They Shall Not Grow Old - Per sempre giovani

di Samuel Antichi
The Shall Not Grow Old - recensione film peter jackson

Nell’anno in cui ricorre il centenario della fine della Grande Guerra (1918), in collaborazione con l’Imperial War Museum e la BBC, Peter Jackson decide di descrivere il conflitto utilizzando esclusivamente materiale di repertorio. Per realizzare They Shall Not Grow Old - Per sempre giovani il regista parte da 600 ore di interviste e da 100 ore complessive di filmati d’archivio (di cui la maggior parte proveniente proprio dall’Imperial War Museum) al fine di raccontare l’esperienza di guerra, in particolar modo tra le fila dell’esercito britannico impegnato sul fronte occidentale. Le testimonianze dei reduci vengono pronunciate da una voice over che restituisce una dimensione corporale all’immagine d’archivio, formando il racconto storico. Ancora inconsapevoli di quello che sarebbe accaduto, ignari dello scenario politico e della natura del conflitto, i soldati raccontano di come si fossero arruolati nell’esercito anche senza una vera e propria motivazione o credo politico. Ragazzini di quattordici e quindici anni decidono di mentire sulla propria età per poter prendere parte a quella che per loro sembrava essere solo una stimolante avventura.

Ai volti sorridenti e contenti, agli scatti di gruppo, agli allenamenti e alle esercitazioni dell’inizio sopraggiunge la catastrofe, la distruzione. L’esercito passa attraverso alcuni villaggi completamenti rasi al suolo dal fuoco del conflitto. I morti e le macerie segnano il paesaggio. Nella prima parte del film i materiali di repertorio in bianco e nero incarnano un valore storico e antropologico, mostrano le modalità secondo cui la storia veniva filmata e rappresentata. Dopo circa mezzora l’immagine d’archivio, oltre a essere riconfigurata e ripresentata nel tempo presente, cambia radicalmente status attraverso l’utilizzo del colore, della computer grafica e del 3D. Dal momento della sua realizzazione a quello della sua ricollezione, il filmato d’archivio conquista un enorme potere spettacolare oltre che informativo e illustrativo. Jackson sembra voler svelare la natura spettacolare che contraddistingue l’esperienza di guerra. Il colore restituisce integra la sanguinosa vividezza del conflitto, i dettagli dei corpi caduti al suolo e del gas che infesta il campo di battaglia.

Effetti sonori oltre che visivi tendono ad arricchire i filmati di repertorio che mostrano soldati al riparo nelle trincee, intenti nelle operazioni di pattugliamento o nell’attacco per mezzo dei mortai. Dal momento che la macchina da presa non può ancora, agli inizi del Novecento, arrivare in prima linea per documentare e illustrare il conflitto a fuoco, è il rumore di esplosioni e raffiche di mitra inserito in post-produzione a calare lo spettatore nella dimensione aptica e multi-sensoriale dello scontro.

Nonostante il regista decida di eliminare la maggior parte di riferimenti a luoghi e a date, dando vita ad un racconto collettivo e non a una serie di testimonianze e storie individuali, Jackson nell’operazione di re-inquadramento del filmato d’archivio si concentra su specifici volti, primi piani che emergono a ripetizione dagli scatti di gruppo. In questo modo, nonostante non venga seguita una linea narrativa univoca, viene restituita l’esperienza umana del trauma della guerra. Il ri-uso del materiale d’archivio come linguaggio cinematografico, approccio critico definito da Catherine Russell archiveology, riflette sulla riconfigurazione e ripresentazione dell’immagine per produrre nuova conoscenza storica. In They Shall Not Grow Old la pratica del riciclo e del ri-utilizzo dell’immagine d’archivio non rimane esclusivamente strumento per una lettura meta-storica del passato. Il materiale di repertorio diventa elemento da rimodulare, riconfigurare e ri-attivare nel presente per formare un racconto storico che rispecchia determinati canoni estetici e stilistici del cinema contemporaneo.

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Peter Jackson 99 minuti
USA 2018
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Zombi Child

di Riccardo Bellini
zombi child - recensione film bonello

A Bertrand Bonello bastano poche inquadrature a macchina fissa per fondere, nei primi minuti di Zombi Child, dimensione magica e sguardo antropologico. L’ottavo lungometraggio del regista, presentato a Cannes nella Quinzaine des Réalisateurs, inizia nel tenebroso plenilunio di una notte haitiana, sui versi del poeta francese nato ad Haiti René Depestre:

«Écoutez monde blanc / Les salves de nos morts / Écoutez ma voix de zombi / En l’honneur de nos morts»

Seguono le immagini della preparazione di una polvere a base di tetrodotossina - veleno contenuto nel pesce Tetraodon (o pesce palla) - in grado di far piombare in uno stato catalettico simile alla morte il malcapitato. È il 1962, anno in cui Clairvius Narcisse, il cui caso venne studiato dall’antropologo Wade Davis nel celebre Il serpente e l’arcobaleno - già alla base dell’omonimo film di Wes Craven -, cade vittima di un rito di zombificazione. Bonello immagina che l’uomo, dato per morto, sepolto e poi riesumato in segreto, venga costretto in stato di trance a lavorare in una piantagione di canne da zucchero assieme ad altri sventurati. Si passa poi alla Parigi del 2017, dove tra le allieve della prestigiosa La maisons d’éducation of the Legion of Honor, c’è anche Mélissa, misteriosa nipote di Narcisse. La ragazza suscita ben presto le attenzioni di alcune compagne.

Zombi Child rivolge lo sguardo alla cultura vudù restituendola alla sua tradizione haitiana, a quel sistema di credenze profondamente radicato in ogni aspetto della vita locale, compreso quello politico. Basti pensare all’importanza che il vudù ha avuto nella retorica oscurantista di François Duvalier che proprio nei primi anni Sessanta instaurò il suo violento regime, e all’attuale esistenza di società segrete che praticano la zombificazione, nate a seguito della ribellione degli schiavi afroamericani nel XVIII secolo e descritte recentemente anche dal patologo Philippe Charlier. Ma il vero vudù è anche e soprattutto una religione ufficialmente riconosciuta e praticata da intere comunità con scopi tutt’altro che maligni, solo in parte legata alla magia nera.

Attingendo a questo panorama Bonello trasforma la figura dello zombi da minaccia verso l’ordine costituito (il grande terrore dell’immaginario hollywoodiano) a vittima di un regime repressivo. Si passa così dalla paura occidentale per il disfacimento del sistema alla paura suscitata dal sistema stesso. Il corpo zombificato, osservato con umana pietas, diventa corpo storico attraverso cui rivivono i fantasmi dell’orrore schiavista, così come nel precedente Nocturama - che con Zombi Child compone un dittico ideale - i corpi ridotti a manichini dei giovani attentatori diventano immagine agghiacciante della deriva capitalistica. Non è un caso del resto che tra le fonti ispiratrici di Nocturama Bonello citi proprio Zombi di George A. Romero. Ma se la rigorosa bipartizione narrativa e stilistica del film precedente avviene in continuità, in Zombi Child questa divisione è affidata al contrario alla ricorrente alternanza dialettica dei due piani temporali (Haiti 1962, Parigi 2017) che, allacciando tra di essi relazioni sotterranee e intermittenti («La storia è un flusso discontinuo di eventi» insegna, nel film, lo storico Patrick Boucheron alle allieve del collegio parigino), istituisce una rete di relazioni che proiettano la riflessione sul colonialismo ben al di là della mera storia haitiana.  

In modo intelligente e lampante, Bonello conduce tale riflessione proprio attraverso il lavoro sul sottogenere-cinematografico (appunto lo zombie-movie), come terreno di indagine di uno scontro sociale, politico ed economico che si fa lotta dell’immaginario. Come l’Occidente ha vampirizzato la figura dello zombi, colonizzandola a proprio uso e consumo fino a snaturarne l’identità originale, così il regista racchiude il retaggio della tradizione vudù, veicolata dal personaggio di Mélissa, all’interno di uno spazio asettico e restrittivo, il collegio parigino voluto da Napoleone, in cui si condensano le contraddizioni di un’Europa divisa tra valori democratici e la sua eredità imperialista. Spazio-ventre in cui domina un bianco abbacinante, in contrasto con le tinte fosche e il decadente lirismo del primo livello narrativo. Ma qui Bonello, regista di forze oppositive e radicali ribaltamenti, attua la sua inversione. Non è Mélissa a lasciarsi fagocitare, ma sarà al contrario l’amica Fanny a rischiare di smarrire sé stessa quando, spinta da una concezione superficiale e distorta della religione vudù, si sottoporrà a un rituale per lenire le pene d’amore, finendo accidentalmente posseduta dalla terribile divinità Baron Samedi, in un finale di inquietante potenza visionaria. Se dunque l’immaginario occidentale agita dapprima l’inconscio di Mélissa - che in una scena onirica si immagina nelle vesti di un famelico zombie mangia uomini -, è infine lo stesso Occidente a collassare metaforicamente su sé stesso, schiacciato dall’arroganza di poter addomesticare culture a sé estranee.   

Horror d’autore tra i più intelligenti nel rileggere il tema zombie, tra istanze storiche e riflessione universale, Zombi Child è anche un’esperienza cinematografica di magnetica fascinazione. Nonostante il budget modesto, Bonello non rinuncia al suo cinema estetizzante, prezioso e suggestivo in ogni sua inquadratura, qui più che mai immaginifico, capace di evocare luci e ombre del folklore magico haitiano, aleggiando sul filo di una perturbante inquietudine. L’ennesima conferma della vitalità e dell’importanza di questo autore.

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Bertrand Bonello Louise Labeque Wislanda Louimat Katiana Milfort 103 minuti
Francia
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Lake Bodom

di Gian Giacomo Petrone
Lake bodom - recensione film mustonen

Durante le prime ore della notte del 5 giugno 1960 (domenica di Pentecoste, per chi voglia scorgere esoteriche simbologie), sulle rive del lago Bodom nel sud della Finlandia, ebbe luogo uno dei fatti di cronaca nera più noti e controversi che la “terra dei mille laghi” ricordi. Un gruppo di quattro giovanissimi campeggiatori (due ragazze quindicenni, due maschi diciottenni) venne aggredito da un assassino che non fu mai scoperto, dando così adito a molteplici congetture e filoni di indagine: le due ragazze e uno dei due ragazzi furono pugnalati e percossi a morte, mentre l’altro sopravvisse, per poi venire accusato, ben 44 anni dopo l’evento, di essere l’omicida, anche se l’ulteriore e tardiva indagine non condusse a svelare alcuna definitiva verità.

L’alone di mistero che tuttora aleggia sull’avvenimento funge da innesco di Lake Bodom, terzo lungometraggio del finlandese Taneli Mustonen e sua prima incursione nei territori dell’horror. Il regista, ideatore anche della sceneggiatura assieme al sodale Aleksi Hyvärinen, sceglie di riallacciarsi alla vicenda realmente accaduta creandone un’immagine speculare, eppure distorta e deforme, tramite l'istituzione di un dialogo (intermittente, e proprio per questo fecondo per la narrazione) fra presente e passato, non tanto per riattualizzare quest'ultimo, quanto per restituirne gli aspetti problematici e irrisolti.

Finlandia, giorni nostri: due ragazze, Ida (Nelly Hirst-Gee) e Nora (Mimosa Willamo), e due ragazzi, Atte (Santeri Helinheimo Mäntylä) ed Elias (Mikael Gabriel), tutti provenienti dal medesimo istituto scolastico, si apprestano a trascorrere una nottata di tarda primavera presso le rive del lago Bodom. Solo Atte si dichiara interessato a ricreare/simulare la macabra mattanza del Bodom, improvvisandosi come indagatore fuori tempo (e fuori luogo, verrebbe da aggiungere), mentre gli altri tre giovani paiono più propensi alle schermaglie tipiche della tarda adolescenza, scandite da ineludibili richiami ormonali, gelosie reciproche, desideri di fuga dalla propria condizione di semi-adulti con scarso potere decisionale. Intanto, nella boscaglia circostante pare aggirarsi una presenza furtiva.

Le premesse per uno slasher di routine sembrano esserci tutte, eppure, ogni volta che il racconto dà l’idea di avere imboccato un sentiero noto o aver preso una piega prevedibile, ecco il twist che non solo spiazza, ma che è in grado anche di mutare radicalmente l’orizzonte complessivo del senso. La protasi da slasher potenziale inizia infatti a cedere, all’imbocco della seconda parte del film, sotto i colpi incalzanti di un giallo ribaltato (i cui archetipi sono da individuarsi in Nodo alla gola o in Frenesia del delitto), in cui sono noti gli assassini e la sorpresa del whodunit lascia spazio alla suspense dell’esecuzione del piano criminoso, del “delitto perfetto”, in quanto senza movente, pertanto architettato come somma dimostrazione di potere e di controllo sul reale. Anche questo schema viene però a sfumare, facendo emergere un’istanza emotiva, la brama di vendetta, anch’essa tuttavia incastonata all’interno di un progetto affatto diverso, vivificato dalla gelosia e reso operativo tramite la menzogna: evidente cortocircuito fra spinte istintuali e diabolica pianificazione. Un ulteriore e conclusivo ribaltamento ricondurrà infine, circolarmente, il tracciato narrativo a riallacciarsi alle avvisaglie slasher dell’inizio, in apparenza ormai relegate fuori dal quadro: entra infatti in scena un misterioso killer solitario proveniente dalla selva e, forse, dal passato.

Mustonen colloca al centro della propria composita matrioska narrativa le due figure femminili, dapprima apparentemente passive nei confronti della – quanto mai timida peraltro – controparte maschile, per poi divenirne inaspettatamente carnefici: annichilimento, anche simbolico, del maschile tout court. La passione che lega Ida e Nora, potente, soverchiante, distruttiva, e nondimeno mai del tutto simmetrica (Nora ama Ida e ne dirige gesti, comportamenti e reazioni; Ida non la ricambia e malgrado ciò ne è succuba, date le proprie insicurezze e fragilità, anche relative alla propria identità sessuale), è il vero motore di ogni inganno e mortale aggressione ai danni dei malcapitati Atte ed Elias. La comparsa del killer silvestre, tuttavia, spariglia ulteriormente le carte e dissemina ulteriore inquietudine, specie in relazione alla vicenda storica che lega la finzione filmica alla realtà.

Mustonen non si ferma neppure di fronte allo sviluppo di una trama complessa e alla psicologia sfaccettata e instabile dei personaggi, ma è in grado di regalare anche un secondo livello di significazione al suo film, a partire dal pretesto narrativo che muove gli eventi. Nora, sospettando un’attrazione di Ida nei confronti di Elias, decide di diffondere la voce che il ragazzo abbia fotografato Ida, a insaputa di quest’ultima, in pose sconvenienti. In realtà le foto non sono mai state scattate, eppure tutti, nella città, a scuola e soprattutto nella famiglia tradizionalista e bigotta di Ida, credono nella loro esistenza, pur non avendole mai viste. La ragazza diviene quindi lo zimbello della comunità. Questo secondo livello di significazione, che sconfina tutt’altro che in subordine in una dimensione meta-testuale e teorica, oltre a non appesantire la vicenda, la carica di ulteriore tensione e ambiguità, arrivando sostanzialmente a rilevare come la società dell’immagine sia talmente soverchiata dal visivo, e in sua balia, da credere in esso anche qualora esso non esista. Parola, immagine e credenza in esse ai limiti dell’idolatria arrivano quindi a costituire una sorta di beffarda allegoria del presente, tanto più se questo è legato a un passato (le sanguinose vicende del lago Bodom) arduo da decifrare e altrettanto colmo di false piste e verità sepolte.

In ultima istanza, il cinema, dal canto suo, non può far altro che continuare a giocare, come sempre ha fatto, con l’ambiguità del reale e col raddoppiamento di tale ambiguità in quel secondo mondo che è quello iconico. Peraltro, si tratta di un gioco che Mustonen dimostra di conoscere bene, mettendogli a disposizione ogni elemento possibile della messa in scena: il dosaggio sapiente dei ritmi del narrato e delle sue imprevedibili svolte; l’efficace valorizzazione dell’ambientazione selvaggia con le sue zone d’ombra e i suoi misteri latenti, ottenuta lavorando con abilità sull’illuminazione del set, tramite l’utilizzo frequente, nelle molte sequenze notturne (da applausi quella subacquea), della luce in funzione antinaturalistica ed espressiva; e infine i due ritratti femminili, sfaccettati e inafferrabili, col notevole contributo, in questo caso, delle due magnifiche interpreti. Là dove l’ipertrofica produzione anglofona spesso arranca e ripete se stessa, ecco un ammirevole esempio di horror nordeuropeo che, senza creare il nuovo tout court, rielabora con sagacia l’esistente portandolo a nuova vita.

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Taneli Mustonen 85 minuti
Estonia, Finlandia, Nuova Zelanda 2016
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Rocketman

di Matteo Marescalco
Rocketman-recensione film Dexter Fletcher

Pochi mesi fa usciva al cinema Bohemian Rhapsody, un film talmente ossessionato dalla riproduzione millimetrica della forma del reale da risultare addomesticato e, a tratti, persino anestetizzato. Su questo versante, Dexter Fletcher, regista di Rocketman e mano invisibile dietro Bohemian Rhapsody, sembra aver cercato una cesura netta nei confronti del film precedente. Tanto il biopic sui Queen effettuava un'operazione di mimetismo del reale (per evidente mancanza di carattere), utilizzando le canzoni del gruppo in modo decisamente posticcio, quanto il film su Elton John crea astrazioni visive sfruttando i motivi dell'artista per dar vita a coreografie fantasmagoriche che innestano la musica nel tessuto narrativo di Rocketman.

Come la lunga tradizione del musical ci ha insegnato, ogni canzone nel film di Fletcher porta avanti il racconto e si inserisce come uno strumento in grado di creare compattezza narrativa da un lato e puro artificio estetico dall'altro. È in tal senso che Rocketman decolla come un razzo e si lascia andare al camp e al kitsch più sfrenati. Lustrini, maschere, piume e occhiali a cuore fanno da corollario ad ogni sequenza, che esagera in fatto di superfici pop e sonore da ri-creare. L'enfasi anti-naturalistica è la traiettoria scelta da Fletcher, che si prende svariati rischi seguendo il binomio di magia e sogno del numero musicale e fa tutto ciò ancorando l'estroso all'archetipo.

Tutto, infatti, è ampiamente prevedibile in Rocketman. Non perché, in fin dei conti, si tratti di un biopic seppur poco convenzionale ma perché i numerosi flirt con il fantastico e l'immaginifico sono sviluppati a partire da una serie di tappe ben definite nella vita di Elton John: l'adolescenza da enfant prodige, il rapporto complesso con due figure genitoriali anaffettive, la scoperta del talento, l'incontro col migliore amico-paroliere dei suoi brani, l'ascesa inarrestabile e, come da copione, il tonfo clamoroso. Infine, la consapevolezza di sé e la nuova ascesa. Nulla in questi pilastri della tradizione classica del racconto impedisce al film di sprigionare tutta la sua verve. Anzi, è proprio attorno a essi che regista, sceneggiatori e coreografi costruiscono i numeri più “leggeri” del film, in grado di portare in aria lo spettatore e di farlo fluttuare nell'atmosfera.

Già la sequenza iniziale di Rocketman è un manifesto programmatico di quanto vedremo nel corso dei restanti 120 minuti. Con addosso un abito da diavolo e un vasto assortimento di paillettes e di piume, Taron Egerton nei panni di Elton John attraversa un corridoio per recarsi a un appuntamento di recupero per dipendenti da droghe. Ha così inizio il film, una gigantesca sessione di auto-terapia che John conduce su sé stesso, prendendo per mano lo spettatore e trascinandolo nel suo mondo ai limiti della realtà. Più di una volta, il film si concede una serie di licenze (a partire, appunto, dall'incipit) ma lo fa soltanto in nome di un'idea di spettacolo e di immaginario musicale da creare e rispettare. L'amore, l'ingenuità e la bulimia di vita saturano ogni momento del film e regalano persino attimi di commozione ben congegnati.

Probabilmente, l'esagerato accumulo finisce per saturare qualsiasi spazio del film e per togliere margine di movimento all'immaginazione dello spettatore; però, si tratta di uno di quei casi in cui persino essere intrappolati in un meccanismo spettacolare da togliere il fiato risulta funzionale al racconto portato in scena.

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Dexter Fletcher Taron Egerton Richard Madden Jamie Bell Bryce Dallas Howard 121 minuti
Regno Unito 2019
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Dolor y gloria

di Veronica Vituzzi
dolor y gloria - recensione film almodovar

L’ultimo film di Pedro Almodóvar è un enigma che richiede ripensamenti, ulteriori riflessioni, forse perfino una seconda visione più ragionata. La prima potrebbe rimanere vittima della splendida messa in scena e farsi travolgere dal sentimento che trabocca e commuove, anche grazie al principale, forse involontario, tranello messo dal regista spagnolo.

Difatti non si può far a meno di credere Dolor y gloria profondamente, totalmente autobiografico. Deve per forza trattarsi di Almodóvar che svela Almodóvar. D’altra parte non racconta di un famoso cineasta spagnolo (Antonio Banderas), della sua omosessualità e del suo amore viscerale per il cinema? Traspare anche una profonda nostalgia per un’infanzia povera e preziosa, ed è proprio Penelope Cruz, altra attrice storica di Almodóvar, a interpretare la giovane madre che torna alla memoria dell’oramai vecchio e stanco protagonista. Si potrebbe dunque pensare di trovarsi di fronte a una versione personale di , l’opera che più facilmente viene alle labbra quando si parla di cinema, memoria e un regista che riflette sulla propria vita.

Eppure Almodóvar è chiaro: quell’infanzia mitica nelle grotte di Paterna non l’ha mai vissuta. Mai esistito quel bellissimo giovine che Salvador incontra da bambino e lo scuote con la forza di un primo violento desiderio. Quel dialogo dolente e così privato con la madre oramai vecchia e prossima alla morte (Julieta Serrano) è una pura creazione della sua mente. Eppure l’idea resiste, tenace e testarda: mai come in questo film Almodóvar si è messo a nudo. A modo suo. Ma come?

Dunque, c’è Salvador. È un regista spagnolo, molto amato e celebrato in patria e all’estero, ma da tempo progressivamente immobilizzato da vari problemi fisici che l’hanno costretto ad abbandonare il set per chiudersi nella sua splendida ma solitaria casa-museo. In occasione dell’anniversario del suo esordio cinematografico, Sabor, ritorna in contatto dopo più di trent’anni con l’attore protagonista del film, Alberto, con cui aveva rotto ogni rapporto a causa dei suoi problemi con l’eroina. L’incontro tardivo porta a inaspettati risvolti: Salvador chiede ad Alberto di iniziarlo alla droga, e dopo un drammatico – ed esilarante – litigio, in occasione del ben poco sobrio incontro col pubblico per la proiezione di Sabor, gli concede di portare in scena un suo testo teatrale mai rappresentato, Dipendenza. Come una scatola cinese, quest’opera è una completa messa a nudo di Salvador e del suo vecchio grande amore, anch’esso tossicodipendente, Federico, il quale, per caso presente tra il pubblico in teatro, si riconosce nel testo e va a cercare dopo decenni il suo partner.

Forse è nell’incontro fra Federico e Salvador che sta la chiave della costruzione di Dolor y gloria. A prima vista il film di Almodóvar sembra infatti costruito sul continuo succedersi di spazi chiusi e solitari versus spazi aperti liberi, felici, coraggiosi. È chiusa la bellissima casa del protagonista, adorna di quadri e mobilio colorato; è una grotta chiusa il posto dove Salvador bambino va a vivere coi genitori e da cui tenta di fuggire per far dispetto alla madre quando essa gli comunica che l’unico modo per poter continuare a studiare è entrare in seminario. È infine una gabbia lo stesso corpo del regista, soggetto a infiniti dolori e acciacchi fino a dover rinunciare alla regia che tanto ama. Al contrario, il primo ricordo felice dell’infanzia è quello della madre e le amiche che lavano all’aperto i panni cantando, il cinema che innamora il protagonista fin da piccola è all’aperto e il passato di quest’uomo, ora costretto a farsi di eroina per poter spaziare con la mente, è un racconto nostalgico di un'infanzia perduta e primi intensi amori.

Quando però Federico chiama Salvador al telefono, e questo lo scopre nascosto sotto casa sua, evidentemente speranzoso di poter entrare, il gesto che cambia tutto non è uscire, quanto far entrare nel suo spazio privato il vecchio grande amore; così come le sue parole l’hanno svelato al chiuso della sala di un piccolo teatro. Il luogo chiuso diviene da allora in poi uno spazio di crescita salvifica, luogo della memoria dove Salvador torna agli ultimi toccanti, dolceamari dialoghi con una madre che rimprovera il figlio per una distanza fisica che è divenuta emotiva, o la stanza di un dottore che lo rivela meno malato di ciò che credeva e, infine, un’inquadratura che sembra delimitata e finita ma si allarga fino a svelare il set ove Salvador ha ricominciato a lavorare.

Eppure Almodóvar ammette sinceramente il suo voluto dissimulare. Salvador non esita a mantenersi fermo nel tenersi a distanza dal racconto autobiografico - e forse a volte ricattatorio nel suo mettersi al nudo - ricordando che il bravo attore non mostra le lacrime, ma si svela maggiormente allo spettatore se colto nel gesto di trattenerle. Ciò che il regista spagnolo confessa in una costruzione romanzata è un mix autentico di profonda malinconia e onesto dolore, un sentimento di perdita unito a un’inedita sensazione di speranza. Infatti è dando un senso a questi spazi ridotti della mente e del corpo, ampliandoli e accrescendoli di valore, facendovi entrare dentro il mondo degli affetti, di ciò che è più caro, che essi diventano fonte preziosa di creatività per il futuro. Come la grotta dell’infanzia che viene intonacata e decorata, o la casa colma di quadri dell’uomo adulto, basta saper riempire, abbellire, arricchire con amore ciò che sembra vuoto, scarno e sterile. Salvador torna a dirigere, Almodóvar torna al cinema, e, miracolo più grande di Dolor y gloria, tutto questo accade entro il luogo ristretto di un’inquadratura, di una sala cinematografica: perché solo l’arte ha la capacità di rendere infinito uno spazio chiuso, e di farne un'esperienza incredibile.

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Pedro Almodóvar Antonio Banderas Penélope Cruz Asier Etxeandía Leonardo Sbaraglia 113 minuti
Spagna 2019
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I figli del fiume giallo

di Alessandro Gaudiano
i figli del fiume giallo recensione film Jia Zhangke

I figli del fiume giallo (altrimenti noto con il titolo internazionale Ash Is Purest Whiteè un oggetto misterioso, un UFO che dispiega una capacità di immaginazione e creazione sconfinata. Una storia d'amore, una rapsodia della Cina in perenne mutamento, un potentissimo ritratto di donna: Jia Zhangke riflette sul proprio cinema e lo ricompone in un mondo nuovo.

Zhao Qiao (Zhao Tao) e Guo Bin (Liao Fan) sono una coppia influente nel modesto sottobosco criminale di Datong: bische clandestine, sale da ballo e pistole nella borsa, la cui messa in scena ci riporta direttamente agli anni d'oro del cinema di Hong Kong. Nel mezzo di una sanguinosa lotta di potere, Qiao è costretta a estrarre la pistola di Bin per mettere in fuga una banda rivale e salvare la vita del suo compagno. Sacrificandosi per onore e per amore, sconta cinque anni di prigione al posto di Guo. Al suo ritorno, la donna si mette alla ricerca del compagno che, nel frattempo, si è fatto una nuova vita.

I figli del fiume giallo comincia come un dramma criminale: la camera accompagna una femme fatale di provincia mentre cammina, sicura, verso la corte del suo amante: tessere di Mah Jong e volute di fumo, sguardi gelidi. La violenza esplode senza preavviso e senza spiegazioni. Quando Guo e Qiao, sicuri di se stessi e affascinanti, perdono il controllo del loro piccolo mondo, cambia anche la voce del regista.
Jia non esita ad alternare riprese in analogico e in digitale, o a cambiare tempo e voce della narrazione passando dal noir al thriller, dal dramma al documentario. Mentre la parabola della coppia si dipana e il loro ambiguo legame attraversa due decenni, ritroviamo le tracce di Still Life e Unknown Pleasures, così come gli scorci urbani di 24 City o I wish I knew. Da "donna del capo", Qiao diventa una prigioniera e una vagabonda. Il suo sguardo si abbassa, ma non la sua forza. Sola, cerca di sopravvivere a un mondo che è andato avanti senza di lei e che è, irrimediabilmente, tragicamente, patriarcale. Perde tutto e ricomincia da zero; nel suo vagare per la Cina (è questo uno dei significati dell'espressione jianghu, che troviamo nel titolo cinese del film) viaggia fino alla nuova frontiera, lo Xinjiang, per ritrovare un nuovo e precario equilibrio.

I figli del fiume giallo è, prima di tutto, una dolorosa riflessione sul tempo. Tempo che trasforma le relazioni, ribalta i rapporti di potere, consuma le energie esuberanti della giovinezza in silenziose rassegnazioni e compassioni. Nessuno mette in scena lo scorrere del tempo come Jia Zhangke: l'autore si immerge in ciascuno dei tre atti in cui è scandita la storia (2001, 2006 e 2018) e ne scatta una fotografia minuziosa che include i luoghi, i fenomeni di costume e, soprattutto, i suoi personaggi. Cattura, grazie al potere del cinema, l'epifania del passaggio inesorabile del tempo: i telefonini si fanno smart e cambiano le canzoni alla radio. Si scopre, all'improvviso, di essere diventati vecchi. E, forse, di commettere gli stessi errori di sempre.

Zhao Tao è ancora una volta la protagonista, rinnovata declinazione di un archetipo di donna, testimone e sopravvissuta. Zhao reinterpreta i suoi vecchi personaggi e torna negli stessi luoghi di sempre (Datong, Fengjie, le metropoli globalizzate della nuova Cina): sembra che Jia voglia riflettere sul proprio cinema e domandarsi se e come sia possibile cambiare, tornare su bivi ormai risolti del passato. I figli del fiume giallo è un film territoriale, famigliare, fatto di tasselli e parole che l'autore ha lungamente definito, film dopo film, e che qui ricompone in un esercizio di composizione straordinariamente ricco e complesso.

Questo film è anche una storia d'amore. Un amore tossico e asimmetrico che vive di contraddizioni e arcaici codici d'onore. Qiao non recide mai il legame, non tradisce mai questo codice che oscilla tra il criminale e il romantico. E qui torniamo al jianghu nel suo significato più pieno: fiumi e laghi, ovvero vagabondare al di fuori dei rigidi confini della civiltà, o della razionalità utilitaristica che cinge d'assedio la protagonista. Jianghu è controcultura, è ribellione, è il rifiuto dell'amnesia storica e politica, della legge del Potere e del capitale. Jia sembra suggerirci che solo i brigantes e gli (anti)eroi possono resistere alle mareggiate del potere e della sfrenata ambizione capitalista a cui cedono, uno per uno, tutti gli uomini.

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Jia Zhangke Zhao Tao Liao Fan Xu Zheng Diao Yinan 141 minuti
Cina, Francia 2018
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Amaranto

di Carmen Albergo
Amaranto - recensione film Cannone

Guarire il mondo, un bambino alla volta. Questo il promemoria, solo apparentemente utopico, per quanto ancora da imprimere a livello globale, appuntato nel documentario Amaranto dalle registe Emanuela Moroni e Manuela Cannone.

Ma si deve iniziare dal farsi resistenza, ognuno per sé, scrollarsi di dosso il paradigma economico-culturale dominante, consumistico e individualista, come appunto la pianta erbacea dell'amaranto, selvatica e spontanea, che nel caso eclatante citato dal film ha invaso le piantagioni di soia transgenica di una delle più grandi multinazionali del mondo. Iniziare, dunque, da quanto abbiamo a portata di mano, dalla ricerca e condivisione di testimonianze, uomini e donne che eccezioni di oggi, possono col proprio esempio pratico infondere consapevolezza e responsabilità nel ciclo di vita che ci circonda e come l'amaranto diramarsi nella collettività.

La narrazione è impostata infatti come la scansione in capitoli di una vita intera: la nascita, come evento genitoriale consapevole, l'educazione creativa, il radicamento ai luoghi come investimento psico-sociale, quindi il co-abitare ed infine la morte come rinascita. Tutto in una prospettiva alternativa, magari silente, lenta e incontaminata che possa dimostrare come decisioni e soluzioni differenti, sempre rispettose dell'essere umano e suo ecosistema, siano possibili e possano comportare una sana e benefica diversità. Insomma che la rassegnazione di essere pochi sostenitori di progetti e ideali solidali secondo natura, non è più una scusante.

Innegabile come oggi il documentario, indagine del reale, sappia essere militante e dolce al tempo stesso, per mostrare quanta vita premurosa e solerte si realizzi a riflettori spenti e lontano dai megafoni contraffatti dei media (si pensi a "Un paese di Calabria" di Aiello e Catela o al "Dove bisogna stare" di Gaglianone). In questo mettersi in viaggio con piglio spensierato, in ascolto delle conquiste esistenziali e riconciliazioni etiche altrui, Amarato s'affianca a "Sarà un paese" di Nicola Campiotti, in cui ad "altezza di bambino" erano interrogate le maggiori contraddizioni politiche del bel paese. Dicasi lo stesso per la scelta estetica di ammantare l'opera di fantasticherie e leggerezza di spirito, attraverso soluzioni creative di composizione e montaggio, tra cui un prologo che attinge a piene mani dall'immaginario filmico di Jean Pierre Jeunet, pur tuttavia lasciando che a condurre l'esposizione siano gli intermezzi: la marionetta di Augusto Terenzi, le illustrazioni di Marta Consoli, le animazioni e gli effetti visivi di Alessandro Antonelli.

Amaranto, chiede allo spettatore di essere concreto, di fermarsi a riflettere su scelte di vita, radicali e semplici, che ciascuno di noi è in grado di cogliere e intraprendere. Gesti da praticare nell'arco di una vita e da più vite insieme, nella più autentica interconnessione di intenti, proprio ora (e ancora se nn ora quando! ) che il pianeta versa nella più acuta emergenza climatica e umanitaria, ma anche ora che l'uomo come singolo e come specie dispone dei mezzi più incisivi e simultanei per iniziare ad invertire la rotta. Attraverso il loro lavoro indipendente (Audience Award al RIFF2018) le coautrici manifestano un attivismo ecologico, nel senso quanto più esteso del temine, non solo strettamente ambientalista, ma anche civico e intellettuale, avendo fatto leva su ben due crowdfunding per la produzione e sulla divulgazione di filosofie strategiche di salvaguardia del pianeta, tramite volti e voci dirette di maggiori teorici (tra i tanti Serge Latouche, Helena Norbert-Hodge, Franco Arminio) i quali rispondono al quesito "qual è l’urgenza più grande in questo momento e qual è la sua soluzione?".

Siamo pratici anche in questa sede: una produzione tanto leggiadra quanto ai margini del grande circuito distributivo commerciale, dove può attecchire spontaneamente e sabotare il campo di un sistema di massa, ormai superato? Recenti disposizioni di legge hanno reintrodotto l'insegnamento (già pre-ordinato in ore e programmi) dell'educazione civica nelle scuole come trasversale alle classiche materie di studio e già da qualche anno la legge sull'educazione al linguaggio cinematografico ha trovato attuazione attraverso bandi progettuali e piattaforme pedagogiche d'accesso provilegiato al circuito scolastico. Perchè non coniugare allora le intenzioni didattiche dell'illuminato legislatore e lasciare che l'educazione civica sposi ufficialmente l'alfabetizzazione audiovisiva, non solo come strumento di difesa dai pericoli della rete e dal trash televisivo, ma anche e soprattutto quale ricognizione dei saperi e della facoltà di saper scegliere, appunto, che tipo di cittadini si vuol e può diventare in questo stare al mondo? Nella libertà e responsabilità della scelta (a prescindere dal bene e male, valori altamente soggettivi) risiedeva la gran virtù della morale... sosteneva già secoli fa il saggio filosofo umanista.

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Emanuela Moroni Manuela Cannone Verena Schmid Franco Lorenzoni Etain Addey Alida Nepa Saviana Parodi 80 minuti
Italia 2018
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Brightburn - L'angelo del male

di Saverio Felici
Brightburn - Recensione film Yarovesky

Per i pochi che hanno avuto modo di seguire la storia dietro Brightburn - L'angelo del male, il risultato ora in sala non può che considerarsi una delusione. Presentandosi come generico horror low cost con appena qualche spolverata di rimandi all'universo nerd, il film si fa un favore: questo è, nulla di più, un prodotto assolutamente sotto media e non particolarmente degno di attenzione. Senza la minima forza né voglia di scardinare quelle regole e quei tabù che l'etichetta di b-movie pure gli concederebbe. E già questo lo rende antipatico. In realtà, visto il il patrocinio convinto del clan Gunn (la star James in produzione, i parenti Mark e Brian in scrittura, il tuttofare David Yarovesky in regia), l'ambiente creativo da cui tale gruppo muove, e la complicatissima vicenda che nell'ultimo anno ha portato il regista dei Guardiani Marvel a trovarsi esiliato (e poi reintegrato) dal kafkiano macchinario degli studi Disney... tutti questi elementi avevano, nella mente del pubblico, caricato Brightburn di un'aura da provocazione autoriale, di parodia critica e desacralizzazione-Troma definitiva del genere supereroistico.
Nulla del genere. Brightburn è tutt'altro, o meglio, pochissimo altro. Una serie di fattori complottano contro le aspettative dello spettatore, che minuto dopo minuto dovrà arrendersi e smettere di augurarsi il guizzo. I soldi sono pochi, l'ambizione è nulla, la codardia molta. E possiamo solo immaginare il clima in cui il film è stato girato (la scorsa primavera, periodo in cui James Gunn perse il suo lavoro alla Marvel a causa di alcuni tweet risalenti al suo periodo di umorista alla corte di Lloyd Kaufman), decisamente il meno adatto a una produzione spensierata.

La storia di Brightburn- L'angelo del male, già ampiamente sbandierata (si tratta pur sempre dell'unico, assai poco fantasioso selling point), si riduce ad un pigrissimo what if: e se Superman fosse stato cattivo? Dunque, una cometa spedisce sulla fattoria della coppia di hillbilly Tori (Eizabeth Banks) e Kyle Breyer (David Denman) quella che pare proprio una navicella spaziale. All'interno, un bambino: il piccolo Brendon (Jackson Dunn), che sarà adottato e cresciuto dai due contadini. Ma quando, una volta raggiunta l'adolescenza, Brendon scoprirà di possedere poteri superumani, non li adotterà per proteggere l'umanità. Il ruolo di salvatore cristologico non gli si addice. E la mente del problematico ragazzino partorirà piani ben peggiori.

Brightburn prende il suo spunto, se non esattamente sconvolgente, quanto meno stuzzicante, e decide di sacrificarlo sull'altare di un mesto e sciattissimo grigiore. Come se l'angosciata vita personale del suo produttore avesse indirettamente influenzato la deprimente messa in scena degli autori. Brightburn non ha colore, non ha calore, non ha umorismo né violenza: i jump scares sonori sono la sua unica arma, gli effetti digitali brutti il massimo della creatività. Nella contorta pubertà del giovane supereroe, sballottato da tempeste ormonali frustrate, bullismo e complessi edipici irrisolti, c'erano tutti gli estremi per aspettarsi una determinata serie di componenti (splatter, violenza, un po' di beata anarchia). Il film invece sembra non pensato, abbozzato e lasciato lì: solo l'ennesimo rigurgito Omen-iano del pallido bambino malefico, con qualche posticcio rimando all'universo comic (il protagonista con il nome allitterato, l'ambiente scolastico, la costruzione dell'identità...) appiccicato sopra senza che la cosa si traduca in un discorso di alcun tipo.

Se le suggestioni horror di Brightburn - L'angelo del male si limitano a riproporre un canovaccio registico già masticato, è proprio la maniera in cui la struttura supereoistica viene impiegata a far venire il nervoso. Al netto di una generica povertà della produzione che mina in partenza qualunque aspettativa di grandeur (ma allora perché impuntarsi su dei superpoteri così complicati da rendere visivamente, come il volo e la superforza?), è proprio il revisionismo alla base ad apparire fuori dal tempo. L'origin story "realistica" di un supereroe tormentato che si riscopre malvagio appartiene all'immaginario cinematografico da decenni (Akira...), è già passata attraverso la ricontestualizzazione postmoderna (Chronicle), e persino nella parodia esplicita (Kick-Ass); per non parlare dell'universo fumettistico, dove soprattutto in casa DC il ribaltamento delle dinamiche eroe-villain è un serbatoio di spunti sfruttato all'inverosimile. Fa strano che proprio il presunto genio maledetto di questo sottogenere decida di presentarsi, nel 2019, nell'era di Endgame e del commiato di un'Epica ormai al canto del cigno, con una satira così vecchia, e così spenta. Magari dieci anni fa. O magari mai.

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David Yarovesky Elizabeth Banks David Denman Jackson Dunn Meredith Hagner 90 minuti
USA 2019
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5 cm al secondo

di Fiaba Di Martino
5 cm al secondo - recensione film

Sono i petali di ciliegio, a cadere 5 centimetri al secondo. La loro è una discesa lenta, quasi impercettibile nella distrazione di un colpo d'occhio, ma inesorabile. Che lascia scaturire una bellezza furtivamente struggente, una netta malinconia, che per Makoto Shinkai sono intrinseche alla condizione umana, al suo universo privato di illusioni, la cui caducità, il cui imbrunire, la cui caduta sono insfuggibili. E la cui presa di coscienza costituisce la prima ferita, irrimarginabile, dell'avvento della giovinezza.

5 cm al secondo è il secondo film di Shinkai, che vede il buio  delle sale italiane (finora era rimasto confinato al recinto dell'home video) a oltre dieci anni dal debutto in patria. Nell'epoca ante Your Name., era anche il film più amato del sensei, e resta oggi un ideale compendio della sua poetica, una summa precoce della sua visione autoriale tutta. 5 cm al secondo è pura poesia sentimentale, intimamente leopardiana, meditativa e laconica, anti-estetizzante nonostante la vertiginosità delle lucide immagini, la loro densità emotiva che si fa a tratti cosmica, persino eroica nel proprio tendere alla preservazione (più che alla ricerca) di una piccola felicità da sottrarre allo scorrere del tempo maligno. I personaggi di Shinkai, qui come nei suoi altri lavori, sono interscambiabili, tutti figli di un mal di vivere il presente, tutti vittime innocenti dell'incedere delle età della vita, agnelli sacrificali della sorte immutabile che tocca all'umano: la transitorietà dell'anima, del cuore, dei sentimenti. I quali, non importa quanto immensi, sfioriranno e toccheranno terra, fermandosi, come quei petali di ciliegio. Perciò i film di Shinkai, per quanto rassegnati, arresi in partenza, si configurano come portali dimensionali su quel che resta degli antichi giorni lieti, sulle memorie preziose, su quelle lovely bones irrecuperabili. Componimenti diaristici segreti, srotolati attraverso lunghi viaggi in cui si sta fermi: Takaki che rimane bloccato su un treno che pare correre per sempre nella notte e sotto la neve, ma anche Asuna che in Children who Chase Lost Voices (vero capodopera di Makoto) è smarrita in un sogno dantesco, nel cercare il suo Orfeo per dirgli addio (perché, come cantano i Pains of Being Pure at Heart, non smetterà mai di perderlo), e c'è poi  il giardino segreto di Takao e Yukino... Vivono ellitticamente, i fanciulli di Shinkai, fra la Terra e l’ignoto spazio profondo (entrambi luoghi di dispersione e perdita d’equilibrio sentimentale: La voce delle stelle, l’ucronia Oltre le nuvole, il luogo promessoci), in spazi custoditi e ben protetti, al di fuori della quotidianità alienante e metropolitana, lontani da terreni urbani tentacolari. Dolci stasi dove cullare degli amori che non si daranno mai completamente: quello di Shinaki è un lavoro sull’irrisolto, un ostinato operare contro i ritmi ansiosi e le tensioni in salita dei mélo.

Tutto in 5 cm al secondo (e altrove nei suoi film) è anticlimatico, lento, contemplativo, paesaggio interiore immobile come un dipinto, privo di sterzate catartiche, agnizioni, epifaniche scene madri. Gli basta "esserci", abbandonarsi a un poema visivo circolare, all'epica della solitudine e della tristesse, che ha il sapore di una prima volta, di una rottura dell'innocenza, di un mesto spleen. Come un Kar-Way animato ma scevro di vibrazioni visionarie, più composto, più intimidito, nella carrellata di souvenirs de jeuness incorniciati dal senso inconsolabile dell’inaffidabilità del presente, dell’incomunicabilità col mondo e con la vita adulta, con le sue ingiustizie e i suoi doveri rigidamente eteroimposti.
Quella di Shinkai è una cosmogonia decadente di volti e anime che si sfiorano senza mai trovarsi, senza risolversi in un effettivo compimento – e, se lo trovano, tale culminatio avviene fuori campo, in un’immaginazione offscreen, come accade nel sopraccitato Your Name., che è, dopotutto, una sorta di espansione e un tentativo di scioglimento dell’ultimo capitolo di 5 cm al secondo: il fanta-twist del film, assente dall'opera seconda dell'autore, allentava il carico pesante della condizione esistenziale tipica di tutti i suoi personaggi, trovando una scappatoia alla croce del tempus fugit e manipolandone fantasticamente il corso, per qualche momento regalando – come in un astratto crossover, certificando l'universo condiviso – un sollievo agli amanti infelici all'ombra del ciliegio.

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Makoto Shinkai 63 minuti
Giappone 2007
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Hanna - La serie

di Rosario Gallone
hanna recensione serie tv amazon

C’erano due motivi, tra tutti, per guardare con interesse la serie Hanna, disponibile su Amazon Prime Video dal 3 febbraio. Il primo era l’affezione verso l’universo narrativo di partenza, non particolarmente originale (gli esperimenti su ragazzi a scopo militare non sono certo una novità) ma messo in scena con la solita (e, diciamocelo, finora sottovalutata) maestria da Joe Wright per il grande schermo, nel 2011.

Il secondo era rivedere insieme, per la prima volta dai tempi di The Killing, Joel Kinnaman e Mireille Enos, le cui singole carriere, fuori dalla serie creata da Veena Sud, non sono mai state all’altezza (al cinema Kinnaman ha partecipato a Suicide Squad ed è stato il nuovo Robocop, sul piccolo schermo ha incarnato il protagonista di Altered Carbon oltre a fare da ultimo avversario politico di Frank Underwood in House of Cards; alla Enos è andata decisamente peggio, col bruttino Sabotage di David Ayer più un paio di pellicole rimaste inedite in Italia).

C’è da dire, a proposito del primo dei motivi, che la prudenza del creatore David Farr (prudenza del tutto motivata sia chiaro) nei confronti di quanti non abbiano visto il film del 2011 si rivela, al contrario, per chi quella pellicola l’ha vista e amata, un mezzo boomerang, conferendo ai primi due episodi della serie un che di pleonastico e un’allure di dejà-vu che mette a rischio la prosecuzione. Fortunatamente, una volta esaurita la pratica, quell’universo viene espanso sicché la serie riesce ad approfondire le personalità di tutti e tre i protagonisti, che svestono i panni degli attanti per trasformarsi davanti ai nostri occhi in persone a tutto tondo. La Marissa Wiegler della Enos, rispetto a quella algida e spietata disegnata da Cate Blanchett, è una donna ligia ma tormentata da un senso di colpa che mal si concilia col desiderio di maternità; più o meno la stessa cosa si può dire di Erik Heller, sebbene anche quello di Eric Bana lasciasse intravedere, per motivi narrativi, barlumi di amore paterno, per quanto surrogato. Il maggior sviluppo è ovviamente (e fortunatamente) riservato ad Hanna, che nel film era Saoirse Ronan e qui è, senza sfigurare rispetto alla prima, Esme Creed-Miles (figlia di Samantha Morton e di Charlie Creed-Miles, il Billy Kimber di Peaky Blinders). L’incontro con la famiglia di turisti si sviluppa ulteriormente ed è uno snodo importante nella dinamica della scoperta di sé intrapresa dalla ragazza.

Sia chiaro: Hanna non aggiunge nulla di nuovo al panorama della serialità, ma è un prodotto fatto con cura e convinzione, recitato decisamente bene. E qui rientra in gioco il secondo dei motivi: l’alchimia tra Kinnaman e Enos è palpabile e insieme funzionano come nessuno dei due, singolarmente, fa. Le otto puntate sono dirette da quattro registi tra cui Sarah Adina Smith (sua la regia di Buster's Mal Heart del 2017 con Rami Malek) e Anders Engström, finlandese giunto negli Usa dopo aver diretto, tra le altre cose, episodi di Wallander e che ha al suo attivo anche diverse puntate di Taboo.

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