Il venerabile W.

di Samuel Antichi
Il venerabile W., Barbet Schroeder

Dopo essersi concentrato sulla figura di Idi Amin Dada, sanguinario dittatore dell'Uganda dal 1971 al 1979, riflettendo sul regime e il potere assoluto nel film Général Idi Amin Dada: Autoportrait (1974) e su Jacques Vergès, avvocato francese noto per aver difeso terroristi e criminali di guerra come Klaus Barbie e l'ex capo dei Khmer Rossi Khieu Samphan in L’avvocato del terrore (2007), Barbet Schroeder chiude la propria personale trilogia sul male con il documentario Il venerabile W. (2017).

Fin dal titolo è evidente come il regista francese voglia sottolineare la natura estremamente contraddittoria del soggetto su cui ha intenzione di focalizzare l’attenzione. Venerabile infatti è l’appellativo con cui ci si rivolge ai monaci buddhisti, la cui dottrina e pratica religiosa (mahāyāna) si basa sulla compassione universale. Un’attitudine che si distanzia dal semplice pietismo ma che, in relazione dinamica con la realtà fattuale, non esclusivamente collocata dunque in una dimensione trascendentale, può orientare in maniera attiva l’intera esistenza dell’essere umano contro la rovina dell’egoismo e l’attaccamento ai beni materiali. Ashin Wirathu, il monaco a cui il titolo fa riferimento, estremamente influente in Birmania, altera e manipola gli insegnamenti del Buddha incitando i suoi discepoli all’islamofobia, spingendoli a compiere azioni criminose contro i Rohingya, una minoranza etnica che vive prevalentemente nel nord del Paese, costretta in passato a scappare dal Bangladesh durante il dominio britannico. Il termine razza nella lingua birmana “kula” viene spesso associato alla parola rakhita “protezione” per formare un costrutto che significa patriottismo. Durante i propri sermoni Wirathu modifica e altera i concetti espressi nei canoni del buddhismo sostenendo che il termine razza, con cui invece originariamente nei testi sacri si intende l’umanità intera, si riferisce invece alla religione buddhista da difendere e proteggere, minacciata, in questo caso, dall’Islam. Il monaco infonde nei giovanissimi allievi un germe di odio e violenza pronto ad esplodere.

Il film mostra come il nazionalismo insito nelle parole del leader, religioso e politico, cerchi di fornire, prima di tutto, una percezione distorta, falsa della realtà. La minoranza Rohingya, vista come una minaccia incombente, consiste solo nel 4% totale della popolazione, mentre quella buddhista rappresenta invece l’88%. La discrepanza tra realtà e percezione concernente la popolazione musulmana viene evidenziata anche in riferimento ai paesi occidentali. “Sapresti dire quanti musulmani ci sono nel tuo paese?” è la domanda che viene posta all’interno del film mentre alcuni grafici mostrano la percentuale di musulmani presenti in paesi come Germania, Francia e Stati Uniti secondo la popolazione a confronto con il numero realmente effettivo. L’operazione di propaganda assume una struttura mutevole e stratificata dal momento in cui, oltre i sermoni e alcuni pamphlet esplicativi, adesivi e poster, il monaco, grazie all’organizzazione da lui fondata, realizza dvd che contengono filmati amatoriali in cui vengono catturati momenti di protesta da parte dei Rohingya mentre la voice over sentenzia «vivono sfruttando la nostra terra, le nostre risorse, e nonostante questo non sono contenti e attaccano la nostra religione». Questi dvd vengono distribuiti gratuitamente, e in maniera capillare, in modo che i giovani capiscano fin da subito da dove proviene il male, la minaccia. Oltre ad immagini documentarie a cui viene attribuita oggettività assoluta, il processo di strumentazione si avvale anche dell’utilizzo di immagini di natura finzionale. Esempio paradigmatico è il video Black Days, sempre realizzato dall’organizzazione, in cui viene ri-messa in scena l’uccisione di una donna buddhista per mano di un gruppo di Rohingya, un episodio che aveva scatenato una vera e propria rivolta conclusasi con l’uccisione di decine di musulmani e la distruzione di centinaia di abitazioni. Come afferma Wirathu, il filmato in questione, nonostante consista in una ricostruzione finzionale si avvale di un indissolubile legame referenziale con l’avvenimento realmente accaduto dal momento che è stato realizzato basandosi sulla confessione di tre musulmani che hanno preso parte all’omicidio. Ancora una questione di percezione, di mediazione, di alterazione (distorta) della realtà esterna anche attraverso l’immagine filmica. La cinematografia è l’arma più forte diceva Mussolini in riferimento al ruolo del cinema come strumento di propaganda.

Barbet Schroeder senza giudicare direttamente le azioni e l’opera di persecuzione alterna l’intervista a Wirathu con quelle realizzate ad altri monaci contrari all’oppressione messa in atto così come a Matthew Smith fondatore dell’associazione Fortify Rights, per prevenire e combattere la violazione dei diritti umani, o al giornalista spagnolo Carlos Galache i cui report sono comparsi su El Diario ed Al Jazeera. Le parole di amore e benevolenza del dharma accompagnano le immagini di distruzione e di morte, in tensione, un ossimoro, come un monaco buddhista che predica l’odio, che veicola intenti repressivi e discriminatori partendo dai canoni di una religione che predica pace. Una religione che secondo il mondo occidentale, forse attraverso una propria interpretazione, una semplificazione, incarna l’emblema stesso della compassione ben lontana quindi da principi di violenza e sopraffazione insiti in altre religioni monoteistiche come il Cristianesimo prima e l’Islam ora. Questione ancora di percezione. Nonostante il film risulti piuttosto didascalico nel suo procedere, cosa non necessariamente negativa nel momento in cui il mondo occidentale sembra essere quasi del tutto all’oscuro del genocidio in atto, ad emergere con la molteplicità di strati, di voci, di livelli di sedimentazioni è l’impossibilità di una chiave di lettura univoca. Il film in questo modo si pone come una contro-narrazione che si vuole sostituire alla documentazione ufficiale, un processo di ri-scrittura storica che aggiunge un ulteriore strato nella costruzione e riformulazione della memoria collettiva e culturale. Ancora questione di prospettiva, questione di sguardo.

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Barbet Schroeder 100 minuti
Francia, Svizzera 2017
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Backcountry

di Jacopo Bonanni
Backcountry, Adam MacDonald

C’è un silenzio maestoso che sovrasta costantemente il suggestivo paesaggio di Backcountry, l’esordio cinematografico di Adam MacDonald. Un paesaggio apparentemente privo di qualsiasi segno di vita o di movimento, al punto da ispirare un profondo senso di disagio nello spettatore di fronte alle sterminate foreste di conifere del Canada immortalate dalla cinepresa. Tuttavia, ad un certo punto, sembra quasi di percepire che da quel paesaggio idilliaco trapeli una specie di risata sommessa, che irride i futili battibecchi della giovane coppia protagonista della pellicola. E’ la risata sardonica della natura selvaggia, pronta a tradursi nel bramito agghiacciante di un orso totemico per rammentare all’uomo l’incombere minaccioso di un destino ineluttabile di morte e disperazione. Tratto da una storia vera, e opportunamente romanzato, Backcountry è la cronaca feroce dell’angosciante odissea - finita in tragedia - di due fidanzati che per sanare le proprie divergenze interpersonali si allontanano durante il weekend dal caos cittadino per rifugiarsi nella pace fittizia di un'oasi naturale, incorniciata tra le montagne canadesi, dove scopriranno - a loro spese - che la natura che li circonda non è affatto benevola come lo scenario da cartolina che avevano sognato. Fin dalla prima inquadratura, oscurata dal ronzio delle mosche, si intuisce che è un viaggio di sola andata verso l’ignoto, e lo capiamo non appena Alex (Jeff Roop) e Jenn (Missy Peregrim) abbandonano la loro macchina per lasciarsi traghettare da una canoa in balia della corrente nel “cuore di tenebra” della foresta primordiale. Il campeggio è semplicemente il pretesto iniziale per raccontare il percorso solitario di una coppia che va lentamente alla deriva, depistata da dubbi, insicurezze ed equivoci che logorano la relazione lungo tutto il corso del tragitto, esasperata da un lato dalla presenza (in)visibile del plantigrado che segue le loro tracce; dall’altra dall’inettitudine di Alex: un uomo che sta cercando di impressionare la donna che ama, sfidando la natura impervia – personificata dall’orso - in una contesa testosteronica che lo umilia e lo spaventa ad ogni passo, mettendo in crisi la sua virilità fino a dilaniarla senza alcuna reticenza. Per il suo debutto alla regia l’autore canadese sceglie di seguire - a debita distanza - il solco tracciato prima di lui da John Boorman (Deliverance, 1972) e Werner Herzog (The Grizzly Man, 2004), dirigendo un survival drama cinico, violento e beffardo, che mette a nudo, senza eroismi ed artifici, i limiti e le incongruenze del sogno americano legato al mito “positivista” della natura incontaminata: la cosiddetta Great American Wilderness, professata da Thoreau nel suo celebre libro Vita nei Boschi. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare però quella documentata da MacDonald non è una natura crudele o vendicativa ma solo spietatamente indifferente, come lo sguardo vuoto ed impietoso del simbolico predatore che bracca da lontano i due incauti escursionisti, mosso unicamente dal suo inestinguibile istinto di sopravvivenza che lo spinge a sfamarsi. Soltanto in questa prospettiva è possibile cogliere ed apprezzare il valore effettivo del film, perché Backcountry non è un eco-vengeance convenzionale, dove la bestia di turno aggredisce le sue prede per ristabilire una sorta di equilibrio pre-esistente, né tanto meno l’aggressione è l’avvisaglia di un evento apocalittico imminente. Dietro lo scontro che insanguina i panorami dell’Ontario si nasconde in realtà una riflessione sulla fragilità dell’animo umano, su come sia sottile il diaframma posto dalla civiltà alle sue caratteristiche originarie e su come sia facile spazzare via i labili paraventi sociali una volta sradicati dal proprio contesto abituale. Come per Open Water – l’horror subacqueo di Chris Kentis – anche in questo caso la forza dell’orrore tratteggiato dal regista, con i suoi ritmi esasperati ed inesorabili, consiste nel ragionare per sottrazione, nel saper centellinare la suspence, per porre l’accento sullo spaesamento dei suoi protagonisti, separati a forza dal loro habitat naturale, senza mappe e senza indicazioni, preda degli istinti più bassi, immersi in un’area remota attorno a cui si coagulano le immagini di una natura governata da una logica ferina. Quella stessa logica secondo cui il bosco e il suo sovrano incontrastato – l’orso sacro ai nativi americani-  tornano ad assumere le connotazioni inquietanti di una tradizione ancestrale, quella dei racconti scolpiti sulla roccia o sussurrati attorno al focolare. Infatti il mondo di Backcountry non è quello virtuale che abbiamo imparato ad addomesticare sulle cartine geografiche ma un universo brutale e impenetrabile, dove il tempo è scandito da avventure primitive e da prove disumane, uno spazio estraneo ed ostile in cui ci si smarrisce impauriti e si vaga coraggiosamente a tastoni per non sprofondare nel buio dell’irrazionale. Una paura atavica che Adam MacDonald testimonia di essere riuscito puntualmente a catturare su pellicola grazie ad un esordio che lascia ben sperare.

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Adam MacDonald Missy Peregrim Jeff Roop Eric Balfour Nicholas Campbell 92 minuti
Canada, 2014
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Dumbo

di Matteo Marescalco
Dumbo recensione film Burton

«Vi ringrazio perché mi avete donato la possibilità di rivivere l'innocenza».

Durante gli ultimi nove anni, Walt Disney Pictures ha scelto di realizzare otto remake in live-action dei propri capolavori animati. Per la seconda volta dopo Alice in Wonderland, Tim Burton torna al timone di un transatlantico costruito con il compito ben preciso di solcare il vasto oceano dell'immaginario degli spettatori più giovani. Anche a causa della necessità di trasformare un film d'animazione di 64 minuti in un live-action di circa 120, in Dumbo, il regista di Burbank non si limita al rifacimento ma persegue una volontà reinterpretativa in grado di impreziosire il risultato finale. Il film di Burton ha le proprie premesse nel cartone animato del 1941 e il proprio motore narrativo nella figura del piccolo Dumbo, l'elefante dalle orecchie enormi che viene preso in giro da tutti. Al di là di un primo atto e mezzo in cui il film deve necessariamente agganciarsi al mito, il resto riesce a delineare abilmente svariate linee narrative nell'ottica di costruzione di uno spettacolo per famiglie in grado di emozionare e commuovere.

La Prima Guerra Mondiale è finita e tutti hanno perso qualcosa. Holt Farrier torna a casa con un braccio in meno. Sua moglie è deceduta e i due figli vivono nell'ambiente del circo di Maximilian Medici, un uomo buono che, grazie alla forza dei suoi sogni, prova a restare a galla in un contesto squallido. Niente è più come prima. La crisi finanziaria in cui versa il circo ha reso necessaria la vendita di due cavalli e Max punta tutto sul nuovo arrivato, un cucciolo di elefante. Tuttavia, il piccolo Dumbo deluderà le aspettative: le sue enormi orecchie gli impediranno di diventare la star degli spettacoli e gli attireranno soltanto insulti. Come se non bastasse, il piccolo viene anche separato dalla madre, riuscendo a guadagnarsi unicamente la simpatia di Milly e il fratellino, i due figlioletti di Farrier. Dietro l'handicap apparente, però, Dumbo nasconde una straordinaria capacità: se stuzzicato da una piuma, l'elefante è in grado di volare. Venuto a conoscenza di questa peculiarità, il furbo imprenditore Vandevere farà di tutto per portare Dumbo nella propria scuderia.

Nonostante i colori sbiaditi e malinconici, si respira levità e leggerezza in questo Dumbo di Tim Burton. A ogni personaggio manca qualcosa e tutti sono un po' tristi e depressi. Eppure, non c'è un singolo acrobata del circo che non provi ad andare avanti, facendo tesoro della famiglia sui generis da cui è circondato. In un contesto del genere, Dumbo è meno protagonista di quanto si possa pensare. Il piccolo elefante è il primo personaggio a lanciarsi nel vuoto e a dare il via ad un cambiamento che investe la collettività, piegata da una guerra appena conclusa e che sceglie di rialzarsi e andare avanti, accettando i propri limiti e i cambiamenti dettati dal tempo.

Più di ogni altra cosa, il film porta in scena il contrasto tra due modi di fare spettacolo, accomunati comunque dall'esigenza di costruire qualcosa di autentico a partire dalle menzogne. È l'esigenza di verità a costituire il cuore pulsante di Dumbo. Per tale motivo, Burton non si limita al rogo catartico finale ma costruisce un happy ending in cui i suoi personaggi sono liberi di mostrarsi per quello che sono, consapevoli di limiti e di difetti, e di dar vita ad uno spettacolo veramente autentico nella sua innocenza. Siamo lontani dai trip psichedelici del giovane Tim Burton. Ma quest'adesione ad un sano e puro spettacolo per famiglie non ha fatto altro che bene a un regista che lotta ancora con le proprie paure e i suoi demoni interiori.

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Tim Burton Colin Farrell Michael Keaton Danny DeVito Eva Green Alan Arkin 112 minuti
USA 2019
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Weird City

di Leonardo Strano
Weird City recensione serie YouTube Premium

Un racconto che sceglie un’estetica pulita, levigata e apparentemente priva di negatività per raccontare le forme latenti dell’oscenità e dell’inciviltà degli esseri umani provoca in chi guarda il riso generato dal “sentimento del contrario”, oppure una tensione interna che risveglia le meningi. Weird City, serie antologica distribuita da YouTube Premium e creata da Charlie Sanders e Jordan Peele (praticamente una prova di scatto ai blocchi di partenza della fantascienza prima del nuovo The Twilight Zone), gioca continuamente con la doppia distensione di questo tipo di rappresentazione. È infatti un’intelligente satira degli aspetti, capace non solo di carburare riflessioni e sentenze umoristiche a ripetizione ma anche di smuovere prese di posizioni emotive e psicologiche sul dato sociale: a volte dimostrandosi molto centrata e a volte invece affondando a vuoto, denotandosi quindi come un prodotto che al suo meglio si rivela un contenitore di ragionamenti interessanti e al suo peggio un catalogo di strisce comiche comunque facilmente assimilabili (data la brevità degli episodi e della stagione).

Al netto degli alti e bassi qualitativi comunque, gli otto episodi sono tutti consapevoli del potere rivelatorio di uno sguardo satirico posato su di una faccenda seria. Se, infatti, nei momenti peggiori il tentativo di rappresentare i difetti di una società (la nostra) assoggettata e/o instupidita dall'eccessiva fiducia nella tecnologia si risolve in idee solo potenzialmente molto interessanti, in quelli migliori la scrittura degli autori e l’attenta cura nel design degli ambienti si coordinano in armonia per congelare in costruzioni di senso compiuto intricate tracce e sotto tracce della contemporaneità: da una parte sottolineando, attraverso un uso allucinato e spesso folle della comicità, l’insensatezza di certi atteggiamenti umani e la problematicità di alcuni comportamenti diffusi nella civiltà digitale; dall’altra potenziando il messaggio mediante la progettazione di un contesto visivo famigliare, immersivo e quindi comprensibile a pieno anche nei suoi dettagli stranianti. 

Le vicende raccontate intorno alla Line, linea di demarcazione tra due società completamente diverse, sono quindi lo specchietto distorto perfetto per rappresentare un tableau delle distorsioni della rivoluzione antropologica protagonista nel ventunesimo secolo. Episodi come A Family, Go to College e Chonatan & Murlia & Barsley & Phephanie – perché Below è un gioiellino quasi a sé che riflette sui confini della meta narrazione - catturano in pochi brucianti minuti la realtà contorta e disturbante di uno schema sociale in cui le palestre sono diventate i nuovi centri di aggregazione sociale, i culti sono le nuove famiglie, l’anestesia della droga è la soluzione migliore alla sofferenza, la digitalizzazione ha disintegrato il contatto umano e la tristezza è stata bandita dalla legge della positività. Quindi la realtà del rizoma sociale occidentale: quello presente oltre la lente della finzione e oltre il distacco della narrazione fantascientifica, quello su cui la serie riflette senza dare giudizi ma firmando autopsie mascherate da freddure.

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Dylan O'Brien Ed O'Neill Michael Cera Rosario Dawson Mark Hamill Gillian Jacobs 1 stagione da 6 episodi
Usa 2019
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Pen15

di Irene De Togni
recensione serie tv pen15 hulu

All’interno di quella che è probabilmente la scena più variegata e prolifica della televisione attuale, il teen-drama, si sta pian piano sviluppando una piccola, ma non per questo meno degna di nota, appendice che si interessa agli ambienti della middle-school statunitense e alla fascia di età che corrisponde alla pubertà/pre-adolescenza. PEN15, la nuova serie Hulu creata da Maya Erskine, Anna Konkle e Sam Zvibleman, si pone a metà fra due prodotti che potrebbero definirsi apripista del genere e che hanno già ottenuto un relativo successo di pubblico e critica: uno cinematografico, Eighth Grade, presentato al Sundance Film Festival 2018 dallo statunitense Bo Burnham, che osserva con insistenza quasi sadica la vita di una ragazzina all’ultimo anno di middle-school, e uno televisivo, targato Netflix e creato da Nick Kroll, Big Mouth, una serie animata sul passaggio dall’infanzia all’adolescenza di un gruppo di ragazzini americani.

A metà fra l’onnipresenza quasi claustrofobica della protagonista nel primo film, e l’impostazione marcatamente corale del secondo, PEN15 racconta la storia di un binomio, quella delle due tredicenni Anna e Maya lungo tutto il corso della loro seventh grade. La narrazione si concentra, da una parte, sulle due protagoniste prese singolarmente, una statunitense ed una nippoamericana, vuoi ricontestualizzando in un ambiente più goffo ed acerbo alcuni dei topoi del teen-drama, come il perseguimento dell’esperienza romantico-sessuale, il ballo di fine anno o il bullismo; vuoi dando spazio a scorci di vita inediti o quasi in televisione come il risvegliarsi del desiderio sessuale femminile o le prime prese di coscienza delle violenze sistemiche subite. È soprattutto il personaggio di Maya, in questo senso, a portare sullo schermo il ritratto più inedito ed interessante, merito anche di una controparte, Anna, mai invasiva e sempre esattamente al posto giusto al momento giusto. Se c’è una cosa che PEN15 restituisce in pieno è, infatti, proprio l’idea della pubertà come di un momento fatto essenzialmente di scoperte, di introduzioni, di sproporzioni, di stupore, di passaggio.

Dall’altra parte, quella a cui assistiamo episodio dopo episodio è l’evoluzione di un rapporto fra due ragazzine, che va riconfigurandosi e raggiustandosi ad ogni mutamento fisico o emotivo delle due protagoniste. Così come le due amiche prese singolarmente, anche il loro legame viene presentato in tutta la sua ambiguità e portata comica, un’amicizia quasi ossessiva, soffocante ma anche così confortante e sincera.

La nuova serie Hulu si pone al contempo sia in continuità sia in discontinuità con i due prodotti citati anche da un altro punto di vista: come questi, si tratta di una cringe comedy che sfrutta il senso di inappartenenza e disagio legato alla fase preadolescenziale, ma lo fa adottando uno stile ibrido a metà fra il racconto iperrealista con attori in carne ed ossa (forte di una buona componente autobiografica delle due attrici protagoniste/autrici) e il caricaturale, se si considera il fatto che Maya Erskine e Anna Konkle sono due trentunenni che recitano le parti di due tredicenni in mezzo ad un intero cast di ragazzini. L’effetto comico ottenuto dal contrasto è evidente (e si avvicina a quello che si poteva trovare nella saga di Wet Hot American Summer) ed è anche ben sfruttato nelle diverse soluzioni narrative e registiche trovate nel far interagire le due protagoniste e gli altri attori, specie nelle situazioni che richiedono un contatto fisico più pronunciato come la scena del primo bacio di Anna con un compagno di scuola.

PEN15 è una serie molto intelligente che travolge lo spettatore in un continuo gioco di richiami e riflessi a partire dalla ricostruzione del 2000, presentato retrospettivamente come se fosse una pubertà della nostra era tecnologica con i primi computer e le playlist su CD. Scritta pensando a un pubblico ora adulto ma che ha attraversato proprio in quegli anni questa fase di trasformazione ormonale, imbarazzo e stupore che è la pubertà, la serie riesce a estrarre perfettamente l'anima comica del disagio tipico di questa parte della vita e al contempo, attraverso l'uso della comicità, trova la giusta distanza per riappropriarsi con una nuova sensibilità del discorso sulla pubertà.

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Maya Erskine Anna Konkle 1 stagione da 10 episodi
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Mandy

di Mattia Caruso
Mandy - recensione film cosmatos

Se c'è qualcosa che la parabola artistica di Nicolas Cage ci ha insegnato in questi anni, è che il protagonista di Cuore selvaggio e Via da Las Vegas è un interprete da maneggiare con cura, una scheggia impazzita e imprevedibile capace di dare il meglio (o il peggio, a seconda dei punti di vista) di sé proprio nei ruoli più eccessivi e nei prodotti più respingenti e disturbanti.
È proprio qui che entra in scena Mandy di Panos Cosmatos (presentato alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes nel 2018 e da noi, dopo un passaggio al Torino Film Festival, uscito direttamente su Amazon Prime), un trionfo dell'eccesso capace di assecondare la schizofrenia interpretativa del suo protagonista, costruendogli attorno un universo folle e allucinato perfettamente in linea col suo corpo attoriale impazzito. Sì, perché eccessivo, Mandy, lo è di certo, a partire dai suoi stessi presupposti, da quell'incipit lento e soporifero fatto di ralenti, sovrimpressioni e dissolvenze incrociate che colora di tinte lisergiche l'intera vicenda, proiettando protagonisti (il Red di Cage e la Mandy di Andrea Riseborough, coppia di innamorati destinata a vedere il suo idillio distrutto da una setta deviata) e spettatori in un bad trip da LSD sempre più assurdo e brutale, fino a esplodere in un'escalation di violenza anarchica e insensata.

Alla sua opera seconda, il regista greco-canadese (figlio di George Pan Cosmatos e formatosi proprio sui set del padre), pare così dare vita a un intero immaginario compresso a stento in due ore di film, un'opera estremamente derivativa in cui tutti gli ingredienti del genere – dalla casa nel bosco ai culti misterici, dalla violenza splatter e immotivata alle degenerazioni demoniache – paiono confluire e prendere posto alla rinfusa, con sprezzo di qualsivoglia ordine e verisimiglianza, in un crescendo di follia che insegue la sete di vendetta del suo protagonista.

Ed è proprio lui, Red/Cage, impegnato a ubriacarsi disperato in un bagno con una bottiglia di vodka o a fabbricarsi da sé armi bianche per combattere una setta di hippy impazziti, l'elemento più perturbante di tutti, l'essenza stessa di un film fatto a sua immagine e somiglianza, capace di adombrare qualsiasi altra presenza di quel circo di freaks popolato da nemesi mansoniane (l'inquietante Linus Roache), tigri in gabbia e demoni motorizzati che paiono usciti da Hellraiser, fino a oscurare persino l'estetica stessa di un mondo sempre più simile a un fantasy crepuscolare e distorto.

Tra echi di Sam Raimi e Jodorowsky e immagini saccheggiate da Le streghe di Salem e Valhalla Rising, Cosmatos mette così in scena un gioco al massacro respingente e affascinante al tempo stesso, tanto assurdo quanto estremamente compiaciuto, una sinfonia metal (cadenzata dall'evocativa e bellissima colonna sonora del compianto Jóhann Jóhannsson) che, però, al di là di ogni invenzione provocatoria, oltre la sua aura (programmaticamente) maledetta e ipnotica da delirio allucinato, resta soprattutto il tributo definitivo alla maschera di un interprete divenuto ormai la parodia di se stesso, una presenza estrema come il mondo e la materia in cui è immersa fino al collo, e a cui aderisce alla perfezione. Ennesimo, forse definitivo tassello di una carriera vissuta, sempre e comunque, sopra le righe.

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Panos Cosmatos Nicolas Cage Andrea Riseborough Linus Roache Bill Duke Richard Brake 121 minuti
USA 2018
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Pyewacket

di Gian Giacomo Petrone
Pyewacket - recensione film macdonald

Adam MacDonald pare averci preso gusto e, dopo il buon esordio nel lungometraggio con il survival en plein air Backcountry, si cimenta nella seconda regia con Pyewacket, scegliendo in questo caso la dimensione territoriale e narrativa assai più circoscritta di un home invasion, parzialmente dissimulato sotto i tratti del film di possessione.

La vicenda ruota attorno al rapporto problematico fra due donne, madre (Laurie Holden) e figlia (Nicole Muñoz), rimaste sole dopo la morte del capofamiglia. Leah, la ragazza, è riuscita a superare parzialmente il trauma grazie alla giovane età e all’amicizia di un gruppo di compagni di scuola, con cui condivide la passione per l’estremo, sia musicale sia magico-esoterico, pur non rinvenendosi alcuna autentica morbosità comportamentale o psichica all’interno del gruppo: il tutto appare come l’approccio tipico del ribellismo adolescenziale nei confronti del mondo adulto e dell’autoritarismo normativo che esso esprime. La madre di Leah, al contrario, non essendo riuscita a elaborare efficacemente il lutto, è ancora assediata dai fantasmi del recente passato e da un ambiente domestico in cui è ancora troppo vivo il ricordo dell’armonia di un nucleo familiare spezzato. La decisione della donna di trasferirsi in una dimora isolata nei boschi circostanti alla ricerca di nuovi stimoli esistenziali, conducendo con sé la figlia e quindi allontanando quest’ultima da tutto ciò che fondava il suo fragile equilibrio psicofisico, costituirà l’innesco per un conflitto dagli esiti funesti.

La frase di lancio di Pyewacket recita: «cosa c’è di più terribile di un lutto?», anche se il nodo gordiano del film si situa in prevalenza nella mancata elaborazione dell’evento catastrofico più che nell’evento stesso, nell’incapacità dei due personaggi femminili di far fronte simultaneamente alla scomparsa della controparte maschile. E qui si potrebbe aprire una corposa parentesi sull’acquisita centralità del ruolo della donna nell’horror moderno e contemporaneo, dentro la dimensione familiare o fuori di essa, ma anche sullo svilupparsi di svariati cortocircuiti traumatici dovuti proprio all’assenza di una figura maschile dello stesso peso narrativo, o magari alla sua presenza nelle orride vesti del villain di turno (poco importa se umano, sovrumano o subumano), in guisa di vera e propria immagine deformemente speculare del pater. Questioni da oltrepassare senza indugio, per non esondare dall’alveo della presente esposizione. Meglio dunque concentrarsi sull’autentica domanda che anima il film di MacDonald, che potrebbe suonare così: “cosa accadrebbe se un qualsiasi nostro desiderio, espresso in un momento di massimo sconforto od ira, iniziasse irreversibilmente ad avverarsi?”. È infatti su tale domanda che si giocano le sorti delle due protagoniste, a partire dall’avventata decisione di Leah di servirsi dell’intervento del demone Pyewacket (Bianca Melchior) per eliminare fisicamente la genitrice. Proprio quando lo spirito maligno inizierà a disseminare tracce della propria comparsa, le due donne riusciranno a riavvicinarsi e a ripristinare un rapporto affettivo che sembrava irrimediabilmente compromesso, anche se sarà, evidentemente, troppo tardi.

Per gran parte del racconto, la tensione nasce e si sviluppa dal conflitto interiore di Leah, dapprima vittima dell’odio cieco nei confronti della madre, poi del senso di colpa derivato non solo dall'avere messo a repentaglio l’incolumità di quest’ultima, ma anche dall’avere aperto, letteralmente, la porta della propria (nuova) dimora a uno spirito ottusamente ostile, capace esclusivamente di fare male in quanto incarnazione del Male. Un’ombra forse ancora più oscura incombe però sulla ragazza, vale a dire l’impossibilità di confidarsi con la madre, cioè con l’unica persona su cui può veramente fare affidamento, per il semplice fatto che, in tal modo, verrebbe a rivelarsi il suo inconfessabile – anche se oramai superato – desiderio di morte nei confronti della genitrice. Proprio da quest’ultimo spunto narrativo trae energia un racconto che trova alcuni dei suoi momenti più vibranti proprio nel confronto psicologico e verbale fra le due donne, nella dicotomia fra detto e non detto, fra esternazione veritativa e sofferta dissimulazione.

Dal canto suo, la componente horror si giova dell’attenzione di MacDonald nello sviluppare la personalità e l’interiorità dei personaggi – in un film che si delinea per lunghi tratti prevalentemente come un dramma familiare – e trova i suoi momenti apicali nell’esecuzione del rituale di evocazione nel bosco, poi nella comparsa del demone sotto le sembianze della madre di Leah (di qui l’ambiguità fra home invasion e possessione) e infine nel drammatico finale in cui la ragazza cerca di lottare contro Pyewacket, di fatto infierendo contro la propria genitrice. Ciascuno di questi momenti vibra di intensità doppia, proprio grazie al sapiente lavoro di attesa della regia, che conferisce proporzione alle atmosfere e ai ritmi diversi del racconto, dosandone con acume l’equilibrio complessivo.

MacDonald dimostra di saper creare la tensione attraverso le ellissi, il silenzio, le ombre, la disseminazione di false piste, e soprattutto grazie alla capacità di isolare i personaggi dall’ambiente circostante tramite le inquadrature strette sui volti (stilema fortemente presente anche in Backcountry), vere e proprie cartografie dell’emozione in cui il volto stesso diviene paesaggio, insieme di segni che rimanda direttamente all’inconscio e alle sue emozioni più riposte. In tal modo, acquisisce importanza il fuori campo, l’incombere dell’invisibile sullo spazio mostrato, mentre gli attori sono costretti a dei veri e propri tour de force espressivi, posturali, gestuali: un cinema tutto sommato semplice e, se si vuole, “antico”, almeno nelle premesse, ma che, forse proprio per questo, riesce a insinuarsi sottopelle, a lavorare ai fianchi lo spettatore penetrandone l’immaginario, anziché limitarsi ad annichilirne lo sguardo.

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Adam MacDonald Laurie Holden Nicole Muñoz Bianca Melchior 87 minuti
Canada 2017
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Captive State

di Saverio Felici
captive state - recensione film wyatt

In una fase storica in cui per portare al cinema un'opera fantasy a budget medio sembra inevitabile appoggiarsi ad una proprietà culturale preesistente (una saga, un fumetto, un anime), un film come Captive State di Rupert Wyatt ha già vinto in partenza. Se si aggiunge che il film è anche bello, oltre che sostanzialmente più “forte” in ogni sua componente rispetto alla maggior parte dei lavori mainstream visti in questi anni, l'invito alla visione diventa scontato.
Il film di Wyatt è pensato, scritto e diretto con un'ottica popolare-autoriale d'altri tempi. Il pantheon dei Carpenter-Raimi-Romero (e mille altri), sempre citato parlando di autori capaci di portare le proprie visioni personali e sperimentali all'interno di film di genere ultrapop, una volta tanto non è lontano. Captive State è un film da multisala da 30 milioni di budget, guidato nella sua interezza dallo sguardo e dall'idea di cinema di un singolo, determinatissimo autore. Si resta dunque spiazzati nel momento di cercare paragoni con altri sci-fi recenti: Captive State non somiglia a nessuno.

Con un prologo e un montaggio di due minuti sui titoli di testa, Captive State mette insieme le informazioni necessarie a introdurre il suo personale futuro possibile.
A nove anni da un drammatico first contact, una popolazione aliena cinica e spietata ha sottomesso la Terra. L'obiettivo, una volta tanto, non è la distruzione, quanto la colonizzazione. I mostri (sgorbi digitali inquadrati al buio, a nascondere l'impossibilità tecnica di una resa tecnica credibile), una civiltà evidentemente superiore, non vogliono la guerra: hanno posizionato i loro “legislatori” a curare gli interessi dell'umanità, hanno ridotto al minimo il controllo militare e lasciato il mondo in una propagandistica illusione di libertà. Si sono instaurati nel sottosuolo, vicino al centro della Terra, dove risucchiano non precisate risorse naturali necessarie alla loro sussistenza. Tra l'umanità le posizioni sono conflittuali: i governi (rappresentati dallo sfatto e anziano sbirro del controspinaggio, John Goodman) sono legati agli interessi alieni e ne difendono le operazioni. Il popolo (il giovane manovale afroamericano Ashton Sanders) contesta e pianifica guerriglie dal sapore terzomondista. Ma la rivoluzione non è vicina, e la resistenza non può che trasformarsi in terrorismo. Il film seguirà le misteriose operazioni dell'organizzazione Phoenix, decisa a portare l'attacco al cuore dello stato alieno.

Captive State è un film che richiede attenzione. Al contrario degli esempi più ovvi che possano venire facendo il confronto con altri titoli in sala, il lavoro di Wyatt è emotivamente respingente, freddo, complesso e articolato a livello di scrittura. E' un film che costringe il pubblico ad uno sforzo non indifferente (nell'ottica del pop) per afferrare il quadro narrativo d'insieme. Tra i fotogrammi e i primissimi piani della storia principale, Wyatt nasconde un lore-building raffinato e minuzioso. Sono tante le cose che, senza bisogno di spiegazioni o riferimenti metatestuali, ci viene chiesto di assorbire dalle scarnissime inquadrature. Sistemi di controllo biologico, nuove fabbriche digital-manuali, strutture politiche complesse nell'umanità post-contatto si disvelano tra le righe del racconto . Un mondo lontano dal fantasy, e dissimile anche dai più realistici scenari cyberpunk di metà anni '90. Il film è più dalle parti dello “sci-fi imminente” di District 9, o I figli degli uomini: retro-futurismo livido e polveroso, in cui il Domani è appena passato, e l'irruzione del nuovo ha alterato di poco il volto di una realtà in fondo assai concreta.

Ovviamente, un cinema di questo tipo presta per natura il fianco alla metafora, e Captive State non se lo fa ripetere. Le analogie con gli scenari più cupi del presente si affollano: sfruttamento industriale e coloniale, certo, ma in fondo è il concetto stesso di capitalismo, nella sua accezione militarizzata e filo-governativa, a rispecchiarsi nelle dinamiche mostrate dal film: segregazione classista, esaurimento delle risorse naturali, propaganda di Stato e financo un invito alla rivolta armata modello quarant'anni fa.
Eppure, sarebbe ingiusto limitare l'analisi di Captive State alle finezze di scrittura. Il film è tutt'altro che perfetto (fatica a livello di ritmo e si incaglia un po' nel retorico – e prevedibile – finale) ma per lunghi tratti Wyatt fa cinema di grande livello. Al lavoro certosino di regia (gesti e inquadrature che sostituiscono dialoghi e spiegazioni) si aggiunge un connubio montaggio-musica da manuale, a cui è affidata la scansione di spazi e tempi nel racconto collettivo. Il capolavoro del film in questo senso è la lunga parte centrale, praticamente La Battaglia di Algeri con i mostri: ombre, tensione, montaggio incrociato e percussioni elettroniche illustrano il compimento di un attentato dalla preparazione alla messa in atto, praticamente senza parole, attraverso le azioni di un commando di personaggi a noi sconosciuti.

Come in Pontecorvo (ma anche la Bigelow di Detroit è un buon paragone), i singoli volti sono pedine di quello che qui è praticamente il resoconto storico di un'episodio immaginario. Nel dispiegarsi gelido e quasi alienante, lo sviluppo personale dei caratteri è ridotto al minimo, con una sostanziale eccezione. John Goodman nel ruolo del grigio impiegato dei servizi segreti, sovrappeso e stanco, prende dall'inizio il film sotto la sua ala. Un'interpretazione incredibile, tutta sguardi e non detti (l'opposto del mega-acting di cui è specialista), a fare da contraltare allo sconosciuto e neorealista cast di supporto.
Molto difficilmente Captive State sfonderà nell'immediato (il debutto USA ha già visto la stroncatura da parte di critica e pubblico), ma potrebbe anche meritarsi un futuro da cult on demand. Ambizioso e tecnicamente eccellente, senza paura di farsi del male cercando confronti arditi, Rupert Wyatt pennella un mondo nuovo che, una volta tanto, potrebbe anche avere altro da dire.

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Rupert Wyatt Ashton Sanders John Goodman Vera Farmiga Jonathan Majors Kevin Dunn 109 minuti
Usa 2019
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Storie del dormiveglia

di Paolo Di Marcelli
storie del dormiveglia - recensione del film magi

Potremmo definire l’epoca frammentata, liquida, precaria e incerta che stiamo vivendo come l’età della distrazione. Tanti gli stimoli, troppi i suggerimenti, innumerevoli le scorciatoie a portata di mano ed ecco che “multi-tasking” si conferma come espressione fondamentale, metaforica ed emblematica, del nostro tempo. Uno stile di vita, una condizione esistenziale.

Distrarre, in latino, vuol dire separare. Il serio dal faceto, dunque, il superfluo dal necessario, il trascurabile dall’importante. C’è un motivo preciso se Luca Magi ha scelto non solo di assistere come operatore sociale gli ospiti del Rostam, ricovero notturno per senzatetto alla periferia di Bologna, ma anche di raccontare le loro storie di ultimi, disperati e rinnegati: si tratta dell’urgenza di ricongiungere, riunire, riordinare, rimettere insieme i pezzi di una società che tende invece a frantumare e disperdere gli elementi cardinali dell’esistenza.

Storie del dormiveglia è un’operazione catartica. Attraverso le testimonianze di ex rapinatori, ex carcerati senza futuro, madri nullatenenti i cui figli vengono dati in adozione alle famiglie italiane, giovani immigrati alla deriva e vagabondi da tutto il mondo che scelgono il nomadismo per sopravvivenza e forse anche per attitudine, il regista ci ricorda la nostra fortuna, le nostre comfort-zone, la preziosa capacità di poter scegliere e cambiare. È il “noi” e il “loro” il campo/controcampo del documentario: noi protèsi sul futuro, loro condannati a fare i conti ogni giorno con un passato disgraziato.

Tutti raccontano le proprie avventure passate, confessano i crimini, gli errori e le disavventure ed è come se il Rostam fosse una sorta di purgatorio, un limbo sospeso in cui le anime vengono a purificarsi prima di ripartire per chissà dove, diretti verso chissà quale nuova periferia. Fa bene Magi a raccogliere il peso di queste coscienze perché solo così riesce proiettarci nell’universo di chi non ha avuto scampo.

E sembra scuoterci, Magi, quando ci mette di fronte a David, Paul, Leonardo, Alexandru e gli altri perché avvicina vertiginosamente la macchina da presa alle loro rughe, ai sorrisi, alle bocche sdentate e alle decine di sigarette aspirate con lentezza, ai caffè del distributore automatico mescolati come se si trattasse di un rituale sacro e irrinunciabile. Il “pathos di un notturno”, cantava qualcuno, perché tutto ciò è messo in scena quasi esclusivamente dal tramonto all’alba, tra l’interno e l’esterno della struttura ed è di notte che il regista raccoglie i barlumi di vita rimasta che gli interessano.

Storie del dormiveglia fa un gran lavoro con la luce naturale. Non c’è solo il buio rischiarato dai neon o dai lampioni di un cortile vuoto come il nulla, ma anche il sole che filtra tra i rami degli alberi nella radura circostante in cui i protagonisti si muovono per ribadire un legame immutabile: sembra che a strapiombo su uno stagno o amoreggiando su un prato, pur non allineandosi mai con le consuetudini etiche ed estetiche dell’occidente, i freaks del Rostam si riapproprino della natura ristabilendo un equilibrio con ciò che conta davvero.

Una certa simbologia, un certo indugiare sul controluce e sulla penombra e su come il chiarore componga e scomponga le geografie espressive dei volti ricorda la ricerca esistenziale di Terrence Malik e non è un caso, dato che anche qui l’intento dell’opera sembra ridurre al minimo gli orpelli per concentrarsi sia sull’essenziale sia sul rapporto uomo/natura.

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Luca Magi 67 minuti
Italia 2018
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Triple Frontier

di Riccardo Bellini
Triple frontier - recensione film chandor

Addentrarsi nel cuore del nemico, effettuare il colpo impossibile e andarsene col bottino. Possibilmente tutti interi. Questo è il piano dei protagonisti di Triple Frontier di J. C. Chandor, un quintetto di ex militari statunitensi che, ormai sfiancati da una vita all’ombra del proprio Paese, decide di prendersi il meritato riscatto rapinando il covo di un trafficante di droga immerso nella jungla sudamericana. Ma quando la missione sembra prossima alla riuscita il disastro si abbatte sullo sparuto manipolo, intrappolato in una terra ostile e costretto a una fuga tanto rocambolesca quanto amara. Ed è da questo momento che l’action prodotto da Kathryn Bigelow, scritto da Mark Boal e approdato su Netflix dopo un decennale travaglio produttivo (la stessa Bigelow avrebbe dovuto dirigere il progetto), mette a frutto tutti gli elementi raccolti sapientemente in un’ora di film, dando consistenza alle ombre che si dipanano sui suoi anti-eroi.  

A partire dall’Anabasi di Senofonte, storie di plotoni in lotta per la sopravvivenza, sperduti in mezzo alle file nemiche, hanno alimentato l’immaginario letterario prima e cinematografico poi. Dal bellico Non è più tempo di eroi di Robert Aldrich ai survival di Walter Hill I guerrieri della notte e I guerrieri della palude silenziosa, - questi ultimi due i più aderenti al modello greco -, la spedizione verso l’interno si è riconfigurata come metafora socio-politica con cui rileggere i fallimenti di una nazione, ma anche come teatro di conflitti interiori in cui gli eroi devono imparare a confrontarsi con sé stessi e con i propri compagni, oltre che con il nemico. Triple Frontier opera in entrambi i sensi, procedendo a una messa in discussione di quell’eroismo espresso nel testo di Senofonte. La critica a una nazione che continua a dimenticare i propri reduci trasformandoli in mercenari, che conduce una fallimentare guerra alla droga e deve misurarsi con le conseguenze scaturite in anni di disastrose politiche estere (cui allude l’incontro sfociato nel sangue tra i cinque protagonisti e il villaggio di coltivatori) non limita squarci su una dimensione più universale. La catabasi del film (il viaggio verso la costa), vero cuore dell’operazione di Chandor-Boal, non si risolve solo in un confronto con i fantasmi di un Paese disilluso - a partire dalla caduta di ogni retorica patriottica che fa da premessa al film - ma diventa per i cinque terreno di maturazione individuale e collettiva, prova dolorosa in cui i confini etici saranno sempre più ambigui e le distinzioni tra rivalsa e avidità, dovere e orgoglio, giustizia e carneficina sempre più labili.

Anche quando le redini morali vengono riafferrate, in nome dell’amicizia e di un riscatto ben più importante di quello economico, Triple Frontier ha comunque la lucidità di ricordarci che non basta un colpo di spugna per cancellare gli errori commessi. Perché se nel finale è possibile provare a dare un senso in extremis a una missione che di senso si stava svuotando sempre più, non è altrettanto possibile dimenticarne le tragiche conseguenze e sedare il dubbio di aver vanificato ogni sforzo. E non basta nemmeno un biglietto con delle coordinate geografiche verso il bottino per ricordarci che forse la ritirata dei Diecimila, attraverso la testimonianza di Senofonte, settanta anni dopo la spedizione, può essere servita ad Alessandro Magno per compiere ciò che prima non era stato possibile. Appunto, Non è più tempo di eroi. Non è possibile insomma seguire il finale di Triple Frontier e non pensare agli anti-eroi crepuscolari, sconfitti e disillusi, della New Hollywood. Chandor guarda a tale immaginario - e già solo a leggere la trama di questo Netflix original vengono alla mente le folli imprese di Peckinpah, Hill, ma soprattutto il Friedkin di Il salario della paura -, dimostrandosi affine a quella congerie culturale nello spirito ma non nell’estetica. Al contrario, opera delle scelte stilistiche diametralmente opposte ai clamori e alle soluzioni ardite di quel cinema. Una regia asciutta, un montaggio che valorizza le calibrate scene d’azione senza eccedere. Pochi elementi, quelli capaci di tenere sempre alta la tensione - notevole la sequenza nella villa - dando risalto alla scrittura drammaturgica. Peccato solo per le musiche piuttosto sciatte delle scene adrenaliniche. Un accompagnamento sonoro più accurato sarebbe stato il tocco ulteriore. Ma non importa. Di film come Triple Frontier vorremmo vederne sempre, su Netflix o ovunque sia possibile. 

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J.C. Chandor Ben Affleck Oscar Isaac Charlie Hunnam Garrett Hedlund Pedro Pascal 125 minuti
USA 2019
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