Il venerabile W.

di Barbet Schroeder

Barbet Schroeder chiude la propria personale trilogia sul male svelando l’orrore che si cela dietro una maschera apparentemente benevola, gettando luce sulla natura ambigua dell’animo umano

Il venerabile W., Barbet Schroeder

Dopo essersi concentrato sulla figura di Idi Amin Dada, sanguinario dittatore dell'Uganda dal 1971 al 1979, riflettendo sul regime e il potere assoluto nel film Général Idi Amin Dada: Autoportrait (1974) e su Jacques Vergès, avvocato francese noto per aver difeso terroristi e criminali di guerra come Klaus Barbie e l'ex capo dei Khmer Rossi Khieu Samphan in L’avvocato del terrore (2007), Barbet Schroeder chiude la propria personale trilogia sul male con il documentario Il venerabile W. (2017).

Fin dal titolo è evidente come il regista francese voglia sottolineare la natura estremamente contraddittoria del soggetto su cui ha intenzione di focalizzare l’attenzione. Venerabile infatti è l’appellativo con cui ci si rivolge ai monaci buddhisti, la cui dottrina e pratica religiosa (mahāyāna) si basa sulla compassione universale. Un’attitudine che si distanzia dal semplice pietismo ma che, in relazione dinamica con la realtà fattuale, non esclusivamente collocata dunque in una dimensione trascendentale, può orientare in maniera attiva l’intera esistenza dell’essere umano contro la rovina dell’egoismo e l’attaccamento ai beni materiali. Ashin Wirathu, il monaco a cui il titolo fa riferimento, estremamente influente in Birmania, altera e manipola gli insegnamenti del Buddha incitando i suoi discepoli all’islamofobia, spingendoli a compiere azioni criminose contro i Rohingya, una minoranza etnica che vive prevalentemente nel nord del Paese, costretta in passato a scappare dal Bangladesh durante il dominio britannico. Il termine razza nella lingua birmana “kula” viene spesso associato alla parola rakhita “protezione” per formare un costrutto che significa patriottismo. Durante i propri sermoni Wirathu modifica e altera i concetti espressi nei canoni del buddhismo sostenendo che il termine razza, con cui invece originariamente nei testi sacri si intende l’umanità intera, si riferisce invece alla religione buddhista da difendere e proteggere, minacciata, in questo caso, dall’Islam. Il monaco infonde nei giovanissimi allievi un germe di odio e violenza pronto ad esplodere.

Il film mostra come il nazionalismo insito nelle parole del leader, religioso e politico, cerchi di fornire, prima di tutto, una percezione distorta, falsa della realtà. La minoranza Rohingya, vista come una minaccia incombente, consiste solo nel 4% totale della popolazione, mentre quella buddhista rappresenta invece l’88%. La discrepanza tra realtà e percezione concernente la popolazione musulmana viene evidenziata anche in riferimento ai paesi occidentali. “Sapresti dire quanti musulmani ci sono nel tuo paese?” è la domanda che viene posta all’interno del film mentre alcuni grafici mostrano la percentuale di musulmani presenti in paesi come Germania, Francia e Stati Uniti secondo la popolazione a confronto con il numero realmente effettivo. L’operazione di propaganda assume una struttura mutevole e stratificata dal momento in cui, oltre i sermoni e alcuni pamphlet esplicativi, adesivi e poster, il monaco, grazie all’organizzazione da lui fondata, realizza dvd che contengono filmati amatoriali in cui vengono catturati momenti di protesta da parte dei Rohingya mentre la voice over sentenzia «vivono sfruttando la nostra terra, le nostre risorse, e nonostante questo non sono contenti e attaccano la nostra religione». Questi dvd vengono distribuiti gratuitamente, e in maniera capillare, in modo che i giovani capiscano fin da subito da dove proviene il male, la minaccia. Oltre ad immagini documentarie a cui viene attribuita oggettività assoluta, il processo di strumentazione si avvale anche dell’utilizzo di immagini di natura finzionale. Esempio paradigmatico è il video Black Days, sempre realizzato dall’organizzazione, in cui viene ri-messa in scena l’uccisione di una donna buddhista per mano di un gruppo di Rohingya, un episodio che aveva scatenato una vera e propria rivolta conclusasi con l’uccisione di decine di musulmani e la distruzione di centinaia di abitazioni. Come afferma Wirathu, il filmato in questione, nonostante consista in una ricostruzione finzionale si avvale di un indissolubile legame referenziale con l’avvenimento realmente accaduto dal momento che è stato realizzato basandosi sulla confessione di tre musulmani che hanno preso parte all’omicidio. Ancora una questione di percezione, di mediazione, di alterazione (distorta) della realtà esterna anche attraverso l’immagine filmica. La cinematografia è l’arma più forte diceva Mussolini in riferimento al ruolo del cinema come strumento di propaganda.

Barbet Schroeder senza giudicare direttamente le azioni e l’opera di persecuzione alterna l’intervista a Wirathu con quelle realizzate ad altri monaci contrari all’oppressione messa in atto così come a Matthew Smith fondatore dell’associazione Fortify Rights, per prevenire e combattere la violazione dei diritti umani, o al giornalista spagnolo Carlos Galache i cui report sono comparsi su El Diario ed Al Jazeera. Le parole di amore e benevolenza del dharma accompagnano le immagini di distruzione e di morte, in tensione, un ossimoro, come un monaco buddhista che predica l’odio, che veicola intenti repressivi e discriminatori partendo dai canoni di una religione che predica pace. Una religione che secondo il mondo occidentale, forse attraverso una propria interpretazione, una semplificazione, incarna l’emblema stesso della compassione ben lontana quindi da principi di violenza e sopraffazione insiti in altre religioni monoteistiche come il Cristianesimo prima e l’Islam ora. Questione ancora di percezione. Nonostante il film risulti piuttosto didascalico nel suo procedere, cosa non necessariamente negativa nel momento in cui il mondo occidentale sembra essere quasi del tutto all’oscuro del genocidio in atto, ad emergere con la molteplicità di strati, di voci, di livelli di sedimentazioni è l’impossibilità di una chiave di lettura univoca. Il film in questo modo si pone come una contro-narrazione che si vuole sostituire alla documentazione ufficiale, un processo di ri-scrittura storica che aggiunge un ulteriore strato nella costruzione e riformulazione della memoria collettiva e culturale. Ancora questione di prospettiva, questione di sguardo.

Autore: Samuel Antichi
Pubblicato il 06/04/2019
Francia, Svizzera 2017
Durata: 100 minuti

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