Somnia (Before I Wake)

di Jacopo Bonanni
Somnia - recensione film flanagan

«Se i sogni sono film, allora i ricordi sono film di fantasmi» cantavano i Counting Crows, e le storie di fantasmi sono le più difficili da raccontare in un film, soprattutto quando si tratta dei fantasmi della mente. Somnia (Before I Wake) è una di queste storie, la storia di un “sonno profondo” popolato da incubi, rimorsi e struggenti malinconie da cui sembra impossibile svegliarsi fino alla fine della visione. Mike Flanagan torna a confrontarsi con il tema dell’elaborazione del lutto e la riconciliazione familiare, presentandoci un melodramma onirico dalle sottili venature horror ambientato tra le mura domestiche. Una pellicola sofisticata e visionaria che con le sua atmosfere soffuse chiude idealmente quella che potremmo definire la “trilogia della perdita”: un percorso catartico sulla metabolizzazione del dolore iniziato nel 2011.

Ancora una volta sono i rapporti familiari con le loro nevrosi lo snodo cruciale dell’azione: dopo la vedova tormentata dallo spettro del marito nel seminale Absentia e i due orfani ossessionati dall’omicidio del padre nel cult Oculus, spetta ai coniugi Hobson – protagonisti di Somnia fare i conti con i propri fantasmi. In questo caso il trauma scatenante è la tragica e prematura scomparsa del figlio Sean che convince la giovane coppia (Kate Bosworth e Thomas Jane), intrappolata in un limbo di apatia e tacito negazionismo, a prendere in affidamento un altro bambino nella speranza di ricucire lo strappo causato dalla perdita che ha destabilizzato gli equilibri all’interno della casa. Il bambino in questione è il piccolo Cody (Jacob Tremblay), un orfano affettuoso ed empatico che, dopo la morte di sua madre, sembra riuscire a lenire il dolore degli altri grazie a un dono più grande di lui: una “luccicanza” che gli consente di materializzare i sogni di chi lo circonda. Peccato che anche il bambino sia perseguitato da incubi ricorrenti che ben presto porteranno a galla i suoi mostri – nelle vesti dell’inquietante “Uomo Cancro” - trasformando il suo potere in una maledizione per chiunque tenti di approfittarne. Soltanto l’affetto e il rinnovato amore della nuova madre verso il figlio acquisito potranno spezzare “l’incantesimo” che grava su di loro, risvegliando entrambi da un sogno durato troppo a lungo, ma prima dovranno trovare la forza di uscire dal bozzolo di sofferenza che soffoca i loro sentimenti.

Sembra una morale fiabesca, quella suggerita da Flanagan, tipica di alcune ghost stories letterarie, dove il fantasma non è altro che un pretesto per riflettere sulla persistenza in negativo del vivere mentre il sogno – o meglio, l’incubo – serve a mettere in scena il senso di colpa – rappresentato dal boogeyman – che infesta la quotidianità di chi, rifugiandosi dietro simulacri e feticci del passato, rifiuta di affrontare il presente. Non a caso tutta la narrazione è orientata a costruire il pathos (melo)drammatico del racconto attraverso ritmi lenti e dilatati che diano il  maggior risalto possibile alla psicologia dei personaggi, a discapito della componente metafisica che seppur presente non mira mai a turbare realmente lo spettatore, se non alla luce dei risvolti allegorici che assumerà all’interno della vicenda. Da questo punto di vista Somnia è un film rischioso da classificare nel suo ambizioso fluttuare tra thriller psicologico, favola dark-fantasy e dramma familiare che tenta contemporaneamente di coccolare e terrorizzare, tanto da far sospettare che l’intento di Flanagan – in fondo – sia proprio quello di voler disorientare lo spettatore invitandolo a uscire dalla propria comfort zone. Ipotesi che testimonia come il talentuoso “cronista del subconscio”, abilissimo nel descrivere le zone d’ombra della psiche umana, sia da annoverare tra gli autori “difformi” della nuova generazione, grazie alla sua capacità di sovvertire ogni volta le regole del genere, spesso condizionato da logiche stantie, pur di affermare la sua personale visione.

Tirando le somme, Somnia è una piacevole anomalia nel curriculum del regista di Salem, che assimilata – tra i tanti – la lezione del maestro Wes Craven (Nightmare) e dell’amico James Wan (Insidious) conferma di avere ancora diversi assi nella manica da poter giocare.

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Mike Flanagan Kate Bosworth Thomas Jane Jacob Tremblay Annabeth Gish 97 minuti
USA 2016
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Russian Doll

di Rosario Gallone
Russian Doll - recensione serie tv netflix

Da William James a Hugh Everett III, tra “interpretazione di Copenhagen”, teoria delle bolle e teoria delle stringhe, il Multiverso ha sempre affascinato la narrativa fantastica, magari con implicazioni filosofiche. Basti pensare alle opere di Borges. Il cinema, per sua natura, è un multiverso: un universo che si ripete uguale e diverso ogni volta. Non a caso quando si fa partire un proiettore o il tasto play di un dispositivo, il testo audiovisivo si ri-produce, si produce un'altra volta. Uguale e diverso...

Da William James a Hugh Everett III, tra “interpretazione di Copenhagen”, teoria delle bolle e teoria delle stringhe, il Multiverso... un attimo... questa cosa l'ho già scritta, Borges, la riproduzione... dov'ero? Uguale e diverso: sul set attraverso la reiterazione della stessa azione, ma diversa nell'efficacia, nei vari ciak; o nella reiterazione della stessa azione, ma da diversi punti di vista, nei vari punti macchina. Uguale e diverso...

Da William James a Hugh Everett III, tra “interpretazione di Copenhagen”, teoria delle bolle e teoria delle stringhe, il Multiverso ha sempre affascinato... ok, inutile soffermarmici, andiamo avanti. Uguale e diverso per lo spettatore: in sala, in tv, su tablet, su telefonino, lo stesso testo audiovisivo può essere percepito in maniera differente.

Da William James a ...merda! Il racconto in loop non è certo una novità e lo avrete letto un po' ovunque: Russian Doll, la serie Netflix creata da Natasha Lyonne (anche protagonista) e Leslye Headland (anche regista) col contributo di Amy Poehler (Parks & Recreations), sfrutta un espediente reso famoso dal celebre Ricomincio da capo, diretto nel 1993 da Harold Ramis e interpretato da Bill Murray, ma che poi abbiamo ritrovato in altre opere, dalla seconda regia di Duncan Jones, Source Code, al nuovo franchise Blumhouse Auguri per la tua morte, passando per Edge of Tomorrow di Doug Liman con Tom Cruise e Prima di domani di Ry-Russo Young.

Da William... sì ok... il racconto in loop... Ricomincio da capo (a proposito, Russian Doll è stato reso disponibile sulla piattaforma Netflix il 1 febbraio 2019, il giorno prima dell’effettivo giorno della Marmotta, il 2 febbraio)... Auguri per la tua morte...Tom Cruise...no, un attimo, torniamo indietro...Auguri per la tua morte e Prima di domani in particolare si ricollegano a Russian Doll perché anche lì la protagonista muore (nel primo viene uccisa, nel secondo un incidente) e le ulteriori possibilità di vita, in qualche modo, rappresentano una maledizione e una nuova occasione. Quella che vorremmo tutti (e che realizziamo, in fondo, nei videogame di cui la protagonista Nadia è programmatrice) di ritornare sui nostri errori, per eliminare rimpianti e rimorsi. Inoltre Nadia ha la possibilità di indagare, nel suo (quasi) eterno ritorno, i diversi lati del suo carattere, le diverse Nadia che si nascondono nella Nadia principale, nella più grande delle bambole della Matrioska.

Da William James... lasciate perdere... è qui che l'espediente del loop temporale incontra la teoria delle stringhe... o delle bolle... o “l'interpretazione di Copenhagen”... ok, lo avete già avete letto... diciamo che è qui che Russian Doll incontra Ritorno al futuro 2, per cui Nadia scopre di non essere l'unica e che ha la possibilità di migliorare o, per meglio dire, di scavare a fondo in sé stessa e portare alla luce la sua parte migliore, l'ultima bambola, quella che non si apre più.

Da Will... e tutto quello che avete già letto... è nell'ultimo episodio che Russian Doll incontra la celebre sequenza in split screen de Le regole dell’attrazione di Roger Avary, in cui James Van Der Beek e Shannyn Sossamon dapprima separati si ritrovano uniti nella stessa inquadratura dalla semplice cancellazione della linea di separazione. La reductio ad unum delle due Nadia ci dice che ognuno reca in sé diversi lati e che conoscendoli la vita può essere migliore. Ma bisogna scavare dentro di sé, e dentro, e dentro, e dentro, e dentro, e dentro...

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Quando eravamo fratelli

di Domenico Saracino
Quano eravamo fratelli - recensione film Jeremiah Zagar

«Un gran día dejaré este mundo, yo volaré. A una tierra do estaré seguro, yo volaré».
Inizia così, Quando eravamo fratelli, primo film di finzione del documentarista filadelfiese Jeremiah Zagar, basato sull’apprezzato, omonimo esordio letterario di Justin Torres: con la voce di un bambino che canticchia in spagnolo I’ll fly away, uno degli inni più celebri del gospel americano (per rimanere in ambito cinematografico lo si può ascoltare, per esempio, nella versione bluegrass delle Kossoy Sisters in Fratello, dove sei? dei Coen). Una canzone che Albert Brumley, prolifico autore di musica cristiana, aveva sentito il bisogno di tradurre in chiave religiosa mentre raccoglieva cotone per la sua famiglia, partendo in realtà da una delle ballate laiche più suonate degli anni ’20, The Prisoner’s Song, chiaramente incentrata, come dice il titolo stesso, sul tema della prigionia e della brama di libertà.

Volare via in un altrove dove sentirsi finalmente al sicuro, in un paradiso che sia, al di là di qualsivoglia connotazione spirituale, anzitutto privo di reclusione, costrizione e dolore. Questo è ciò che desidera, più di ogni altra cosa al mondo, Jonah, il più piccolo e fragile dei tre “animali” che costituiscono il “we” del titolo originale (We the animals), strepitante trio di esserini esuberanti, per metà italiani e per l’altra portoricani, capaci di diventare – quando l’amore fraterno riesce a farne un tutt’uno – una sorta di creatura sovraumana; animale, appunto, nel senso più pieno del termine, pura energia vitale, pre-culturale, pre-politica, pre-civile.

Sono figli della natura, questi ragazzi, più che dell’educazione famigliare o sociale. Che infatti latita, fino quasi a scomparire del tutto, tra le crepe di una famiglia della working class inghiottita da massacranti turni di lavoro, dalle imprevedibili esternazioni di un padre tanto affettuoso quanto impulsivo e violento, dall’impotenza di una madre risucchiata nella depressione d’una vita difficile. Jonah, Manny e Joel attraversano il confine ombroso tra infanzia e adolescenza nell’apparente assenza delle istituzioni: non c’è scuola – e non si capisce bene per quale motivo – ad aiutare i genitori nel ruolo pedagogico, non ci sono assistenti sociali a chiederne conto, né forze dell’ordine ad investigare sulle sassaiole che i tre enfants terribles (o meglio i due più Jonah) destinano alle auto in transito, lontano da casa.

Fatte salve le considerevoli divergenze in termini paesaggistici, le condizioni – naturali, sociali, famigliari – in cui vivono i tre bambini non sono molto diverse da quelle offerte dal bayou alla bambina protagonista di Re della terra selvaggia (altro film girato, come Quando eravamo fratelli, in 16mm, molto apprezzato al Sundance Film Festival, dove entrambe le opere sono state premiate). Oppure da quelle che il villaggio di pescatori islandesi di Hjartasteinn destina a due preadolescenti alle prese con un coming of age che coincide, come nel libro di Torres e nel film di Zagar, con la scoperta della propria omosessualità.
O, ancora, da quelle delle aree minerarie dello Yorkshire in Kes, l’insuperabile affresco (pre)adolescenziale di Ken Loach, il cui protagonista Billy condivide con Jonah la fascinazione per il volo, incarnata dal gheppio (kestrel, il “Kes” del titolo) con cui cerca di evadere da una realtà fatta di miseria e amarezze. Film, quest’ultimo, che ha certamente influito, in modo evidente soprattutto nella parte finale, sul lavoro di Zagar.

Si può dire che oltre a vivere nella natura biologicamente o ecologicamente intesa, nell’ambiente naturale, insomma, che in questo caso è quello dell’America rurale, a basso reddito pro-capite, dell’Upstate New York, dalle parti del lago Oneida (Justin Torres, l’autore del libro, è cresciuto a Baldwinsville, mentre gran parte del film è stato girato ad Utica, sessanta miglia più a est), questi bambini vivano e crescano immersi tra forze etimologicamente “naturali”, plasmanti, generatrici. A stretto contatto con la violenza, in primis, che in Quando eravamo fratelli arriva, improvvisa, nel mezzo dell’amore instabile e volatile dei genitori, dello scherzo, del gioco infantile. E che si materializza nel labbro ferito della madre, nella fisicità paterna, nelle zanzare schiacciate con rabbia.

C’è una percussione continua in Quando eravamo fratelli, dita tamburellanti, vibrazioni musicali, schiaffi sonori che si abbattono sulla pelle nuda, sferzata. Come se la vita non potesse che progredire così, percorsa (s)e percossa, per oscillazioni che spezzano silenzi, equilibri, forme. Mentre Jonah oscilla tra introversione e apertura all’esterno, tra sensibilità interiore e insensibilità del mondo esteriore, le sue matite colorate lasciano sui fogli i segni grafici di quei moti. E persino i disegni sono in continuo movimento, in divenire, resi vivi dalle animazioni di Mark Samsonovich, per la verità forse troppo numerose e invadenti.

Sta qui la bravura di Zagar, nel lasciare la macchina da presa in balia di questi flussi di energia, di queste onde, prediligendo la camera a mano, il pedinamento dei corpi, i primi piani, l’irrefrenabile punto di vista dei piccoli, di Jonah in particolare. Lo stile registico, la fotografia di Zak Mulligan e l’utilizzo della pellicola in 16mm restituiscono così alle immagini un’immediatezza che richiama quella dei filmati casalinghi e una genuinità che, al netto di qualche trascurabile difetto, non può che farci propendere per una valutazione assolutamente positiva.

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Jeremiah Zagar Sheila Vand Raúl Castillo Evan Rosado 93 minuti
USA 2018
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Velvet Buzzsaw

di Mattia Caruso
Velvet Buzzsaw - recensione film gilroy netflix

Forse non c'è nulla, oggi, che meglio si presti alla satira sociale e a uno sguardo tagliente e critico sulla contemporaneità come il mondo dell'arte e la sua decadenza. A dircelo è sicuramente il successo recente di film come il The Square di Ruben Östlund, ma anche l'essenza stessa di una realtà che pare divenuta, col tempo, sempre più il riflesso distorto di se stessa, caricatura stilizzata a uso e consumo di una apatica élite di cultori.
Non sorprende più di tanto, allora, che proprio a quel mondo decidano di guardare anche Netflix e il regista di Velvet Buzzsaw, Dan Gilroy, dando vita a un horror dalla forte componente ironica e grottesca.

Abbandonati gli inferni mediatici di Nightcrawler e quelli giudiziari di End of Justice, è infatti proprio con l'arte e con l'industria che la circonda che lo statunitense Gilroy decide, questa volta, di confrontarsi, mettendo in scena la consueta Los Angeles dantesca ma calcando il piede sulla stilizzazione e sullo straniamento, restituendo un mondo assurdo e freddo come le figure che lo abitano. È qui, tra mostre, musei e atelier dove si decidono le sorti stesse di artisti e addetti ai lavori, che l'arrivista Josephina (Zawe Ashton) scopre per caso l'opera postuma di un pittore sconosciuto e disturbato i cui quadri paiono essere intrisi di una misteriosa e letale maledizione. È l'inizio di una catena di eventi che, sulla scia del più classico horror con al centro una serie di omicidi soprannaturali (The Ring, sopra tutti), paiono destinati a rivoltare quel mondo dorato sin dalle fondamenta, facendone emergere la superficialità, l'opportunismo, la cieca sete di denaro, fama e successo.

Perché, in fin dei conti, sta tutta qui l'intuizione di un film come Velvet Buzzsaw: prendere una trama lineare e abusata da horror di serie b e calarla all'interno di una riflessione cinica su un mondo alla deriva, dove il valore artistico di un'opera si misura troppo spesso con la sua quotazione di mercato (chiunque tenti di lucrare sui quadri del fantomatico Vetril Dease fa una fine terribile), alimentando un paradosso sempre più esplicito ed evidente.
Fino a qui tutto bene, non fosse che l'equilibrio tra queste due anime diventi presto estremamente precario, sbilanciato ora da una parte ora dall'altra, facendo di questo film costantemente in bilico tra farsa e prodotto di genere un ibrido imperfetto e altalenante, indeciso se buttarsi completamente sul fantastico o se sviluppare la sua divertita e grottesca componente satirica.

Non che gli elementi di interesse manchino: dalla caricatura di un mondo popolato da personaggi costantemente sopra le righe e ai limiti della macchietta (un Jake Gyllenhaal come al solito camaleontico, ritratto spietato di un critico d'arte e di un'intera categoria), al meccanismo orrorifico collaudato e implacabile, tutto sembra convergere in un'apocalisse morale ormai inevitabile. Eppure la sensazione data dalla visione di Velvet Buzzsaw è soprattutto quella di trovarsi davanti a una strana anomalia, una commistioni di toni, registri e generi che non solo pare forzata, ma persino priva di una direzione precisa, come se il regista, avuta da Netflix carta bianca, avesse voluto inserire qualsiasi incubo, ossessione, deriva satirica che gli venisse in mente, restando, però, bloccato sulla superficie (quanto, nella messa alla berlina del mondo dell'arte, pare già detto o già datato?) di una critica e di una riflessione mai realmente incisive.

Tra vittime scambiate per opere d'arte e proverbiali impresari vuoti e senza scrupoli, la parabola di Velvet Buzzsaw si fa così patinata e posticcia, superficiale e semplicistica come quel mondo che vorrebbe tanto sagacemente demolire ma di cui riesce solo a restituire un riflesso formalmente interessante ma datato come i suoi escamotage soprannaturali. 

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Dan Gilroy Jake Gyllenhaal Rene Russo Toni Collette Zawe Ashton John Malkovich 113 minuti
USA 2019
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Dafne

di Emanuele Di Nicola
Dafne di Federico Bondi recensione film

Si chiama Dafne come la ninfa della mitologia greca che rappresenta i corsi d’acqua dolce, colei che fa innamorare il dio Apollo. E la sua figura - tutto sommato - non è lontana dalla funzione dell’acqua: rigenerante, appagamento di un bisogno e saturazione di un vuoto, bevendola si può riprendere forza per camminare. Carolina Raspanti è la giovane attrice affetta da sindrome di Down protagonista di Dafne, titolo e nome, il film di Federico Bondi che ha vinto il premio Fipresci alla Berlinale 2019 dopo la presentazione nella sezione Panorama. È una storia apparentemente semplice: Dafne vive con la sua famiglia in Toscana, con i genitori Luigi e Maria, ma la madre improvvisamente scompare. Davanti al lutto la famiglia vacilla, è chiamata a sostenere la sofferenza e insieme affrontare una riorganizzazione complessiva della vita.

Ma in realtà non c’è niente di “semplice”, già in questo incipit. La morte, lasciata pudicamente fuori campo, introduce subito a un non detto che scorre per tutto il racconto: Luigi (Antonio Piovanelli) non è certo giovane, bensì anziano e provato, e subisce l’ulteriore colpo della vedovanza. In futuro non ci sarà più neanche lui e la ragazza Down resterà sola. Qui il film inizia a smentire il primo luogo comune: Dafne è autonoma e ha un carattere forte, non solo se la cava ma ha fidanzati e un lavoro (all’Ipercoop, come l’attrice nella vita), seppure portatrice della patologia respinge ogni sospetto di non autosufficienza. Al contrario. Ed ecco un secondo ribaltamento, che si gioca sul piano più strettamente narrativo: dinanzi a due personaggi stravolti dal lutto, il compito di sollevare la situazione spetta a quello in teorica condizione di minorità. Dafne, infatti, capisce che dovrà intervenire per uscire dall’angolo di impotenza in cui sono costretti. Non lo dice mai, evitando scene madri, ma la realizzazione è chiara: in questa svolta narrativa sta la maggiore attestazione di normalità nei suoi confronti, perché diventa non più una ragazza con sindrome di Down ma una figlia che aiuta il padre, come tutte. Dafne e Luigi iniziano un viaggio, un road movie a funzione catartica che lasciamo alla visione: sembra un’avventura pastorale, per tornare al mito, e un percorso sullo sfondo arcadico della campagna toscana. Obiettivo perdersi per ritrovarsi.

C’era una serie di rischi evidenti nel girare Dafne, quelli che sempre si applicano al cinema con e sulla disabilità: da una parte la possibile strumentalizzazione del tema, dall’altra il rischio pietismo e quindi di retorica. Il regista li aggira con alcune trovate limpide ma efficaci: tra tutte il carattere di Dafne, esplicita e vulcanica, dunque simpatica, e non certo per un’empatia estorta dalla sua condizione ma per un semplice dato di fatto. Lei è così. Dice sempre quello che pensa e sabota una regola implicita della formalità narrativa: quando il padre è triste lei lo specifica, quando fa qualcosa che non le piace lo sottolinea, va quasi a tematizzare i suoi difetti - e implicitamente gli ostacoli da superare per creare una nuova famiglia a due. La sua onestà è disarmante. È anche una questione di sguardo: Federico Bondi vuole metterci nei panni dell’altro e portarci a vedere con i suoi occhi. E cosa c’è di più lontano di una Dafne dalla supposta “normalità”? D’altronde il regista ha lo slittamento di prospettiva nelle vene, basti pensare a Mar Nero del 2008: storia di Angela, badante rumena che arriva in Italia e deve occuparsi di Gemma, un’anziana che non può camminare. Ecco ancora l’alterità e la disabilità che si intrecciano, in quel caso c’era una migrante, ed ecco un’altra parabola che parte dal diverso e arriva al normale, traiettoria prediletta dell’autore.

Bondi accompagna il racconto con una regia piana, che cammina su una linea sottile evitando le trappole: una storia che coincide con la sua protagonista, Dafne/Carolina quasi sempre in campo, in una sovrimpressione tra racconto e personaggio che può essere un limite ma in fondo si rivela funzionale al compiersi del percorso. Tra l’altro, malgrado le poche linee di sceneggiatura ricevute, Raspanti non si limita a riversare se stessa sullo schermo bensì interpreta una parte, come spiegato nell’incontro col pubblico a Berlino: la sua è una vera prova d’attore, convincente, che dimostra come le persone affette dalla sindrome possano recitare. Dafne è quindi un prezioso “disturbo” alle convenzioni del cinema italiano, un piccolo e coraggioso film che si chiude in un potente finale sentimentale.

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Federico Bondi Carolina Raspanti Antonio Piovanelli Stefania Casini 94 minuti
Italia
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Aperti al pubblico

di Arianna Pagliara
Aperti al pubblico di Silvia Bellotti

Ci sono situazioni ordinarie e quotidiane che, se osservate con la giusta sensibilità di sguardo e il dovuto distacco, rivelano all’improvviso tutto il loro portato di eccezionalità e la loro densità di significato: perché si fanno esempio e conferma di realtà e dinamiche che le trascendono o perché nelle loro molteplici stratificazioni rivelano i sedimenti di un vissuto che è culturale, sociale, storico. In alcuni casi, congiunture peculiari e tuttavia non insolite fanno irrompere senza difficoltà il surreale nel reale: come quando si scontrano le cavillosità e i paradossi della burocrazia con l’impazienza di chi, dall’altro lato, vive sulla propria pelle urgenze e difficoltà di ogni tipo.

È esattamente questo che accade quando l’Istituto Autonomo per le Case Popolari di Napoli, che gestisce circa quarantamila alloggi tra la città e la provincia, è aperto al pubblico. La regista Silvia Bellotti, con sguardo discreto ma attento ad ogni dettaglio, ci guida nelle stanze sature di scartoffie impolverate e osserva silenziosamente ciò che succede da un lato e dall’altro delle tante scrivanie. La presenza registica è invisibile, e tutti – impiegati annoiati o volenterosi, utenti confusi o esasperati - mantengono quella preziosa naturalezza che per forza di cose è il punto di forza di un’operazione cinematografica come questa. Che non è di accusa o denuncia, perché Aperti al pubblico vuole essere essenzialmente un cinema fenomenologico, la testimonianza di una complessa realtà in atto offerta allo spettatore nuda e cruda.

Quel che vediamo corrisponde in buona parte all’immaginario ampiamente diffuso che vede nella burocrazia un meccanismo farraginoso fino all’inverosimile, tanto da spalancare scenari – è il caso di dire – assolutamente kafkiani. Se a questo si somma la proverbiale teatralità dello spirito partenopeo – tassello fondamentale nell’economia del film – ecco che la quotidianità raccontata dalla Bellotti è già, autonomamente e imprescindibilmente, cinema.

C’è la signora di mezza età che ha perso il marito, per la quale – suo malgrado - la scrivania dell’impiegata che tratta il suo caso diventa quasi un confessionale: tra una pratica e l’altra si parla d’amore, morte, egoismo, genitorialità. C’è l’anziana che subisce un’ingiustizia ma tace più di quel che rivela, lasciando allo sconfortato operatore di turno il compito ingrato di ricomporre un complicatissimo puzzle. E ancora c’è la donna che per sua fortuna un posto dove abitare ce l’ha ma a causa di un cavillo burocratico “non risulta da nessuna parte”; quella che all’improvviso vuole pagare “tutto” perché il coniuge defunto “non pagava niente”; quella che supplica disperata di poter sapere “se ci sono i documenti” ma non ha la necessaria delega della cognata, perché quest’ultima “abita ad Afragola, mica dietro l’angolo”. Documenti che vanno e vengono, documenti per i quali serve un altro documento che si deve richiedere in un altro ufficio, in un altro giorno, in un altro orario: ma nel frattempo il tempo passa e chi ha la casa che cade a pezzi e i figli malati, come accade a una signora indiana sorprendentemente paziente, non può far altro che sperare e attendere. Del resto c’è addirittura chi “aspetta da trentasei anni”, ribadisce un’altra donna quasi con orgoglio.

Quello raccontato in Aperti al pubblico - vincitore del premio del pubblico al Festival dei Popoli - è un mondo disperatamente immobile dove, nonostante molta buona volontà e disponibilità, il tempo delle vite “degli altri” vale veramente poco. Ma è anche un mondo dove, malgrado le inevitabili tensioni e i numerosi battibecchi, si incontrano comprensione e  solidarietà, cosa che oggi, in un questa fase di indifferenza e cinismo, quasi commuove. Nel bene e nel male, l’asciutto ed essenziale documentario della Bellotti riesce efficacemente a raccontare tanto alcuni aspetti del nostro presente, tanto la storia (umana prima che socioculturale) che li sottende e che li determina. Ne viene fuori, come è lecito aspettarsi, un’Italia alla deriva dove però, sebbene la società riesca a stento a tutelare il singolo perfino per quelli che sono i bisogni basilari e fondamentali (il diritto a un’abitazione per chi è indigente, appunto) miracolosamente non vengono meno la forza di volontà, la capacità di reazione, l’ironia e l’empatia.

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Silvia Bellotti 60'
Italia, 2017
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American Crime Story - L'assassinio di Gianni Versace

di Antonia Caruso
american crime story versace recensione

Il 15 luglio del 1997 il giovane omicida Andrew Cunanan uccide a Miami con due colpi di pistola Gianni Versace (e insieme allo stilista anche un colombo bianco che era lì per caso, fosse o meno uno stagionato simbolo di innocenza). La seconda stagione di American Crime Story inizia così. Non poteva essere altrimenti; dato che il sottotitolo è The Assassination of Gianni Versace non si aspetta molto perché si veda il viso di Versace martoriato dai proiettili accanto a un colombo sul tavolo dell’autopsia.

Ryan Murphy ridimensiona ma non elimina il melodramma, una delle sue cifre come autore e showrunner, e lo unisce a importanti dosi di gore. Il fondale – tutt'altro che bidimensionale, quasi un coprotagonista – è la scena gay (gay come maschio cis, tendenzialmente bianco) degli anni ‘90. Non certo una comunità perché di comunità c’è poco, ma semplicemente tante persone sole o in piccoli gruppi che cercano di sopravvivere alla meno peggio, chi con molti, molti soldi (quelli più anziani), chi con niente (quelli più giovani).
Una parte di melodramma era sicuramente necessaria, non tanto per adempiere alla consueta auto/rappresentazione gay (l’elemento operistico – almeno questa volta non c’è la Callas – la discoteca, le marchette) ma soprattutto perché erano i tempi di quel meccanismo perverso del Don’t Ask Don’t Tell in vigore nell’esercito americano nel 1994, due anni prima che Jeff Trail lasciasse l’esercito. L’ovvio oggetto del non-detto era l’omosessualità, soprattutto se associata al fantasma rappresentato dall’onda mortifera di HIV e AIDS, che si aggiungevano a un'omofobia diffusa (anche se a dire il vero non c’è mai stata un’epoca, un decennio, un anno, un mese, in cui la popolazione gay e LBTQI se la sia passata tanto bene, per un motivo o per l’altro). L’inadeguatezza della polizia – sia come dispositivo di controllo e sicurezza che come custode della società eteronormata (cioè in cui la norma morale è quella dell’individuo eterosessuale) – nell’affrontare la relazione tra Versace e il suo compagno viene illustrata con precisione già nella prima puntata, soprattutto nell'incapacità di concepire una relazione sessualmente aperta o qualsiasi tipo di relazione non aderente al modello etero-nucleare.

Da qualche anno Murphy sta contribuendo a una narrativa visuale della popolazione LGBT+ statunitense, non una storia politica del movimento come il quasi contemporaneo When We Rise che ha nel team produttivo Gus Van Sant, ma qualcosa a metà tra il senso di comunità, prima nascosta – closeted – poi davvero out dopo i moti di Stonewall del 1969 e le storie private. Con la seconda stagione di American Crime Story, Murphy prosegue un discorso già iniziato con The Normal Heart (film per la TV a tema HIV/AIDS) e il recentissimo Pose (serie sulla scena del voguing e delle sfide nelle ballroom nella New York di fine ‘80) e lo fa a partire dal posizionamento privilegiato di un maschio gay pienamente inserito nello showbiz.
Al centro della serie ci sono Gianni Versace e Andrew Cunanan ritratti come delle drama queen di primo livello, uno creativo, l’altro letale, mentre l’epopea della famiglia Versace – interpretata inspiegabilmente da ispanofoni con grandi erre e grandi esse (Edgar Ramìrez, Penelope Cruz e Ricky Martin, più l’italiano Giovanni Cirfiera nel ruolo di Santo Versace che però non parla mai) – caratterizzata dai dissidi stilistici tra Gianni e Donatella viene messa in secondo piano, jet-set e supermodel incluse. Prima ancora che per Gianni, la scena è tutta per Cunanan (interpretato da Darren Criss), che se fosse ancora vivo sarebbe sicuramente molto felice di avere una serie simile tutta su di sé. Del resto era un narcisista manipolatore, che nella serie si descrive agli altri e agisce in modo continuamente contraddittorio. Ad esempio dice di essere uno scrittore, di essere figlio di un ricco filippino possidente di piantagioni di ananas, e di una donna italoamericana, ma solo alcune di queste cose vengono confermate. La regia gioca molto sullo scarto tra quello che Cunanan dice e quello che ci viene mostrato, portando spettatori e spettatrici a dubitare costantemente dell'uno e dell'altro, aggiungendo un livello di sfiducia ulteriore alla figura del protagonista ma senza mai condannare ulteriormente l'essere assassino. Questa stagione di ACS rimane in quegli stessi anni ‘90 in cui era ambientata la precedente ma si stacca quindi dal dramma procedurale e dalle riflessioni su potere, razzismo e media che vedevano protagonista O.J. Simpson e avvocati, per concentrarsi sulla genesi della mania omicida del giovane Cunanan senza perdere una visione più ampia o scivolare nel pedagogico.

Cunanan non ha il fascino esotico e morboso dei serial killer (vedi alla voce Ted Bundy as a Sex Symbol) perché serial killer non era. Uccideva quasi a caso, per ripicca, probabilmente mosso dalla frustrazione infantile di non essere più un golden boy semi-onnipotente vezzeggiato da un padre truffatore quanto omofobo e non meno narcisista del figlio. La ricostruzione a ritroso ci mostra un Cunanan fragile e desideroso d’affetto e di conferme, ma anche un uomo che uccide a sangue freddo e con un certo sadismo quattro persone prima di Versace. Il ritratto di un personaggio estremamente complesso, pieno di contraddizioni, che fa convivere fascino e generosità, una grande cultura ma anche una tendenza alla manipolazione del prossimo. Il protagonista di The Assassination of Gianni Versace è anche un personaggio fastidioso e spesso antipatico, con cui è molto difficile empatizzare, perché privo del carisma di altri anti-eroi negativi come Walter White.

Lo storytelling al contrario di Murphy arriva, seppur un po' troppo lentamente (due ore in meno non avrebbero guastato), fino all’infanzia del protagonista, grazie a un penultimo episodio che suggerisce una spiegazione non esplicitamente psicanalitica, ma che vede Cunanan tutt'altro che nei panni del carnefice; non c'è dubbio che questi sia stato una vittima della sua storia, del contesto in cui ha agito e ovviamente di se stesso.
The Assassination of Gianni Versace è un ibrido ben realizzato, che riesce ad essere in parte crime, in parte melodramma, in parte monografia su una personalità ancora misteriosa e quindi facilmente spettacolarizzabile.

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1 stagione da 9 puntate
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Creed II

di Saverio Felici
Creed II - Recensione film Caple Jr

A riguardarsi indietro, con Creed II c'erano tutte le carte in regola perché una nuova grande saga finisse abortita al secondo episodio. Il defilarsi repentino di Ryan Coogler, padre spirituale del franchise, aveva fatto pensare al peggio. Soprattutto, convincevano poco i sostituti designati, chiamati alla sempre delicatissima operazione di espandere un prototipo autoconclusivo. Il semi-sconosciuto Steven Caple Jr. pareva chiamato solamente per fare da surrogato a Coogler (altro giovane afroamericano del circuito indie in attesa di grandi chance). E anche Sylvester Stallone, che dopo aver accarezzato l'idea di appropriarsi registicamente del film si era auto-declassato a sceneggiatore di lusso, era visto con sospetto. Il primo Creed era stato un film molto personale, incentrato sulla creazione metodica di un nuovo eroe. Tornare ad affidare la macchina al leggendario ego di Stallone era sembrato un passo indietro più che uno in avanti. Ed era tutta da valutare la capacità di Sly di improvvisarsi sceneggiatore su commissione.

Ogni legittimo dubbio alla base del progetto Creed II è stato spazzato via alla prima proiezione stampa. Proprio ciò che preoccupava maggiormente si è rivelato un punto di forza: il film è diretto magistralmente (nella cura interna dei combattimenti forse addirittura meglio del primo), ma sopratutto è scritto magistralmente. Rispetto al primo film, manca solo quella sensazione di freschezza che il lavoro del 2015 portava con sé: quella di un prodotto a modo suo interamente originale, che prendeva le sembianze di film di Rocky solamente in divenire, sorprendendoci con un percorso dell'eroe apparentemente lontano dai canoni. Creed II, invece, questa dimensione di film di Rocky la abbraccia e la fa sua dalla prima all'ultima scena. Ed è Stallone in persona ad occuparsi di di porre definitivamente il film sul glorioso tracciato della serie, consegnando una volta per tutte a Michael B. Jordan l'eredità del suo personaggio. Creed II chiude il cerchio, riconduce la seconda saga in seno alla prima, ne genera forse una terza e permette ai nuovi personaggi di confrontarsi apertamente con quelli classici che li hanno generati.

Creed II è un'esercizio di classicismo da scuole di cinema. A partire dal macro-spunto di partenza (Ivan Drago e il figlio Viktor emergono dalle nebbie rosse di una depressissima Est Europa per reclamare trent'anni dopo la rivincita al clan Creed-Balboa), Stallone e Caple Jr. si servono della mitologia e del passato della serie in maniera attiva, non necrofila o postmoderna, utilizzando schemi narrativi e immagini iconiche come punti di partenza verso il nuovo. Creed II è Rocky III (nella struttura), Rocky IV (nei rimandi), Rocky I (nell'etica): in una cosmogonia della lotta che ormai ha più del Mito junghiano che non del Cinema, tutto è eterno e presente, antico e perfettamente contemporaneo. Ed è straordinario il lavoro sul personaggio-Rocky come conciliatore di queste due anime. Protagonista non dichiarato del primo film (nel quale Sly travolgeva completamente un acerbo Jordan), in Creed II Rocky è ancora centralissimo, ma solo per la prima volta davvero “spalla”. La ribalta viene lasciata a Donnie, alla sua famiglia (la nuova Adriana Thessa Thompson è ancora una volta di un carisma abbagliante), a una terribile responsabilità genitoriale, al passato dei Creed e al loro futuro. E' qui che Rocky, finalmente, ci saluta, lasciando al suo erede il compito di scrivere davvero la propria storia (build your own legacy).

Un capitolo a parte merita poi l'intuizione più forte e indimenticabile di Creed II: i Drago. In un lavoro di recupero di incredibile complessità, i due pugili russo-ucraini diventano personaggi da tragedia, portatori dei conflitti emotivi più forti. Basti pensare a come Ivan, nel film del 1985, fosse poco più che un coloratissimo cartoon in carne ed ossa: lo strappo con cui lo ritroviamo improvvisamente “vero”, grigio, invecchiato e interpretato da un Dolph Lundgren da dieci Oscar, è grande cinema. A lui e al non professionista Florian Monteanu basterebbero giusto un paio di scene in più per conquistare il favore del pubblico e ritrovarsi paradossalmente eroi del film (come accadeva a Rocky, di fronte all'intelligencija sovietica, nel mitico incontro di Mosca dell'85). Stallone ne è consapevole, e tiene i due defilati, lasciandone lo sviluppo a pochi, indimenticabili dettagli (una spugna, un abbraccio, una corsa di riscaldamento finale). In Creed II, la maschera di “Rocky” intesa come archetipo passa ancora di mano: e sarebbe bello se, chiuso il cerchio di Adonis e dei Creed, si aprisse quello di Viktor e dei Drago. Una nuova saga, per ripartire ancora, e allargare un universo espanso potenzialmente infinito. Perché anche se Sly saluta, i film di Rocky non finiranno mai.

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Steven Caple Jr. Michael B. Jordan Sylvester Stallone Tessa Thompson Dolph Lundgren Florian Munteanu Milo Ventimiglia 130 minuti
USA 2018
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Grazie a Dio

di Andreina Di Sanzo
grâce à dieu - recensione film ozon

Tutto inizia grazie ad Alexandre (Melvil Poupaud), alto borghese di Lione che porta alla luce quello che per anni ha tenuto nascosto: gli abusi di padre Bernard Preynat durante i soggiorni estivi al campo scout.
François Ozon, in concorso alla Berlinale e premiato con l’Orso d’Argento, dirige il suo film-inchiesta, Grazie a Dio, sulle vicende che hanno portato a processo il cardinale Barbarin, accusato di aver coperto e mai denunciato gli abusi su decine di ragazzi da parte di padre Preynat.

Con le voci fuori campo apprendiamo il carteggio digitale tra Alexandre e la psicologa, religiosa laica, Régine Marie. Quasi una cronaca, le voci distaccate, le descrizioni meticolose, il linguaggio misurato nonostante la gravità della questione.  Da qui l’esplosione del caso che, partendo dalla confessione di Alexandre, si propaga e porta a liberarsi altre vittime che possono uscire dal silenzio per denunciare i terribili abusi subiti dal sacerdote. Decine di ragazzi molestati, sodomizzati e costretti a pratiche sessuali da quel prete che si fingeva amico ed educatore. Così le vittime decidono di fondare un’associazione, La parole libérée, affinché, chi ha subito gli abusi, possa unirsi alla battaglia.

Riduttivo etichettare il film di Ozon come il nuovo Spotlight, il lavoro del regista francese va oltre quello che potrebbe sembrare un film impegnato, un film civile. Non solo inchiesta pedissequa, Grazie a Dio è un film stratificato, corale nella messa in scena e che si muove tra i diversi riflessi di una medesima, triste, storia. Se il trauma subito è sempre lo stesso, le reazioni e le vite che si sono costruite attorno al terribile avvenimento hanno preso strade molto diverse.
Alexandre, padre di cinque figli, continua a essere parte della comunità religiosa, fervente cattolico e devoto alla famiglia. François vive la tragedia in modo apparentemente misurato ma combattivo, in un primo momento restio, diventa il più combattivo. Gilles, medico affermato, tra i primi fautori dell’associazione, abituato a una vita agiata sceglie la via più semplice e si mette in disparte dopo il momento cruciale. Emmanuel, tra i personaggi più interessanti, cerca un equilibrio in una vita fatta di precarietà e trova una prospettiva proprio con La parole libérée.

Dialoghi serrati, forma rigorosa, Ozon è chirurgico e ironico in un’opera che sembra, in un primo momento distante, dalla sua filmografia. Grazie a Dio è una continua oscillazione tra le diverse esistenze delle vittime e il regista lo fa mantenendo sempre un rigore e una fedeltà verso il racconto dei fatti.

Da maestro del thriller psicologico, raffinato e perturbante, Ozon continua il suo gioco del doppio, qui del quadruplo, concentrandosi sulla reazione al dramma entrando nelle case dei suoi personaggi. Diverso l’arredo, diverso lo stile di vita, l’estrazione sociale, diverso il dolore. Ogni personaggio/vittima ha un suo spazio, un suo tempo a cui il regista dedica attenzione per cercare di essere il più obiettivo possibile ma si sa, difficile rimanere imparziali, e il cinema di Ozon si muove sempre su altri registri. Ozon scruta e indaga la psicologia di chi viene coinvolto, attraverso l’indagine formale, attraverso l’inchiesta.
«Grazie a Dio, i fatti a cui si fa riferimento sono tutti prescritti» afferma senza pensare Barbarin durante una conferenza stampa, e da qui arriva la frase che dà il titolo al film, tagliente e affilato momento che tradisce il porporato, l’uomo imputato nel processo che ancora deve concludersi. In una dialettica tra fatti e individui, Ozon denuncia la colpa collettiva, la colpa di un sistema. Il regista costruisce ad arte un contrappunto tra particolare e generale, affinché tutto vacilli, tutto possa essere messo in dubbio. Persino la fede più cieca.

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François Ozon Melvil Poupaud Denis Ménochet Swann Arlaud Éric Caravaca Bernard Verley François Marthouret 127 minuti
Francia, Belgio 2019
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Synonymes

di Emanuele Di Nicola
Synonymes di Nadav Lapid

Méchant. Obscène. Ignorant. Hideux. Vieux. Sordide. Grossier. Abominable. Fetide. Lamentable. Répugnant. Détestable. Abruti. Etriqué. Bas d’esprit. Sono le parole sul poster di Synonymes di Nadav Lapid, il film che ha vinto l’Orso d’oro alla Berlinale 2019: lettere che emergono in trasparenza sul volto del protagonista, un magnifico Tom Mercier. Sinonimi. Come identità è sinonimo di corpo: lo attesta il fulminante incipit, con il giovane Yoav arrivato a Parigi senza niente, che entra in una casa vuota, subisce il furto dei vestiti e resta nudo, raggomitolato in una vasca in attesa di congelare. A salvarlo sono Emile e Caroline (Quentin Dolmaire e Louise Chevilotte), una coppia di giovani che diventano il punto di riferimento per Yoav a Parigi, sia economico che sentimentale. Questi inaugurano una girandola di incontri che porta il ragazzo ad avvicinarsi a Caroline ma non meno ad Emile, con cui scorre sottotraccia un rapporto omosessuale latente che fa rima con la relazione esplicita con la donna. Ma probabilmente non è corretto parlare di “punto di riferimento”: se da una parte è vero che i due sono per Yoav un centro a cui sempre si ritorna, dall’altra si offrono piuttosto punto di non riferimento, non offrendo certezze, coinvolgendolo nel loro ambiguo rapporto, aiutando il migrante per avere qualcosa in cambio. Il suo corpo. All’inizio Emile e Caroline vestono Yoav ma sono abiti sformati, grotteschi, inadatti: lo vestono come vogliono loro. Accoglienza è sinonimo di dominazione. Indigenza è sinonimo di minorità.

Yoav è un giovane israeliano che ha deciso di abbandonare il suo Paese, in tutto e per tutto: approda a Parigi e respinge l’identità precedente, vuole cancellarla e diventare francese. Non sarà più israeliano, non parlerà più ebraico. Va in giro con un dizionario per imparare la lingua nel più breve tempo possibile, elenca sinonimi con risultati stranianti. Alla domanda su perché lasciare Israele, definisce lo Stato con il profluvio di sinonimi della locandina (méchant, obscène, ignorant...) e gli viene risposto che nessuna società può contenere quegli aggettivi tutti insieme. Yoav è infatti fuori luogo. Vuole imparare troppo presto, usa troppi sinonimi, si dice troppo francese. Non riesce a integrarsi, nella Parigi metonimia dell’Occidente, e inizia un vagare obbligato tra l’ambasciata israeliana, i test di integrazione, gli incontri con i conterranei che detesta. Complesso trovare lavoro, a volte perfino mangiare. Nel primo caso Yoav si infila nel gorgo della pornografia e, nella scena più spiazzante, viene costretto a ritirare fuori l’ebraico per mimare un orgasmo: è un momento urlato, innaturale, insostenibile che viene costruito attraverso una “depornizzazione del porno”, a ribadire con forza che la ricerca dell’identità passa ancora e sempre per il corpo. Anzi, forse l’identità è solo corpo. Nel caso del cibo Yoav si ritrova in una discoteca e per mangiare è costretto a ballare, il gesto di addentare il pane viene incluso dentro una danza: qui, davvero, risuona l’eco di altre crisi e altri poveri che “ballano per mangiare”, dai cavalli di Sydney Pollack ai disoccupati di Full Monty.

Ma Synonymes si inserisce direttamente nel cinema israeliano contemporaneo e il film che più ricorda è The Exchange di Eran Kolirin, in concorso a Venezia 2011. Lì il protagonista Oded torna da lavoro a un’ora insolita e non riconosce la sua stessa casa, è come se non l’avesse mai vista. Qui Yoav esce dalle proprie generalità ed entra in un limbo. Seppure in due parabole diverse, come non vedere l’attualità della questione identitaria in Israele? C’è un misto di attrazione e repulsione, la volontà e insieme la paura di trovarsi senza Stato, il rifiuto di una radice così storicamente forte perché lasciandola si intravede una “libertà”, la fine del peso di essere ebrei oggi per gettarsi però in una terra di nessuno. D’altronde Nadav Lapid continua un percorso cinematografico preciso e coerente che passa per Policeman del 2011, racconto che dal genere ricadeva lucidamente sul tessuto sociale.

Synonymes è film sfacciato, estremo, disgregato. Apertamente metaforico. Pieno di strappi e dissonanze stilistiche, volute da Lapid per trascinare l’occhio nell’oscillazione del protagonista, ora paradossale e kafkiana e ora drammatica e disperata. Film che riflette frontalmente sul linguaggio, ma allo stesso tempo si tiene lontano da un’impostazione solo teorica e si sporca le mani: vive della carne e sangue di Yoav (soprattutto carne) e sembra dire che il pensiero sull’identità e sulle migrazioni non è mai solo pensiero, perché irrompe sulle persone e ne segna i corpi. Ecco allora che il racconto iniziato col nudo si chiude con i colpi a una porta che non si apre, ovvero con un corpo che sbatte contro un muro. Il protagonista è finito in scacco: l’utopia dell’integrazione è fallita, la rinuncia all’identità ha portato a non trovarne un’altra. La protesta finale contro l’orchestra è rumorosa ma di fatto formale. Yoav pensa che Francia sia sinonimo di Israele, ma scopre che nulla è sinonimo di nulla. La sua fuga si rivela ad elastico, è costretto a tornare indietro. Va contro una porta chiusa.

C’è una profonda intelligenza nella scelta della giuria presieduta da Juliette Binoche di consegnare l’Orso d’oro a Synonymes, il migliore in competizione insieme a Grâce à Dieu di François Ozon e So Long, My Son di Wang Xiaoshuai: un film di rottura che di solito viene ignorato in sede di premiazione, perché per alcuni troppo ambizioso o provocatorio. Ma qui l’unica provocazione è l’invito a uscire dagli schemi più rassicuranti, come la difesa dell’identità ebraica (e se invece si volesse cancellare?), per seguire un discorso concettuale e visivo fuori dalle solite logiche che confermano le nostre convinzioni, tanto attese quanto previste. Anche per questo è un grande film contemporaneo.

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Nadav Lapid Tom Mercier Quentin Dolmaire Louise Chevillotte 122 minuti
Israele, Francia
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