Piercing

di Andreina Di Sanzo
piercing-2018-nicolaspesce

I am very happy / So please hit me / I am very, very happy/ So please hurt me cantava Antony nella sua Cripple and the Starfish, uno dei pezzi più tragicamente innamorati del dolore. L’amore e la violenza, questi due illustri conosciuti, su cui tanto si è scritto e visto, i giapponesi, maestri del dittico, hanno raggiunto vette con registi come Oshima, Miike e Ryū Murakami. Proprio lui, autore del romanzo da cui è tratto Piercing. Il freddo latex di Tokyo Decadence lascia spazio alla voluttuosa pelliccia della venere Jackie, interpretata da Mia Wasikowska, crudele vittima e dolce carnefice del suo rapitore.

Reed è un uomo distinto che con meticolosa normalità e accurata eleganza sta per lasciare sua moglie e sua figlia, preparandosi per un apparente viaggio di lavoro, un senso di incontrollata violenza già si percepisce dai primi minuti del film di Nicolas Pesce, classe 1990. Un film che come tanto horror contemporaneo ancora una volta si guarda allo specchio, tentando da un lato di sovraccaricare la forma, dall’altro svelandone subito i meccanismi, aggrovigliandosi nei rimandi e nell’aspetto più squisitamente ludico ma aprendo un discorso più ampio sull’eredità del cinema di genere.

Una prostituta un po’ annoiata viene chiamata da un cliente, forse un serial killer, forse un sadomasochista dei più raffinati e brutali. Nessuno sa cosa nasconde l’altro, nessuno sa quanto può essere rassicurante e pericoloso allo stesso tempo chi si ha di fronte. La commedia va in scena, il gioco tra la Venere e il suo Severin inizia. Ognuno nel suo ruolo che diventa dell’altro. Split screen, rossi accesi e Goblin, il regista non fa mistero della sua devozione al nostro cinema più efferato e abbagliante e, così come la coppia belga Cattet-Forzani (Amer, L’étrange couleur des larmes de ton corps e Laissez bronzer les cadavres!), si inchina al dio Argento e saccheggia con una certa spavalderia musiche, dettagli, messa in scena, cromatismi.

Reed e Jackie, necessitano di quella commedia, il gioco di ruoli diventa linfa e, più riconoscono sé stessi nell’altro, più danno sfogo al desiderio, favorendolo e assecondandolo.  
Ma se per Paul Thomas Anderson la battaglia per l’affermazione e la sottomissione diventa una questione tutta mentale tra i fili nascosti, qui si dà libero sfogo a torture fisiche che non lasciano spazio all’immaginazione. Corpi legati, imbavagliati, drogati fino a impedirne qualsiasi movimento, ripetute ferite autoinferte, allucinazioni visive, tutto quello che il sadomasochismo e il feticismo più estremo contemplano e prevedono. Reed e Jackie si incontrano per ritrovarsi.
Non vuole neanche sorprendere con twist inaspettati Piercing, quello che accade ai protagonisti è già un topos ampiamente conosciuto. Da rimandi alti come von Sacher-Masoch, il divin Marchese, Pauline Réage, a tanto cinema che ha reso celebri storie di vittime e carnefici, dipendenza e (e dal) dolore: Maîtresse di Barbet Schroeder, Bad Timing di Nicolas Roeg, fino all’ultima prodezza appunto di Paul Thomas Anderson. La storia di Reed e Jackie è già lì nonostante il futuro resti sempre incerto.

Dramma d’interni quello di Piercing, prima la camera d’albergo poi la casa della ragazza, la città solo per pochi attimi. La storia d’amore tra i due germoglia nel dolore e nella dolcezza che ne scaturisce subito dopo, ma accade lontano da tutti, fuori dalle luci della metropoli e nascosti tra le mura dei desideri e delle pulsioni più inconfessabili.
Humor nero e grottesco sono la cifra di un film che non si sofferma alla mera superficie di un omaggio allo splendore di quell’horror che non c’è più, Piercing è sì un esercizio smaliziato e accattivante, ma è anche una tenera storia di disperato bisogno di comunione.
L’ostentato manierismo estetico che volutamente infastidisce è solo il contraltare di una più semplice voglia di utilizzare quella superficie scintillante per inoltrarsi nei più neri, ma talvolta basilari, istinti.
Il bisogno primordiale di ritrovare in quella preda, il padrone che possa sfamare la necessità di godimento e che sia anche qualcuno a cui poter dire “Mangiamo prima?”

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Nicolas Pesce Mia Wasikowska Christopher Abbott 81 minuti
USA 2018
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Takara - La notte che ho nuotato

di Domenico Saracino
takara - recensione film Manivel e Igarashi

È un film breve (meno di 80 minuti) ma fascinosamente dilatato, Takara – La notte che ho imparato a nuotare, opera a quattro mani realizzata da un insolito duo franco-nipponico, composto da due giovani registi selezionati e apprezzati nei grandi festival internazionali: Damien Manivel, autore con alle spalle diversi cortometraggi e due lunghi  (Un jeune poète e Le parc) e Kohei Igarashi, creatore di Hold Your Breath Like a Lover, in concorso a Locarno diversi anni fa nella sezione Cineasti del presente.

Dilatato, si diceva, in virtù di una certa tendenza a godere della durata dell’inquadratura e della generale distensione ritmica, riconducibile ad un montaggio modico, limitatissimo, alla camera fissa e ai prolungati silenzi (i dialoghi sono del tutto assenti); e quindi audace nella relazione tutt’altro che consueta che cerca con lo spettatore, come certo slow cinema a cui alcuni grandi autori (Lav Diaz, Tsai Ming-liang, Chantal Akerman, Pedro Costa, Béla Tarr, Andrej Tarkovskij, Nuri Bilge Ceylan, Šarūnas Bartas, Lisandro Alonso e molti altri) hanno nel tempo abituato i cinefili di tutto il mondo.

Un'affinità, quella tra Takara e molte delle opere realizzate dai succitati cineasti, che – è bene precisarlo – riguarda, esclusivamente, una comparabile concezione del tempo e del ritmo della (non) narrazione, un’analoga concezione del cinema come dispositivo capace di imporre la durata, di imprimere lo scorrere del tempo nello schiudersi dell’immagine, di scolpirlo, come avrebbe detto Tarvoskij.
Nel raccontare la singolare giornata di un bambino ritrovatosi accidentalmente alla scoperta dei dintorni della sua casa, tra le montagne innevate del Giappone, per via del senso di solitudine in cui l’assenza del padre lo ha relegato e di un coraggioso tentativo di ricongiungersi con lui al mercato del pesce in cui lavora sin da tarda notte, il film di Manivel e Igarashi si sofferma deliberatamente sui momenti drammaticamente più marginali, quelli che potremmo definire i tempi morti del racconto: i lenti spostamenti a piedi (che fanno pensare, pur con tutt’altra estetica e più radicale sperimentazione, alle interminabili passeggiate sotto la pioggia di Sátántangó), le sigarette fumate e le patatine sgranocchiate nella casa silente, all’alba, un mandarino sbucciato con la calma serena dell’infanzia.

È un cinema, questo, che mette a dura prova lo spettatore assuefatto ai fast cut, all’azione frenetica e sfavillanti effetti speciali, chiedendogli, piuttosto, di imparare a star dentro quadri filmici semplici, svuotati da ogni spettacolarizzazione e persino drammatizzazione, di godersi il puro svolgersi delle cose, istante per istante. Con l’azzardo consapevole di flirtare con la noia o meglio con la deliberata intenzione di farne buon uso, essendo l’otium, come inteso dai nostri ben più saggi avi, uno spazio di liberazione dalle frenesie mondane, di esplorazione dell’interiorità, di contemplazione. Che è poi ciò che consente agli occhi di vedere le cose in tutta la loro quiddità, nella loro esistenza più vera, affrancata dalle deformazioni del pensiero. Cinema del nulla (il “Mu” inscritto sulla lapide di Ozu, uno dei grandi precursori nipponici, insieme a Mizoguchi, dello slow cinema), cinema che non fa violenza al pensiero incalzandolo e ingabbiandolo tra le maglie di fitti intrecci di avvenimenti, cinema della mindfulness.

In questo (r)allentamento delle tensioni drammatiche, in questa assenza di elementi di distrazione dall’immagine e dalla sua durata, lo spettatore può così sperimentare un accrescimento della propria sensibilità, un potenziamento della capacità percettiva, il godimento del cinema pienamente dispiegato, non più asservito alla dittatura dell’intrattenimento.

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Damien Manivel Kohei Igarashi Takara Kogawa Keiki Kogawa Chisato Kogawa Takashi Kogawa 79 minuti
Francia, Giappone 2017
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Destroyer

di Mattia Caruso
Destroyer - recensione film kusama

In tempi di revenge movie tutti giocati in chiave action e adrenalinica (da Taken a John Wick), è curiosa la scelta intrapresa da un prodotto a questi solo apparentemente assimilabile come Destroyer, ultima fatica della regista statunitense Karyn Kusama. Perché la discesa agli inferi del detective Erin Bell (Nicole Kidman), ex agente federale tormentata dal peso del passato e da una missione sotto copertura finita in tragedia, è quanto di più lontano si possa immaginare da qualsiasi fiero prodotto di serie b, quanto di più distante da un approccio fumettistico e rabbioso a una materia che pare comunque inesauribile.

Alla sua sesta regia, Kusama sceglie così, per la sua storia fatta di sensi di colpa e redenzione, di percorrere una strada più riflessiva e sofferta, contaminando la spirale di violenza scatenata (involontariamente?) dalla sua protagonista con tinte cupe e crepuscolari, prendendosi tutto il tempo che serve per svelare un mistero a questa legato indissolubilmente.
Per farlo mette in scena tutti gli elementi del più classico dei noir metropolitani - da una Los Angeles fatta di ville e bettole a un passato che ritorna con il suo carico di rimpianti e di crimini insoluti - scomponendoli, però, attraverso il proprio sguardo peculiare e costruendoci attorno un film in cui è proprio il peso del passato a dettare regole e sezionare l'azione, in una struttura circolare dove i diversi livelli temporali e narrativi (così come gli stessi generi cinematografici: dal poliziesco all'heist movie) si alternano senza sosta fino a far collassare il tempo su se stesso.

E se poco o niente rimane del precedente (e sorprendente) The Invitation (fatta eccezione per le dinamiche quasi settarie della banda di criminali capeggiata dal mansoniano Silas di Toby Kebbell), è alle origini del proprio cinema e all'esordio di Girlfight, con quella donna forte e sola in mezzo a un mondo di uomini, che pare guardare ancora una volta Kusama, mantenendosi, però, questa volta, lontana da qualsivoglia discorso di genere (segnando così le distanze anche da prodotti recenti come il Revenge di Coralie Fargeat) e dando vita a un personaggio decisamente negativo, un antieroe irrimediabilmente compromesso ma desideroso di riscattarsi da un male che, in definitiva, ha contribuito a creare.
È qui, dove Dirty Harry incontra l'Abel Ferrara de Il cattivo tenente, che Destroyer dà vita a un calvario sofferto e degenerato, un tentativo di espiazione incapace, però, di andare al di là delle più abusate convenzioni del genere, perso com'è attorno alla sua camaleontica interprete, una Nicole Kidman invecchiata e imbruttita sopra le cui esili e malconce spalle pare posato tutto il peso dell'operazione.

Il risultato è un'opera suggestiva ma scostante, forte delle sue atmosfere e del suo nichilismo senza speranza, dove gli ideali precipitano nel baratro dell'avidità e la fascinazione per il male diventa una condanna che si mangia amori, affetti e qualsiasi possibilità di una vita normale, ma anche dove la suspense (a differenza di un film costruito proprio sull'attesa e sul disvelamento progressivo come era The Invitation) rischia di perdersi lungo la strada, penalizzata da un minutaggio eccessivo e da rallentamenti dell'azione a tratti gratuiti ed estetizzanti, fino a un epilogo che ha tutto il sentore di un prevedibile ed esibito martirio laico, tutta la consapevolezza di un'occasione (in parte) mancata.

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Karyn Kusama Nicole Kidman Toby Kebbel Sebastian Stan Tatiana Maslany Bradley Whitford 123 minuti
USA 2018
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Likemeback

di Arianna Pagliara
Likemeback di Leonardo Guerra Seragnoli

Difficile, dopo un esordio insolitamente maturo, limpido ed elegante come Last Summer (2014), realizzare un’opera seconda che possa superare – o quantomeno eguagliare – l’espressività e la sorprendente compiutezza, non solo formale, della prima. Perché oltre all’ottima intuizione di base – la storia, tutta girata su un’imbarcazione, di una madre che ha quattro giorni di tempo per dire addio al suo bambino – il primo film di Leonardo Guerra Seràgnoli vanta la collaborazione alla sceneggiatura di Banana Yoshimoto, i costumi di Milena Canonero e la progettazione dello yacht – spazio fisico che si fa emotivo, racconto di una claustrofobia che è anzitutto interiore – di Odile Decq.

Difficile, ma non impossibile. Con Likemeback il regista mette in campo un discorso attualissimo e scottante, che è – di conseguenza – territorio più che noto, fin troppo esplorato, descritto, raccontato: il rapporto delle nuove generazioni con il web e i social network e dunque, per traslato, con le modalità di costruzione, rappresentazione e veicolazione della propria immagine, divenuta in questo senso un perno identitario irrinunciabile.

Il rischio era, come è facile intuire, quello della ripetizione, della banalizzazione, della programmaticità. Tuttavia Seràgnoli riesce a eludere queste potenziali insidie con una regia fresca e ricca d’immediatezza, grazie a una macchina presa il cui sguardo aderisce quasi sensualmente ai corpi e ai volti delle tre protagoniste femminili. Lo spettatore viene così trascinato dentro allo spazio ovattato e avvolgente di questa intimità condivisa fin quasi a violarla. Intimità che, qui come nel precedente film, è a tratti forzata e dunque claustrofobica: perché anche Likemeback è girato quasi interamente su una barca. All’interno di questo perimetro ristretto è impossibile celare o elaborare privatamente le emozioni, e l’estrema prossimità fisica spalanca distanze interiori, quasi fosse un detonatore che fa esplodere contrasti e impulsi che altrimenti sarebbero forse rimasti sopiti.

Il pretesto per questo viaggio in barca lungo le coste della Croazia è l’esame di maturità che le ragazze – Lavinia, Danila e Carla – si sono lasciate alle spalle. Ma la realtà – fatti di luoghi, colori, odori, persone – per le protagoniste è solo inerte sfondo su cui fotografarsi nella speranza di ampliare il numero dei followers su Instagram. Solo Carla, infine, farà eccezione: più silenziosa e sensibile, all’apparenza remissiva e spesso schiacciata dalle prepotenze e dall’egocentrismo delle (presunte) amiche, si rivela invece l’unica in grado di vivere serenamente e spontaneamente le proprie esperienze (l’amore) e gestire con equilibrio e coraggio le proprie emozioni (la rabbia, la delusione).

Likemeback è un film sul presente, sull’alienazione, sul narcisismo, sulla “vetrinizzazione” dell’io e del corpo ricercata e voluta da un soggetto (Laviania, Danila) che si autoesalta oggettivandosi; è un film sul cortocircuito tra reale e virtuale, tra presenza e assenza (“i followers non sono persone reali”); è una spietata messa a nudo del terribile e irreversibile meccanismo con cui, sovraesponendo la nostra immagine, sovraesponiamo anche la nostra – fragile – interiorità. Ma è anche un coming-of-age in grado di travalicare i confini entro i quali, in un primo tempo, sembra voler svilupparsi. Perché al di là dell’attenta ed efficace analisi delle tendenze quasi autistiche e monomaniacali derivanti dall’utilizzo esasperato e compulsivo dei social, Likemeback sa sviluppare un’accurata disamina, per nulla scontata, dei sentimenti: l’invidia, vero input pulsionale che spinge le protagoniste alle azioni più abiette, l’insicurezza, l’affetto, il desiderio.

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Leonardo Guerra Seragnoli Durata: 80 minuti
Italia, Croazia, 2018
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Last Summer

di Riccardo Bellini
Last summer - recensione film Serragnoli

In Last Summer (2014), verso la fine, e più precisamente appena dopo che si è finalmente stabilito quel contatto tra madre e figlio faticosamente inseguito, anelato per tutto il film, Naomi (Rinko Kikuchi) racconta al figlio Ken (Ken Brady) la leggenda di un’isola giapponese secondo cui, stando stesi sulla spiaggia e fissando il sole a una data ora del giorno, è possibile incontrare il Dio del mare. Chiunque lo incontri riceve in dono la facoltà di viaggiare per tutto il mondo in un istante. Il lungometraggio d’esordio di Leonardo Guerra Seràgnoli è appunto un film sul superamento dei confini spazio-temporali attraverso la forza dei sentimenti. Naomi ha solo quattro giorni su uno yacht, assediata da un equipaggio silenzioso ma invadente, per riconquistare l’affetto del piccolo figlio Ken, sottratto alla madre e affidato alle cure del padre che non vediamo mai, per una colpa commessa dalla donna tempo fa e di cui non sapremo mai nulla. Terminate queste poche ore, Naomi dovrà allontanarsi dal figlio per undici anni, prima di poterlo rivedere.

Opera di barriere fisiche ma soprattutto emotive, dove distanza e separazione determinano e configurano la messa in scena a partire da un calibrato lavoro sullo spazio che si fa totalizzante, cuore pulsante di un’operazione registica rivolta con intensità a un cinema di silenzi e gesti quotidiani vivo soprattutto nel panorama asiatico, e in particolare in quello coreano (assieme al graphic novelist italiano Igort, contribuisce alla sceneggiatura anche la scrittrice giapponese Banana Yoshimoto). Seragnoli sfrutta abilmente la costrizione imposta dagli spazi angusti dello yacht, in cui si dipana la ricerca d’amore materno di Naomi, per ingigantire la distanza affettiva - e culturale - tra una madre e un figlio separati da tempo. Alla vicinanza estrema determinata dalla logica dell’ambiente corrisponde il massimo della distanza sentimentale che andrà limata sempre più, ora dopo ora, tentativo dopo tentativo, fino a risvegliare quel rapporto sopito, mai totalmente dimenticato. Specchi e superfici riflettenti producono a più riprese effetti illusori che disorientano la prospettiva, - così come alcune false soggettive -, suggerendo lo spaesamento provato da Naomi, la cui identità di madre lotta per riaffermare sé stessa e riconoscersi attraverso il contatto a lungo inseguito col figlio. Quasi tutto comunica in assenza (le telefonate del nonno paterno di Ken che non compare mai) o attraverso ostacoli (Naomi e poi lo stesso Ken origliano sovente ciò che accade in altre stanze).

In Last Summer, all’isolamento in cui sono costretti i personaggi, a partire dal micro mondo familiare creato dai confini che la barca e la sconfinata distesa d’acqua segnano intorno a loro, corrisponde un secondo e più subdolo isolamento, quello a cui l’equipaggio dello yacht, istruito dal padre di Ken, tenta di relegare Naomi, allontanando la donna dalle simpatie del figlio. L’unica risposta possibile a questa strategia di esclusione è allora trovare le coordinate emotive per rifugiarsi in un altro tipo di rapporto esclusivo, basato però su legami più profondi rispetto alla semplice educazione impartita e subita, quello tra una madre e figlio in cui ad essere lasciato fuori è il resto del mondo. Una progressione precisa che porta, dalla comunicazione degli sguardi, passando per la lingua giapponese sconosciuta ai membri dell’equipaggio con cui Naomi inizia a rivolgersi a Ken, fino al contatto fisico in riva al mare, quando il film comincia a respirare liberandosi, anche se forse solo per un attimo, dalla logica angusta dettata fino a quel momento dallo spazio.

I quattro giorni volgono al termine, ineluttabili, lasciando davanti a sé la consapevolezza della crudeltà del tempo, ma, al tempo stesso, la riconquistata fiducia in un legame pronto a superarne la prova. Per Naomi la breccia è stata aperta e non solo nel figlio Ken. Seràgnoli, con sguardo delicato e millimetrico, ci regala prima del congedo definitivo della protagonista, un ultimo e insperato contatto umano, rigorosamente silente, tra la donna e il capitano dell’equipaggio, in una stretta di mano che ha il sapore di una speranzosa e commossa conquista.

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Leonardo Guerra Seragnoli Rinko Kikuchi Ken Brady 94 minuti
USA 2014
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John Wick 3 - Parabellum

di Matteo Berardini
john wick 3 parabellum - recensione film

Bossoli che piovono sul pavimento, lame che trapassano le carni, l’impatto violento di corpo su corpo, lividi, fratture, urla, l’odore acre di cordite sospeso nell’aria. Prosegue con Parabellum la lunga notte di John Wick, il killer malinconico con cui Keanu Reeves, Chad Stahelski e David Leitch hanno conquistato nel 2014 il mondo action hollywoodiano riportando al centro della scena la spettacolarità degli stunt e l’eleganza del kung fu. È ancora l’onda lunga di The Raid, la lezione di una violenza dalle coreografie raffinate e assieme brutali restituite spesso in camera fissa e tempi di montaggio più dilatati, se non piani sequenza che diventano vere e proprie composizioni musicali di combattimenti e conflitti a fuoco. Non a caso John Wick 2 porta con sé lo stesso limite di The Raid 2: Berandal, il tentativo fallito di replicare la stilizzazione action unendola al respiro epico di una narrazione criminale più vasta e complessa; mancava di incisività e immaginazione visiva John Wick 2, lontano dalla coerenza impeccabilmente b movie del primo capitolo. Tanto di cappello a Reeves e Stahelski allora, perché Parabellum è una fenomenale rinascita della saga, il capitolo finora più riuscito, affascinante e sorprendente, che trova la quadra del cerchio equilibrando perfettamente parossismo visivo e fiducia cieca nel personaggio.

Dopo un lungo incipit notturno che si collega direttamente al capitolo precedente, Parabellum riprende l’esplorazione dell’underworld criminale abitato da John Wick, regole e rituali di un mondo che sembra sempre meno sotterraneo ma piuttosto parallelo e contiguo al nostro, tanto è ramificato e onnipresente e globalmente pervasivo. Dietro ogni barbone si nasconde un informatore, dietro ogni ristorante cinese una squadra di killer dai talenti marziali, la violenza può esplodere nel mezzo delle strade e degli spazi pubblici ma in qualche modo è sempre non vista, nascosta in pieno sole. Parabellum approfondisce l’indagine di quest’organizzazione criminale ma riesce a farlo sempre e comunque attraverso l’azione, concatenando tra loro sequenze memorabili che pompano adrenalina e stupore mentre si gioca sempre meglio con i limiti del fisicamente possibile. Certo, il film gira su sé stesso e su quanto accaduto in precedenza, reitera situazioni e soluzioni narrative, non sfugge a una certa macchinosità dell’intreccio, seppur basilare, eppure tutto resta magnificamente in piedi e di più, vola a livelli inediti di spettacolarità e creatività visiva in un’escalation adrenalinica che non rinuncia mai al movimento per raccontare la sua storia. Tra cavalli, moto, sale wellesiani di specchi e inganni riflettenti, Parabellum è anche un film assai generoso con i suoi personaggi, cui regala momenti e spazi consistenti: Ian McShane, accompagnato perfettamente dal compassato Lance Reddick, ben incarna lo spirito elegantemente indomito del Continental, mentre Laurence Fishburne si ritaglia uno spazio che, con tanto di citazione iconica e urlatissima, ammicca all’esperienza condivisa con Reeves di Matrix; a sorprendere è invece Halle Berry, rediviva, che assieme a due mortali cani-velociraptor si prende per sé un lungo momento d’azione relegando John Wick in un angolo.

Scisso tra passato e presente, tra la violenza lunga una vita e il ricordo di un amore da conservare a ogni costo, John Wick è quanto di meglio possa regalare il genere duro e puro, un personaggio oscuro orgogliosamente bidimensionale ma coerente e ben delineato nelle sue linee guida, dotato di un carisma immenso e della consapevolezza ludica di vivere un mondo al limite; Parabellum in questo senso è il capitolo più autoironico e eccessivo, un film che abbraccia l’intensità sopra le righe di scene e situazioni e si dimostra  in grado di reggere ogni esagerazione, come solo il miglior cinema d’azione è in grado di fare. John Wick è ormai una figura epica, puro cinema spettacolare di fronte il quale poco o nulla contano le banali necessità e limiti del reale.

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Chad Stahelski Keanu Reeves Ian McShane Halle Berry Asia Kate Dillon Jerome Flynn Lance Reddick Laurence Fishburne 130 minuti
USA 2019
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Lo spietato

di Riccardo Bellini
Lo spietato - recensione film De Maria

Già dal milanese fittizio e caricaturale di Riccardo Scamarcio abbiamo una sintesi di quella che è in definitiva l’arma migliore al servizio de Lo spietato: il suo non prendersi (troppo) seriamente. Prodotto da Bibi Film e Rai Cinema e approdato il 19 aprile su Netflix, l’ultimo film di Renato De Maria (già autore del documentario Italian Gangsters) racconta scorsesianamente ascesa e caduta di Santo Russo (Scamarcio), immigrato calabrese nella Milano degli anni Sessanta che, a partire da una giovinezza travagliata, capisce subito come sfruttare il proprio talento criminale, arrivando nel giro di vent’anni a toccare i vertici della malavita milanese. Liberamente ispirato al romanzo Manager Calibro 9 di Pietro Colaprico e Luca Fazzo, al cui centro ci sono le testimonianze del pentito Saverio Morabito, Lo spietato guarda a una sensibilità transoceanica e all’epopea gangster come a una risorsa cinematografica cui attingere ma non certo da celebrare.

La scelta di cucire addosso al genere gangster una chiara veste comedy, soprattutto nella prima parte, gioca a favore di un film che non ha nessuna pretesa di rinnovare il genere e che anzi, al contrario, segue piuttosto pedissequamente un collaudato percorso di ascesa e caduta criminale. La demenzialità di certi momenti - una chicca la sequenza del matrimonio di Santo, turbato ma non troppo dall’arrivo dei carabinieri con tanto di foto di gruppo annessa - è altra cosa rispetto alla necessità di creare attimi di distensione per irrobustire la carica empatica dello spettatore; piuttosto finisce qui con l’essere il tono generale di una rappresentazione in cui l’assurdo sconfina nel patetico. Questo grazie soprattutto a un ottimo Scamarcio, convincente nel ruolo del parvenu cafone e inconsapevole (utilizza l’espressione «ça va sans dire» senza conoscerne il significato, emula con ostentazione un dialetto non suo) arricchitosi in un’Italia spregiudicata di disastrosi e inaccessibili modelli identitari, di cui finisce col diventare un riflesso.

Una parabola negativa di larga fruibilità che per fortuna rinuncia in modo intelligente a sentimentalismi ricattatori e potenzialmente ambigui, a partire dall’assenza di una storia d’amore, a fronte al contrario di un lavoro sui due personaggi femminili determinante per la riflessione del film. Da una parte Mariangela (Sara Serraiocco), mogliettina casa e chiesa di Santo calata nella Milano arrampicatrice direttamente dalla Calabria degli anni Cinquanta, dall’altra Annabelle (Marie-Ange Casta), artista francese che frequenta i salotti della Milano radical chic. Nessuna delle due si salva da uno sguardo impietoso. La seconda finisce con l’infatuarsi del volgare protagonista, nel momento stesso in cui questo rivela la propria animalità violenta, salvo scappare a gambe levate dopo un colloquio chiarificatore con Mariangela. Quest’ultima è la vera svolta del film. La sua trasformazione, nel finale, da femmineo retaggio di un Sud secolare, alla cinica moglie del boss in tacchi a spillo completa il quadro di un Paese in mutamento e dei desideri di una fetta dell’Italia pre-berlusconiana.  

A non funzionare sono invece alcuni snodi narrativi, troppo sfilacciata la seconda parte, in cui tra l’altro il ritmo cala in più punti all’interno di un prodotto che già di per sé non mira all’originalità. L’ellissi che va dall’arresto di Russo alle sue speculazioni in campo edilizio, anni dopo il carcere, è un’occasione mancata per riflettere su una svolta cruciale nel campo della malavita e della nostra Storia recente. Film soprattutto di maschere e di personaggi, con qualche punta di gustoso estro comico, Lo spietato è niente più che un’esperienza godibile, che se non altro ha il pregio di non scadere nell’eccessivo autocompiacimento di tanto cinema crime.

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Renato De Maria Riccardo Scamarcio Sara Serraiocco Alessio Praticò 111 minuti
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Pet Semetary

di Saverio Felici
Pet Semetary - Recensione film Kolsh e Widmyer

In Pet Semetary c'è probabilmente la storia più rappresentativa di tutto il canone kinghiano. Ripresa da chiunque, oggetto di parodie, canzoni, lodata da Stephen King in persona, oggetto di un adattamento tra i migliori dello sfortunato catalogo cinematografico dell'autore (Cimitero vivente, Mary Lambert, 1989), l'immagine del cimitero indiano capace di riportare in vita le bestie sepolte è ormai di pubblico dominio. Gli autori Kevin Kolsh e Dennis Widmyer, a lavoro su commissione dopo l'apprezzato indie horror Starry Eyes, si approcciano a un simile tesoro nella maniera più prudente: quella della trasposizione analogica, step by step. Con un'unica, colossale variazione interna, paradossalmente capace di sabotare quanto di buono messo insieme.

La storia di Pet Semetary mette da quarant'anni la razionale e traumatizzata famiglia Creed alle prese con il luogo del titolo (typo sulla C voluto). Papà Louis (Jason Clarke), medico illuminista, e mamma Rachel (Amy Seimetz), perseguitata da un ricordo d'infanzia allucinante, si trasferiscono a Ludlow, Maine, insieme ai piccoli Eilie e Gage, di dieci e due anni. Ubicato in una foresta poco lontano la loro nuova abitazione, sonnecchia il cupo sacrario del titolo, dedicato agli animaletti defunti della cittadina. Come scopriranno presto tramite il vecchio custode-Caronte Jud (John Lithgow), il luogo è in realtà la porta per un territorio arcano, maledetto dalle tribù Mikmaq e capace di restituire la vita alle carcasse che vi vengono sepolte. Nonostante lo scetticismo del patriarca, alla morte del gattone di famiglia Church i Creed cadranno nella tentazione di mettere alla prova i Grandi Antichi del bosco. Sarà il punto di non ritorno: quando la morte verrà a prendersi un membro della famiglia, il potere del cimitero porterà Louis ad un gesto folle.

L'idea più forte del romanzo alla base di Pet Semetary, sta nella sua versione del mito del "ritornante". Nell'opera kinghiana, un apologo cupissimo e disperato sul lutto e la perdita, a subire suo malgrado il potere del terreno "inquinato" (tema fondamentale in moltissime opere del maestro di Portland), è il piccolo Gage Creed: il parto di questa aberrazione, la figura del duenne zombie, è un coacervo di orrore edipico e di tabù infranti (il massimo dell'innocenza pervertito dal massimo dell'innaturale) e rappresenta l'intuizione più indimenticabile del materiale di partenza. Per motivi insondabili (che presumibilmente vanno dalla necessità di bilanciare protagonisti maschili e femminili, alla banale paura di mettere in scena la morte brutale di un infante), il copione di Jeff Buhler decide di cambiare l'identità del cadavere. A morire, e a tornare, è allora un personaggio molto più "ovvio", molto meno disturbante, e soprattutto molto più serenamente inserito in una tradizione horror battuta e ribattuta (che passa per Mario Bava, l'Esorcista e mille altri J-Horror). E così, l'unica idea originale di un adattamento letterale, è un'idea sbagliata. Che sabota quanto di radicale ci fosse nel materiale di partenza, e lo riporta sui binari del già visto.

Azzoppato da questo errore concettuale, il Pet Semetary 2019 fa comunque il possibile per concludere la sua corsa in posizione accettabile. Il risultato, a onor del vero, è tutt'altro che tragico: in un campionato come quello degli adattamenti kinghiani, un campionato che vede centinaia di partecipanti e quasi nessun vincitore, il film di Kolsh e Widmyer evita quantomeno la retrocessione. Se, come detto, il climax del film soffre la codardia della produzione, è inevitabile che il meglio arrivi in fase di costruzione. Il lavoro competente sulla tensione e l'atmosfera della prima ora non è male: tra presagi infernali e ritmi compassati (il film si prende i suoi tempi), un cast di discreto livello (ancora ottimo il sempre dolente Clarke; simpatico Lithgow, di supporto il resto), e un immaginario di fondo a cui, se si è fan, è inevitabile ritrovarsi immediatamente affezionati, il film cammina. Gli ormai inevitabili easter eggs ispirati all'opera dello scrittore hanno poi il loro ruolo nella furba captatio benevolentiae dello spettatore, che di fronte alle citazioni di Derry e La torre nera finisce sempre per abbassare le difese. Alla fine, a venir fuori è più che altro il tono da fiaba triste: il film lascia fuori spiegazioni e divagazioni mostruose, e sembra voler raccontare soprattutto di un gruppo di persone incapaci di affrontare la perdita.

Per il resto, c'è molto poco di cui discutere. Visivamente il film si presenta come il più tipico dei prodotti horror mainstream di questi anni: molto dimesso, visivamente sciatto (troppo digitale inutile nelle scenografie), pretenziosamente "realistico" e avvolto da una fastidiosa patina Netflix che tradisce le vere ambizioni del progetto su commissione: bruciarsi il weekend di apertura e finire il prima possibile nelle playlist a tema di qualche piattaforma streaming. E se rispetto ad altri adattamenti recenti ne esce tutto sommato dignitosamente, è il confronto con la versione 1989 a mettere davvero ko Kolsh e Widmyer. Dagli effetti al look, da Zelda a Gage, non c'è confronto con il film di Mary Lambert che questo cimitero 2019 non riesca a perdere. Non un granché, come biglietto da visita.

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Kevin Kolsh Dennis Widmyer Jason Clarke Amy Seimetz John Lithgow Jeté Laurence 101 minuti
USA 2019
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Avengers: Endgame

di Attilio Palmieri
Avengers-Endgame- recensione film marvel

Quando nel 2008 uscì nelle sale Iron Man nessuno, neanche Kevin Faige, avrebbe immaginato la portata di quel percorso che oggi è arrivato ad Avengers: Endgame, una tappa non definitiva come spesso si legge in giro, ma sicuramente dedicata a completare un primo arco, dando compiutezza a qualcosa che – detto molto semplicemente senza paura di essere iperbolici – non si era mai visto nella storia del cinema.

Non è solo la consapevolezza che operazioni di queste dimensioni, per quanto possano essere figlie di una progettualità maniacale, non sono mai totalmente calcolate perché figlie anche di variabili che si presentano nel corso del tempo e che vanno sfruttate a proprio vantaggio per non esserne sopraffatti. Accanto a questa certezza c'è anche un dato abbastanza incontrovertibile, ovvero che quello che oggi riconosciamo come un universo cinematografico che si regge su una capacità di generare denaro senza precedenti undici anni fa non esisteva, per cui ogni investimento economico rappresentava un rischio e non sempre i film sono stati accolti con il massimo dei favori, soprattutto perché gli esiti qualitativi erano a volte poco convincenti – basti pensare al caso di Hulk.

Va anche detto che gli universi narrativi al cinema non sono mai stati sviluppati in queste proporzioni e con questa progettualità, e benché nel mondo dei fumetti, dei videogiochi e delle serie televisive fossero qualcosa di assolutamente normale, al cinema rappresentavano una sorta di novità, sia per gli addetti ai lavori, sia per la critica, sia per gli spettatori, i quali hanno imparato a restare seduti sulle poltrone fino alla fine di tutti i titoli di coda per guardare la rituale scena post-credits, ovvero l'elemento narrativo che simboleggiava il legame tra un film e l'altro.

Avengers: Endgame arriva in un contesto decisamente diverso, anzi potremmo dire in un mondo nuovo, tanto è il peso del Marvel Cinematic Universe non solo sul cinema ma in generale sulla cultura pop e sull'intrattenimento contemporanei. Il film diretto dai fratelli Russo non poteva capitare in un momento migliore, perché il 2018 oltre a essere stato l'anno dell'attesissimo Infinity War (primo capitolo di questo doppio epilogo) è stato soprattutto l'anno di Black Panther. Il film diretto da Ryan Coogler è stato un'opera profondamente innovativa per quanto riguarda la rappresentazione delle persone di colore, un fenomeno culturale senza precedenti, capace di resistere in sala per tantissime settimane ed essere l'unico film del 2018 a guadagnare oltre un miliardo di dollari nel mercato statunitense, a dimostrazione dell'impatto devastante che ha avuto sul pubblico, incentivato anche da una ricezione critica eccezionale.

Non tutto è roseo sul cammino di Endgame, perché dopo la storica sfilza di nomination per Black Panther agli Oscar 2019 e la mancata vittoria del premio principale (attribuito in maniera forse un po’ pavida a Green Book, un film senza dubbio più convenzionale) è già ripartito il toto-oscar, nella speranza che possa essere Endgame il destinatario di questo tanto desiderato riconoscimento. Le aspettativa che hanno anticipato il film sono dunque enormi e di vario genere, e in queste condizioni spesso rappresentano l'alba del fallimento. È alla luce di queste premesse che vanno interpretate alcune scelte cruciali di Endgame, perché non bisogna mai dimenticare che non si tratta di un film qualsiasi, ma di un'opera dalle dimensione extra-large che vive di un rapporto simbiotico con il proprio pubblico. L'incredibile macchina commerciale è infatti l'altra faccia di un rapporto intensamente dialogico tra produttori e consumatori (o tra autori e pubblico, che dir si voglia) in cui la gestione del delicato equilibrio tra sorprese e conferme è affidata a elementi di tipo sia narrativo che formale.

Solo se analizzate sotto questa lente si spiegano alcune scelte a prima vista più conservative rispetto a quelle operate dal capitolo precedente della saga degli Avengers, perché è vero che il finale di Infinity War rappresentava una sorpresa clamorosa – tanto da spingere tutti a parlare di discontinuità forte rispetto alle logiche narrative del comic movie – ma è altrettanto vero che le esigenze di questo capitolo sono differenti da quello precedente. Se infatti in quel caso era fondamentale la sorpresa, in questo aveva un ruolo essenziale la conferma (per ritornare alla dialettica appena citata) e allora vengono accolti come la cosa più naturale del mondo gli omaggi ai film precedenti, a tutte quelle storie che hanno portato a questo temporaneo punto di bilanci. Non bisogna però fare l'errore di pensare che questo genere di sviluppo narrativo – che definire atteso è più appropriato rispetto a prevedibile – sia più semplice o meno coraggioso: riuscire a dare al pubblico quello che si aspetta, realizzare un finale epico come promesso e in grado di riallacciare tutti i fili narrativi omaggiando i personaggi che hanno popolato l'universo fino a questo momento, è una delle cose più difficili immaginabili al cinema (e non solo, basti pensare alle critiche che sta ricevendo la stagione finale di Game of Thrones), anche perché basta sbagliare un'inquadratura o una battuta a innescare le balestre di critici di ogni genere.

Il merito principale dei fratelli Russo e degli sceneggiatori di Endgame sta quindi nel aver saputo gestire un film di oltre tre ore utilizzando i personaggi storici dell'universo come vettori emotivi principali, soprattutto a partire dalla consapevolezza collettiva che per alcuni di loro si trattava della chiusura di un ciclo, se non addirittura dell'ultima apparizione. Ovviamente le due direttrici principali sono quelle definite da Iron Man e Captain America, non solo perché gli interpreti sono i primi per cachet tra le star ma anche perché sono i personaggi che da sempre hanno trascinato il racconto complessivo, tanto da finire uno contro l'altro in Civil WarLe loro parabole sono tra le cose più interessanti di Endgame, perché come al solito sono caratterizzate da un'ironia citazionista comprensibile da spettatori di tutte le età, ma soprattutto questa volta sono contraddistinte da una gravitas inedita che li ammanta di eroismo vero. A stemperare un registro che rischierebbe di essere un può fuori tono rispetto alle abitudini della saga c'è la scelta di dare centralità alla figura di Ant-Man, il quale grazie anche alle qualità comiche di Paul Rudd si conferma come anello di congiunzione tra il gruppo di supereroi e gli spettatori.

Dal punto di vista dell'innovazione, in un film così grande (sotto tutti i punti di vista), con così tante esigenze da soddisfare ed equilibri da mantenere, non sono tanto ampi i margini d'azione. Ciononostante Endgame riesce comunque a mostrare qualcosa di inedito rispetto al passato, utilizzando due personaggi del gruppo storico in un modo decisamente nuovo, anche a costo di esporsi alle critiche. E infatti la maggior parte delle perplessità sono arrivate proprio a proposito della gestione di Hulk e Thor, sui quali in questo film è stato fatto un lavoro assai diverso rispetto al passato. Hulk non è più quell'eroe metà scienziato e metà creatura indomabile, non è più un uomo dilaniato dal conflitto tra ragione e istinto, educazione e violenza, ma un individuo che ha imparato a far convivere le sue due identità, valorizzandole entrambe senza per forza metterle in conflitto, elaborando la rabbia e venendone fuori come una persona diversa e più matura. Per quanto riguarda Thor, invece, i Russo hanno optato per mettere in scena la crisi di un Dio, un personaggio devastato dal fallimento che ha chiuso Infinity War e che non ha più alcuno stimolo perché totalmente traumatizzato, in balia dell'alcol e privo di ogni spinta di tipo eroico. Il suo percorso è uno dei più originali e immaginarlo nei Guardiani della galassia Vol. 3 fa sperare finalmente in un futuro roseo per il personaggio.

Avengers: Endgame è qualcosa di mai visto al cinema, il punto culminante di un'operazione durata undici anni, un'opera larger than life dalla portata epica enorme, capace di raccogliere nella stessa cornice emozioni figlie di oltre venti film, che esplodono nel momento in cui tutti i personaggi entrano in scena per la battaglia finale: questo non è solo il momento in cui spettatori di tutte le età sono legittimati (dall'opera stessa) a non trattenere gli applausi, ma è anche la celebrazione di un'idea di cinema che in un decennio ha dato vita a un immaginario indimenticabile per almeno una generazione di spettatori (quella diventata adulta con questi film), tale da stracciare record su record al botteghino, avere un impatto incalcolabile su intere comunità e arrivare fino ai premi Oscar.

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Anthony e Joe Russo Robert Downey Jr. Chris Hemsworth Scarlett Johansson Chris Evans Mark Ruffalo Josh Brolin Jeremy Renner Karen Gillan Chadwick Boseman Tom Holland 181 minuti
USA 2019
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The Act

di Sara Mazzoni
the act - recensione serie tv hulu

The Act di Nick Antosca e Michelle Dean è una nuova serie antologica Hulu, basata su un delitto del 2015 reso celebre proprio da un articolo firmato da Dean. Se approcciate anche il true crime senza voler conoscere nulla dei fatti narrati, prendete questa introduzione come un avviso di spoiler, perché è impossibile discutere di The Act senza fare riferimento a ciò che accade nello show.

È una vicenda terribile, quella di Dee Dee Blanchard e sua figlia Gypsy Rose. Al centro di The Act e dei fatti che l’ispirano c’è infatti un rapporto madre-figlia morbosissimo e fondato su una particolare forma di abuso, la sindrome di Münchhausen per procura (già drammatizzata in film come Il sesto senso e The 9th Life of Louis Drax, e in serie come The Bridge e Sharp Objects). È un argomento che solletica l’interesse di chi scrive horror e thriller perché sovverte il canone della cura materna, che in questi casi diventa strumento di tortura sui figli inermi.

Preceduto da un documentario del 2017 e da un film Lifetime uscito a gennaio, The Act si distingue da questi sottogeneri della non-fiction con uno stile che tende al gotico ed estetizza le immagini – già di per sé iconiche – delle vere Gypsy Rose e Dee Dee, qui interpretate da Joey King e Patricia Arquette. Partendo dal rosa della casa in cui abitavano le due donne, The Act costruisce la propria scala cromatica in contrasto con la tetraggine dei contenuti e la violenza di alcune scene. Il concept stesso si basa su questa intuizione: The Act è un gotico alla Che fine ha fatto Baby Jane?, in cui le aspirazioni della protagonista Gypsy Rose sono influenzate da stereotipi fiabeschi assimilati attraverso la visione continua di film Disney. Il rosa rappresenta l’oggetto del desiderio di Gypsy, cioè la sua trasformazione in donna, ma anche la barriera creata da Dee Dee, che la infantilizza con costumi da principessa e cartoni animati. Gypsy è una persona ormai adulta, resa eternamente bambina dalla madre che la costringe su una sedia a rotelle – e sì, sembra un film dell’orrore, ma è la vera storia della famiglia Blanchard.

The Act ruota interamente attorno a questo punto e alle sue implicazioni. I primi episodi illustrano la violenza medica a cui Dee Dee sottopone Gypsy, secondo una logica narrativa decisamente horror. Ma fin dall’inizio la storia si concentra sullo struggimento di Gypsy per affermare la propria femminilità; la Gypsy di The Act è come una principessa maledetta che può mostrare le sue vere sembianze solo in determinate situazioni. Ancora prima della metà della stagione assistiamo alla trasformazione fisica della ragazza, che grazie a parrucche e trucco assume segretamente l’aspetto di una giovane femme fatale. La parte finale della stagione diventa quindi più classicamente true crime, con la progettazione di un delitto già annunciato dalla prima scena del pilot, la sua esecuzione e le sue conseguenze.

Uno dei punti di forza di The Act risiede nella capacità di scandagliare temi spinosi legati al rapporto madre-figlia e all’espressione della sessualità di una ragazza cresciuta nell’abuso. Quest’ultimo elemento si rivela il più conturbante della stagione. Essendo vissuta in una bolla in cui esistevano solo lei e la madre, il sesso per Gypsy è misterioso e incomprensibile, ma si traduce soprattutto in un atto simbolico. Nel quarto episodio, lo show mostra Gypsy che si masturba mentre fa sexting con il fidanzato virtuale Nick, nell’unico momento di vero e proprio piacere erotico che il racconto conceda al personaggio. Nelle puntate successive, vediamo i due giovani accoppiarsi in quello che appare un gesto scollegato dal piacere di Gypsy, un rituale dell’amore che la protagonista sembra avere appreso proprio da quelle narrazioni zuccherose e caste di cui è stata imbottita per tutta la vita. Dopo di ciò un elemento centrale sarà proprio il fallimento dell’ideale amoroso di Gypsy, che cerca disperatamente di rendere realistiche le logiche stereotipate della coppia eterosessuale che ha appreso dalla tv.

In The Act, viene resa giustizia agli aspetti più intimi di una vicenda dolorosa. È facile attribuirlo non solo a Dean e Antosca, ma anche a una writer’s room variegata e all’inclusione di numerose registe, a conferma del fatto che la televisione spesso è un ambiente meno escludente rispetto ad altri. La figura di Antosca è sempre più vicina a replicare il percorso di Ryan Murphy: proveniente dal team di Hannibal, Antosca si è affermato con la sua serie art horror Channel Zero, per passare a un modello eccentrico di true crime con The Act. Osservandolo, è impossibile non pensare alle serie antologiche American Horror Story e American Crime Story di Murphy, anche se Antosca ha uno stile personale, capace di distinguersi.

In comune con American Horror Story, The Act ha la presenza di dive dai volti iconici. In alcune delle parti principali abbiamo Patricia Arquette e Chloë Sevigny, a cui si aggiungono per poche scene la caratterista Margo Martindale, Juliette Lewis e Rhea Seehorn di Better Call Saul. L’utilizzo di queste attrici è però una delle occasioni mancate dello show. Per quanto spaventosa, Arquette risulta monocorde nella sua interpretazione dell’orchessa Dee Dee, forse più per una piattezza nella scrittura del personaggio che per la sua intenzione interpretativa; Sevigny è efficace in un ruolo “white trash” a cui ormai è abituata, ma il suo personaggio apre la vicenda come se dovesse avere una centralità che poi non si riscontra, scompare lungo l’arco narrativo, per riaffiorare inutilmente soltanto alla fine; perfettamente in parte è invece la Lewis, mentre Martindale e Seehorn appaiono sprecate nella puntata che le vede in scena (la sesta), con dei flashback che non aggiungono molto alla narrazione pur fornendo il background della villain Dee Dee.

L’altro problema dello show è quello che affligge spesso le serie originali dei canali di streaming: la durata eccessiva degli episodi e delle stagioni. Le puntate di The Act hanno un formato variabile che si assesta intorno ai 53 minuti; la stagione comprende ben 8 episodi, anche se la storia raccontata sembra richiederne meno, magari di lunghezza inferiore. Ciò si traduce in un rallentamento nello svolgersi della storia, che rimane meritevole d’attenzione anche col suo ritmo dilatato anche se è inevitabile domandarsi quale sarebbe stato il suo impatto con un formato più succinto. The Act risulta comunque un esperimento in parte riuscito, che aggiunge un tassello alle nuove narrazioni true crime della contemporaneità televisiva.

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