John Wick 3 - Parabellum

di Matteo Berardini
john wick 3 parabellum - recensione film

Bossoli che piovono sul pavimento, lame che trapassano le carni, l’impatto violento di corpo su corpo, lividi, fratture, urla, l’odore acre di cordite sospeso nell’aria. Prosegue con Parabellum la lunga notte di John Wick, il killer malinconico con cui Keanu Reeves, Chad Stahelski e David Leitch hanno conquistato nel 2014 il mondo action hollywoodiano riportando al centro della scena la spettacolarità degli stunt e l’eleganza del kung fu. È ancora l’onda lunga di The Raid, la lezione di una violenza dalle coreografie raffinate e assieme brutali restituite spesso in camera fissa e tempi di montaggio più dilatati, se non piani sequenza che diventano vere e proprie composizioni musicali di combattimenti e conflitti a fuoco. Non a caso John Wick 2 porta con sé lo stesso limite di The Raid 2: Berandal, il tentativo fallito di replicare la stilizzazione action unendola al respiro epico di una narrazione criminale più vasta e complessa; mancava di incisività e immaginazione visiva John Wick 2, lontano dalla coerenza impeccabilmente b movie del primo capitolo. Tanto di cappello a Reeves e Stahelski allora, perché Parabellum è una fenomenale rinascita della saga, il capitolo finora più riuscito, affascinante e sorprendente, che trova la quadra del cerchio equilibrando perfettamente parossismo visivo e fiducia cieca nel personaggio.

Dopo un lungo incipit notturno che si collega direttamente al capitolo precedente, Parabellum riprende l’esplorazione dell’underworld criminale abitato da John Wick, regole e rituali di un mondo che sembra sempre meno sotterraneo ma piuttosto parallelo e contiguo al nostro, tanto è ramificato e onnipresente e globalmente pervasivo. Dietro ogni barbone si nasconde un informatore, dietro ogni ristorante cinese una squadra di killer dai talenti marziali, la violenza può esplodere nel mezzo delle strade e degli spazi pubblici ma in qualche modo è sempre non vista, nascosta in pieno sole. Parabellum approfondisce l’indagine di quest’organizzazione criminale ma riesce a farlo sempre e comunque attraverso l’azione, concatenando tra loro sequenze memorabili che pompano adrenalina e stupore mentre si gioca sempre meglio con i limiti del fisicamente possibile. Certo, il film gira su sé stesso e su quanto accaduto in precedenza, reitera situazioni e soluzioni narrative, non sfugge a una certa macchinosità dell’intreccio, seppur basilare, eppure tutto resta magnificamente in piedi e di più, vola a livelli inediti di spettacolarità e creatività visiva in un’escalation adrenalinica che non rinuncia mai al movimento per raccontare la sua storia. Tra cavalli, moto, sale wellesiani di specchi e inganni riflettenti, Parabellum è anche un film assai generoso con i suoi personaggi, cui regala momenti e spazi consistenti: Ian McShane, accompagnato perfettamente dal compassato Lance Reddick, ben incarna lo spirito elegantemente indomito del Continental, mentre Laurence Fishburne si ritaglia uno spazio che, con tanto di citazione iconica e urlatissima, ammicca all’esperienza condivisa con Reeves di Matrix; a sorprendere è invece Halle Berry, rediviva, che assieme a due mortali cani-velociraptor si prende per sé un lungo momento d’azione relegando John Wick in un angolo.

Scisso tra passato e presente, tra la violenza lunga una vita e il ricordo di un amore da conservare a ogni costo, John Wick è quanto di meglio possa regalare il genere duro e puro, un personaggio oscuro orgogliosamente bidimensionale ma coerente e ben delineato nelle sue linee guida, dotato di un carisma immenso e della consapevolezza ludica di vivere un mondo al limite; Parabellum in questo senso è il capitolo più autoironico e eccessivo, un film che abbraccia l’intensità sopra le righe di scene e situazioni e si dimostra  in grado di reggere ogni esagerazione, come solo il miglior cinema d’azione è in grado di fare. John Wick è ormai una figura epica, puro cinema spettacolare di fronte il quale poco o nulla contano le banali necessità e limiti del reale.

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Chad Stahelski Keanu Reeves Ian McShane Halle Berry Asia Kate Dillon Jerome Flynn Lance Reddick Laurence Fishburne 130 minuti
USA 2019
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Lo spietato

di Riccardo Bellini
Lo spietato - recensione film De Maria

Già dal milanese fittizio e caricaturale di Riccardo Scamarcio abbiamo una sintesi di quella che è in definitiva l’arma migliore al servizio de Lo spietato: il suo non prendersi (troppo) seriamente. Prodotto da Bibi Film e Rai Cinema e approdato il 19 aprile su Netflix, l’ultimo film di Renato De Maria (già autore del documentario Italian Gangsters) racconta scorsesianamente ascesa e caduta di Santo Russo (Scamarcio), immigrato calabrese nella Milano degli anni Sessanta che, a partire da una giovinezza travagliata, capisce subito come sfruttare il proprio talento criminale, arrivando nel giro di vent’anni a toccare i vertici della malavita milanese. Liberamente ispirato al romanzo Manager Calibro 9 di Pietro Colaprico e Luca Fazzo, al cui centro ci sono le testimonianze del pentito Saverio Morabito, Lo spietato guarda a una sensibilità transoceanica e all’epopea gangster come a una risorsa cinematografica cui attingere ma non certo da celebrare.

La scelta di cucire addosso al genere gangster una chiara veste comedy, soprattutto nella prima parte, gioca a favore di un film che non ha nessuna pretesa di rinnovare il genere e che anzi, al contrario, segue piuttosto pedissequamente un collaudato percorso di ascesa e caduta criminale. La demenzialità di certi momenti - una chicca la sequenza del matrimonio di Santo, turbato ma non troppo dall’arrivo dei carabinieri con tanto di foto di gruppo annessa - è altra cosa rispetto alla necessità di creare attimi di distensione per irrobustire la carica empatica dello spettatore; piuttosto finisce qui con l’essere il tono generale di una rappresentazione in cui l’assurdo sconfina nel patetico. Questo grazie soprattutto a un ottimo Scamarcio, convincente nel ruolo del parvenu cafone e inconsapevole (utilizza l’espressione «ça va sans dire» senza conoscerne il significato, emula con ostentazione un dialetto non suo) arricchitosi in un’Italia spregiudicata di disastrosi e inaccessibili modelli identitari, di cui finisce col diventare un riflesso.

Una parabola negativa di larga fruibilità che per fortuna rinuncia in modo intelligente a sentimentalismi ricattatori e potenzialmente ambigui, a partire dall’assenza di una storia d’amore, a fronte al contrario di un lavoro sui due personaggi femminili determinante per la riflessione del film. Da una parte Mariangela (Sara Serraiocco), mogliettina casa e chiesa di Santo calata nella Milano arrampicatrice direttamente dalla Calabria degli anni Cinquanta, dall’altra Annabelle (Marie-Ange Casta), artista francese che frequenta i salotti della Milano radical chic. Nessuna delle due si salva da uno sguardo impietoso. La seconda finisce con l’infatuarsi del volgare protagonista, nel momento stesso in cui questo rivela la propria animalità violenta, salvo scappare a gambe levate dopo un colloquio chiarificatore con Mariangela. Quest’ultima è la vera svolta del film. La sua trasformazione, nel finale, da femmineo retaggio di un Sud secolare, alla cinica moglie del boss in tacchi a spillo completa il quadro di un Paese in mutamento e dei desideri di una fetta dell’Italia pre-berlusconiana.  

A non funzionare sono invece alcuni snodi narrativi, troppo sfilacciata la seconda parte, in cui tra l’altro il ritmo cala in più punti all’interno di un prodotto che già di per sé non mira all’originalità. L’ellissi che va dall’arresto di Russo alle sue speculazioni in campo edilizio, anni dopo il carcere, è un’occasione mancata per riflettere su una svolta cruciale nel campo della malavita e della nostra Storia recente. Film soprattutto di maschere e di personaggi, con qualche punta di gustoso estro comico, Lo spietato è niente più che un’esperienza godibile, che se non altro ha il pregio di non scadere nell’eccessivo autocompiacimento di tanto cinema crime.

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Renato De Maria Riccardo Scamarcio Sara Serraiocco Alessio Praticò 111 minuti
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Pet Semetary

di Saverio Felici
Pet Semetary - Recensione film Kolsh e Widmyer

In Pet Semetary c'è probabilmente la storia più rappresentativa di tutto il canone kinghiano. Ripresa da chiunque, oggetto di parodie, canzoni, lodata da Stephen King in persona, oggetto di un adattamento tra i migliori dello sfortunato catalogo cinematografico dell'autore (Cimitero vivente, Mary Lambert, 1989), l'immagine del cimitero indiano capace di riportare in vita le bestie sepolte è ormai di pubblico dominio. Gli autori Kevin Kolsh e Dennis Widmyer, a lavoro su commissione dopo l'apprezzato indie horror Starry Eyes, si approcciano a un simile tesoro nella maniera più prudente: quella della trasposizione analogica, step by step. Con un'unica, colossale variazione interna, paradossalmente capace di sabotare quanto di buono messo insieme.

La storia di Pet Semetary mette da quarant'anni la razionale e traumatizzata famiglia Creed alle prese con il luogo del titolo (typo sulla C voluto). Papà Louis (Jason Clarke), medico illuminista, e mamma Rachel (Amy Seimetz), perseguitata da un ricordo d'infanzia allucinante, si trasferiscono a Ludlow, Maine, insieme ai piccoli Eilie e Gage, di dieci e due anni. Ubicato in una foresta poco lontano la loro nuova abitazione, sonnecchia il cupo sacrario del titolo, dedicato agli animaletti defunti della cittadina. Come scopriranno presto tramite il vecchio custode-Caronte Jud (John Lithgow), il luogo è in realtà la porta per un territorio arcano, maledetto dalle tribù Mikmaq e capace di restituire la vita alle carcasse che vi vengono sepolte. Nonostante lo scetticismo del patriarca, alla morte del gattone di famiglia Church i Creed cadranno nella tentazione di mettere alla prova i Grandi Antichi del bosco. Sarà il punto di non ritorno: quando la morte verrà a prendersi un membro della famiglia, il potere del cimitero porterà Louis ad un gesto folle.

L'idea più forte del romanzo alla base di Pet Semetary, sta nella sua versione del mito del "ritornante". Nell'opera kinghiana, un apologo cupissimo e disperato sul lutto e la perdita, a subire suo malgrado il potere del terreno "inquinato" (tema fondamentale in moltissime opere del maestro di Portland), è il piccolo Gage Creed: il parto di questa aberrazione, la figura del duenne zombie, è un coacervo di orrore edipico e di tabù infranti (il massimo dell'innocenza pervertito dal massimo dell'innaturale) e rappresenta l'intuizione più indimenticabile del materiale di partenza. Per motivi insondabili (che presumibilmente vanno dalla necessità di bilanciare protagonisti maschili e femminili, alla banale paura di mettere in scena la morte brutale di un infante), il copione di Jeff Buhler decide di cambiare l'identità del cadavere. A morire, e a tornare, è allora un personaggio molto più "ovvio", molto meno disturbante, e soprattutto molto più serenamente inserito in una tradizione horror battuta e ribattuta (che passa per Mario Bava, l'Esorcista e mille altri J-Horror). E così, l'unica idea originale di un adattamento letterale, è un'idea sbagliata. Che sabota quanto di radicale ci fosse nel materiale di partenza, e lo riporta sui binari del già visto.

Azzoppato da questo errore concettuale, il Pet Semetary 2019 fa comunque il possibile per concludere la sua corsa in posizione accettabile. Il risultato, a onor del vero, è tutt'altro che tragico: in un campionato come quello degli adattamenti kinghiani, un campionato che vede centinaia di partecipanti e quasi nessun vincitore, il film di Kolsh e Widmyer evita quantomeno la retrocessione. Se, come detto, il climax del film soffre la codardia della produzione, è inevitabile che il meglio arrivi in fase di costruzione. Il lavoro competente sulla tensione e l'atmosfera della prima ora non è male: tra presagi infernali e ritmi compassati (il film si prende i suoi tempi), un cast di discreto livello (ancora ottimo il sempre dolente Clarke; simpatico Lithgow, di supporto il resto), e un immaginario di fondo a cui, se si è fan, è inevitabile ritrovarsi immediatamente affezionati, il film cammina. Gli ormai inevitabili easter eggs ispirati all'opera dello scrittore hanno poi il loro ruolo nella furba captatio benevolentiae dello spettatore, che di fronte alle citazioni di Derry e La torre nera finisce sempre per abbassare le difese. Alla fine, a venir fuori è più che altro il tono da fiaba triste: il film lascia fuori spiegazioni e divagazioni mostruose, e sembra voler raccontare soprattutto di un gruppo di persone incapaci di affrontare la perdita.

Per il resto, c'è molto poco di cui discutere. Visivamente il film si presenta come il più tipico dei prodotti horror mainstream di questi anni: molto dimesso, visivamente sciatto (troppo digitale inutile nelle scenografie), pretenziosamente "realistico" e avvolto da una fastidiosa patina Netflix che tradisce le vere ambizioni del progetto su commissione: bruciarsi il weekend di apertura e finire il prima possibile nelle playlist a tema di qualche piattaforma streaming. E se rispetto ad altri adattamenti recenti ne esce tutto sommato dignitosamente, è il confronto con la versione 1989 a mettere davvero ko Kolsh e Widmyer. Dagli effetti al look, da Zelda a Gage, non c'è confronto con il film di Mary Lambert che questo cimitero 2019 non riesca a perdere. Non un granché, come biglietto da visita.

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Kevin Kolsh Dennis Widmyer Jason Clarke Amy Seimetz John Lithgow Jeté Laurence 101 minuti
USA 2019
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Avengers: Endgame

di Attilio Palmieri
Avengers-Endgame- recensione film marvel

Quando nel 2008 uscì nelle sale Iron Man nessuno, neanche Kevin Faige, avrebbe immaginato la portata di quel percorso che oggi è arrivato ad Avengers: Endgame, una tappa non definitiva come spesso si legge in giro, ma sicuramente dedicata a completare un primo arco, dando compiutezza a qualcosa che – detto molto semplicemente senza paura di essere iperbolici – non si era mai visto nella storia del cinema.

Non è solo la consapevolezza che operazioni di queste dimensioni, per quanto possano essere figlie di una progettualità maniacale, non sono mai totalmente calcolate perché figlie anche di variabili che si presentano nel corso del tempo e che vanno sfruttate a proprio vantaggio per non esserne sopraffatti. Accanto a questa certezza c'è anche un dato abbastanza incontrovertibile, ovvero che quello che oggi riconosciamo come un universo cinematografico che si regge su una capacità di generare denaro senza precedenti undici anni fa non esisteva, per cui ogni investimento economico rappresentava un rischio e non sempre i film sono stati accolti con il massimo dei favori, soprattutto perché gli esiti qualitativi erano a volte poco convincenti – basti pensare al caso di Hulk.

Va anche detto che gli universi narrativi al cinema non sono mai stati sviluppati in queste proporzioni e con questa progettualità, e benché nel mondo dei fumetti, dei videogiochi e delle serie televisive fossero qualcosa di assolutamente normale, al cinema rappresentavano una sorta di novità, sia per gli addetti ai lavori, sia per la critica, sia per gli spettatori, i quali hanno imparato a restare seduti sulle poltrone fino alla fine di tutti i titoli di coda per guardare la rituale scena post-credits, ovvero l'elemento narrativo che simboleggiava il legame tra un film e l'altro.

Avengers: Endgame arriva in un contesto decisamente diverso, anzi potremmo dire in un mondo nuovo, tanto è il peso del Marvel Cinematic Universe non solo sul cinema ma in generale sulla cultura pop e sull'intrattenimento contemporanei. Il film diretto dai fratelli Russo non poteva capitare in un momento migliore, perché il 2018 oltre a essere stato l'anno dell'attesissimo Infinity War (primo capitolo di questo doppio epilogo) è stato soprattutto l'anno di Black Panther. Il film diretto da Ryan Coogler è stato un'opera profondamente innovativa per quanto riguarda la rappresentazione delle persone di colore, un fenomeno culturale senza precedenti, capace di resistere in sala per tantissime settimane ed essere l'unico film del 2018 a guadagnare oltre un miliardo di dollari nel mercato statunitense, a dimostrazione dell'impatto devastante che ha avuto sul pubblico, incentivato anche da una ricezione critica eccezionale.

Non tutto è roseo sul cammino di Endgame, perché dopo la storica sfilza di nomination per Black Panther agli Oscar 2019 e la mancata vittoria del premio principale (attribuito in maniera forse un po’ pavida a Green Book, un film senza dubbio più convenzionale) è già ripartito il toto-oscar, nella speranza che possa essere Endgame il destinatario di questo tanto desiderato riconoscimento. Le aspettativa che hanno anticipato il film sono dunque enormi e di vario genere, e in queste condizioni spesso rappresentano l'alba del fallimento. È alla luce di queste premesse che vanno interpretate alcune scelte cruciali di Endgame, perché non bisogna mai dimenticare che non si tratta di un film qualsiasi, ma di un'opera dalle dimensione extra-large che vive di un rapporto simbiotico con il proprio pubblico. L'incredibile macchina commerciale è infatti l'altra faccia di un rapporto intensamente dialogico tra produttori e consumatori (o tra autori e pubblico, che dir si voglia) in cui la gestione del delicato equilibrio tra sorprese e conferme è affidata a elementi di tipo sia narrativo che formale.

Solo se analizzate sotto questa lente si spiegano alcune scelte a prima vista più conservative rispetto a quelle operate dal capitolo precedente della saga degli Avengers, perché è vero che il finale di Infinity War rappresentava una sorpresa clamorosa – tanto da spingere tutti a parlare di discontinuità forte rispetto alle logiche narrative del comic movie – ma è altrettanto vero che le esigenze di questo capitolo sono differenti da quello precedente. Se infatti in quel caso era fondamentale la sorpresa, in questo aveva un ruolo essenziale la conferma (per ritornare alla dialettica appena citata) e allora vengono accolti come la cosa più naturale del mondo gli omaggi ai film precedenti, a tutte quelle storie che hanno portato a questo temporaneo punto di bilanci. Non bisogna però fare l'errore di pensare che questo genere di sviluppo narrativo – che definire atteso è più appropriato rispetto a prevedibile – sia più semplice o meno coraggioso: riuscire a dare al pubblico quello che si aspetta, realizzare un finale epico come promesso e in grado di riallacciare tutti i fili narrativi omaggiando i personaggi che hanno popolato l'universo fino a questo momento, è una delle cose più difficili immaginabili al cinema (e non solo, basti pensare alle critiche che sta ricevendo la stagione finale di Game of Thrones), anche perché basta sbagliare un'inquadratura o una battuta a innescare le balestre di critici di ogni genere.

Il merito principale dei fratelli Russo e degli sceneggiatori di Endgame sta quindi nel aver saputo gestire un film di oltre tre ore utilizzando i personaggi storici dell'universo come vettori emotivi principali, soprattutto a partire dalla consapevolezza collettiva che per alcuni di loro si trattava della chiusura di un ciclo, se non addirittura dell'ultima apparizione. Ovviamente le due direttrici principali sono quelle definite da Iron Man e Captain America, non solo perché gli interpreti sono i primi per cachet tra le star ma anche perché sono i personaggi che da sempre hanno trascinato il racconto complessivo, tanto da finire uno contro l'altro in Civil WarLe loro parabole sono tra le cose più interessanti di Endgame, perché come al solito sono caratterizzate da un'ironia citazionista comprensibile da spettatori di tutte le età, ma soprattutto questa volta sono contraddistinte da una gravitas inedita che li ammanta di eroismo vero. A stemperare un registro che rischierebbe di essere un può fuori tono rispetto alle abitudini della saga c'è la scelta di dare centralità alla figura di Ant-Man, il quale grazie anche alle qualità comiche di Paul Rudd si conferma come anello di congiunzione tra il gruppo di supereroi e gli spettatori.

Dal punto di vista dell'innovazione, in un film così grande (sotto tutti i punti di vista), con così tante esigenze da soddisfare ed equilibri da mantenere, non sono tanto ampi i margini d'azione. Ciononostante Endgame riesce comunque a mostrare qualcosa di inedito rispetto al passato, utilizzando due personaggi del gruppo storico in un modo decisamente nuovo, anche a costo di esporsi alle critiche. E infatti la maggior parte delle perplessità sono arrivate proprio a proposito della gestione di Hulk e Thor, sui quali in questo film è stato fatto un lavoro assai diverso rispetto al passato. Hulk non è più quell'eroe metà scienziato e metà creatura indomabile, non è più un uomo dilaniato dal conflitto tra ragione e istinto, educazione e violenza, ma un individuo che ha imparato a far convivere le sue due identità, valorizzandole entrambe senza per forza metterle in conflitto, elaborando la rabbia e venendone fuori come una persona diversa e più matura. Per quanto riguarda Thor, invece, i Russo hanno optato per mettere in scena la crisi di un Dio, un personaggio devastato dal fallimento che ha chiuso Infinity War e che non ha più alcuno stimolo perché totalmente traumatizzato, in balia dell'alcol e privo di ogni spinta di tipo eroico. Il suo percorso è uno dei più originali e immaginarlo nei Guardiani della galassia Vol. 3 fa sperare finalmente in un futuro roseo per il personaggio.

Avengers: Endgame è qualcosa di mai visto al cinema, il punto culminante di un'operazione durata undici anni, un'opera larger than life dalla portata epica enorme, capace di raccogliere nella stessa cornice emozioni figlie di oltre venti film, che esplodono nel momento in cui tutti i personaggi entrano in scena per la battaglia finale: questo non è solo il momento in cui spettatori di tutte le età sono legittimati (dall'opera stessa) a non trattenere gli applausi, ma è anche la celebrazione di un'idea di cinema che in un decennio ha dato vita a un immaginario indimenticabile per almeno una generazione di spettatori (quella diventata adulta con questi film), tale da stracciare record su record al botteghino, avere un impatto incalcolabile su intere comunità e arrivare fino ai premi Oscar.

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Anthony e Joe Russo Robert Downey Jr. Chris Hemsworth Scarlett Johansson Chris Evans Mark Ruffalo Josh Brolin Jeremy Renner Karen Gillan Chadwick Boseman Tom Holland 181 minuti
USA 2019
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The Act

di Sara Mazzoni
the act - recensione serie tv hulu

The Act di Nick Antosca e Michelle Dean è una nuova serie antologica Hulu, basata su un delitto del 2015 reso celebre proprio da un articolo firmato da Dean. Se approcciate anche il true crime senza voler conoscere nulla dei fatti narrati, prendete questa introduzione come un avviso di spoiler, perché è impossibile discutere di The Act senza fare riferimento a ciò che accade nello show.

È una vicenda terribile, quella di Dee Dee Blanchard e sua figlia Gypsy Rose. Al centro di The Act e dei fatti che l’ispirano c’è infatti un rapporto madre-figlia morbosissimo e fondato su una particolare forma di abuso, la sindrome di Münchhausen per procura (già drammatizzata in film come Il sesto senso e The 9th Life of Louis Drax, e in serie come The Bridge e Sharp Objects). È un argomento che solletica l’interesse di chi scrive horror e thriller perché sovverte il canone della cura materna, che in questi casi diventa strumento di tortura sui figli inermi.

Preceduto da un documentario del 2017 e da un film Lifetime uscito a gennaio, The Act si distingue da questi sottogeneri della non-fiction con uno stile che tende al gotico ed estetizza le immagini – già di per sé iconiche – delle vere Gypsy Rose e Dee Dee, qui interpretate da Joey King e Patricia Arquette. Partendo dal rosa della casa in cui abitavano le due donne, The Act costruisce la propria scala cromatica in contrasto con la tetraggine dei contenuti e la violenza di alcune scene. Il concept stesso si basa su questa intuizione: The Act è un gotico alla Che fine ha fatto Baby Jane?, in cui le aspirazioni della protagonista Gypsy Rose sono influenzate da stereotipi fiabeschi assimilati attraverso la visione continua di film Disney. Il rosa rappresenta l’oggetto del desiderio di Gypsy, cioè la sua trasformazione in donna, ma anche la barriera creata da Dee Dee, che la infantilizza con costumi da principessa e cartoni animati. Gypsy è una persona ormai adulta, resa eternamente bambina dalla madre che la costringe su una sedia a rotelle – e sì, sembra un film dell’orrore, ma è la vera storia della famiglia Blanchard.

The Act ruota interamente attorno a questo punto e alle sue implicazioni. I primi episodi illustrano la violenza medica a cui Dee Dee sottopone Gypsy, secondo una logica narrativa decisamente horror. Ma fin dall’inizio la storia si concentra sullo struggimento di Gypsy per affermare la propria femminilità; la Gypsy di The Act è come una principessa maledetta che può mostrare le sue vere sembianze solo in determinate situazioni. Ancora prima della metà della stagione assistiamo alla trasformazione fisica della ragazza, che grazie a parrucche e trucco assume segretamente l’aspetto di una giovane femme fatale. La parte finale della stagione diventa quindi più classicamente true crime, con la progettazione di un delitto già annunciato dalla prima scena del pilot, la sua esecuzione e le sue conseguenze.

Uno dei punti di forza di The Act risiede nella capacità di scandagliare temi spinosi legati al rapporto madre-figlia e all’espressione della sessualità di una ragazza cresciuta nell’abuso. Quest’ultimo elemento si rivela il più conturbante della stagione. Essendo vissuta in una bolla in cui esistevano solo lei e la madre, il sesso per Gypsy è misterioso e incomprensibile, ma si traduce soprattutto in un atto simbolico. Nel quarto episodio, lo show mostra Gypsy che si masturba mentre fa sexting con il fidanzato virtuale Nick, nell’unico momento di vero e proprio piacere erotico che il racconto conceda al personaggio. Nelle puntate successive, vediamo i due giovani accoppiarsi in quello che appare un gesto scollegato dal piacere di Gypsy, un rituale dell’amore che la protagonista sembra avere appreso proprio da quelle narrazioni zuccherose e caste di cui è stata imbottita per tutta la vita. Dopo di ciò un elemento centrale sarà proprio il fallimento dell’ideale amoroso di Gypsy, che cerca disperatamente di rendere realistiche le logiche stereotipate della coppia eterosessuale che ha appreso dalla tv.

In The Act, viene resa giustizia agli aspetti più intimi di una vicenda dolorosa. È facile attribuirlo non solo a Dean e Antosca, ma anche a una writer’s room variegata e all’inclusione di numerose registe, a conferma del fatto che la televisione spesso è un ambiente meno escludente rispetto ad altri. La figura di Antosca è sempre più vicina a replicare il percorso di Ryan Murphy: proveniente dal team di Hannibal, Antosca si è affermato con la sua serie art horror Channel Zero, per passare a un modello eccentrico di true crime con The Act. Osservandolo, è impossibile non pensare alle serie antologiche American Horror Story e American Crime Story di Murphy, anche se Antosca ha uno stile personale, capace di distinguersi.

In comune con American Horror Story, The Act ha la presenza di dive dai volti iconici. In alcune delle parti principali abbiamo Patricia Arquette e Chloë Sevigny, a cui si aggiungono per poche scene la caratterista Margo Martindale, Juliette Lewis e Rhea Seehorn di Better Call Saul. L’utilizzo di queste attrici è però una delle occasioni mancate dello show. Per quanto spaventosa, Arquette risulta monocorde nella sua interpretazione dell’orchessa Dee Dee, forse più per una piattezza nella scrittura del personaggio che per la sua intenzione interpretativa; Sevigny è efficace in un ruolo “white trash” a cui ormai è abituata, ma il suo personaggio apre la vicenda come se dovesse avere una centralità che poi non si riscontra, scompare lungo l’arco narrativo, per riaffiorare inutilmente soltanto alla fine; perfettamente in parte è invece la Lewis, mentre Martindale e Seehorn appaiono sprecate nella puntata che le vede in scena (la sesta), con dei flashback che non aggiungono molto alla narrazione pur fornendo il background della villain Dee Dee.

L’altro problema dello show è quello che affligge spesso le serie originali dei canali di streaming: la durata eccessiva degli episodi e delle stagioni. Le puntate di The Act hanno un formato variabile che si assesta intorno ai 53 minuti; la stagione comprende ben 8 episodi, anche se la storia raccontata sembra richiederne meno, magari di lunghezza inferiore. Ciò si traduce in un rallentamento nello svolgersi della storia, che rimane meritevole d’attenzione anche col suo ritmo dilatato anche se è inevitabile domandarsi quale sarebbe stato il suo impatto con un formato più succinto. The Act risulta comunque un esperimento in parte riuscito, che aggiunge un tassello alle nuove narrazioni true crime della contemporaneità televisiva.

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Beautiful Things

di Giorgio Sedona
Giorgio Ferrero, Beautiful Things

Le cose sono, come nel classico esempio del bastone del cieco, le protesi che attraverso il corpo costituiscono la nostra mente. […] E questo dimostra sperimentalmente che il nostro Sé è fatto di cose almeno quanto è fatto di interazioni, pensieri, desideri.”  Michele Cometa - Perché le storie ci aiutano a vivere. La letteratura necessaria.

Per Cometa e per la sua disamina sull’evoluzione e costituzione della propriocezione del Sé le cose che dapprima realizziamo come utensili, e che poi acquistiamo in epoca consumistica, quindi che scegliamo di avere, rappresentano noi stessi; hanno vita, hanno un’agency, e sono portatrici di due tipologie di narrazione: narrazione della loro esistenza in quanto cose, e di una narrazione che ci riguarda, che ci autorappresenta. Giorgio Ferrero, e il dop Federico Biasin, tramite il loro sinfonico documentario Beautiful Things, ci riportano l’essenza della filiera consumistica attraverso una magistrale opera sonora che si rappresenta nel perfetto contrappunto tra uomo, merce, immagini, procedure, suono e cose. Ferrero, già compositore per il cinema insieme a Rodolfo Mongitore (Minus & Plus), parte dalla musica per definire un percorso di ideale contrappunto audiovisivo, dividendolo in quattro movimenti e micronarrazioni (Petrolio, Cargo, Metro e Cenere), in grado di raccontare il ciclo vitale degli oggetti e la narrazione di quattro personalità che lavorano nei quattro gradi della filiera. La produzione, e nascita dal Petrolio delle cose, ripresa negli spazi nei deserti texani, tra le rughe di un uomo che non vuole dimenticare il suono ascoltato da bambino, suono di ruggine e piattini percossi. Il trasporto Cargo, il muoversi delle cose nell’ordinabile economia capitalista, raccontato nei desideri di un marinaio e di un matrimonio desiderato ma reso impossibile. La scienza e la coscienza delle cose, il loro risuonare in una gabbia muta, nella camera anecoica, nelle misurazioni ordinate di un metronomo, e nei suoi ricordi incarnati di una madre e di una viola. La fine, l’oblio, il fuoco e la Cenere, la distruzione finale, negli spazi inceneriti di un termovalorizzatore, e nei fantasmi che genera nell’identità del suo esecutore materiale. Capitoli scanditi da un filmino home made che racconta la vita sociale della cosa, le relazioni che istaura con i nostri ambienti e con le nostre tempistiche di vita, un meccanismo narrativo nonché veicolo di un’affezione alla semplicità, al benessere, stessi principi e simboli con i quali Welles aveva caricato il termine “Rosebud”. «Nel finale del film volevo utilizzare come simbolo questa grande distesa di oggetti, a migliaia – e una di queste sarebbe stata Rosebud. Volevo che la macchina da presa mostrasse cose belle, brutte e anche inutili – insomma, tutto quanto può rappresentare vita privata e carriera pubblica. Volevo opere d'arte, ricordi, oggetti a cui il personaggio era sentimentalmente affezionato e cose da nulla.1» Nelle parole di Welles torna il classico esempio del bastone del cieco in precedenza richiamato da Cometa, le cose intese come protesi di un’identità che ci appartiene: cose, belle, brutte e anche inutili ma che ci rappresentano; opere d’arte, ricordi, oggetti a cui siamo affezionati. Gli stessi ricordi che diventano oggetti, nel tentativo registico, pienamente riuscito, di astrarre la materia visiva, focalizzando i ricordi delle quattro persone in immagini suscitate ed incarnate, e dandogli sostanza visiva, peso, anima, aprendo ad un’agency visionaria che giunge ad accomunare le cose ai ricordi. E se nel finale tutto brucia nella naturale parabola discendente della vita (umanamente oggettuale) dell’oggetto, nel mondo altro, nella nostra realtà, il consumismo contenuto nel centro commerciale viene violato da un’accesa danza catartica che disinnesca il senso di oblio merceologico dell’ultimo capitolo, aprendosi al movimento, all’inatteso, all’unione, al colore, alla festa e alla vitalità della relazione tra corpi, musica, suono e danza.

Beautiful Things è una scheggia sonora che folgora la superficie del cinema italiano. Un meraviglioso contrappunto di tuono sonoro e lampo visivo che illumina e scuote, per 94 intensi minuti, l’orizzonte e la visione.

 

Note

1 Dichiarazione di Welles contenuta in Filmidee, 29 Ottobre 2015 e diffusa dall'ufficio stampa della RKO il 15 gennaio 1941. Traduzione di Gabriele Gimmelli. Testo originale disponibile su wellesnet.com.

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Giorgio Ferrero 94 minuti
Italia, 2017
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Il grande inquisitore

di Giacomo Calzoni
Il grande inquisitore - recensione film Reeves

Incomincia con le urla strazianti di una vittima innocente, e finisce allo stesso modo. Il grande inquisitore, terzo e ultimo lavoro di Michael Reeves (1943-1969) prosegue e amplia a dismisura alcune tematiche suggerite già dai precedenti Il lago di Satana e Il killer di Satana per porsi, non senza un velo di genuina (e giovanile) presunzione, come il film della vita dell’autore inglese. Il che può apparire naturalmente una lettura fin troppo facile e di comodo, data la natura tragicamente testamentaria dell’opera: ma se è vero che la morte di Reeves, avvenuta pochi mesi dopo l’uscita nelle sale, ha inevitabilmente contribuito alla statura di culto raggiunta dal film nel corso dei decenni, non per questo va sottovalutata l’importanza de Il grande inquisitore all’interno del multiforme panorama europeo di genere dell’epoca.

Ambientato nell’Inghilterra del XVII secolo, durante la guerra civile che vedeva contrapposti gli eserciti di Cromwell a quelli di Re Carlo I, il film ruota intorno alla controversa figura di Matthew Hopkins, inquisitore che utilizza la sua missione di cacciatore di streghe come pretesto per esercitare al meglio il potere temporale concessogli dal ruolo, sfruttando di fatto l’ignoranza e la superstizione degli abitanti della provincia rurale più povera. Frutto di una coproduzione tra la britannica Tigon e l’American International Pictures di Roger Corman (che impose la presenza di Vincent Price nel ruolo di protagonista, costringendo Reeves a modificare non di poco un copione pensato inizialmente per Donald Pleasence), Il grande inquisitore è un film di rottura con la tradizione classica, quello che arriva a capovolgere gli equilibri più tradizionalisti e conservatori del genere; quasi la chiusura ideale del decennio d’oro del fantastico inglese, appena un attimo prima di intraprendere quella lunga china discendente che lo avrebbe visto soccombere dinanzi all’ondata rivoluzionaria del new horror proveniente da oltreoceano. Quasi, appunto: peccato infatti che qui di fantastico o soprannaturale non ci sia proprio nulla (e chissà come mai il film venga ancora classificato da alcune parti come horror, quando di fatto non lo è), dato che le streghe e il Maligno sono solamente gli spauracchi utilizzati da Hopkins per soddisfare i propri istinti sessuali più brutali. Fortemente osteggiato dalla critica dell’epoca a causa del suo alto tasso di violenza, ma allo stesso tempo rivalutato e riconosciuto come una delle rappresentazioni più realistiche dell’Inghilterra del Seicento, il capodopera di Reeves prende le distanze dal gotico europeo per cercare una strada diversa e del tutto personale, in grado di raccontare il mondo e gli uomini facendo completamente a meno del filtro sporco e scuro garantito dall’appartenenza a un genere.

Fondamentale allora in questo senso la fotografia di John Coquillon, che illumina  molti esterni già utilizzati come set da alcuni film della Hammer (il villaggio dell’impiccagione iniziale, per esempio) per rileggerli in chiave totalmente realista e prosciugata di qualsiasi elemento fantastico. E sempre proseguendo nel paragone con la Hammer (inevitabile dato il contesto storico e geografico, ma allo stesso tempo fuorviante), se i primi quattro film del ciclo di Dracula utilizzavano la figura del vampiro creato da Bram Stoker per mettere alla berlina l’ipocrisia bigotta e puritana della società inglese vittoriana (e quindi, per rimando, anche di quella contemporanea), allo stesso modo Reeves realizza un dramma storico pessimista e spietato che abbraccia una dimensione universale, perfettamente in grado di oltrepassare i confini tra le epoche. Un melò in piena regola che non rifiuta nemmeno la convenzione narrativa dell’amore tragico dei giovani amanti, tipica di molte produzioni horror inglesi e che qui si trasforma nel vero e proprio riflesso di un presente drammatico e oscuro, in netta antitesi con i fasti edonisti della Swinging London.
Si corre spesso e forsennatamente, nel film: si corre per raggiungere un oggetto del desiderio, o nel tentativo di fuggire da un destino scritto da altri e che non si riconosce come proprio. Ma a soli venticinque anni Reeves già credeva in una Storia  dominata dal caos, in cui persino gli uomini e le donne mossi dalle migliori intenzioni si rivelano strumenti manovrati dal Male; quello che rimane, alla fine, è soltanto una natura bellissima e impassibile (il silenzio di Dio) e le urla di chi è condannato a restare vittima sacrificale. Il vaso di Pandora si è spalancato: tutto il folk horror inglese successivo nasce da qui, da Satana in corpo (Cry of the Banshee, 1970, sempre interpretato da Price, quasi un remake ma più ancorato alle regole di genere) fino ai seminali La pelle di Satana (The Blood on Satan’s Claw, 1971) e The Wicker Man (1973), per non parlare, naturalmente, dell’influenza avuta su I diavoli (The Devils, 1971) di Ken Russell. Non è affatto cosa da poco.  

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Michael Reeves Vincent Price Ian Ogilvy Rupert Davies Hilary Dwyer Patrick Wymark 86 minuti
USA, Gran Bretagna 1968
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Il ragazzo che diventerà Re

di Matteo Berardini
Il ragazzo che diventerà re - recensione film cornish

Pubblico negletto quello formato da spettatori in età pre-adolescenziale, specie se parliamo di cinema del fantastico. Tolti i periodici film d’animazione – alcuni dei quali, comunque, pensati per un target  più adulto – resta davvero poco al cinema per i bambini che vanno dagli 8 ai 13 anni, fascia d’età che si pone al confine di quell’esplosione narrativa teen che li sfiora appena senza coinvolgerli pienamente. Sale e librerie sono invase ancora dagli echi del successo di Twilight, ma per quanto riguarda i bambini è dai tempi dei primi Harry Potter che non si vede un prodotto commerciale forte pensato appositamente per loro. È in questa disparita – narrativa e commerciale – che si pone Il ragazzo che diventerà Re, fiaba arturiana dall’afflato fantasy e dalla morale cristallina, racconto di formazione classico e immaginifico che ben si addice all’attivismo giovanile e ambientale di questi giorni.

Scritto e diretto da Joe Cornish, che aspettavamo di nuovo in sala dal 2011, quando uscì il delizioso Attack the Block – Invasione aliena, il film è un tentativo di aggiornare la figura immortale di Artù all’attuale momento storico per mettere in risalto l’importanza di avere leader nobili e sicuri che guidino la comunità. Il ragazzo che diventerà Re mette in campo tanti elementi del Ciclo bretone, da Excalibur alla Tavola rotonda, ma quello a cui guarda Cornish è il cambio generazionale che coinvolgerà le prossime istituzioni europee. Attraverso spade invincibili, magie e creature infernali, il film cerca di promuovere la consapevolezza degli uomini di domani, di cui si sottolineano le responsabilità individuali ma soprattutto le capacità di incidere attivamente nella vita della comunità. Nobili intenti, dai quali però Cornish ricava un film che convince a tratti, sbilanciato nella scrittura e poco incisivo dal punto di vista visivo. Salvo l’ultima mezz’ora, gran finale che accende l’emozione e regala sequenze molto suggestive, Il ragazzo che diventerà Re non riesce a trasformare la reinvenzione del mito in magia sullo schermo; limitato anche da un budget non adeguato, il film cerca di compensare calcando l’aspetto formativo che coinvolge tutti i personaggi, ma viene a mancare un senso dell’epica e del fantastico che possa valorizzare e rilanciare quella crescita morale. In particolare la parte centrale sembra affossarsi per l’assenza di idee; qui il confronto con la figura paterna da parte del protagonista si risolve in un nulla di fatto, mentre tutta l’emozione viene demandata con troppa facilità al grande finale.

Un peccato, perché l’operazione pensata da Cornish (comunque in parte riuscita) è esattamente la cura contro il cinismo di cui oggi abbiamo bisogno; non avremo un altro cult come Attack the Block, ma Il ragazzo che diventerà Re resta un racconto fantastico che senza pudore si pone al livello del suo pubblico così giovane, bambini insicuri e assetati di magia di cui corteggia la fantasia e il senso morale tenendogli la mano, affinché in futuro possano a loro volta volgerla a favore di altri. Proprio come farebbe un cavaliere arturiano, proprio come può fare un vero leader.

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Joe Cornish Louis Ashbourne Serkis Patrick Stewart Rebecca Ferguson 120 minuti
Gran Bretagna 2019
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Stanlio & Ollio

di Matteo Marescalco
Stanlio & Ollio - recensione film Baird

Non c'è niente di più triste dell'ultimo commiato che giunge alla fine di un lungo e duraturo rapporto di amicizia. In fin dei conti, è proprio il rapporto umano tra i due protagonisti il cuore pulsante di Stanlio & Ollio, diretto da Jon S. Baird e scritto da Jeff Pope, lo sceneggiatore di Philomena. I volti e i corpi di Steve Coogan e di John C. Reilly hanno l'ingrato compito di caricare su di sé l'eredità di due miti dell'immaginario collettivo: Stan Laurel e Oliver Hardy, più noti, in Italia, con i nomignoli di Stanlio e Ollio. Prima di ogni altra cosa, è opportuno soffermarsi sulle interpretazioni dei due attori, le cui paralizzate smorfie di tristezza contribuiscono a rendere autentico il tono crepuscolare che pervade il film per tutta la sua durata.

Fin dall'inizio, infatti, ambientato nel 1937, anno in cui Stanlio e Ollio sono all'apice della carriera e ancora sotto contratto con Hal Roach, serpeggia un velo di malinconia, come se i fantasmi dell'invecchiamento e della stanchezza avessero iniziato ad agire anzitempo. Coogan e Reilly vivono sulla scena come un corpo solo, un po' come i due mostri sacri della comicità che impersonano, dando vita ad una particolare sinergia che vive delle reciproche inadeguatezze. Dopo il prologo ambientato negli anni '30, si vola al 1953, anno in cui Laurel e Hardy, sopra i sessant'anni e ormai lontani dalle scene, partono per un tour teatrale in Gran Bretagna con la speranza di rinverdire il loro successo e di girare un nuovo film su Robin Hood. Il pubblico delle esibizioni è tristemente esiguo ma la loro arte riesce ancora a risplendere nelle risate degli spettatori. Tuttavia, fantasmi mai sepolti e i problemi di salute di Oliver minacciano il sodalizio, conducendo all'inevitabile declino umano, fisico e professionale.

Stanlio & Ollio è un biopic esemplare, frutto di un attento lavoro attoriale e di scrittura. Il viale del tramonto appassionato si unisce all'omaggio all'arte comica del duo attraverso una ricostruzione minuziosa del metodo delle gag. Il racconto del peregrinare per l'Inghilterra di Stan e Oliver non può fare a meno di soffermarsi su tutte le presunte situazioni comiche extra-scena, individuando proprio in esse il nucleo primordiale di alcuni sketch del duo. Le trovate della coppia sembrano sempre nascere dalla casualità e da un lampo improvviso che minaccia di scatenare tutta la propria vis comica. Nella sua invisibilità, il decoupage classico sa bene come creare un'operazione sentita e commovente che restituisca i tocchi candidi e la magia di una coppia senza tempo.

Il naturale ed indispensabile contraltare ai tanti momenti comici è la presenza di un senso di disperazione che scaturisce proprio dalla consapevolezza della caducità. Il racconto, in fin dei conti, porta in scena un commiato all'arte e alla vita, un silenzioso addio da nascondere persino a sé stessi. Non era affatto semplice ottenere un insieme così significativo e denso a livello emotivo. Eppure, è proprio grazie alla sua classicità e coerenza che è possibile abbandonarsi ad un film che bagna gli occhi e riscalda il cuore, convenzionale nella struttura ma in grado di restituire la forza dell'immaginario.

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Jon S. Baird Steve Coogan John C. Reilly Danny Huston Shirley Henderson 98 minuti
Canada, Regno Unito, USA 2018
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Senza lasciare traccia

di Tamara Gasparini
Senza lasciare traccia - recensione film Granik

Debra Granik ritorna, otto anni dopo Un gelido inverno, a una storia di marginalità, resistenze e sopravvivenza. Una storia di padri e figlie, di convivenza e divergenza, di bisogni e abbandoni, dentro un’America che sceglie di curare i propri traumi lontano dal progresso, alla ricerca di nuove (e vecchie) frontiere, tra civiltà e wilderness, dove rifondare se stessiSenza lasciare traccia ci immerge nel verde dei boschi del grande Nord Ovest americano, nei dintorni di Portland, e racconta la “disobbedienza civile” del reduce di guerra Will (Ben Foster) e della figlia preadolescente Tom (la nuova scoperta Thomasin Harcourt McKenzie), osservati nel loro simbiotico adattamento a una natura edenica e incontaminata, divenuta, da tempo, casa (per Tom) e rifugio (post-traumatico per Will), fino a che rangers e assistenti sociali non li scoprono per integrarli (invano) in un ordine sociale prestabilito.

Frontiere geografiche e frontiere interiori si mescolano in questo film che è una tenera ballata sulle relazioni umane e sulle corrispondenze tra individui e luoghi in cui vivere. Lo sguardo della Granik si posa amorevolmente sulle figure degli esclusi di questa America remota e poco conosciuta. In Un gelido inverno era una giovanissima Jennifer Lawrence ad agire in un mondo rurale e feroce di povertà atavica, in cui imparare a sopravvivere dopo la scomparsa di un padre finito chissà dove. Nel documentario Stray Dogs i bikers veterani del Vietnam sono outsiders come Will, guastati dalle politiche del paese e troppo fuori controllo per integrarsi (ancora) nella macchina sociale che li ha creati.  

Leave No Trace - ispirato al romanzo My Abandonment (2009) di Peter Rock - respira letterariamente Walt Withman e la vita nei boschi del Walden di Thoreau, ma si nutre anche delle canzoni di Woody Guthrie, degli inni alla libertà del viaggio della cultura beat, del nomadismo hobo e dello spirito pionieristico alla base della fondazione del paese. Si appropria dei miti fondativi della cultura americana senza però romanticizzare nulla. Molto lontano da un film gemellare per tema (ma sensibilmente differente) come Captain Fantastic, più caustico e appariscente, l’opera della Granik si rivolge a uno spaccato umano vicino a certi lavori di Kelly Reichardt (soprattutto Old Joy e Wendy and Lucy) nel trattare un Altrove americano da attraversare per trovare il proprio posto, calando la storia in un minimalismo narrativo privo di climax, senza indicare cosa è giusto, senza eroi e senza antagonisti, al riparo da facili sentimentalismi e lezioni morali.

Lo stile è dimesso, l’occhio della regista, discreto e ravvicinato ai personaggi, aderisce al loro sentire e al respiro della foresta; a tratti ha un incedere documentaristico, come se volesse cogliere, con interesse antropologico, le relazioni all’interno delle comunità più sperdute di un’America viscerale - nascosta allo sguardo di un turista ma profondamente reale - che non cerca un paradiso perduto ma ha smarrito da tempo la fiducia nelle promesse di un sogno (o semplicemente a quel sogno non ha mai creduto).
Padre e figlia non riescono a fare dell’America urbanizzata moderna un posto in cui sentirsi a casa e troveranno durante la fuga da ogni integrazione possibile altri individui come loro. Uomini e donne che vivono in case mobili, senza possedere nulla se un desiderio di isolamento e libertà. Troveranno canzoni intorno al fuoco dove ritrovarsi per stare insieme. Non c’è solitudine, non c’è l’America spietata e crudele di Un gelido inverno qui. C’è il cuore di un paese che viene in soccorso gli uni degli altri, come dentro un alveare.

Il film segue l’evoluzione del legame padre-figlia trasformando il racconto in un coming of age. Mentre Will si porta dentro i disturbi di una guerra che sta ancora combattendo con se stesso, impossibilitato a vivere sotto un tetto che non sia quello della volta celeste delle foreste dell’Oregon, Tom sviluppa un desiderio diverso a quello del genitore che costringerà entrambi a un duro confronto e maturazione.
Leave no trace è una folk song d’amore tra un padre e una figlia - che imparano l’uno dall’altra vicendevolmente ad aiutarsi e lasciarsi liberi di trovare il proprio posto nel mondo - ma anche tra un’autrice e il paesaggio umano che popola i margini, senza urlare denunce ma con sguardo emotivamente e umanamente partecipe.

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Debra Granik Ben Foster Thomasin McKenzie Jeff Kober Dale Dickey 109 min
USA 2018
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