The Port

di Matteo Marescalco
The Port - recensione film Strelyanaya

In The Port di Aleksandra Strelyanaya, due giovani portuali vedono nella boxe la possibilità di fuga da una vita molto dura e la speranza di un guadagno facile. Uno dei due si chiama Andrei, faccia da bravo ragazzo e intenzioni romantiche; l'altro vuole fargli da manager ed è meno raccomandabile. I due iniziano a frequentare un gruppo di persone coinvolte nella malavita locale e in un mondo di lotte di strada e palestre luride. Dalla parte opposta, invece, si colloca Kira, un angelo della redenzione le cui gambe sono rimaste paralizzate a causa di un incidente. La ragazza è la figlia dell'allenatore di Andrei e le storie dei due personaggi compiono percorsi paralleli fino ad intersecarsi per pochi ma candidi attimi.

Lo sguardo di Aleksandra Strelyanaya, cineasta russa giunta al suo sesto film, scolpisce gli snodi più significativi del copione, alternando movimenti bruschi ed ellittici a un approccio rarefatto e più dilatato. Le due storie presentano caratteri archetipici immersi in un mondo di periferia popolato da prepotenti. In un certo senso, sono state le onde del destino a consentire l'incontro tra le due anime pure, invischiate in una foresta oscura di sangue e sudiciume.

Il film presenta una serie di motivi stilistici e narrativi che si appigliano alla lunga tradizione del genere: dalla box vista come possibilità di redenzione all'accoppiata dei due amici che ricorda, da vicino, Mean Streets di Martin Scorsese. Una certa acerbità a livello di scrittura viene bilanciata dalle intuizioni visive della Strelyanaya, bravissima nell'alternanza di registri differenti e nel dinamismo con cui scolpisce la messa in scena del suo film. I neon notturni, i ralenti rarefatti e le pause dilatate richiamano alla memoria i pugni di Solo Dio perdona, senza, però, la ricerca estetizzante fine a sé stessa che serpeggia negli audiovisivi di Refn. Ogni primo piano, ogni sguardo in camera, ogni volto viene continuamente scandagliato, alla ricerca dell'afflato umano nascosto sotto la superficie di cattiveria ferina. L'apertura alla vita e al futuro è presente ma rischia sempre di restare invischiata nel gorgo oscuro della disperazione. In un certo senso, The Port è una fiaba con una principessa che deve salvare e dev'essere salvata.

E, come in ogni fiaba, il film è molto abile nella costruzione di un chiaroscuro dell'anima che si riflette nella dimensione visuale delle immagini. Se la speranza, in questo mondo delineato dalla Strelyanaya, è difficile da trovare, a volte bastano davvero uno sguardo furtivo ed un bacio sulla guancia per allontanare, anche soltanto momentaneamente, gli spettri che si agitano nel buio e per approdare verso un porto sicuro.

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Aleksandra Strelyanaya Aleksei Guskov Yuriy Borisov Mariya Borovicheva 88 minuti
Russia 2019
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PIIGS

di Paolo Di Marcelli
piigs - recensione film fini

Si è detto su queste pagine che Francesca Fini, piuttosto che una regista in senso stretto, è prima di tutto una performer. Il senso della sua opera si rintraccia infatti nelle esplosioni visive, nella commistione di linguaggi e nelle “osmosi”  e “corpo-grafie” attraverso le quali inventa nuovi sincretismi e stratificazioni polisemantiche: la macchina da presa, sia essa nascosta o palesemente esibita, serve più che altro a documentare la portata delle sue intuizioni per permettere poi, in sede di montaggio, di declinare la sua arte in forma di viaggio, esperienza, racconto. È bene soffermarsi, tuttavia, su come la Fini utilizzi il cinema anche rispettandone le regole intrinseche scegliendo con cura il minutaggio della sua video-arte (il lungometraggio per Ofelia non annega, il mediometraggio per GOLD - looking for Oz e Hippopoetess) quando, per esempio, prende la via del cortometraggio. Roland Barthes definiva le forme brevi come veri e propri generi e PIIGS, resoconto non solo filmato dello spettacolo del 2013 al Nuovo Cinema Palazzo di Roma, sembra inserirsi in pieno in questo mondo a parte.

Sebbene l’opera preveda tre atti distinti, questi non seguono il criterio della narrazione quanto piuttosto quello del discorso dialettico e dell’argomentazione. Un film a tema, potremmo dire, dove il tema sono gli italiani o meglio la ricerca di uno o più caratteri antropologici che li contraddistinguano. Anche in questo caso, l’autrice si serve di citazioni illustri: dopo aver utilizzato Montale, Dante, Coleridge, Pirandello e Marinetti, stavolta si concentra sulla produzione leopardiana e in particolare sul Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'Italiani, scritto nel 1824, quando il confronto con le società tedesca, inglese e francese instillò nel genio di Recanati un’amara e ingenerosa riflessione sul nostro (mal)costume, o per meglio dire sulla totale e irrimediabile mancanza di un tratto distintivo. Ancora una volta è il corpo della Fini ad essere esibito, colorato, spogliato, percosso, sporcato per poi essere ripulito e addirittura autolesionato con una spillatrice, ironicamente tempestata di glitter verdi, bianchi e rossi.

La multimedialità tipica dell’artista si rintraccia principalmente nella prima parte, quando l’Italia costituzionalmente intesa è “scritta” attraverso lettere di pastasciutta in un tripudio di luoghi comuni gastronomici quali pomodori, peperoncini e limoni. Prima ancora, mentre prima Daniele Sirotti e poi parte del pubblico scrivono e disegnano sul corpo della Fini, una voce al rallentatore si inceppa nel recitare i primi articoli della Costituzione, che in questo modo fa fatica ad esprimersi. Il sottofondo, un carillon che esegue le note del motivo principale de Il Padrino di Francis Ford Coppola (1972), è un perturbante richiamo alla mafia.

Poi i brani di Leopardi sono effettivamente implacabili nel tratteggiare i nostri difetti: per dirla con Nietzsche nell’interpretazione di Galimberti, siamo un popolo cinico ma soprattutto nichilista perché ci manca uno scopo, non abbiamo fiducia nel prossimo e nelle istituzioni e di conseguenza viviamo in un eterno presente che svaluta i valori. Ci manca il senso dell’onore ("una società civile non può durare tra uomini continuamente occupati a deridersi in faccia gli uni e gli altri"), non conosciamo le buone maniere e, in poche parole, non ci sentiamo nemmeno una nazione. Cosa ancor più grave, oggi come allora, mancano un teatro e una letteratura nazionali (potremmo dire, anche, un cinema?) che ci rappresenti in tutte le nostre sfumature e che favorisca un dibattito culturale.

Se nel XIX secolo venivamo sbeffeggiati dalle potenze straniere, ecco che oggi i nostri vicini ci classificano come P.I.I.G.S o G.I.P.S.I, acronimi di Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna - e “maiali” o “zingari” in inglese… - per indicare quei paesi contraddistinti da “situazioni finanziarie non virtuose”. Tra un’icona religiosa e l’altra, Sirotti svela la chiave del progetto mentre la Fini, ancora per mezzo del suo corpo/Italia, cancella il titolo del corto, dipinto su un telo tra il palco e il pubblico e rivolto a quest’ultimo, sguazzando tra olio d’oliva e passata di pomodoro.
Nonostante siamo di fronte al documento audiovisivo di una performance artistica, PIIGS è un cortometraggio profondamente cinematografico perché riesce a condensare in pochi minuti una precisa idea di linguaggio, ovvero quella di un cinema evocativo (in questo caso masochismo e coazione a ripetere), post-moderno e ipertestuale che guarda a differenti scenari culturali, sociali e politici. Un cinema d’autore non come forma ridotta di qualcosa di più compiuto ma come genere che permetta attraverso pochi lampi inattesi di seminare pensieri e j’accuse, sfruttando fino allo sfinimento il corpo e lo sguardo attraverso gesti eclatanti e sovversivi e affidandosi a un montaggio che abbia ben chiaro cosa mostrare e in che modo.

 

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Francesca Fini Francesca Fini Daniele Sirotti 16 minuti
Italia, 2013
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Normal

di Giorgio Sedona
Normal di Adele Tulli

Alla sua opera prima, Adele Tulli, riesce nel costruire un mosaico di modelli situazionali che definiscono l’intera struttura mentale di una società, come la nostra, patriarcale e sessista. Attraverso delle situazioni filmate, specchiate sia nell’alternanza di montaggio bipolarizzato sia da una semantica associativa frame by frame - sottolineata dall’evoluzione temporale di crescita del maschile e del femminile - la regista innesca delle combustioni di significanti che raccontano, in divenire, un modello mentale univoco ed opprimente.

Un gaze tour, dove lo sguardo ondivago scolpisce delle situazioni comuni (normali) nelle quali è l’ideale sociale predominate ad imporre degli script comportamentali. Script che crescono arrivando ad autodefinirsi, e radicalizzarsi, con la crescita sociale dell’individuo. E’ la sensazione di normalità filmata a definire degli schemi prestabiliti – come intesa nell’accezione data dallo psicologo inglese Charles Bartlett, e quindi punto di stoccaggio delle informazioni derivate dall’esperienza che “costituiscono distinte forme di conoscenza astratta” - schemi questi che subiamo spesso socialmente ed inconsciamente. E, merito della regista, è l’aver creato delle sincronie in grado di “sollevare” dall’inconscio sociale degli automatismi comportamentali che indottrinano il comportamento, teso verso la normalizzazione, verso una precisa tendenza divisoria tra il maschile e il femminile. Costrutti psicologici, raggruppamenti concettuali di conoscenza maturati nell’esperienza stereotipata, building blocks per pareti divisorie che, crescendo, diventano camere stagne. E’ interessante notare come il documentario riesca ad evocare nei frame una sempre più conturbante costrizione dell’individuo ad essere, e diventare, meccanismo di una stereotipizzazione gender. Frame, intesi non nell’accezione di immagine, ma di contesto sociale schematizzato, insieme più grande che contiene gli script, le istruzioni comportamentali schematizzate.

Normal è costruito come una tesi espositiva, precisa e tesa ad una risposta di sintesi, risultante dalla successione, e sincronia, delle situazioni individuate. Film che procede muovendosi nell’inconscio dello spettatore, come un motivo già sentito ma dimenticato, un déjà vu di immagini alternate, che torna e ritorna sempre su un significato recondito, distante, ma nella realtà molto presente ed imperante. Un finale che viene a posterizzare una precisa definizione di intenti, definizione che avrebbe mantenuto, ancor di più, tutta la sua sublime sincerità se non avesse preteso un solo, ed inequivocabile, significato. Un documentario che sarebbe partito e giunto, dalla sincronia semantica espositiva a dei significati più massimizzati, e inconsciamente precisi, se avesse scelto di terminare nella sua inalterata alternanza situazionale. E’ lì che sarebbe arrivato al suo naturale zenit, e ci avrebbe inquietantemente rappresentato in tutta la sua forza e sfuggevolezza. Correndo il rischio di opacizzare un’operazione che avrebbe avuto la forza sfuggente dell’abbaglio, e concedendosi ad una specifica, e restringente, definizione di genere, Adele Tulli mette in piedi un documentario che si fa specchio silente, e riflettente, del bisbiglio sessista che la società attuale ci sussurra perseguendo una schematicità dalla quale è difficile uscire.

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Adele Tulli 70 minuti
Italia, 2019
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White Flowers

di Riccardo Bellini
White flowers - recensione film de angelis di trapani

Se il fiore del giglio rappresenta la caducità della vita umana, le statue scolpite nella Chiesa di Piedigrotta, magnifico luogo di culto seicentesco scavato in una grotta sedimentaria a nord di Pizzo Calabro, sono invece la testimonianza di una forza imperitura, come l’amore. Questi sono solo alcuni elementi che vanno a nutrire la vasta simbologia di White Flowers, quelli che rappresentano i due estremi di una vicenda romantica sospesa tra la mortalità della carne e l’eternità dello spirito. Con questo melodramma in cui il gangster movie si mescola al noir e i toni da commedia romantica si trasfigurano nella ghost story, Marco De Angelis e Antonio Di Trapani tornano col loro terzo lungometraggio alla 55° Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro tra le Proiezioni speciali, dopo aver partecipato in concorso e aver ricevuto la Menzione speciale della giuria con Terra nel 2015, prodotti anche allora da Emanuele Nespeca e Vito Zagarrio con Università Roma Tre e Solaria Film.

Il ruolo della memoria di fronte alla precarietà dell’esistenza è ancora una volta al centro dell’opera dei due registi. In Terra la testimonianza del passaggio dell’uomo sul nostro pianeta si riduceva a un caotico archivio multimediale, unico rimedio all’oblio dell’imminente catastrofe apocalittica annunciata nel film - ma anche residuo di un’estinzione già avvenuta. In White Flowers sono invece i tanti oggetti, segni, tracce uditive disseminati lungo il film, pezzi di un mosaico da ricomporre e riconvertire in ricordo grazie alla forza della narrazione letteraria, a favorire il risveglio identitario di un uomo che ritrovando il proprio amore perduto ritroverà anche sé stesso. Yuki (Yuki Iwasaki) è infatti una giovane disegnatrice giapponese giunta in Italia in cerca di ispirazione per il suo prossimo manga. Quando conosce un misterioso corniciaio senza memoria (Ivan Franek) inseguito da uomini sinistri, la ragazza inizia a immaginare un passato per l’uomo, insieme al quale si mette in viaggio seguendo la pista tracciata dalla fotografia di uno chalet innevato. Nel frattempo realtà e fantasia cominciano però a sovrapporsi e la storia narrata dall’illustratrice si scopre essere il vero passato dell’uomo.

White Flowers si aggira come la sua protagonista - in grado, come apprenderemo, di comunicare con i defunti - in un territorio liminale tra la vita e la morte, dove gli spazi - merito anche dell’interessante scelta delle location, tra cui il Museo di storia naturale di Genova in cui si parla di tassidermia di fronte a delle teche di animali impagliati - diventano soglie aperte a forze visibili e invisibili che fanno del tempo una dimensione da percorrere alla ricerca del dettaglio da ricollocare. Spazi museali e luoghi sacri, in ogni caso luoghi della memoria, in cui il dato materiale si fa depositario di un sentire in attesa di riscoperta. Girato tra Liguria, Calabria e Giappone, attraversato da una molteplicità linguistica (giapponese, inglese, italiano) e interpretato tra gli altri dal nipponico Hal Yamanouchi - presenza immancabile nei lungometraggi dei due autori - e dal ceco Ivan Franek, White Flowers è un viaggio tra Occidente e Oriente plasmato con sguardo lirico. Un tributo ai tempi e all’estetica contemplativa del cinema giapponese - caro ai registi fin dall’omaggio a Ozu nel titolo del primo film, Tarda Estate - che guarda in modo consapevole a una  sensibilità europea e si lascia spesso attrarre da una fascinazione per certi stilemi lynchani (evocati fin dall’uso di sovraimpressioni dal taglio impressionista, dalla presenza di personaggi bizzarri decontestualizzati rispetto all’ambiente, da sonorità pastose e di impatto straniante, come il misterioso gracchiare che ricorda quello di un grammofono, con tanto di caschetti biondo platino anni Sessanta e citazione kafkiana da Il processo).   

Abili nel congegnare una partitura dove il genere si trova destrutturato e non rischia mai di avviluppare il film all’interno delle sue logiche, De Angelis e Di Trapani mantengono la propria libertà narrativa proprio attraverso una materia in continua mutazione, fatta di virate improvvise che hanno il merito di non suonare mai come stonature. I registi giocano con questa incursione nel genere che è al tempo stesso e soprattutto un modo ulteriore per uscirne. Un compendio che riflette la mole di suggestioni, riferimenti visivi e musicali, dettagli e oggetti che si susseguono senza riuscire però a consolidare del tutto una storia concettualmente fragile. Del resto, è lo stesso Di Trapani ad affermare che «il film ha una sua fragilità che anche un colpo di tosse può spezzare».

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Marco De Angelis Antonio Di Trapani Ivan Franek Hal Yamanouchi Yuki Iwasaki 126 minuti
Italia, 2019
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Demons

di Alessandro Gaudiano
Demons - recensione film Hui

Demons è il primo film “di finzione” (definizione quanto mai semplicistica, in questo caso) di un autore che alcuni cinefili conoscono già per il pregevole Snakeskin, presentato al Torino Film Festival nel 2014. Daniel Hui presenta agli spettatori un’opera opaca, complessa, senza facili vie d’uscita: in questo senso, è un film autenticamente concettuale e sperimentale, al di là della facilità con cui questi aggettivi sono branditi da critica e discorso cinefilo. Lo è in senso pragmatico, nel tipo di rapporto che instaura con lo spettatore: Demons è un film su un’inquietudine, su uomini che perdono se stessi, e il linguaggio cinematografico si dissolve assieme ai fili della narrazione.

A un livello superficiale, Demons è la storia di un rapporto di potere e di violenza che lega un regista teatrale a un’attrice. Questo rapporto è la versione perversa di un’asimmetria di potere e di sguardo: un provino durante il quale il regista mette la donna in una posizione di crescente disagio. L’incontro si svolge in una stanza chiusa, ma i due non sono soli: un pubblico impossibile osserva dall’esterno e contribuisce a inchiodare la donna ad una posizione di debolezza. Il rapporto tra i due si fa sempre più inquietante, fino a giungere ad un punto di rottura e a un improvviso riscatto: la vittima decide di lottare e si trasforma, infine, in carnefice.

Daniel Hui mette in scena il meccanismo che porta alla realizzazione di un’opera d’arte, film inclusi: un microcosmo non esente dalle perversioni della società in cui si svolge, da violenza e sessismo. Me Too ha reso questo fatto ovvio anche a chi non ha saputo o voluto prestare attenzione a tutto questo. Non è un caso che il protagonista si chiami proprio Daniel, e che sia a sua volta interpretato da un regista teatrale (Glen Goei). Hui ci parla dello specchio oscuro del fare arte, del potere di un autore, e Demons sembra un modo per esorcizzare alcune delle contraddizioni intrinseche nell’atto di creare e fare arte.

L'autore rappresenta il rapporto tra i protagonisti attraverso un vortice di visioni, strappi, lacerazioni nel tessuto del linguaggio cinematografico: non esiste più una trama, quanto una memoria traumatica di emozioni e violenze attorno a cui Demons e lo spettatore costruiscono una traccia di senso. All’autore non interessa raccontare una storia quanto mettere in scena una precisa sensazione, uno stato fisico: Demons è la messa in scena, necessariamente caotica e instabile, del trauma. Il trauma di una vittima e di un carnefice, del loro progressivo sovraimporsi. Una violenza che non ha parole per essere descritta o messa in scena. Al trauma si può arrivare solo per successive approssimazioni, in absentia: il flusso di immagini di Demons è pieno di ellissi, jump cut, citazioni cinefile, improvvisi cambi di registro. Hui è un regista che si muove sul confine poroso tra documentario e finzione e che qui va a toccare i linguaggi del teatro e della fotografia, gli stilemi del documentario e del body horror arrivando fino all’incubo lynchano, con vertiginosa mobilità che non è esente da effetti volutamente grotteschi e una spiccata autoironia.

Nel corso del suo ultimo atto, la natura intimamente teatrale di Demons si rivela nella sua forma più pura: una performance urbana, una processione notturna di uomini in maschera, membri di una setta cannibale. Siamo nel rimosso della civiltà e della psiche urbana di Singapore. L’uno nell’altra, i corpi si con-fondono grazie alla magia del cinema. In questa sintesi finale, Daniel rivela di essere parte di ognuno di noi: il suo cannibalismo è quello di una intera civiltà e richiama il cannibalismo confuciano di cui scriveva Lu Xun nel suo Diario di un Pazzo: la società è un patriarcato spietato che divora i suoi figli. Daniel Hui mette a nudo la schizofrenia di una civiltà, forse di ogni civiltà, e e il trauma, da personale, si fa condizione universale. Questo è, forse, l’aspetto più interessante e originale del film, ed è un vero peccato che il regista non lo abbia sviluppato fino in fondo: la grande allegoria sociale di Demons è appena accennata, messa da parte da una messe troppo abbondante di suggestioni e idee da comunicare e mettere in scena.

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Daniel Hui Yang Yanxuan Vicki Glen Goei 83 minuti
Singapore 2018
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Blue My Mind - Il segreto dei miei anni

di Leonardo Strano
Blue My Mind - recensione film bruhlmann

L’ibridazione fantastica del cinema drammatico è un abito sempre più diffuso nell’audiovisivo europeo indipendente. La miscela in provetta ottenuta dalla congiunzione di dramma e fantasy d’altronde ha molti pregi: amplifica l’attrattiva del contenuto, è utile a produrre nuove idee e a rinnovare quelle già visitate, raggiunge un pubblico virtualmente vasto e allo stesso tempo rinforza assunti cinematografici interessanti. Blue My Mind, diretto da Lisa Brühlmann, è l’ultimo caso di questa moda della narrazione transgenerica, un collage composto dalla giustapposizione di dramma adolescenziale e cinema fantastico che irrobustisce un’idea di base proprio grazie al circolo virtuoso sopra presentato. Il racconto incentrato sui cambiamenti del corpo di Mia (Luna Wedler), adolescente svizzera appena arrivata in una nuova scuola e già insidiata da numerose difficoltà sociali e psicologiche, infatti non soffre di immaginazione e non è limitato alle coordinate del teen movie; prova invece a comunicare il mutismo dei sentimenti adolescenziali mediante la grammatica di genere.

Il sillogismo costruttivo pensato da Brühlmann è figlio di un realismo psicologico semplice ma funzionale: se si può raccontare (per immagini) l’incomunicabilità adolescenziale solo mediante una rappresentazione simbolica e il fantasy è il linguaggio che non solo detiene più simboli ma anche simboli perfettamente decodificabili, allora il dramma deve essere comunicato attraverso i codici del fantastico. Il cambiamento del corpo e della psicologia è quindi il ricettacolo contenutistico di per sé molto difficile da raggiungere e comunicare limpidamente, un magma incontrollabile presente sotto l’epidermide di ognuno, e il fantasy la griglia ordinativa attraverso cui esplicitarlo. Ma quindi è il fantastico a possedere la chiave di comprensione del teen drama o è il teen drama a digerire e quindi covare il fantastico per i suoi scopi? Quando Mia, a un certo punto del film, si avventa su un pesce per mangiarlo sembra che il film reclami il fantasy non solo per possederlo ma proprio per assimilarlo e sputarlo fuori in una nuova forma.

È questa la violenta modalità con cui il film si appropria del genere per sviscerarsi in una nuova mutazione formale. Il gesto cambia tono al racconto: la descrizione della quotidianità di Mia, concentrata sul malessere sotterraneo presente nel contesto famigliare asettico, ricco, algido e sempre insistentemente trasparente, dopo la prima mezz’ora si inasprisce in una spirale discendente di abuso e insostenibile terrore che si confronta con l’assoluta incomunicabilità del sentimento postpuberale, il mistero della ragione sessuale, la mappa dell’inconscio giovanile circondato da incertezze anche (soprattutto?) nell’ambiente domestico. Per trasmettere l’incomunicabile il film abbandona la semplice osservazione delle superfici – epidermiche e di senso – e getta la sua protagonista in un’educazione sentimentale senza maestri sul proprio corpo che si verifica attraverso la continua fratturazione e rottura delle stesse superfici, l’apertura dell’ignoto prima contenuto da pochi millimetri di pelle.

Il racconto giovanile è così sventrato dall’interno da un fantastico fagocitato in partenza proprio per crepare e spezzare l’immagine del corpo. Brühlmann disvela il mistero del sentimento controllando il genere e usandolo per comporre una realtà simbolica comprensibile, che sigilla ciò che prima era nascosto in una nuova immagine, in una nuova costruzione di senso: la comprensione di sé passa per la mutazione del sé e si completa nel passaggio a nuova forma. Il finale però non si accontenta di chiudere questo ragionamento e lo riapre con l’immagine forse più sottile del film: un ritorno sotto la superficie della chiarezza razionale, verso l’ignoto di un’esistenza che non conosce razionalizzazione e trova nell’inabissarsi nella propria persona l’unica vera via d’uscita da sé. Il simbolo fantastico d’altronde oltre che svelare il significato sempre lo vela di nuovo senso: forse è questa l’intuizione più raffinata di Blue My Mind

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Lisa Brühlmann Luna Wedler Zoë Pastelle Holthuizen Regula Grauwiller 97 minuti
Svizzera 2017
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Bangla

di Veronica Vituzzi
Bangla - recensione film

C’è in Bangla un’urgenza espressiva che a stento si trattiene entro l’inquadratura, cannibalizza le situazioni, i personaggi, la scrittura filmica. Il desiderio di raccontare il mondo multietnico di Torpignattara tramite la storia di un ragazzo italiano di origini bengalesi –  Phaim Bhuyin, che dirige se stesso in questa sua opera prima –  traspare violentemente dal racconto autoironico in prima persona del suo personaggio principale, divenendone il principale punto forte. Nonché il maggior punto debole.

Non si negheranno infatti qui tutti i difetti e le sbavature di un esordio cinematografico tanto interessante quanto imperfetto, benché il soggetto basti a richiamare l’attenzione dello spettatore. Le vicende di Phaim, diviso fra quel “50% bangla, 50% italiano” descrivono un’intima spaccatura culturale che si mantiene irrisolta sotto l’apparente pacifico senso di appartenenza - quel “100% Torpignattara” - che il ragazzo prova verso il proprio quartiere, entro il quale si sente perfettamente inserito. L’indizio più evidente di questa nascosta frattura sta negli impulsi sessuali che egli sente e trattiene allo stesso tempo, costretto dalla propria educazione a obbedire ai dettami pudibondi della sua religione musulmana. A questo punto il racconto non può esimersi dall’introdurre una ragazza che rivoluzioni la vita del protagonista, ed ecco Asia (Carlotta Antonelli), giovane, bella e disinibita, perfetto elemento di disturbo atto a incrinare il precario equilibrio con cui Phaim viveva le contraddizioni culturali della sua esistenza. Attraverso il desiderio a volte comicamente terrorizzato verso di lei emergono la voglia e la paura di rinnegare le proprie origini fatte anche di assidua sottintesa obbedienza a una famiglia e a una filosofia di vita che richiedono la ricerca di un buon lavoro e il perseguimento di un matrimonio tradizionale con una donna dalle medesime origini.

Benché Bangla sia una commedia, e faccia anzi continuamente leva sull’ostentata simpatia delle battute e delle circostanze, il suo nodo è drammatico e apparentemente irrisolvibile. Scegliere la famiglia significa perdere la ragazza amata, e con essa la possibilità di vivere liberamente la propria vita; scegliere l’amore comporta il rischio di una rottura irrimediabile con le proprie radici fatte di religioni, cibo, lingua, e tutto ciò che rappresenta per un individuo la famiglia di appartenenza. Il Phaim protagonista come il Phaim regista non sceglie, e Bangla rimane onestamente ai margini a osservare il presente senza risposte di “un casino bellissimo”.

 Peccato che anche il film stesso si riveli di frequente un bel casino, viziato dalla recitazione troppo meccanica del regista e da sequenze eccessivamente artificiose. Bangla cerca di mettere parecchia carne a fuoco: vuol raccontare un quartiere, una dimensione culturale multietnica e una storia d’amore, ma perde sovente i pezzi e rimedia accontentandosi dello stereotipo. Il ruolo di Asia appare troppo spesso più un mero simbolo di entropia femminile che personaggio reale, e la descrizione della sua famiglia– in cui Pietro Sermonti appare nelle vesti del padre – è pura macchietta che aderisce al luogo comune oggi tanto diffuso dei radical chic alternativi impegnati di sinistra con la famiglia allargata. D’altra parte il vero protagonista di Bangla è pur sempre Torpignattara e le sue innumerevoli comparse composte da vecchi al bar, hipster che fanno l’aperitivo e immigrati di prima e seconda generazione che parlano italiano chi benissimo e chi malissimo: una convivenza di tinte e sapori che sa essere per gli occhi un ritratto impressionista dipinto con rapide pennellate di colori dinamici ed eterogenei.  Il pregio maggiore di quest’opera prima, dal livello qualitativo certamente altalenante, rimane allora una degna percentuale di onestà narrativa che non limita il film a una storia divertente e assai furba per l’uso dei soliti stilemi accattivanti – la parlata popolare, il quartiere multietnico alla moda, il protagonista “sfigato” e insicuro con le donne – ma gli assegna un sottotono drammatico tale da fare di Bangla un racconto meno superficiale di quel potrebbe sembrare a prima vista.

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Phaim Bhuiyan Phaim Bhuiyan Carlotta Antonelli Simone Liberati Pietro Sermonti 87 minuti
Italia 2019
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Nona. If they soak me, I’ll burn them

di Domenico Saracino
Nona. If they soak me, I’ll burn them - recensione film

“Se mi bagnano, io li brucio”. È questa la traduzione letterale di Nona. Si me mojan, yo los quemo (trasposto in inglese con il titolo If they soak me, I’ll burn them), terzo lavoro – dopo il progetto scolastico Naomi Campbel e il documentario Casa Roshell – della giovane regista cilena Camila José Donoso, presentato in anteprima al Rotterman International Film Festival e ora in concorso alla 55a Mostra del Cinema di Pesaro.
Una implicazione logica da ultimatum, che dice già tutto della volitività e radicalità della sua protagonista, una 66enne pronta a ricambiare con le fiamme l’onta di un allagamento doloso. E infatti in apertura del film la vediamo fabbricare una bella molotov artigianale, riportando ad alta voce i pochi passaggi della procedura di preparazione.

Per conoscere il fortunato destinatario del premuroso pensierino lo spettatore deve attraversare l’intreccio ricomponendo la fabula, un’operazione che in questo caso coincide sostanzialmente con la giusta ricollocazione e decodificazione dei frammenti narrativi, sfalsati sul piano temporale e difformi sul piano stilistico. Se il montaggio gioca infatti a confondere i momenti che precedono e seguono il gesto incendiario, da un punto di vista visivo il film vede un’alternanza continua di alta e bassa risoluzione, home movies alla Star Garden di Stan Brakhage e riprese digitali professionali, camcorder e cineprese per il cinema.
Così mentre vediamo la nona (nonna in italiano) cambiare vita dopo la vendetta, trasferendosi dalla grande area metropolitana di Santiago alle spiagge nerastre della cittadina costiera di Pichilemu e facendo i conti con un’altra serie di incendi, ben più gravi di quello da lei appiccato, i filmini casalinghi ne offrono un ritratto intimo e sfaccettato, dal modo in cui affronta i suoi problemi di cataratta alle sue interazioni con piante e vicini.

Così come era avvenuto nei lavori precedenti, soprattutto in Noemi Campbel, Camilla José Donoso mescola abilmente realtà e finzione, attingendo in gran parte alla vita di sua nonna Josefina e reinventandone liberamente alcuni avvenimenti. Su di lei e sugli appartenenti alla sua generazione la nipote appena trentenne vede bene impressi i segni del turbolento passato cileno, dai grandi disastri naturali (il terremoto di Valdivia del 1960 è stato il più potente mai registrato nella storia umana) alla dittatura di Pinochet, fino alla transizione democratica degli anni ’90. Segni che possono essere messi in relazione col presente, sia per analogia (l’ultimo catastrofico terremoto, tristemente noto, risale appena al 2010) che per discrepanza (nonostante problemi e disuguaglianze il Cile contemporaneo è una nazione democratica che sta vivendo una crescita sostenuta e bassi tassi di disoccupazione).

Un atto, quello del confronto tra passato e presente, certamente incoraggiato dall’autrice di Nona, che pur assegnando ampio spazio alla ricostruzione e reinvenzione della storia personale della protagonista, non perde occasione per inserire nel tessuto filmico un riferimento diretto al presente, in particolare al terribile incendio di due anni fa a Santa Olga, nella regione del Maule, il peggiore mai avvenuto nel Paese sud-americano. È così che la storia incontra la Storia, il privato incrocia il pubblico, il cinema e l’immaginazione re-incontrano la realtà, restituendole un senso nuovo, inedito.

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Camila José Donoso Paula Dinamarca Nancy Gómez Eduardo Moscovis Josefina Ramírez 86 minuti
Brasile, Cile, Corea del sud, Francia 2018
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The Kamagasaki Cauldron War

di Fiaba Di Martino
THE KAMAGASAKI CAULDRON WAR - recensione film leo sato

Microcosmo a sé stante, coacervo indifferenziato di relitti umani rassegnati a una vita di stenti e privazioni nel degrado post-bellico di un Giappone indifferente, gli estratti d'umanità assemblati nel ghetto di Kagamasaki sono il focus - spoglio, malaugurato eppur battagliero, pervicace e baluginante di una qualche parvenza di riscatto - del primo lungometraggio di finzione di Leo Sato, impregnato in una celluloide anacronistica (16 magnifici mm) che aumenta la sensazione di uno scorrere esistenziale fuori dal tempo, estromesso dal contemporaneo, sempre cinque passi indietro dal quotidiano globalizzato.

Un'umanità messa all'angolo, quella raccontata da The Kamagasaki Cauldron War, che tuttavia persiste, insiste, resiste. Facendosi beffe dell'invisibilità punitiva a cui le istituzioni (polizia corrotta compresa, ça va sans dire) la costringono. Facendo squadra, facendo strambo gruppo anche nelle piccole faide interne, osservate da Sato con uno sguardo che tende a tonalità di commedia lunare, a bizzarrie corali, a singulti surreali, autoironici, mordaci, anche musicali (il momento del ballo in un cimitero sopraelevato, quasi un arto a sé stante dal corpo del film, è un fruscio imprevisto e tenerissimo, squisitamente e malinconicamente cullato dalla regia compartecipe).

I vari zigzag narrativi si concentrano sostanzialmente intorno a una famigliola per caso: un furfantello scombinato, una laconica e distaccata prostituta, un bimbo intristito rimasto improvvisamente orfano (la scena in cui suo padre, giullaresco e tutto pittato in faccia, gli promette che un giorno andrà a scuola, è esemplificativa del miracolo nonchalante del film, sempre a un misurato centimetro dall'angoscia e dalla tragedia). I tre rimangono coinvolti nei giri criminali della città, a causa nello specifico del furto di una pentola cerimoniale appartenente a un boss della yakuza (e sgraffignata dal genitore poi assassinato del ragazzino); e la girandola farsesca di scontri, fughe, complotti e piani orditi successivamente innesca un effetto domino episodico di inclassificabile categorizzazione, che saltella da citazioni marxiste («Non era mica male, questo Karl Marx!») a schizzi di comiche mute e speronamenti slapstick, da alleggerimenti romance (c'è un triangolo, che non si prende naturalmente mai sul serio) a tensioni disordinate fino a incantevoli porzioni di già citata surrealtà.

Un oggetto cinematografico non identificabile, un piccolo UFO (gian)burrascoso che un po' nobilita un po' schernisce (senza un filo di autoindulgenza, ma con grande dolcezza), e molto riscatta, questo mondo a parte. Ingrato, ma pur sempre un mondo, un postaccio per cui lottare, non importa se sullo sfondo di vicende disgraziate e antiepiche di un mucchio di poveracci e di altrettanto scombiccherati villain male in arnese: così The Kamagasaki Cauldron War riesce a imporre di soppiatto, sogghignando, inciampando, distraendosi, divertendosi, una rivincita sull'ambiente da parte degli ultimi della società (gran parte del cast è formata proprio da veri abitanti della zona), che si ammutinano al - e dirottano il - modus narrandi realista e denunciatario, piegando la bruttura della realtà alla loro arrembante, chiassosa, casinista autoconservazione.

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Leo Sato Yota Kawase Tumugi Monko Naori Ota Kiyohiko Shibukawa 115 minuti
Giappone 2019
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I morti non muoiono

di Matteo Berardini
I morti non muoiono - recensione film jarmusch

I morti non muoiono è probabilmente lo zombie movie più serafico della storia del cinema, una nuova decostruzione del genere da parte di Jim Jarmusch che accantona il romanticismo dei suoi ultimi, splendidi, film (Solo gli amanti sopravvivono e Paterson) per riflettere divertendosi sullo stato della cultura occidentale. The Dead Don’t Die – come canta in allitterazione la canzone tema e titolo del film, scritta dal musicista country Sturgill Thompson e calata nel mondo diegetico del racconto –  è infatti un horror popolato sì da cadaveri ambulanti in cerca di carne fresca ma soprattutto da personaggi compassati, eccentrici ma sempre controllati; esclusa la poliziotta interpretata da Chloë Sevigny (l’unica che reagisce alla situazione con l’incredulità e la disperazione che potrebbe provare lo spettatore), tutti i personaggi dimostrano distacco o indifferenza nei confronti di quest’invasione di non morti, come se fossero già rassegnati alla fine – anche quando la consapevolezza della loro sorte deriva dall'aver letto in anteprima, metacinematograficamente, tutto il copione del film.
Mettendo in scena personaggi già arresi e svuotati di vita, Jarmusch gioca con la materia orrorifica e come in passato ne rivisita la tradizione, impossessandosi degli ingredienti di base per reinterpretarli con i suoi tempi, canoni e giri a vuoto, con il suo umorismo sempre situazionista. Sarebbe un peccato però limitarsi a vedere I morti non muoiono come un grande divertissement realizzato assieme agli attori amici di una vita; il film è certamente anche questo, e diverte parecchio nell’esserlo, ma sotto la superficie del gioco Jarmusch rilascia un’amarezza nient’affatto scontata che merita un secondo livello di lettura. 

I morti non muoiono sfrutta il tema zombie per tornare a parlare di decadenza e crisi della cultura occidentale, la stessa che Jarmusch aveva posto al centro di Solo gli amanti sopravvivono, e nel farlo si ricollega, testualmente, al padre di tutti gli zombie, Romero, i cui figli mostruosi vengono oggi talmente reiterati dal cinema e dall’industria dell’intrattenimento da essersi svuotati di ogni carica politica. Per Jarmusch il potere eversivo dello zombie è soffocato dalla ripetizione a tal punto che della sua forza simbolica resta soltanto la retorica finale esplicitata dall’hobo di Tom Waits, sfacciata verbalizzazione di un messaggio un tempo sotterraneo e ora talmente depotenziato da non poter supportare alcuna metafora.
Di conseguenza  gli zombie di Jarmusch non possono che essere macchiette di sé stessi, ritornanti ossessionati da bisogni consumistici aggiornati a questi tempi chimicamente tormentati. I nuovi oggetti del desiderio sono Wi-Fi, caffè, benzodiazepine e narcotici, ma nonostante l'apparenza, le citazioni, la morale didascalica, questi morti viventi non sono più, o almeno non solo, quelli che assaltano il centro commerciale nel secondo capolavoro di Romero: in quel gioco a carte scoperte che è ormai il genere horror, lo zombie di Jarmusch non esemplifica più l’uomo mercificato del tardo capitalismo quanto la morte-in-vita dell’industria culturale nel suo complesso. Siamo oltre ogni intento sociopolitico, talmente ovvio da poter essere sorpassato, sbeffeggiato, esplicitato sfacciatamente, perché mentre il genere si ripete fagocitando sé stesso l’esercizio culturale ha una sola via di fuga, che risiede (come sempre in questo cinema) fuori dall’industria, fuori dal sistema. L’unica cura per una cultura che trasforma le sue icone in feticci, nutrendosi di sé e delle sue scorie, sta nell’indipendenza e nella vita artistica fuori dai margini, una prospettiva incarnata dalle uniche figure che sopravvivono alla mattanza zombie del film: le nuove generazioni dei ragazzi in riformatorio, l’aliena proveniente da mondi lontani (la Scozia?) e il barbone alla Thoreau che vive nei boschi.

Solo gli amanti sopravvivono lo diceva già con chiarezza assumendo la prospettiva del vampiro, un non morto in realtà vivo e dolente in un mondo di zombie condannati alla vera morte-in-vita dal solipsismo e dall’assenza di umanità e cultura; praticamente, «io sono vivo, voi siete morti», citando la più famosa frase di Philip Dick. Gli zombie che infestano I morti non muoiono quindi non sono altro che le scorie di umanità che già popolavano il film precedente, poste adesso al centro della scena e raccontate con irresistibile ironia.

In conclusione, I morti non muoiono è un film più leggero e divertito dei titoli precedenti, ma questo non può andare a suo discapito o, peggio, non può allontanarci da quello che è il suo discorso di fondo, coerente e tutt’altro che nuovo per Jarmusch ma di certo non superficiale o buttato via. E cioè che il cinema (e la cultura occidentale con lui) ha bisogno di amanti e sangue fresco, indipendenza e innocenza, mentre la rassegnazione, l’odio, il dolore e il distacco non possono che soccombere sotto le fauci plastificate di un’industria davvero mostruosa e bramosa di carne.

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Jim Jarmusch Adam Driver Bill Murray Tilda Swinton Chloë Sevigny Steve Buscemi Tom Waits Caleb Landry Jones Danny Glover Selena Gomez Iggy Pop 105 minuti
USA 2019
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