata a rappresentare un mostro da temere, e un villain cinematografico plausibile. In più, in un momento in cui l'american way of life del capitalismo liberista è ai minimi storici in termini di popolarità locale, è interessante ritrovare un cinema americano che si prodighi nel ricordare ai propri cittadini quanto l'incubo del socialismo sovietico debba ancora far paura. Sotto una simile lettura, il recente afflato nello scavare tra le piaghe oscure della Guerra Fredda appare meno nobile. Ma negare l'influenza della sfera politica su quella creativa è ingenuo per definizione, e ancor di più in un'industria così strettamente connessa ai mutamenti sociali come è quella dell'intrattenimento hollywoodiano. Sia Disney o HBO, nessuna decisione apparentemente radicale è in realtà presa se non in funzione del pubblico e dei suoi bisogni percepiti. Ed è questo che le rende così significative. Se si ha la freddezza di inquadrare al loro posto le ovvie e prevedibili ideologie alla base, e ricondurle ad una precisa scala di importanza, Chernobyl appare per quello che è: un'epica sociale e individuale tra le più potenti degli ultimi anni.

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Johan Renck Jared Harris Stellan Skarsgård Emily Watson Paul Ritter Jessie Buckley 1 stagione da 5 episodi
USA 2019
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The Bride

di Gian Giacomo Petrone
The bride - recensione film podgayevskiy

Non si può certo affermare che la terra di Russia sia mai stata prodiga di racconti filmici horror, specie a causa degli orientamenti politico-ideologici del realismo socialista, che rigettavano la sfera dell’irrazionale e le sue derive, evidentemente individualiste, legate all’interiorità dell’uomo anziché alla sua collocazione nella dimensione della polis come portatore di istanze collettive. Tuttavia, fanno capolino talora elementi perlomeno fantastici nella produzione cinematografica sovietica, già a partire dagli anni Trenta. A tal proposito, non vanno dimenticati esempi assai intriganti, costituiti dai lavori di registi come Aleksandr Ptuško o Lev Atamanov, o da – rari – film con vaghe venature di macabro come The Drowned Maiden (Aleksandr Rou, 1952) o Viy (Georgij Kropačëv e Konstantin Eršov, 1967).

Questa generale idiosincrasia per il cinema del brivido, apparentemente sedimentata ancora oggi in Russia, almeno a livello produttivo se non spettatoriale, risulta talora incrinata dallo sforzo di recuperare terreno, rispetto a paesi come USA, Giappone, Francia, con tentativi più o meno timidi di varcare la soglia dell’incubo e di immergervisi finalmente a occhi spalancati. Sicuramente, uno dei nomi più interessanti in questo – al momento ancora relativamente spoglio – orizzonte è quello del moscovita Svyatoslav Podgayevskiy, con all’attivo già due lungometraggi horror prima di The Bride. Con quest’ultimo titolo, Podgayevskiy attinge a suggestioni folcloriche slave legate alla condizione della figura femminile in procinto di contrarre matrimonio, ibridate con le inquietanti dinamiche che presiedono alla pratica della fotografia post mortem.
Diffusasi qualche tempo dopo la nascita della dagherrotipia e conclusasi verso gli anni Quaranta del secolo scorso, con un indubbio sostrato latente magico-apotropaico, tale pratica prevedeva la raffigurazione visiva di un defunto – da solo o circondato dai congiunti – come se fosse ancora vivo. Le implicazioni teoriche di tale usanza risultano di certo palesi, innanzitutto tenendo presenti le notevoli riflessioni baziniane sulle arti plastiche e la fotografia, in quanto pratiche connesse alla necessità dell’uomo di “avere ragione del tempo attraverso la perennità della forma”; in secondo luogo non va trascurata l’idea, diffusa presso alcune culture, che la fotografia non catturi solo l’immagine bensì anche l’anima del soggetto inquadrato. Tuttavia, Podgayevskiy fa uso di queste intriganti possibilità meta-riflessive e credenze quasi esclusivamente come innesco narrativo di una ghost story senz'altro d’atmosfera, ma che nondimeno avrebbe potuto giovarsi di una maggiore articolazione significante. D’altro canto il regista risulta assai abile nello sviluppare l’altro snodo narrativo cruciale, quello di matrice folclorico-tradizionale legato a quella sorta di limbo in cui risiederebbe la sposa promessa (laddove la dimensione della promessa non si coagula soltanto intorno al suo valore assertivo o predittivo, bensì si sostanzia di un valore performativo): non più compiutamente nubile e, malgrado ciò, neppure giuridicamente maritata, e per ciò stesso potenziale preda di spiriti malvagi.

La vicenda di The Bride prende le mosse da un antefatto lontano nel tempo: nella Russia della metà dell’Ottocento un uomo, abile dagherrotipista, tenta di preservare l’anima della moglie defunta, conservandone l’immagine nel negativo su lastra, affinché ella possa reincarnarsi nel corpo di una ragazza, seppellita viva assieme alla donna. Ai giorni nostri, la giovanissima Nastya (Viktoriya Agalakova) si sposa col fotografo Vanya (Vyacheslav Chepurchenko); tradizione vuole, però, che ella trascorra un periodo presso i parenti del marito, al fine di essere accolta come nuovo membro della famiglia a tutti gli effetti. Ciò implica che il matrimonio, per considerarsi effettivo, debba venire sancito da una sorta di rito familistico-tribale. Naturalmente, Vanya è un discendente del dagherrotipista dell’antefatto, e inoltre nella magione avita è ancora conservato il negativo dell’immagine della defunta moglie di quest’ultimo; conseguentemente, la matassa si imbroglia.

Podgayevskiy focalizza la propria attenzione sulla giovane protagonista e sul suo rapporto col nuovo (ma ancestrale) mondo rurale e isolato in cui è costretta a stabilirsi per seguire il consorte, un microcosmo di cui sono custodi due donne: la sorella di Vanya, Liza (Aleksandra Rebenok), e l’anziana dottoressa Aglaya (Natalia Grinshpun). Come in ogni storia di fantasmi che si rispetti, non mancano un’incombente presenza maligna e una tetra dimora carica di mistero e di spazi labirintici. Il duello fra colpa atavica e innocenza, fra tradizione e ansia di libertà, fra oscuri residui di un passato incancellabile e vitalità dirompente si sviluppa quasi esclusivamente fra figure femminili, mentre il baricentro del racconto si regge sulle fragili – anche se inaspettatamente resistenti – spalle della protagonista, attraverso i cui occhi si snoda la progressione del racconto e il flusso di informazioni per lo spettatore.

Nonostante il rischio di cadere nello stereotipo ad ogni passo, Podgayevskiy tratteggia una vicenda in cui il senso onnipresente di déjà vu non è il limite bensì la chiave per oltrepassarlo, per decifrare il modo in cui un bagaglio di elementi narrativi consolidati si trasfigura se osservato con occhi nuovi. Ecco allora che l’atmosfera di complotto alla Polanski, le temporalità e gli spazi labirintici alla Bava o, ancora una volta, alla Polanski, o magari alla Tarkovskij, accanto a trovate visive e registiche peculiari dell’horror di oggi, trovano nelle immagini di The Bride una sorta di sintesi che è solo concettualmente postmoderna, ma che (quasi) mai scade nel gioco citazionistico fine a se stesso o nella ripetizione di stilemi e temi consunti. Il film risulta infatti marcato da una organica unità interna, a cui concorrono tutti gli elementi che lo compongono: ambientali, narrativi, atmosferici, attoriali, luministici, persino linguistici. Podgayevskiy riesce a non perdere di vista l’insieme e a centrare quello che probabilmente è l’obiettivo primario di un film horror, di ieri come di oggi: inquietare con le immagini, senza che queste costituiscano soltanto un pretesto, un espediente.

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Svyatoslav Podgayevskiy Viktoriya Agalakova Vyacheslav Chepurchenko Aleksandra Rebenok 96 minuti
Russia 2017
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Weeeping on a Pile Carpet

di Elvira Del Guercio
Weeeping on a Pile Carpet - recensione film

Vincitore ad Asolo nella categoria Post Internet Art, Weeping on a Pile Carpet di Désirée Nakouzi De Monte e Andrea Parenti è un cortometraggio che cerca di far addentrare lo spettatore in un qualcosa di più vicino a un incubo cibernetico che alla realtà, trascinando qui guarda in un microcosmo sospeso, in un tempo che incede per istantanee di immagini e fotografie che spezzano il ritmo già flemmatico della narrazione; o per improvvisi baluginii di senso derivati dalla vista e poi dall’utilizzo di un computer, un cellulare, una videocamera. Tutti non a caso oggetti-feticcio di cui i personaggi non possono fare a meno per comunicare: il cortometraggio è scandito in due momenti, in cui rispettivamente una ragazza e un ragazzo sembra si scambino video della loro quotidiana e “logora” intimità, riprendendo(si) dal di fuori e dal di dentro. Quasi fosse l’unico modo per testimoniare al mondo e a loro stessi il proprio esserci. In questo senso non è semplice chiarirsi l’entità di un prodotto così respingente, anche eccentrico, quantomeno nella forma, senza dialoghi o parlato e con un sonoro straniante ed elettronico, risultando quindi assai complesso decifrarne il codice espressivo, capirne il significato, la teoria dietro l’immagine così ruvida, madida. Ci si domanda poi che cosa i due protagonisti vogliano dirsi e dire, se si tratti di nostalgia, mancanza, impossibilità di incontrarsi, plasmando così lo spazio e il tempo lasciati vuoti dalla lontananza attraverso un mondo immaginario, di comunicazione inter-specie e pratiche feticistiche, con i rispettivi corpi che sono come patchwork di frammenti giustapposti, ricuciti.

È possibile però che Weeeping on a Pile Carpet voglia trasmettere nient’altro che ciò che si vede, senza una particolare ricerca di profondità. Non c’è nulla dietro quei (non a caso) neri occhi privi di pupille ed espressione, solo un vuoto che li rende simili e sostituibili, automi. La videocamera si insinua infatti prima sui rispettivi volti esangui, quasi da vampiri, non umani, percorrendone i tratti estremamente da vicino, e poi sugli oggetti, su epidermidi diafane con occhi stralunati o grondanti di glitter, sui pavimenti sporchi, sugli ambienti claustrofobici. Nonostante ci sia un momento in cui ci allontana da questa dimensione domestica alienante i due la percepiscono tuttavia come unica possibile, sentendosi perfettamente a loro agio all’interno dei suoi confini, non desiderando mai uscirne, mai incontrarsi, toccarsi.

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Désirée Nakouzi De Monte Andrea Parenti 17 minuti
Italia 2019
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