Dolor y gloria

di Veronica Vituzzi
dolor y gloria - recensione film almodovar

L’ultimo film di Pedro Almodóvar è un enigma che richiede ripensamenti, ulteriori riflessioni, forse perfino una seconda visione più ragionata. La prima potrebbe rimanere vittima della splendida messa in scena e farsi travolgere dal sentimento che trabocca e commuove, anche grazie al principale, forse involontario, tranello messo dal regista spagnolo.

Difatti non si può far a meno di credere Dolor y gloria profondamente, totalmente autobiografico. Deve per forza trattarsi di Almodóvar che svela Almodóvar. D’altra parte non racconta di un famoso cineasta spagnolo (Antonio Banderas), della sua omosessualità e del suo amore viscerale per il cinema? Traspare anche una profonda nostalgia per un’infanzia povera e preziosa, ed è proprio Penelope Cruz, altra attrice storica di Almodóvar, a interpretare la giovane madre che torna alla memoria dell’oramai vecchio e stanco protagonista. Si potrebbe dunque pensare di trovarsi di fronte a una versione personale di , l’opera che più facilmente viene alle labbra quando si parla di cinema, memoria e un regista che riflette sulla propria vita.

Eppure Almodóvar è chiaro: quell’infanzia mitica nelle grotte di Paterna non l’ha mai vissuta. Mai esistito quel bellissimo giovine che Salvador incontra da bambino e lo scuote con la forza di un primo violento desiderio. Quel dialogo dolente e così privato con la madre oramai vecchia e prossima alla morte (Julieta Serrano) è una pura creazione della sua mente. Eppure l’idea resiste, tenace e testarda: mai come in questo film Almodóvar si è messo a nudo. A modo suo. Ma come?

Dunque, c’è Salvador. È un regista spagnolo, molto amato e celebrato in patria e all’estero, ma da tempo progressivamente immobilizzato da vari problemi fisici che l’hanno costretto ad abbandonare il set per chiudersi nella sua splendida ma solitaria casa-museo. In occasione dell’anniversario del suo esordio cinematografico, Sabor, ritorna in contatto dopo più di trent’anni con l’attore protagonista del film, Alberto, con cui aveva rotto ogni rapporto a causa dei suoi problemi con l’eroina. L’incontro tardivo porta a inaspettati risvolti: Salvador chiede ad Alberto di iniziarlo alla droga, e dopo un drammatico – ed esilarante – litigio, in occasione del ben poco sobrio incontro col pubblico per la proiezione di Sabor, gli concede di portare in scena un suo testo teatrale mai rappresentato, Dipendenza. Come una scatola cinese, quest’opera è una completa messa a nudo di Salvador e del suo vecchio grande amore, anch’esso tossicodipendente, Federico, il quale, per caso presente tra il pubblico in teatro, si riconosce nel testo e va a cercare dopo decenni il suo partner.

Forse è nell’incontro fra Federico e Salvador che sta la chiave della costruzione di Dolor y gloria. A prima vista il film di Almodóvar sembra infatti costruito sul continuo succedersi di spazi chiusi e solitari versus spazi aperti liberi, felici, coraggiosi. È chiusa la bellissima casa del protagonista, adorna di quadri e mobilio colorato; è una grotta chiusa il posto dove Salvador bambino va a vivere coi genitori e da cui tenta di fuggire per far dispetto alla madre quando essa gli comunica che l’unico modo per poter continuare a studiare è entrare in seminario. È infine una gabbia lo stesso corpo del regista, soggetto a infiniti dolori e acciacchi fino a dover rinunciare alla regia che tanto ama. Al contrario, il primo ricordo felice dell’infanzia è quello della madre e le amiche che lavano all’aperto i panni cantando, il cinema che innamora il protagonista fin da piccola è all’aperto e il passato di quest’uomo, ora costretto a farsi di eroina per poter spaziare con la mente, è un racconto nostalgico di un'infanzia perduta e primi intensi amori.

Quando però Federico chiama Salvador al telefono, e questo lo scopre nascosto sotto casa sua, evidentemente speranzoso di poter entrare, il gesto che cambia tutto non è uscire, quanto far entrare nel suo spazio privato il vecchio grande amore; così come le sue parole l’hanno svelato al chiuso della sala di un piccolo teatro. Il luogo chiuso diviene da allora in poi uno spazio di crescita salvifica, luogo della memoria dove Salvador torna agli ultimi toccanti, dolceamari dialoghi con una madre che rimprovera il figlio per una distanza fisica che è divenuta emotiva, o la stanza di un dottore che lo rivela meno malato di ciò che credeva e, infine, un’inquadratura che sembra delimitata e finita ma si allarga fino a svelare il set ove Salvador ha ricominciato a lavorare.

Eppure Almodóvar ammette sinceramente il suo voluto dissimulare. Salvador non esita a mantenersi fermo nel tenersi a distanza dal racconto autobiografico - e forse a volte ricattatorio nel suo mettersi al nudo - ricordando che il bravo attore non mostra le lacrime, ma si svela maggiormente allo spettatore se colto nel gesto di trattenerle. Ciò che il regista spagnolo confessa in una costruzione romanzata è un mix autentico di profonda malinconia e onesto dolore, un sentimento di perdita unito a un’inedita sensazione di speranza. Infatti è dando un senso a questi spazi ridotti della mente e del corpo, ampliandoli e accrescendoli di valore, facendovi entrare dentro il mondo degli affetti, di ciò che è più caro, che essi diventano fonte preziosa di creatività per il futuro. Come la grotta dell’infanzia che viene intonacata e decorata, o la casa colma di quadri dell’uomo adulto, basta saper riempire, abbellire, arricchire con amore ciò che sembra vuoto, scarno e sterile. Salvador torna a dirigere, Almodóvar torna al cinema, e, miracolo più grande di Dolor y gloria, tutto questo accade entro il luogo ristretto di un’inquadratura, di una sala cinematografica: perché solo l’arte ha la capacità di rendere infinito uno spazio chiuso, e di farne un'esperienza incredibile.

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Pedro Almodóvar Antonio Banderas Penélope Cruz Asier Etxeandía Leonardo Sbaraglia 113 minuti
Spagna 2019
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I figli del fiume giallo

di Alessandro Gaudiano
i figli del fiume giallo recensione film Jia Zhangke

I figli del fiume giallo (altrimenti noto con il titolo internazionale Ash Is Purest Whiteè un oggetto misterioso, un UFO che dispiega una capacità di immaginazione e creazione sconfinata. Una storia d'amore, una rapsodia della Cina in perenne mutamento, un potentissimo ritratto di donna: Jia Zhangke riflette sul proprio cinema e lo ricompone in un mondo nuovo.

Zhao Qiao (Zhao Tao) e Guo Bin (Liao Fan) sono una coppia influente nel modesto sottobosco criminale di Datong: bische clandestine, sale da ballo e pistole nella borsa, la cui messa in scena ci riporta direttamente agli anni d'oro del cinema di Hong Kong. Nel mezzo di una sanguinosa lotta di potere, Qiao è costretta a estrarre la pistola di Bin per mettere in fuga una banda rivale e salvare la vita del suo compagno. Sacrificandosi per onore e per amore, sconta cinque anni di prigione al posto di Guo. Al suo ritorno, la donna si mette alla ricerca del compagno che, nel frattempo, si è fatto una nuova vita.

I figli del fiume giallo comincia come un dramma criminale: la camera accompagna una femme fatale di provincia mentre cammina, sicura, verso la corte del suo amante: tessere di Mah Jong e volute di fumo, sguardi gelidi. La violenza esplode senza preavviso e senza spiegazioni. Quando Guo e Qiao, sicuri di se stessi e affascinanti, perdono il controllo del loro piccolo mondo, cambia anche la voce del regista.
Jia non esita ad alternare riprese in analogico e in digitale, o a cambiare tempo e voce della narrazione passando dal noir al thriller, dal dramma al documentario. Mentre la parabola della coppia si dipana e il loro ambiguo legame attraversa due decenni, ritroviamo le tracce di Still Life e Unknown Pleasures, così come gli scorci urbani di 24 City o I wish I knew. Da "donna del capo", Qiao diventa una prigioniera e una vagabonda. Il suo sguardo si abbassa, ma non la sua forza. Sola, cerca di sopravvivere a un mondo che è andato avanti senza di lei e che è, irrimediabilmente, tragicamente, patriarcale. Perde tutto e ricomincia da zero; nel suo vagare per la Cina (è questo uno dei significati dell'espressione jianghu, che troviamo nel titolo cinese del film) viaggia fino alla nuova frontiera, lo Xinjiang, per ritrovare un nuovo e precario equilibrio.

I figli del fiume giallo è, prima di tutto, una dolorosa riflessione sul tempo. Tempo che trasforma le relazioni, ribalta i rapporti di potere, consuma le energie esuberanti della giovinezza in silenziose rassegnazioni e compassioni. Nessuno mette in scena lo scorrere del tempo come Jia Zhangke: l'autore si immerge in ciascuno dei tre atti in cui è scandita la storia (2001, 2006 e 2018) e ne scatta una fotografia minuziosa che include i luoghi, i fenomeni di costume e, soprattutto, i suoi personaggi. Cattura, grazie al potere del cinema, l'epifania del passaggio inesorabile del tempo: i telefonini si fanno smart e cambiano le canzoni alla radio. Si scopre, all'improvviso, di essere diventati vecchi. E, forse, di commettere gli stessi errori di sempre.

Zhao Tao è ancora una volta la protagonista, rinnovata declinazione di un archetipo di donna, testimone e sopravvissuta. Zhao reinterpreta i suoi vecchi personaggi e torna negli stessi luoghi di sempre (Datong, Fengjie, le metropoli globalizzate della nuova Cina): sembra che Jia voglia riflettere sul proprio cinema e domandarsi se e come sia possibile cambiare, tornare su bivi ormai risolti del passato. I figli del fiume giallo è un film territoriale, famigliare, fatto di tasselli e parole che l'autore ha lungamente definito, film dopo film, e che qui ricompone in un esercizio di composizione straordinariamente ricco e complesso.

Questo film è anche una storia d'amore. Un amore tossico e asimmetrico che vive di contraddizioni e arcaici codici d'onore. Qiao non recide mai il legame, non tradisce mai questo codice che oscilla tra il criminale e il romantico. E qui torniamo al jianghu nel suo significato più pieno: fiumi e laghi, ovvero vagabondare al di fuori dei rigidi confini della civiltà, o della razionalità utilitaristica che cinge d'assedio la protagonista. Jianghu è controcultura, è ribellione, è il rifiuto dell'amnesia storica e politica, della legge del Potere e del capitale. Jia sembra suggerirci che solo i brigantes e gli (anti)eroi possono resistere alle mareggiate del potere e della sfrenata ambizione capitalista a cui cedono, uno per uno, tutti gli uomini.

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Jia Zhangke Zhao Tao Liao Fan Xu Zheng Diao Yinan 141 minuti
Cina, Francia 2018
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Amaranto

di Carmen Albergo
Amaranto - recensione film Cannone

Guarire il mondo, un bambino alla volta. Questo il promemoria, solo apparentemente utopico, per quanto ancora da imprimere a livello globale, appuntato nel documentario Amaranto dalle registe Emanuela Moroni e Manuela Cannone.

Ma si deve iniziare dal farsi resistenza, ognuno per sé, scrollarsi di dosso il paradigma economico-culturale dominante, consumistico e individualista, come appunto la pianta erbacea dell'amaranto, selvatica e spontanea, che nel caso eclatante citato dal film ha invaso le piantagioni di soia transgenica di una delle più grandi multinazionali del mondo. Iniziare, dunque, da quanto abbiamo a portata di mano, dalla ricerca e condivisione di testimonianze, uomini e donne che eccezioni di oggi, possono col proprio esempio pratico infondere consapevolezza e responsabilità nel ciclo di vita che ci circonda e come l'amaranto diramarsi nella collettività.

La narrazione è impostata infatti come la scansione in capitoli di una vita intera: la nascita, come evento genitoriale consapevole, l'educazione creativa, il radicamento ai luoghi come investimento psico-sociale, quindi il co-abitare ed infine la morte come rinascita. Tutto in una prospettiva alternativa, magari silente, lenta e incontaminata che possa dimostrare come decisioni e soluzioni differenti, sempre rispettose dell'essere umano e suo ecosistema, siano possibili e possano comportare una sana e benefica diversità. Insomma che la rassegnazione di essere pochi sostenitori di progetti e ideali solidali secondo natura, non è più una scusante.

Innegabile come oggi il documentario, indagine del reale, sappia essere militante e dolce al tempo stesso, per mostrare quanta vita premurosa e solerte si realizzi a riflettori spenti e lontano dai megafoni contraffatti dei media (si pensi a "Un paese di Calabria" di Aiello e Catela o al "Dove bisogna stare" di Gaglianone). In questo mettersi in viaggio con piglio spensierato, in ascolto delle conquiste esistenziali e riconciliazioni etiche altrui, Amarato s'affianca a "Sarà un paese" di Nicola Campiotti, in cui ad "altezza di bambino" erano interrogate le maggiori contraddizioni politiche del bel paese. Dicasi lo stesso per la scelta estetica di ammantare l'opera di fantasticherie e leggerezza di spirito, attraverso soluzioni creative di composizione e montaggio, tra cui un prologo che attinge a piene mani dall'immaginario filmico di Jean Pierre Jeunet, pur tuttavia lasciando che a condurre l'esposizione siano gli intermezzi: la marionetta di Augusto Terenzi, le illustrazioni di Marta Consoli, le animazioni e gli effetti visivi di Alessandro Antonelli.

Amaranto, chiede allo spettatore di essere concreto, di fermarsi a riflettere su scelte di vita, radicali e semplici, che ciascuno di noi è in grado di cogliere e intraprendere. Gesti da praticare nell'arco di una vita e da più vite insieme, nella più autentica interconnessione di intenti, proprio ora (e ancora se nn ora quando! ) che il pianeta versa nella più acuta emergenza climatica e umanitaria, ma anche ora che l'uomo come singolo e come specie dispone dei mezzi più incisivi e simultanei per iniziare ad invertire la rotta. Attraverso il loro lavoro indipendente (Audience Award al RIFF2018) le coautrici manifestano un attivismo ecologico, nel senso quanto più esteso del temine, non solo strettamente ambientalista, ma anche civico e intellettuale, avendo fatto leva su ben due crowdfunding per la produzione e sulla divulgazione di filosofie strategiche di salvaguardia del pianeta, tramite volti e voci dirette di maggiori teorici (tra i tanti Serge Latouche, Helena Norbert-Hodge, Franco Arminio) i quali rispondono al quesito "qual è l’urgenza più grande in questo momento e qual è la sua soluzione?".

Siamo pratici anche in questa sede: una produzione tanto leggiadra quanto ai margini del grande circuito distributivo commerciale, dove può attecchire spontaneamente e sabotare il campo di un sistema di massa, ormai superato? Recenti disposizioni di legge hanno reintrodotto l'insegnamento (già pre-ordinato in ore e programmi) dell'educazione civica nelle scuole come trasversale alle classiche materie di studio e già da qualche anno la legge sull'educazione al linguaggio cinematografico ha trovato attuazione attraverso bandi progettuali e piattaforme pedagogiche d'accesso provilegiato al circuito scolastico. Perchè non coniugare allora le intenzioni didattiche dell'illuminato legislatore e lasciare che l'educazione civica sposi ufficialmente l'alfabetizzazione audiovisiva, non solo come strumento di difesa dai pericoli della rete e dal trash televisivo, ma anche e soprattutto quale ricognizione dei saperi e della facoltà di saper scegliere, appunto, che tipo di cittadini si vuol e può diventare in questo stare al mondo? Nella libertà e responsabilità della scelta (a prescindere dal bene e male, valori altamente soggettivi) risiedeva la gran virtù della morale... sosteneva già secoli fa il saggio filosofo umanista.

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Emanuela Moroni Manuela Cannone Verena Schmid Franco Lorenzoni Etain Addey Alida Nepa Saviana Parodi 80 minuti
Italia 2018
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Brightburn - L'angelo del male

di Saverio Felici
Brightburn - Recensione film Yarovesky

Per i pochi che hanno avuto modo di seguire la storia dietro Brightburn - L'angelo del male, il risultato ora in sala non può che considerarsi una delusione. Presentandosi come generico horror low cost con appena qualche spolverata di rimandi all'universo nerd, il film si fa un favore: questo è, nulla di più, un prodotto assolutamente sotto media e non particolarmente degno di attenzione. Senza la minima forza né voglia di scardinare quelle regole e quei tabù che l'etichetta di b-movie pure gli concederebbe. E già questo lo rende antipatico. In realtà, visto il il patrocinio convinto del clan Gunn (la star James in produzione, i parenti Mark e Brian in scrittura, il tuttofare David Yarovesky in regia), l'ambiente creativo da cui tale gruppo muove, e la complicatissima vicenda che nell'ultimo anno ha portato il regista dei Guardiani Marvel a trovarsi esiliato (e poi reintegrato) dal kafkiano macchinario degli studi Disney... tutti questi elementi avevano, nella mente del pubblico, caricato Brightburn di un'aura da provocazione autoriale, di parodia critica e desacralizzazione-Troma definitiva del genere supereroistico.
Nulla del genere. Brightburn è tutt'altro, o meglio, pochissimo altro. Una serie di fattori complottano contro le aspettative dello spettatore, che minuto dopo minuto dovrà arrendersi e smettere di augurarsi il guizzo. I soldi sono pochi, l'ambizione è nulla, la codardia molta. E possiamo solo immaginare il clima in cui il film è stato girato (la scorsa primavera, periodo in cui James Gunn perse il suo lavoro alla Marvel a causa di alcuni tweet risalenti al suo periodo di umorista alla corte di Lloyd Kaufman), decisamente il meno adatto a una produzione spensierata.

La storia di Brightburn- L'angelo del male, già ampiamente sbandierata (si tratta pur sempre dell'unico, assai poco fantasioso selling point), si riduce ad un pigrissimo what if: e se Superman fosse stato cattivo? Dunque, una cometa spedisce sulla fattoria della coppia di hillbilly Tori (Eizabeth Banks) e Kyle Breyer (David Denman) quella che pare proprio una navicella spaziale. All'interno, un bambino: il piccolo Brendon (Jackson Dunn), che sarà adottato e cresciuto dai due contadini. Ma quando, una volta raggiunta l'adolescenza, Brendon scoprirà di possedere poteri superumani, non li adotterà per proteggere l'umanità. Il ruolo di salvatore cristologico non gli si addice. E la mente del problematico ragazzino partorirà piani ben peggiori.

Brightburn prende il suo spunto, se non esattamente sconvolgente, quanto meno stuzzicante, e decide di sacrificarlo sull'altare di un mesto e sciattissimo grigiore. Come se l'angosciata vita personale del suo produttore avesse indirettamente influenzato la deprimente messa in scena degli autori. Brightburn non ha colore, non ha calore, non ha umorismo né violenza: i jump scares sonori sono la sua unica arma, gli effetti digitali brutti il massimo della creatività. Nella contorta pubertà del giovane supereroe, sballottato da tempeste ormonali frustrate, bullismo e complessi edipici irrisolti, c'erano tutti gli estremi per aspettarsi una determinata serie di componenti (splatter, violenza, un po' di beata anarchia). Il film invece sembra non pensato, abbozzato e lasciato lì: solo l'ennesimo rigurgito Omen-iano del pallido bambino malefico, con qualche posticcio rimando all'universo comic (il protagonista con il nome allitterato, l'ambiente scolastico, la costruzione dell'identità...) appiccicato sopra senza che la cosa si traduca in un discorso di alcun tipo.

Se le suggestioni horror di Brightburn - L'angelo del male si limitano a riproporre un canovaccio registico già masticato, è proprio la maniera in cui la struttura supereoistica viene impiegata a far venire il nervoso. Al netto di una generica povertà della produzione che mina in partenza qualunque aspettativa di grandeur (ma allora perché impuntarsi su dei superpoteri così complicati da rendere visivamente, come il volo e la superforza?), è proprio il revisionismo alla base ad apparire fuori dal tempo. L'origin story "realistica" di un supereroe tormentato che si riscopre malvagio appartiene all'immaginario cinematografico da decenni (Akira...), è già passata attraverso la ricontestualizzazione postmoderna (Chronicle), e persino nella parodia esplicita (Kick-Ass); per non parlare dell'universo fumettistico, dove soprattutto in casa DC il ribaltamento delle dinamiche eroe-villain è un serbatoio di spunti sfruttato all'inverosimile. Fa strano che proprio il presunto genio maledetto di questo sottogenere decida di presentarsi, nel 2019, nell'era di Endgame e del commiato di un'Epica ormai al canto del cigno, con una satira così vecchia, e così spenta. Magari dieci anni fa. O magari mai.

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David Yarovesky Elizabeth Banks David Denman Jackson Dunn Meredith Hagner 90 minuti
USA 2019
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5 cm al secondo

di Fiaba Di Martino
5 cm al secondo - recensione film

Sono i petali di ciliegio, a cadere 5 centimetri al secondo. La loro è una discesa lenta, quasi impercettibile nella distrazione di un colpo d'occhio, ma inesorabile. Che lascia scaturire una bellezza furtivamente struggente, una netta malinconia, che per Makoto Shinkai sono intrinseche alla condizione umana, al suo universo privato di illusioni, la cui caducità, il cui imbrunire, la cui caduta sono insfuggibili. E la cui presa di coscienza costituisce la prima ferita, irrimarginabile, dell'avvento della giovinezza.

5 cm al secondo è il secondo film di Shinkai, che vede il buio  delle sale italiane (finora era rimasto confinato al recinto dell'home video) a oltre dieci anni dal debutto in patria. Nell'epoca ante Your Name., era anche il film più amato del sensei, e resta oggi un ideale compendio della sua poetica, una summa precoce della sua visione autoriale tutta. 5 cm al secondo è pura poesia sentimentale, intimamente leopardiana, meditativa e laconica, anti-estetizzante nonostante la vertiginosità delle lucide immagini, la loro densità emotiva che si fa a tratti cosmica, persino eroica nel proprio tendere alla preservazione (più che alla ricerca) di una piccola felicità da sottrarre allo scorrere del tempo maligno. I personaggi di Shinkai, qui come nei suoi altri lavori, sono interscambiabili, tutti figli di un mal di vivere il presente, tutti vittime innocenti dell'incedere delle età della vita, agnelli sacrificali della sorte immutabile che tocca all'umano: la transitorietà dell'anima, del cuore, dei sentimenti. I quali, non importa quanto immensi, sfioriranno e toccheranno terra, fermandosi, come quei petali di ciliegio. Perciò i film di Shinkai, per quanto rassegnati, arresi in partenza, si configurano come portali dimensionali su quel che resta degli antichi giorni lieti, sulle memorie preziose, su quelle lovely bones irrecuperabili. Componimenti diaristici segreti, srotolati attraverso lunghi viaggi in cui si sta fermi: Takaki che rimane bloccato su un treno che pare correre per sempre nella notte e sotto la neve, ma anche Asuna che in Children who Chase Lost Voices (vero capodopera di Makoto) è smarrita in un sogno dantesco, nel cercare il suo Orfeo per dirgli addio (perché, come cantano i Pains of Being Pure at Heart, non smetterà mai di perderlo), e c'è poi  il giardino segreto di Takao e Yukino... Vivono ellitticamente, i fanciulli di Shinkai, fra la Terra e l’ignoto spazio profondo (entrambi luoghi di dispersione e perdita d’equilibrio sentimentale: La voce delle stelle, l’ucronia Oltre le nuvole, il luogo promessoci), in spazi custoditi e ben protetti, al di fuori della quotidianità alienante e metropolitana, lontani da terreni urbani tentacolari. Dolci stasi dove cullare degli amori che non si daranno mai completamente: quello di Shinaki è un lavoro sull’irrisolto, un ostinato operare contro i ritmi ansiosi e le tensioni in salita dei mélo.

Tutto in 5 cm al secondo (e altrove nei suoi film) è anticlimatico, lento, contemplativo, paesaggio interiore immobile come un dipinto, privo di sterzate catartiche, agnizioni, epifaniche scene madri. Gli basta "esserci", abbandonarsi a un poema visivo circolare, all'epica della solitudine e della tristesse, che ha il sapore di una prima volta, di una rottura dell'innocenza, di un mesto spleen. Come un Kar-Way animato ma scevro di vibrazioni visionarie, più composto, più intimidito, nella carrellata di souvenirs de jeuness incorniciati dal senso inconsolabile dell’inaffidabilità del presente, dell’incomunicabilità col mondo e con la vita adulta, con le sue ingiustizie e i suoi doveri rigidamente eteroimposti.
Quella di Shinkai è una cosmogonia decadente di volti e anime che si sfiorano senza mai trovarsi, senza risolversi in un effettivo compimento – e, se lo trovano, tale culminatio avviene fuori campo, in un’immaginazione offscreen, come accade nel sopraccitato Your Name., che è, dopotutto, una sorta di espansione e un tentativo di scioglimento dell’ultimo capitolo di 5 cm al secondo: il fanta-twist del film, assente dall'opera seconda dell'autore, allentava il carico pesante della condizione esistenziale tipica di tutti i suoi personaggi, trovando una scappatoia alla croce del tempus fugit e manipolandone fantasticamente il corso, per qualche momento regalando – come in un astratto crossover, certificando l'universo condiviso – un sollievo agli amanti infelici all'ombra del ciliegio.

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Makoto Shinkai 63 minuti
Giappone 2007
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Hanna - La serie

di Rosario Gallone
hanna recensione serie tv amazon

C’erano due motivi, tra tutti, per guardare con interesse la serie Hanna, disponibile su Amazon Prime Video dal 3 febbraio. Il primo era l’affezione verso l’universo narrativo di partenza, non particolarmente originale (gli esperimenti su ragazzi a scopo militare non sono certo una novità) ma messo in scena con la solita (e, diciamocelo, finora sottovalutata) maestria da Joe Wright per il grande schermo, nel 2011.

Il secondo era rivedere insieme, per la prima volta dai tempi di The Killing, Joel Kinnaman e Mireille Enos, le cui singole carriere, fuori dalla serie creata da Veena Sud, non sono mai state all’altezza (al cinema Kinnaman ha partecipato a Suicide Squad ed è stato il nuovo Robocop, sul piccolo schermo ha incarnato il protagonista di Altered Carbon oltre a fare da ultimo avversario politico di Frank Underwood in House of Cards; alla Enos è andata decisamente peggio, col bruttino Sabotage di David Ayer più un paio di pellicole rimaste inedite in Italia).

C’è da dire, a proposito del primo dei motivi, che la prudenza del creatore David Farr (prudenza del tutto motivata sia chiaro) nei confronti di quanti non abbiano visto il film del 2011 si rivela, al contrario, per chi quella pellicola l’ha vista e amata, un mezzo boomerang, conferendo ai primi due episodi della serie un che di pleonastico e un’allure di dejà-vu che mette a rischio la prosecuzione. Fortunatamente, una volta esaurita la pratica, quell’universo viene espanso sicché la serie riesce ad approfondire le personalità di tutti e tre i protagonisti, che svestono i panni degli attanti per trasformarsi davanti ai nostri occhi in persone a tutto tondo. La Marissa Wiegler della Enos, rispetto a quella algida e spietata disegnata da Cate Blanchett, è una donna ligia ma tormentata da un senso di colpa che mal si concilia col desiderio di maternità; più o meno la stessa cosa si può dire di Erik Heller, sebbene anche quello di Eric Bana lasciasse intravedere, per motivi narrativi, barlumi di amore paterno, per quanto surrogato. Il maggior sviluppo è ovviamente (e fortunatamente) riservato ad Hanna, che nel film era Saoirse Ronan e qui è, senza sfigurare rispetto alla prima, Esme Creed-Miles (figlia di Samantha Morton e di Charlie Creed-Miles, il Billy Kimber di Peaky Blinders). L’incontro con la famiglia di turisti si sviluppa ulteriormente ed è uno snodo importante nella dinamica della scoperta di sé intrapresa dalla ragazza.

Sia chiaro: Hanna non aggiunge nulla di nuovo al panorama della serialità, ma è un prodotto fatto con cura e convinzione, recitato decisamente bene. E qui rientra in gioco il secondo dei motivi: l’alchimia tra Kinnaman e Enos è palpabile e insieme funzionano come nessuno dei due, singolarmente, fa. Le otto puntate sono dirette da quattro registi tra cui Sarah Adina Smith (sua la regia di Buster's Mal Heart del 2017 con Rami Malek) e Anders Engström, finlandese giunto negli Usa dopo aver diretto, tra le altre cose, episodi di Wallander e che ha al suo attivo anche diverse puntate di Taboo.

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Piercing

di Andreina Di Sanzo
piercing-2018-nicolaspesce

I am very happy / So please hit me / I am very, very happy/ So please hurt me cantava Antony nella sua Cripple and the Starfish, uno dei pezzi più tragicamente innamorati del dolore. L’amore e la violenza, questi due illustri conosciuti, su cui tanto si è scritto e visto, i giapponesi, maestri del dittico, hanno raggiunto vette con registi come Oshima, Miike e Ryū Murakami. Proprio lui, autore del romanzo da cui è tratto Piercing. Il freddo latex di Tokyo Decadence lascia spazio alla voluttuosa pelliccia della venere Jackie, interpretata da Mia Wasikowska, crudele vittima e dolce carnefice del suo rapitore.

Reed è un uomo distinto che con meticolosa normalità e accurata eleganza sta per lasciare sua moglie e sua figlia, preparandosi per un apparente viaggio di lavoro, un senso di incontrollata violenza già si percepisce dai primi minuti del film di Nicolas Pesce, classe 1990. Un film che come tanto horror contemporaneo ancora una volta si guarda allo specchio, tentando da un lato di sovraccaricare la forma, dall’altro svelandone subito i meccanismi, aggrovigliandosi nei rimandi e nell’aspetto più squisitamente ludico ma aprendo un discorso più ampio sull’eredità del cinema di genere.

Una prostituta un po’ annoiata viene chiamata da un cliente, forse un serial killer, forse un sadomasochista dei più raffinati e brutali. Nessuno sa cosa nasconde l’altro, nessuno sa quanto può essere rassicurante e pericoloso allo stesso tempo chi si ha di fronte. La commedia va in scena, il gioco tra la Venere e il suo Severin inizia. Ognuno nel suo ruolo che diventa dell’altro. Split screen, rossi accesi e Goblin, il regista non fa mistero della sua devozione al nostro cinema più efferato e abbagliante e, così come la coppia belga Cattet-Forzani (Amer, L’étrange couleur des larmes de ton corps e Laissez bronzer les cadavres!), si inchina al dio Argento e saccheggia con una certa spavalderia musiche, dettagli, messa in scena, cromatismi.

Reed e Jackie, necessitano di quella commedia, il gioco di ruoli diventa linfa e, più riconoscono sé stessi nell’altro, più danno sfogo al desiderio, favorendolo e assecondandolo.  
Ma se per Paul Thomas Anderson la battaglia per l’affermazione e la sottomissione diventa una questione tutta mentale tra i fili nascosti, qui si dà libero sfogo a torture fisiche che non lasciano spazio all’immaginazione. Corpi legati, imbavagliati, drogati fino a impedirne qualsiasi movimento, ripetute ferite autoinferte, allucinazioni visive, tutto quello che il sadomasochismo e il feticismo più estremo contemplano e prevedono. Reed e Jackie si incontrano per ritrovarsi.
Non vuole neanche sorprendere con twist inaspettati Piercing, quello che accade ai protagonisti è già un topos ampiamente conosciuto. Da rimandi alti come von Sacher-Masoch, il divin Marchese, Pauline Réage, a tanto cinema che ha reso celebri storie di vittime e carnefici, dipendenza e (e dal) dolore: Maîtresse di Barbet Schroeder, Bad Timing di Nicolas Roeg, fino all’ultima prodezza appunto di Paul Thomas Anderson. La storia di Reed e Jackie è già lì nonostante il futuro resti sempre incerto.

Dramma d’interni quello di Piercing, prima la camera d’albergo poi la casa della ragazza, la città solo per pochi attimi. La storia d’amore tra i due germoglia nel dolore e nella dolcezza che ne scaturisce subito dopo, ma accade lontano da tutti, fuori dalle luci della metropoli e nascosti tra le mura dei desideri e delle pulsioni più inconfessabili.
Humor nero e grottesco sono la cifra di un film che non si sofferma alla mera superficie di un omaggio allo splendore di quell’horror che non c’è più, Piercing è sì un esercizio smaliziato e accattivante, ma è anche una tenera storia di disperato bisogno di comunione.
L’ostentato manierismo estetico che volutamente infastidisce è solo il contraltare di una più semplice voglia di utilizzare quella superficie scintillante per inoltrarsi nei più neri, ma talvolta basilari, istinti.
Il bisogno primordiale di ritrovare in quella preda, il padrone che possa sfamare la necessità di godimento e che sia anche qualcuno a cui poter dire “Mangiamo prima?”

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Nicolas Pesce Mia Wasikowska Christopher Abbott 81 minuti
USA 2018
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Takara - La notte che ho nuotato

di Domenico Saracino
takara - recensione film Manivel e Igarashi

È un film breve (meno di 80 minuti) ma fascinosamente dilatato, Takara – La notte che ho imparato a nuotare, opera a quattro mani realizzata da un insolito duo franco-nipponico, composto da due giovani registi selezionati e apprezzati nei grandi festival internazionali: Damien Manivel, autore con alle spalle diversi cortometraggi e due lunghi  (Un jeune poète e Le parc) e Kohei Igarashi, creatore di Hold Your Breath Like a Lover, in concorso a Locarno diversi anni fa nella sezione Cineasti del presente.

Dilatato, si diceva, in virtù di una certa tendenza a godere della durata dell’inquadratura e della generale distensione ritmica, riconducibile ad un montaggio modico, limitatissimo, alla camera fissa e ai prolungati silenzi (i dialoghi sono del tutto assenti); e quindi audace nella relazione tutt’altro che consueta che cerca con lo spettatore, come certo slow cinema a cui alcuni grandi autori (Lav Diaz, Tsai Ming-liang, Chantal Akerman, Pedro Costa, Béla Tarr, Andrej Tarkovskij, Nuri Bilge Ceylan, Šarūnas Bartas, Lisandro Alonso e molti altri) hanno nel tempo abituato i cinefili di tutto il mondo.

Un'affinità, quella tra Takara e molte delle opere realizzate dai succitati cineasti, che – è bene precisarlo – riguarda, esclusivamente, una comparabile concezione del tempo e del ritmo della (non) narrazione, un’analoga concezione del cinema come dispositivo capace di imporre la durata, di imprimere lo scorrere del tempo nello schiudersi dell’immagine, di scolpirlo, come avrebbe detto Tarvoskij.
Nel raccontare la singolare giornata di un bambino ritrovatosi accidentalmente alla scoperta dei dintorni della sua casa, tra le montagne innevate del Giappone, per via del senso di solitudine in cui l’assenza del padre lo ha relegato e di un coraggioso tentativo di ricongiungersi con lui al mercato del pesce in cui lavora sin da tarda notte, il film di Manivel e Igarashi si sofferma deliberatamente sui momenti drammaticamente più marginali, quelli che potremmo definire i tempi morti del racconto: i lenti spostamenti a piedi (che fanno pensare, pur con tutt’altra estetica e più radicale sperimentazione, alle interminabili passeggiate sotto la pioggia di Sátántangó), le sigarette fumate e le patatine sgranocchiate nella casa silente, all’alba, un mandarino sbucciato con la calma serena dell’infanzia.

È un cinema, questo, che mette a dura prova lo spettatore assuefatto ai fast cut, all’azione frenetica e sfavillanti effetti speciali, chiedendogli, piuttosto, di imparare a star dentro quadri filmici semplici, svuotati da ogni spettacolarizzazione e persino drammatizzazione, di godersi il puro svolgersi delle cose, istante per istante. Con l’azzardo consapevole di flirtare con la noia o meglio con la deliberata intenzione di farne buon uso, essendo l’otium, come inteso dai nostri ben più saggi avi, uno spazio di liberazione dalle frenesie mondane, di esplorazione dell’interiorità, di contemplazione. Che è poi ciò che consente agli occhi di vedere le cose in tutta la loro quiddità, nella loro esistenza più vera, affrancata dalle deformazioni del pensiero. Cinema del nulla (il “Mu” inscritto sulla lapide di Ozu, uno dei grandi precursori nipponici, insieme a Mizoguchi, dello slow cinema), cinema che non fa violenza al pensiero incalzandolo e ingabbiandolo tra le maglie di fitti intrecci di avvenimenti, cinema della mindfulness.

In questo (r)allentamento delle tensioni drammatiche, in questa assenza di elementi di distrazione dall’immagine e dalla sua durata, lo spettatore può così sperimentare un accrescimento della propria sensibilità, un potenziamento della capacità percettiva, il godimento del cinema pienamente dispiegato, non più asservito alla dittatura dell’intrattenimento.

Categoria
Damien Manivel Kohei Igarashi Takara Kogawa Keiki Kogawa Chisato Kogawa Takashi Kogawa 79 minuti
Francia, Giappone 2017
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Destroyer

di Mattia Caruso
Destroyer - recensione film kusama

In tempi di revenge movie tutti giocati in chiave action e adrenalinica (da Taken a John Wick), è curiosa la scelta intrapresa da un prodotto a questi solo apparentemente assimilabile come Destroyer, ultima fatica della regista statunitense Karyn Kusama. Perché la discesa agli inferi del detective Erin Bell (Nicole Kidman), ex agente federale tormentata dal peso del passato e da una missione sotto copertura finita in tragedia, è quanto di più lontano si possa immaginare da qualsiasi fiero prodotto di serie b, quanto di più distante da un approccio fumettistico e rabbioso a una materia che pare comunque inesauribile.

Alla sua sesta regia, Kusama sceglie così, per la sua storia fatta di sensi di colpa e redenzione, di percorrere una strada più riflessiva e sofferta, contaminando la spirale di violenza scatenata (involontariamente?) dalla sua protagonista con tinte cupe e crepuscolari, prendendosi tutto il tempo che serve per svelare un mistero a questa legato indissolubilmente.
Per farlo mette in scena tutti gli elementi del più classico dei noir metropolitani - da una Los Angeles fatta di ville e bettole a un passato che ritorna con il suo carico di rimpianti e di crimini insoluti - scomponendoli, però, attraverso il proprio sguardo peculiare e costruendoci attorno un film in cui è proprio il peso del passato a dettare regole e sezionare l'azione, in una struttura circolare dove i diversi livelli temporali e narrativi (così come gli stessi generi cinematografici: dal poliziesco all'heist movie) si alternano senza sosta fino a far collassare il tempo su se stesso.

E se poco o niente rimane del precedente (e sorprendente) The Invitation (fatta eccezione per le dinamiche quasi settarie della banda di criminali capeggiata dal mansoniano Silas di Toby Kebbell), è alle origini del proprio cinema e all'esordio di Girlfight, con quella donna forte e sola in mezzo a un mondo di uomini, che pare guardare ancora una volta Kusama, mantenendosi, però, questa volta, lontana da qualsivoglia discorso di genere (segnando così le distanze anche da prodotti recenti come il Revenge di Coralie Fargeat) e dando vita a un personaggio decisamente negativo, un antieroe irrimediabilmente compromesso ma desideroso di riscattarsi da un male che, in definitiva, ha contribuito a creare.
È qui, dove Dirty Harry incontra l'Abel Ferrara de Il cattivo tenente, che Destroyer dà vita a un calvario sofferto e degenerato, un tentativo di espiazione incapace, però, di andare al di là delle più abusate convenzioni del genere, perso com'è attorno alla sua camaleontica interprete, una Nicole Kidman invecchiata e imbruttita sopra le cui esili e malconce spalle pare posato tutto il peso dell'operazione.

Il risultato è un'opera suggestiva ma scostante, forte delle sue atmosfere e del suo nichilismo senza speranza, dove gli ideali precipitano nel baratro dell'avidità e la fascinazione per il male diventa una condanna che si mangia amori, affetti e qualsiasi possibilità di una vita normale, ma anche dove la suspense (a differenza di un film costruito proprio sull'attesa e sul disvelamento progressivo come era The Invitation) rischia di perdersi lungo la strada, penalizzata da un minutaggio eccessivo e da rallentamenti dell'azione a tratti gratuiti ed estetizzanti, fino a un epilogo che ha tutto il sentore di un prevedibile ed esibito martirio laico, tutta la consapevolezza di un'occasione (in parte) mancata.

Categoria
Karyn Kusama Nicole Kidman Toby Kebbel Sebastian Stan Tatiana Maslany Bradley Whitford 123 minuti
USA 2018
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Larghezza massima

Likemeback

di Arianna Pagliara
Likemeback di Leonardo Guerra Seragnoli

Difficile, dopo un esordio insolitamente maturo, limpido ed elegante come Last Summer (2014), realizzare un’opera seconda che possa superare – o quantomeno eguagliare – l’espressività e la sorprendente compiutezza, non solo formale, della prima. Perché oltre all’ottima intuizione di base – la storia, tutta girata su un’imbarcazione, di una madre che ha quattro giorni di tempo per dire addio al suo bambino – il primo film di Leonardo Guerra Seràgnoli vanta la collaborazione alla sceneggiatura di Banana Yoshimoto, i costumi di Milena Canonero e la progettazione dello yacht – spazio fisico che si fa emotivo, racconto di una claustrofobia che è anzitutto interiore – di Odile Decq.

Difficile, ma non impossibile. Con Likemeback il regista mette in campo un discorso attualissimo e scottante, che è – di conseguenza – territorio più che noto, fin troppo esplorato, descritto, raccontato: il rapporto delle nuove generazioni con il web e i social network e dunque, per traslato, con le modalità di costruzione, rappresentazione e veicolazione della propria immagine, divenuta in questo senso un perno identitario irrinunciabile.

Il rischio era, come è facile intuire, quello della ripetizione, della banalizzazione, della programmaticità. Tuttavia Seràgnoli riesce a eludere queste potenziali insidie con una regia fresca e ricca d’immediatezza, grazie a una macchina presa il cui sguardo aderisce quasi sensualmente ai corpi e ai volti delle tre protagoniste femminili. Lo spettatore viene così trascinato dentro allo spazio ovattato e avvolgente di questa intimità condivisa fin quasi a violarla. Intimità che, qui come nel precedente film, è a tratti forzata e dunque claustrofobica: perché anche Likemeback è girato quasi interamente su una barca. All’interno di questo perimetro ristretto è impossibile celare o elaborare privatamente le emozioni, e l’estrema prossimità fisica spalanca distanze interiori, quasi fosse un detonatore che fa esplodere contrasti e impulsi che altrimenti sarebbero forse rimasti sopiti.

Il pretesto per questo viaggio in barca lungo le coste della Croazia è l’esame di maturità che le ragazze – Lavinia, Danila e Carla – si sono lasciate alle spalle. Ma la realtà – fatti di luoghi, colori, odori, persone – per le protagoniste è solo inerte sfondo su cui fotografarsi nella speranza di ampliare il numero dei followers su Instagram. Solo Carla, infine, farà eccezione: più silenziosa e sensibile, all’apparenza remissiva e spesso schiacciata dalle prepotenze e dall’egocentrismo delle (presunte) amiche, si rivela invece l’unica in grado di vivere serenamente e spontaneamente le proprie esperienze (l’amore) e gestire con equilibrio e coraggio le proprie emozioni (la rabbia, la delusione).

Likemeback è un film sul presente, sull’alienazione, sul narcisismo, sulla “vetrinizzazione” dell’io e del corpo ricercata e voluta da un soggetto (Laviania, Danila) che si autoesalta oggettivandosi; è un film sul cortocircuito tra reale e virtuale, tra presenza e assenza (“i followers non sono persone reali”); è una spietata messa a nudo del terribile e irreversibile meccanismo con cui, sovraesponendo la nostra immagine, sovraesponiamo anche la nostra – fragile – interiorità. Ma è anche un coming-of-age in grado di travalicare i confini entro i quali, in un primo tempo, sembra voler svilupparsi. Perché al di là dell’attenta ed efficace analisi delle tendenze quasi autistiche e monomaniacali derivanti dall’utilizzo esasperato e compulsivo dei social, Likemeback sa sviluppare un’accurata disamina, per nulla scontata, dei sentimenti: l’invidia, vero input pulsionale che spinge le protagoniste alle azioni più abiette, l’insicurezza, l’affetto, il desiderio.

Categoria
Leonardo Guerra Seragnoli Durata: 80 minuti
Italia, Croazia, 2018
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima
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