Game of Thrones 8x01 - Winterfell

di Attilio Palmieri
game of thrones - recensione serie tv winterfell

Dalla fine della settima stagione di Game of Thrones è passato più di un anno e mezzo, uno iato temporale mai così lungo per la serie di HBO, che in occasione dell'annata conclusiva ha pensato di prendersi tutto il tempo necessario per evitare di commettere errori e chiudere nel migliore dei modi. È in questa atmosfera di piena bramosia che si presentano gli ultimi episodi, un clima che è sì di festa ma anche di funerale. Si tratta senza dubbio del più importante evento televisivo dell'anno, la cui importanza però è data anche dal fatto che con la conclusione di Game of Thrones finisce un rapporto tra pubblico e televisione che probabilmente non è mai stato così intenso, e che lascerà orfani milioni di fan in tutto il mondo.
All'interno di questo clima la serie tratta dai libri di George R.R. Martin si presenta con tutte le cautele del caso. La premiere Winterfell tradisce in parte il calcolo che sta alla base di ogni scelta ma si dimostra anche preparata ad affrontare gli obblighi dati dalle circostanze, che riducendo il discorso all'osso si riducono a: esaltare gli spettatori con il ritorno di qualcosa di già noto e molto amato, stupirli con sorprese inaspettate, concludere il percorso esponendosi a meno critiche possibili.

A proposito di stupore, il primo colpo di scena arriva ancora prima di entrare nella diegesi narrativa, perché è già la sigla a richiedere attenzione allo spettatore. Contrariamente a tutte le fandonie e alle retoriche da quattro soldi secondo cui le serie televisive necessiterebbero di essere apparentate al cinema per essere legittimate – logica parossistica che arriva a definire Game of Thrones non tanto un prodotto televisivo quanto un film di oltre settanta ore – questo show è un prodotto televisivo a tutti gli effetti e l'importanza conferita alla sigla è una delle tante dimostrazioni. Rispetto alla media degli show – soprattutto quella odierna, che è decisamente contratta rispetto a qualche anno fa – la sigla di Game of Thrones è tra le più lunghe e complesse, e offre ogni volta uno spunto in più sul racconto che anticipa. In questo caso però, dopo sette stagioni di solidissima continuità, la premiere è anticipata da una sigla quasi completamente nuova, che comincia con l'iconica Barriera distrutta e si avventura in spazi chiusi e misteriosi come i sotterranei di Winterfell, che a giudicare dall'importanza ricoperta avranno un ruolo determinante in questi ultimi episodi.

Passando all'episodio, si tratta di cinquanta minuti che scorrono molto rapidamente e in cui si sente in maniera chiara la volontà di fare le cose con precisione, coniugando sia le urgenze legate al disegno complessivo, sia la necessità di non far sembrare i personaggi delle marionette in balia di fattori esterni. Gli autori della serie impostano la premiere realizzando un episodio d'apertura all'insegna dell'equilibrio, che se da una parte può sembrare un democristiano non voler scontentare nessuno, dall'altra si configura la soluzione più idonea, perché le istanze da tenere in considerazione sono tantissime e spiccare su un fronte ma fallire su un altro potrebbe rivelarsi un autogol.
La ragione di una scelta simile va ricercata nelle peculiarità di questo prodotto rispetto al resto della serialità, che lo rende soggetto a prospettive analitiche differenti. Game of Thrones infatti non è uno show che può essere giudicato nella maniera tradizionale, e in questo preciso momento – la premiere della stagione conclusiva – costituisce un oggetto di studio decisamente peculiare. L'inizio della fine di Game of Thrones, infatti, sfugge alle modalità interpretative classiche perché contiene una serie di peculiari variabili e di caratteristiche specifiche che rendono l'analisi del testo estremamente più complessa e meno immediata rispetto al solito.

Da questa settimana si parla prima di tutto della fine di un colosso dell'intrattenimento e l'episodio d'apertura della stagione non può essere visto se non sotto questa luce, ovvero come un tassello narrativo che ha l'obbligo di portare questo enorme universo alla sua conclusione. A conti fatti questa premiere, rimanendo in equilibrio tra le varie storyline, riesce anche a incanalare un plot pachidermico come quello di Game of Thrones in una direzione precisa, che visto il finale dello scorsa annata non può che avere in Winterfell il suo generatore narrativo.  Allo stesso tempo, l’episodio deve anche fronteggiare la richiesta di giustificare gli enormi investimenti produttivi attraverso la realizzazione di momenti spettacolari che soddisfino le aspettative degli spettatori e in questo senso le scene di violenza, le battaglie e soprattutto l'esibizione dei draghi giocano un ruolo importante.

A proposito della necessità di tirare le fila e di fare di questo finale anche una celebrazione della serie stessa, in modo da dare ai fan esattamente ciò che vogliono, l'incipit della premiere dimostra la volontà degli autori di partire dal principio, lì dove tutto ha avuto inizio, riprendendo la sequenza del pilot in cui l'allora giovanissima Arya si spinge in alto per guarda l'arrivo di Cersei e Robert Baratheon. Allo stesso modo stavolta un ragazzino introduce la puntata arrampicandosi su un albero per vedere meglio l'entrata a Winterfell di Jon e Daenerys, accompagnati dall'esercito e dai due giganteschi draghi. Una scelta questa che denota grande intelligenza e idee molto chiare, risultando perfetta per introdurre l'ultimo atto della serie.

La necessità di riassumere uno show di queste dimensioni in un epilogo di soli sei episodi emerge anche attraverso una serie di sequenze che contrastano un po' l'una con l'altra dal punto di vista del registro utilizzato, e che proprio per questo fanno emergere la poliedricità dello show. In particolare tutta la sequenza con Jon e Daenerys a cavallo dei draghi, con la sua lunghezza estenuante, rimanda in maniera precisa alla voglia di accontentare gli amanti del fantasy attraverso l'esibizione della creatura magica per eccellenza della serie: il drago. Inoltre questo segmento narrativo si chiude con un momento ironico per certi versi inaspettato, ovvero quello dell'incrocio di sguardi tra Jon e il drago nel mezzo del bacio con la donna amata. Un momento di gelosia divertente che va ad alleggerire il tono di una serie che altrimenti rischierebbe di venire fagocitata dagli intrighi politici e dalle loro fittissime sottotrame. Come sottolineato giustamente da un ottimo articolo appena uscito su Vulture, è grazie a questa pluralità di registri che Game of Thrones è diventata una serie così apprezzata, capace di sviluppare una tonalità particolare a seconda dei personaggi e delle situazioni rappresentate, senza mai rischiare di diventare una semplice faccenda di battaglie, alleanze e tradimenti.

A proposito della gestione delle aspettative degli spettatori e della necessità di dare in pasto ai fan ciò che questi cercano, il momento del confronto tra Sam e Jon, in cui quest'ultimo viene a sapere finalmente della verità sulle sue origini, è un esempio perfetto di quello che questa premiere fa benissimo: non si tratta di una sorpresa, ma di una verità che il pubblico conosce perfettamente e che deve solo essere comunicata al protagonista nel modo migliore possibile. Per quanto riguarda invece i momenti ad alta spettacolarità, si distingue in maniera particolare l'installazione con i pezzi di Lord Umber, forse l'immagine più bella dell'episodio dal punto di vista della costruzione della tensione e della messa in quadro; una scena che risponde perfettamente alla necessità di stupire a cui si alludeva in precedenza. Tra le cose che tratteniamo da questo momento c'è anche un Night King che pur senza comparire mai fa sentire il suo peso, la sua presenza e anche la sua ironia.

Il lavoro più complicato – e per questo riuscito solo in parte – questa premiere lo deve fare su Cersei, un personaggio la cui traiettoria narrativa è ormai sempre più stretta e non pare avere tanto da fare all'interno dello show se non entrare in collisione con i suoi due fratelli. Per farlo sceglie Bronn, mercenario che è stato in passato al fianco di entrambi e che in questo caso sarà una pedina di cruciale importanza. Questa scelta è molto pericolosa perché potrebbe risultare forzata se non sviluppata bene, ma allo stesso tempo va detto che percorrere questa strada è sicuramente sensato perché utilizzare Bronn si configura forse come il modo migliore per innescare tensioni tra i tre fratelli Lannister.
Ben diverso è il lavoro fatto sulle sorelle Stark: Arya ormai è una donna adulta, pronta per un possibile love affair con Gendry, capace di dire a Jon il giusto grado di verità che gli serve e proiettata verso una stagione da protagonista (sarà interessante il rapporto col Mastino); Sansa invece è ormai una donna matura, che ha dovuto affrontare insidie che avrebbero buttato giù chiunque, uscendone però più forte e più saggia, come fa capire a Tyrion in un fulminante scambio di battute.

Game of Thrones, in conclusione, torna con una premiere molto solida, per forza di cose altamente introduttiva, ma capace di tenere in equilibrio le tante istanze a cui è chiamata a rispondere e mettere le basi per la conclusione definitiva dello show.

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Noi

di Saverio Felici
Noi - recensione film Jordan Peele

Il discorso attorno a Noi (Us) di Jordan Peele va preso alla lontana. Se il regista americano è, come sembra, destinato a essere il portabandiera dell'horror hollywoodiano nell'immediato futuro, è bene chiarire alcuni punti attorno al suo ruolo di autore, e al ruolo del genere stesso nella prospettiva da lui adottata. Sulla trama di Us nulla andrebbe detto, legato com'è il film al concetto di twist. D'altra parte, ogni tipo di considerazione che si muova al di sopra del plot sarebbe incompleta. Limitandosi a quanto desumibile dal trailer: Adelaide (Lupita Nyon'go) è rimasta traumatizzata in tenera età da una visione avuta in un labirinto degli specchi di Santa Cruz. In vacanza insieme ai genitori, si perse nella cadente attrazione sulla spiaggia (“Find Yourself!”), e vagando nel buio vide... se stessa. Trent'anni dopo Adelaide è adulta, e insieme al marito Gabe (Winston Duke) e i due figli adolescenti torna, riluttante, alla casa di famiglia nella località vacanziera californiana. La prima notte, un gruppo di inquietanti figure vestite di rosso assalta la casa con sadici intenti. Sono loro. O meglio, un gruppo di doppelgänger, versioni violente e animalesche di loro stessi, come quella che Adelaide vide da bambina tanti anni prima.

Esiste opera horror che non sia metafora di qualcosa? Ovviamente no. Ogni prodotto artistico-culturale, di qualunque genere, riverbera di significati altri rispetto al visibile. Di più, la pluralità di letture è forse la misura migliore per valutarne la complessità. In tal senso, l'orrore è da sempre cassa di risonanza psicanalitica per l'espressione di malesseri personali e universali; così come la fantascienza, per dire, mette di fronte allo spettatore la realtà presente attraverso una proiezione speculativa della stessa. Che sia voluto o no, che gli autori ci abbiano pensato oppure no.
Il discorso cambia nel momento in cui suddetti autori decidono di esplicitare la valenza simbolica del proprio lavoro, fornendo una “chiave interpretativa” a mo' di libretto di istruzioni. Così facendo, sottraggono l'opera alla sua dimensione “aperta”, riconducendola a una esplicitamente metaforica. Quanto mostrato viene spiegato, le implicazioni sotterranee vengono portate alla luce, e un prodotto potenzialmente complesso finisce inchiodato a una sola, univoca chiave di lettura. In una parola, il regista fa quello che dovrebbe essere il compito dello spettatore (e del critico): interpretare il senso del film.

Nell'horror contemporaneo, questo ricorrere alla metafora analogica è talmente radicato da essersi ormai incanalato in una scuola. “Elevated Horror”, secondo l'espressione coniata da alcuni critici americani senza senso del ridicolo; horror hipster, fighetto, pretenzioso, per i più sarcastici moviegoers. Jordan Peele è senza ombra di dubbio il re di questa forma di fiction scritta, pensata e prodotta per gente a cui l'horror non interessa. Da Babadook a It Follows, da A Ghost Story fino ovviamente a Get Out, e ora Noi: film il cui motore non è mai la rappresentazione dell'irreale, né le meccaniche inconsce della paura; piuttosto un “messaggio” che si vuol comunicare ad un pubblico (e a una critica) bisognoso che si faccia il lavoro di decodifica per lui.
Chiedersi se Us funzioni anche a prescindere dal suo apparato simbolico (si, lo fa – ed è il suo valore più grande) è dunque una domanda a trabocchetto: è lo stesso film a rimbalzare come una falena contro la non sottilissima critique di cui si fa paladino. Us vuole parlare di una cosa sola. Non c'è nulla da interpretare.

I doppelgänger di Noi non sono creature ambigue: l'idea del doppio brutale serve a Peele per innestare su una struttura molto convenzionale da home invasion la più ovvia, banale e già vista delle metafore sulle disparità sociali. Senza scendere in dettagli-spoiler (come hanno notato in molti, c'è un celebre special di Halloween dei Simpson da cui viene ripreso spunto, sviluppo e persino il twist finale), è un film che parla di Noi contro Loro, appunto, dove us (che è anche U.S.) è la società benestante del privilegio e them sono, beh, il nostro doppio “sotterraneo”. Un doppio disperato, gonfio di rancore, imitazione grottesca di ciò che noi siamo per diritto di nascita. Un'idea che ricorda in qualche modo una versione più rozza e retorica del cinema di Romero: qui non è la metafora in sé a stranire (gli zombi del maestro americano in fondo non avevano una valenza molto differente), ma l'urgenza di Peele di esplicitare, sottolineare, e in definitiva limitarne la portata simbolica, riconducendola a un rapporto uno-a-uno tra significante e significato. Un approccio che ha più della parabola che del film, un'idea di “fantastico con la morale” figliata da quel Rod Serling del quale lo stesso Peele si appresta a resuscitare Ai Confini della Realtà – e mai regista di reboot fu più azzeccato. Dunque, spiegoni a ripetizione (uno a metà, un secondo alla fine, entrambi a raccontare la stessa cosa), battute a pennarello rosso (la rivendicazione «Siamo americani!»), e molta paura di farsi capire, o di non farsi prendere sul serio

Eppure, nonostante ciò, Noi è bello. E il merito è proprio del suo regista. Perché rispetto alla infausta corrente critica di cui suo malgrado è stato eletto a messia, Us indica la presenza di un autore a cui il genere piace davvero. Di più, a differenza di altri campioni “elevated”, Peele possiede veramente il senso dell'eerie e del surreale. Se l'apparato simbolico, rozzo a livelli sconfortanti, fa di tutto per soffocare il film, l'occhio e la mano di Peele bastano a fare di Us un prodotto notevole.
Il regista si dimostra capace di gestire l'orrore attraverso non tanto il racconto (i ritmi e le meccaniche dell'home invasion sono rispettati senza guizzi), ma attraverso l'inquadratura pura. I doppelgänger sono il suo vero colpo: “mostri” estremamente sottoutilizzati al cinema, vengono resi attraverso squilibri di movenze, voci innaturali, demarcazione di alcuni lineamenti (occhi, bocca, denti) atti a creare lo squilibrio uncanny che li identifica. Un lavoro eccezionale richiesto agli attori, che rimangono l'arma principale in mano al comico Peele. La decisione, così orgogliosamente difesa dal regista, di utilizzare un cast di protagonisti all-black, rivela inoltre potenzialità cinematografiche talmente inespresse (il lavoro di fotografia sulla pelle nera nel buio è logicamente diverso da quello su attori bianchi: indimenticabile l'utilizzo degli occhi chiari di una bambina in una stanza scura) da farci rendere conto per la prima volta quanto fosse clamorosa questa mancanza etnica nel genere.

Il gran finale di Noi poi tocca livelli scenografici quasi kubrickiani: la resa estetica del mondo para-infernale degli Incatenati è potente, inquietante, e soprattutto non derivativa (a parte i conigli: dopo La Favorita, è il secondo film del 2019 in cui gli adorabili roditori simboleggiano dolore e rimpianti). Mettere in scena un'incubo che non ne ricordi nessun altro è l'attestato del regista horror capace. Sarebbe interessante a questo punto liberare Jordan Peele dall'onere di rivelare grandi realtà sulla società Usa, e lasciarlo libero di mettere in scena le proprie visioni senza bisogno di giustificarsi, e di giustificarle. Se al terzo film riuscirà a portare sullo schermo un'esperienza che non sia un temino su “il Razzismo” o “la Povertà”, potrà finalmente mostrare senza orpelli di cosa è capace.

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Jordan Peele Lupita Nyong'o Winston Duke Elisabeth Moss Tim Heidecker 116 minuti
USA 2019
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Border - Creature di confine

di Pietro Lafiandra
Border - creature di confine - recensione film

Prima che, nella metà dell’Ottocento, Charles Darwin sconvolgesse il panorama sociale con il suo L’origine della specie, infiltrandosi in ambito religioso, scientifico e artistico, l’animale veniva considerato in termini puramente oppositivi all’umano, ricoprendo la funzione di specchio oscuro, ricettacolo di tutti gli istinti più bui (la sessualità degenere, la sopraffazione dell’altro, il desiderio mortifero) — istinti non a caso definiti “bestiali” o, appunto, “animali” — che l’uomo prova ad allontanare dall’idea morale di sé.

Satana raffigurato con corna caprine. Pasifae che, nel mito della nascita del Minotauro, chiede a Dedalo di costruirle un costume da giovenca per dare sfogo ai suoi desideri di zoorastia. Il trattamento riservato ai freaks e ai feral boys per tutto l’Ottocento. La nostra cultura pullula di esempi in cui l’animale viene utilizzato come paragone dispregiativo o considerato strumento demoniaco. Il saggio di Darwin portava implicitamente a una rivalutazione culturale, linguistica, scientifica ecc. dell’animale e del suo rapporto con l’uomo, individuando uno stretto grado di parentela con la bestia e minando quei dogmi e quelle credenze religiose (l’antropocentrismo di matrice cristiana) che costituivano ancora un paradigma dominante. Da quel momento in poi, l’ibrido uomo-animale vedrà una fioritura esponenziale prima in letteratura (Il libro della giungla di Kipling, Il soliloquio di Adamo di Twain ecc.), poi nel fumetto (le ibridazioni genetiche di Spider-Man e Lizard e quelle estetiche di Batman e Catwoman) e infine al cinema (L’esperimento del dottor K di Kurt Neumann, Il mostro della laguna nera di Jack Arnold, Octaman di Harry Essex ecc.), quel medium che permetteva la visualizzazione degli ibridi fino ad allora solo descritti o stilizzati, dando un contributo decisivo al compimento dell’estetica post-umana che ha percorso trasversalmente l’arte novecentesca. Se da un lato ibridare significava caricare l’uomo di poteri a lui sconosciuti (il senso di ragno, l’agilità di Catwoman) dall’altro significava degradare il suo status morale di essere umano (La mosca di Cronenberg, La donna scimmia di Ferreri), avvicinandolo alla bestia.

Nella sceneggiatura di Border – Creature di confine (tratta dall’omonimo racconto breve di Ajvide Lindqvist), si percepisce l’eredità storica dell’ibrido uomo-animale in ogni scena. La seconda opera del regista iraniano-svedese Ali Abbasi, vincitrice del Prix Un Certain Regard all’ultimo Festival di Cannes, è una storia che — come (quasi) tutte le grandi trame — si può riassumere in poche parole: Tina è una donna poliziotto dal volto deforme, dotata di un olfatto prodigioso che le permette di fiutare le emozioni umane. Indagando su un caso di pedofilia, incontra Vore, un uomo che le assomiglia e del quale si innamora.

Dimostrando ancora una volta che semplicità narrativa non significa necessariamente (anzi) “banalità dei contenuti”, Border è capace in meno di due ore di trarre le fila dell’evoluzione cinematografica della chimera umana ibridando a sua volta la maggior parte dei generi cinematografici: un po’ film sul freak (i due protagonisti sono emarginati socialmente a causa del loro aspetto fisico), un po’ fantasy/sci-fi (Vore si definisce un troll ed è in grado di generare autonomamente dei figli), un po’ thriller (Tina collabora con la polizia per la soluzione di un caso di pedofilia), un po’ dramma amoroso e famigliare (la trama principale è costruita sul rapporto d’amore tra Tina e Vore e sul rapporto conflittuale tra la ragazza e il padre), un po’ film supereroistico (nonostante le sue capacità straordinarie, Tina si percepisce un mostro a causa del suo aspetto fisico) e, soprattutto, un po’ body horror. Border è un film sul corpo tout court, sul suo potere distruttivo, sul suo essere oggetto di perversione, strumento di denigrazione e accettazione sociale. Non c’è nulla nel film di Abbasi che non abbia a che fare col corpo. C’è il corpo mutante, il corpo che sanguina, che viene lacerato. C’è il corpo sessuale, erotico in quanto corpo. C’è il corpo come tramite delle emozioni, il corpo che detta la paura durante un temporale, l’attrazione amorosa per il proprio simile, l’odio per il diverso, il corpo che è la sede dei traumi dell’infanzia. Ci sono i drammi del corpo dei bambini che segnano la vita adulta dei protagonisti, quel corpo da cui tutti nel mondo di Border sembrano essere ossessionati. I pedofili che lo vogliono riprendere, gli acquirenti che lo comprano come una merce, il padre e la madre di Tina, che la accudiscono dopo la morte dei suoi genitori naturali desiderando fortemente un figlio, i troll che vengono graffiati e mutilati in infanzia, privati del loro simbolo di appartenenza (la coda) per essere inseriti in società, e Tina stessa, a cui viene letteralmente fatto recapitare da Vore un bambino da accudire nel finale del film, una creatura a lei simile e che possa essere amata di quell’amore disinteressato che a lei è stato negato.

Ad amalgamare una così eterogenea quantità di contenuti lo stile dolce e anti-virtuosistico di Abbasi, composto da grandi primi piani e piani medi e articolato da una macchina da presa spesso statica, capace di inquadrare con lo stesso lucido rispetto e occhio empatico ma mai patetico gli atti d’amore filtrati dalla natura animalesca dei protagonisti, con i loro grugniti, gli sbuffi, la saliva, le mutazioni corporali (a Tina cresce un pene alieno in una sequenza sorprendente che si chiude con una delle scene di sesso più umane ed emotive di cui si abbia memoria) e il corpo livido e tumefatto di un bambino. Questo è il grande pregio della regia e, in generale, del film di Abbasi: la consapevolezza che fare cinema significa lavorare col corpo, la sua presenza e la sua assenza, la sua fioritura e la sua marcescenza, la sua distruzione. La presa di coscienza che tutto può essere mostrato — sarebbe ipocrita e imperdonabile pensare un film sul corpo liquido e sulla violenza insita nella vita organica e avere timore di inquadrare — semplicemente scegliendo la giusta distanza dal corpo, umano o animale che sia.

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Ali Abbasi Eva Melander Eero Milonoff 108 minuti
Danimarca, Svezia 2018
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Cafarnao - Caos e miracoli

di Veronica Vituzzi
Cafarnao - Caos e  miracoli - recensione film

Contro ogni morale comune, in Cafarnao - Caos e miracoli tutto sembra funzionare al contrario: i vivi maledicono la vita, i genitori maledicono i figli, i figli maledicono i genitori. Zain, bambino libanese figlio di una disgraziata coppia di derelitti, non va a scuola ma lavora fin dalla più tenera età. Anche i suoi fratelli procedono sulla stessa china, contribuendo all’economia famigliare nei modi più disparati - legali e no -  mentre le femmine una volta giunte alla pubertà vengono sposate al miglior offerente. I genitori picchiano e insultano i propri figli senza però smettere di metterne al mondo altri, così non ci si stupisce che fin dall’inizio del film si scopra che il protagonista, già in carcere all’età di dodici anni per tentato omicidio, voglia far causa alla madre e al padre per averlo messo al mondo.

«Ma ci sono i bambini: cosa dovrò fare con loro?» chiede Ivan Karamazov al fratello Alioscia ne I fratelli Karamazov, mentre cerca di spiegare il suo rifiuto di Dio. Potrebbe anche accettare un paradiso costruito sulla sofferenza degli adulti, i quali potranno infine trovare sollievo nel regno dei cieli; ma un aldilà edificato sulle lacrime di un singolo bambino, no. Nell’immaginario culturale non ci sono vittime della crudeltà del mondo più ideali, più perfette e dolenti dei bambini. Pertanto non stupisce che l’infanzia sia di frequente utilizzata come mezzo per parlare al cuore di chi rimane sordo alle sofferenze dei grandi, e così in fondo fa anche Nadine Labaki nel suo film, Premio della Giuria a Cannes 2018. Un’opera che rischia di risultare ovvia, scontata agli occhi oramai distaccati e diffidenti di chi osserva velocemente online mille notizie e immagini di guerre, violenze e ingiustizie che scorrono  infinite e uguali sulle  bacheche dei social network.

Labaki punta tutto sugli occhi dei suoi protagonisti, tre innocenti che perfettamente incarnano l’idea comune di vittima:, Zain (uno straordinario Zain Al Rafeea, un autentico ex rifugiato siriano di 12 anni ancora analfabeta al tempo della produzione del film),  Rahil, una madre single etiope immigrata clandestinamente in Libano, e il suo figlioletto Yonas, che ancora non parla e a malapena sa tenersi in piedi, ma balla al ritmo di musica e guarda tutto e tutti con occhi sgranati. Facile espediente per smuovere le coscienze o estremo tentativo per denunciare qualcosa che tutti sanno senza curarsene?

Se c’è una qualità intrinseca in Cafarnao è la capacità di sembrare una cosa, e poi subito dopo un’altra. I temi principali raccontati nella storia sono due, ma alla fine potrebbero essere riuniti in una sola grande accusa rivolta al mondo adulto. Innanzitutto quello individuale dei genitori che procreano bambini secondo un mero atto egoistico, pura acquiescenza alle leggi primordiali della natura per cui l’importante è che la vita continui sempre, che il seme e il sangue vengano perpetuati di padre in figlio, senza alcuno scrupolo. Esistere nonostante tutto, anche nell’incuria, nello sfruttamento e nella sofferenza: Zain contesta questo principio di natura, e rivendica il dovere di una procreazione consapevole, ove i genitori sappiano riconoscere e mettere realmente al primo posto i bisogni fisici e spirituali dei propri figli. È importante notare che in Cafarnao i genitori di Zain sono ex vittime divenute carnefici, creature prodotte dalla povertà che replicano colpevolmente i meccanismi coercitivi che li hanno spezzati fin da piccoli. Ma c’è anche il mondo adulto collettivo, sintetizzato da tutti gli adulti che il ragazzino incontra nel film scansandoli diffidente, oramai conscio dei secondi fini nascosti dietro le loro parole gentili. Un universo riassunto soprattutto nel personaggio invisibile ma presente dello Stato. Nadine Labaki affronta il tema dell’immigrazione clandestina senza didascalie morali né accuse. Semplicemente mostra individui che devono nascondere la propria esistenza per non essere cacciati via, bambini che non esistono per lo stato in quanto mai registrati all'anagrafe, o per l’indifferenza dei genitori o per il timore, come nel caso di Rahil, di perderne la custodia. Senza i documenti non si è persone per lo Stato, eppure Zain e altri come lui devono portare il peso di una vita non richiesta: esistere suo malgrado pur non esistendo per il mondo.

È proprio la potenza degli interrogativi senza risposte, delle immagini devastanti, degli occhi incredibilmente espressivi di Zain, a essere il punto forte e allo stesso tempo quello debole del film. Qual è difatti il rischio più grande che corre un’opera così universale ma anche così specifica? Quello di far seguire alla facile commozione l’indifferenza latente dello spettatore. Difatti l’aspetto relativo al degrado sociale in Beirut, che certamente pretende di essere raccontato, denunciato e discusso, può far credere allo spettatore che in fondo tutto quell’orrore, quella sporcizia e quella povertà non lo riguardi. Che sia disdicevole, indegno e malsano, certo; ma per fortuna noi che guardiamo il film viviamo in una società migliore. E sulla carta è vero, ma è anche vero che l’immigrazione clandestina è oramai tema che scuote il mondo intero, e soprattutto che questa genitorialità problematica, sofferente e impreparata - in un popolazione mondiale di sette miliardi di individui - è argomento che va affrontato coscientemente, senza stereotipi né falsi ideali: perché davvero oltre ogni banalità ogni bambino merita genitori che sappiano crescerlo, perché ci vuole molto più dell’istinto materno/paterno per essere parenti, perché è meglio non mettere al mondo bambini pensando che male che vada la vita è sempre e comunque un dono. Cafarnao è una grande opera se decidiamo che ciò che racconta ci riguarda tutti. Altrimenti è solo un altro bel film strappalacrime. Allo spettatore la scelta.

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Nadine Labaki 120 minuti
Libano 2018
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Hippopoetess

di Arianna Pagliara
Hippopoetess di Francesca Fini

Visionario, psichedelico, ibrido e straripante, Hippopoetess è un documentario, un omaggio, un tentativo – splendidamente riuscito – di restituire la figura intensa e complessa della poetessa americana Amy Lowell attraverso un linguaggio che non sia solo medium, ma che sia invece – esso stesso – azione creativa. Performance, video arte e animazione in 3D in un profluvio di colori, l’estetica del videogioco che si mischia con i più raffinati linguaggi pittorici (primo fra tutti il Trionfo di Venere di Sebastiano Ricci), la fotografia del passato, in bianco e nero, che si scompone e si ricompone per dialogare con le immagini del presente. Non esistono gerarchie all’interno di questa originalissima sinfonia visiva dal sapore pop e dissacrante: l’intramontabile e romantico Voyage dans la lune di Méliés, il “futuro passato” di Star Trek, le immagini restituite da Street View di Google Maps assieme a Ezra Pound, Giacomo Leopardi e Dante si fanno elementi/frammenti visivi, citazioni, riferimenti preziosi in questo esplosivo ed eterogeneo mosaico.

L’autrice Francesca Fini, performer prima che regista, offre il proprio volto, il proprio corpo e la propria voce facendo di se stessa, generosamente, oggetto espressivo – più che soggetto - di quest’opera ipnotica e irriverente. Lo fa anche in nome di una sostanziale affinità interiore ed emotiva con la figura della poetessa americana: “In the video I compare myself to her, to her relationship with art, with poetry, with the body, with love and with food, in a continuous game of mirrors where I reflect myself in her and she reflects herself in me.” E ancora: “I am also very ambitious, I have always been: a solitary, ambitious artist who only believes in her own strength. I then identified with Amy as soon as I read her biography, and I think I’m the perfect person to tell this story.”[1]

Della Lowell viene ripercorsa la vicenda biografica e letteraria - l’Imagismo e il rapporto complesso e mai pacificato con Pound - e soprattutto viene restituita, in modo suggestivo, la dimensione poetica. Quella che la regista ci pone di fronte è una donna in carne e ossa, non un’idea, non una raffigurazione formale e bidimensionale. L’operazione si fa dunque riflessione letteraria e racconto avvincente, dai quali emerge la testimonianza di una precisa realtà sociale e culturale (l’America di inizio Novecento, divisa tra la profonda severità di certi retaggi ottocenteschi e le promesse di modernità del secolo nuovo). Il fulcro, il cuore pulsante, l’elemento centrale e distintivo resta però senza dubbio la natura coraggiosamente creativa, prima che documentaria, dell’opera: il film non vuole ordinare, sbrogliare, chiarificare ma piuttosto trattare la materia in esame come cosa viva e palpitante, avvolgendola in una luce che non sia fredda e analitica, ma policroma e intermittente, rispettosa di certe zone d’ombra quasi che proprio in esse risiedesse la parte più misteriosa e inconoscibile dell’arte (quella della Lowell ma anche quella di Francesca Fini), arte che in quanto tale non è mai completamente scandagliabile e addomesticabile.

Se c’è un segno distintivo che unisce il lavoro fantasioso e personalissimo della regista alla figura intrigante e volitiva della “poetessa ippopotamo”, è tutto nel nome del progetto curato dal critico Adriano Aprà all’interno del quale il film è stato presentato: Fuori Norma, a rimarcare, appunto, il non allineamento, la radicalità e l’irriducibilità come caratteri fondanti e irrinunciabili della pura espressione artistica.

 

[1] https://hippopoetess.tumblr.com/

 

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Francesca Fini 53 minuti
Italia, 2018
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L'uomo fedele

di Fiaba Di Martino
L'uomo fedele - recensione film garrell

Lui e lei, un appartamento parigino, l'annuncio en passant di una gravidanza imprevista, ma il padre è un altro. E cioè il miglior amico di lui, ombra ectoplasmatica, rivale senza volto, che un volto, un'immagine non acquisterà per tutta la (brevissima: meno di 75 minuti) durata di L’uomo fedele. Lei li ama entrambi. Così lancia una monetina: la monetina sceglie il fantasma, e lei scompare a sua volta. Lei è Marianne, l'amore della vita di lui, Abel, che dormirà con un'altra e probabilmente con altre per dimenticarla, ma dimenticherà soltanto loro, aloni passeggeri di lei. La ritroverà nove anni dopo al funerale di quel compagno eletto dalla sorte, un amico dimenticato, parte del loro ormai perduto trio – non ancora triangolo – universitario (di dreamers?) scioltosi con l'avvento dell'adultità. La morte li riunisce, e permette ad Abel e Marianne di riprendere il discorso amoroso, mai davvero interrotto, comunque mai risolto; e non sarà un canto a due voci, ma corale: un francesissimo ménage à trois, naturalmente, anzi à quatre, con gli incomodi Eve, sorella del defunto che nutre un amour fou bambino per Abel, e Joseph, pargolo di Marianne e (forse...) del fu partner, che non può soffrire il repentino rimpiazzo del padre e dunque s'inventa (forse...) ch'egli è perito per avvelenamento, per mano proprio della dolce genitrice.

Eros, Thanatos, bugie e twist d'amorosi sensi, sogni labili quanto il loro avverarsi: il debutto in cabina di regia di Louis Garrel sta a qualche metro di distanza dalla tristesse autobiografica delle opere paterne (ma il co-sceneggiatore Jean-Claude Carrière è stato autore per Philippe e pure per Buñuel, e qualche zampata la tira), e un paio di metri vicino a un senso truffautiano del cinema (il citatissimo Baci rubati, ma anche, e particolarmente, Non drammatizziamo... è solo questione di corna).

In questa commedia sentimentale spruzzata di thriller (tutto nella testa e nello sguardo del piccolo guastafeste Joseph), malinconico divertissement di laconica autoironia, Garrel si fa beffe del proprio profilo d'icona romantica parisienne, smontandone la parvenza ombrosa e desiderabile, un po' umiliandosi, ma con tenerezza, raccontando Abel come un attonito e volubile fanciullo senza qualità peculiari, un bambolotto di buone intenzioni in balìa delle onde del destino e soprattutto delle volontà delle due donne che gli strattonano il cuore: Marianne, la Laetita Casta sua consorte qui femme fatale del quotidiano, con un segreto negli occhi e un incanto sfuggente che ipnotizza le di lui azioni; e Eve, bellissima post-adolescente, la figlioccia d'arte Lily Rose-Depp, fresca, sorprendentemente in parte, che si strugge per Abel per metà della sua vita e raggiunge la maturità nel momento in cui quasi per caso attesta l'ordinarietà, la mediocrità del proprio enfatico sogno d'amore («Quando facevo l'amore con altri, pensavo a lui... ora che lui è mio, a chi penso?»); ed è peraltro a lei che Garrel  regala i momenti più ispirati del film, con la rielaborazione fantastica di un presente sempre imperfetto, la diagnosi di una distanza incolmabile fra immaginazione/cinema e realtà fugace, opaca, immancabilmente deludente. Scartando la figurina di Abel rimane un uomo fedele all'idea dell'amore per se, e resta egli stesso idea, a incarnare tanto l'inafferrabilità implicitamente tragica dell'amore quanto, in fondo, il suo ridicolo.

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Louis Garrel Louis Garrel Laetitia Casta Lily-Rose Depp Joseph Engel 75 minuti
Francia 2018
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Intervista a Daniela Masciale e Raffaele Rago

di Giuseppe Caste…
Segretarie, una vita per il cinema - di Daniela Masciale e Raffaele Rago

Daniela Masciale è creative ed executive producer, nonchè docente alla Scuola di Cinema di Ostana. Con il  documentarista Raffaele Rago ha firmato a quattro mani la sua opera prima Segretarie. Una vita per il cinema, racconto della carriera di sei segretarie, collaboratrici di celebri registi e produttori italiani, quali furono per esempio Paola Quagliero per Franco Cristaldi e  Fiammetta Profili per Federico Fellini.


L’idea di questo documentario nasce dalla necesità di sottolineare l’importanza di un lavoro che spesso viene considerato subalterno, o dallo stupore che hanno suscitato in voi le storie di queste segretarie?

 R. R. - L’idea era questa, ci siamo chiesti se queste signore, che hanno fatto il grande cinema italiano, negli anni 50 e 60,  non avessero nessun obbiettivo che mirasse ad arrivare sotto i riflettori o se magari erano già felici con il ruolo che ricoprivano, che non definirei all’ombra di queste personalità, bensì al fianco, aiutandoli a raggiungere i loro successi. Nel documentario una di loro dirà 'è meglio che ci sia una figura femminile come confidente, perché aiuta meglio a lavorare nel settore'. Il cinema italiano, più di tutti è sempre stato maschilista, la preponderanza maschile è sicuramente molto alta, loro stesse erano stupite di entrare nelle sale riunioni e vedere che erano le uniche donne, oggi vediamo la stessa cosa, nei luoghi di potere, o magari nei luoghi tecnici. Tempo fa, mentre lavoravo per una grossa trasmissione televisiva RAI, il fonico era donna, l’unica figura femminile tecnica. Per un problema di salute, all’ultimo minuto, rimase a casa creando panico per trovare un sostituto, e nel mentre la battuta tra gli uomini era 'ecco dicevamo che non bisogna prendere le donne per i lavori tecnici'. Quindi con questo documentario ci siamo divertiti a mostrare queste 'pioniere' del lavoro.

Qual è la sua esperienza personale, avendo ricoperto il ruolo di segretaria di Giuseppe Tornatore? Rispecchia ancora ciò che è presente nel documentario?

D. M. - Il documentario muove sostanzialmente da questo, io e Raffaele in quel periodo eravamo a Bologna con amici documentaristi e mi si chiese il motivo per cui avessi lasciato dopo due anni il posto come assistente personale di Giuseppe Tornatore, il grande regista italiano. Volevo seguire in autonomia i progetti, mettermi in prima linea, lavorare come producer, avere la mia carriera, insomma volevo lavorare in modo attivo su un progetto, questo mi ha portato a questa scelta; da lì nacque tutto, sono entrata nel cinema romano…non è cosi facile entrarci, soprattutto se vieni dalla provincia, io non ho nessuno in famiglia che ha fatto questo percorso, ho dovuto pian piano muovere i miei passi. Il pensiero è quindi giunto a loro che hanno fatto le segretarie per tutta la vita, con grande gioia e soddisfazione.

Restando nel contesto di cinema scritto e prodotto da donne, il cinema al femminile deve essere anche femminista, o possono essere scindibili i due aspetti?

 D. M. - Assolutamente no. Katherine Bigelow è una grandissima regista ma penso non ci sia nulla di più maschile della sua regia e io l’apprezzo molto, anche la nostra Alice Rohrwacher ha una sensibilità femminile, ma non penso rappresenti tematiche femministe, la politica è una cosa l’arte è un'altra, se si riesce a dire qualcosa di interessante in modo politico, ben venga, ma il racconto è quello che conta, e si può trattare anche di una storia molto semplice, umana, ovviamente il punto di vista fa la differenza.

Come spiega l’incoerenza tra le politiche di pari opportunità e le statistiche che riportano che le donne sono ancora una minoranza nel settore audio visivo? 

D. M. - Penso che si stia facendo molto in questi ultimi anni, soprattutto dopo ciò che è accaduto. C’è stato una forte eco del discorso sugli abusi, prima negli Stati Uniti poi in Europa, sino in Italia; anche il fenomeno di 'Wage gap', quindi la differenza di salari tra attori e attrici. Si è iniziato molto a parlare anche della mancata rappresentanza di registe donne, se ne sta parlando molto, ci sono anche delle associazioni internazionali che si muovono in questo senso. Penso quindi che si stia facendo qualcosa, il percorso è lungo, consideriamo tutte le conquiste, a partire dal divorzio, l’aborto, le conquiste a livello professionale. C'è stato un tempo in cui le donne non avevano neanche la possibilità di essere studentesse, oppure potevano acculturarsi privatamente solo al fine di acquisire un profilo alto e visibile alla società, per bella figura del proprio compagno. Quindi non si è mai smesso di fare molto.

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1983

di Matteo Berardini
1983 - recensione serie tv netflix

Nella storia della Polonia i primi anni Ottanta sono un momento cruciale. Afflitto da contraddizioni interne ormai insolubili, il regime comunista inizia a perdere la sua presa sul tessuto sociale, e per patteggiare con i cambiamenti in corso approva gli accordi di Danzica, una pietra miliare nella strada verso la democrazia. Tuttavia un’improvvisa legge marziale frena il processo in corso: leader, operai e studenti vengono arrestati; le libertà ridotte al minimo; il controllo poliziesco diventa una prassi mentre il paese sprofonda nel caos di torture e dilazioni. Nella nostra storia la legge marziale viene abrogata nel luglio del 1983, dopo il quale il paese entra in una stasi sociale da cui si libererà solo con il collasso dell’Unione Sovietica. La realtà di 1983 è invece ben diversa: una serie di attentati terroristici colpisce le principali città del paese, centinaia sono le vittime e gli orfani, e da quel sangue e quei volti il regime trae nuova vita e forza. Nella realtà di 1983 la cortina di ferro è ancora in piedi, e la Polonia è stretta da una violenta dittatura. Almeno fino al 2003, quando nuove decisioni politiche e la pressione di un terrorismo interno innescano un’escalation dalla portata rivoluzionaria.

Distribuita come prima serie originale polacca nel panorama internazionale dei Netflix originals, 1983 è un ibrido che vede la genesi creativa dello sceneggiatore Joshua Long e la produzione dell’americanissima Kennedy/Marshall Company di Kathleen “Lucas film” Kennedy. Regia, maestranze e cast sono però polacche, come altrettanto localizzata è l’identità distopica del racconto, che si nutre del thriller distopico di stampo hollywoodiano per applicarne i moduli a una narrazione calata nel suo particolare contesto geopolitico, cantiere storico ancora aperto, diviso tra Est e Ovest, in cui terrorismo, repressione, agitazione e conformismo sociale sono gli attori principali. Il risultato di quest’incontro tra elementi americani e identità europea è quella che, ad oggi, possiamo indicare come la migliore serie internazionale Netflix, il risultato più maturo e consapevole di quell’approccio g-local che vuole sposare le necessità della localizzazione con quelle della distribuzione mondiale. 1983 infatti è una serie che evita i tipici limiti degli show Netflix (prolissità e superficialità del racconto, approccio conciliante a tutti i costi e taglio teen inteso come appiattimento di personalità) abbracciando piuttosto la complessità narrativa e tematica come valore aggiunto, scarto dalla norma. Come e meglio della tedesca Dark, 1983 non offre soluzioni facili, non porta per mano lo spettatore lungo ogni svolta, ma anzi innalza incredibilmente il livello di intreccio e densità narrativa pretendendo un’attenzione attiva. E ciò avviene perché vengono presi di petto temi delicati ed estremamente attuali come l’uso politico e identitario del terrorismo da parte del potere, o l’ingerenza invisibile e totalizzante dell’ideologia capitalistica; seppur nascosto da intrighi politici, giochi di spie e segreti di stato, il cuore del discorso portato avanti da Long riguarda i rapporti articolati e variabili che si istaurano tra identità locale e globalizzazione, terrore e comunione nazionale, benessere e asservimento. La via d’accesso è una riscrittura distopica e plumbea dell’Europa centrale e della Polonia, letta dalle due prospettive del noir poliziesco e del thriller politico. Così 1983 cerca di far dialogare due anime e linee narrative: la prima riguarda Anatol, poliziotto caduto in disgrazia, amareggiato e sfiduciato nei confronti del sistema, per quanto non apertamente in conflitto con esso; la seconda ruota attorno all’orfano Kajetan, diviso tra la sua ricerca d’identità e l’uso mediatico che la classe politica ha fatto del suo lutto per serrare le proprie dita di ferro attorno alla gola del paese. Redenzione e racconto di formazione, bisogno di riscatto e sete di verità si alternano e intrecciano nel corso del racconto, all’interno di una cornice estetica che sfrutta il tema dell’immigrazione per ricreare scorci fanta-noir a là Blade Runner, o calca la mano sull’oppressione militare e tecnologica ricordando le cupe atmosfere del V per vendetta di Alan Moore. Del resto il comparto visivo è il forte valore aggiunto della serie, capace di trovare una sua identità e di portarla avanti coerentemente, applicandola in forma spesso brillante ai vari momenti della storia.

Adulta e ambiziosa, 1983 è una serie importante nel panorama Netflix ma poco sfruttata da una piattaforma sempre più interessata ad un pubblico adolescenziale; del resto la sua materia in costante espansione mal si adatta al respiro normalizzante di molte produzioni coeve. Certo, 1983 osa tanto e non riesce sempre a mantenere un rapporto equilibrato tra i suoi elementi, fallendo in particolare nel cercare una coesione tra la linea del colpo di stato e quella dei protagonisti. Tuttavia, nonostante la confusione che periodicamente affligge il racconto e il desiderio sicuramente eccessivo e fuori controllo di espandere la materia trattata, siamo di fronte un tassello importante nella storia della serialità europea.

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1 stagione da 8 episodi
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Segretarie. Una vita per cinema

di Sara Sicolo
Segretarie, una vita per il cinema - di Daniela Masciale e Raffaele Rago

Ci fa piacere ospitare nella sezione I Sotterranei la recensione della giovane Sara Sicolo, allieva del workshop “Buona la prima!” promosso dal circolo Arci "Kirikù" di Bitonto (Ba) al quale la nostra redattrice Carmen Albergo ha partecipato in qualità di tutor. Nell’ambito del workshop, rivolto ai ragazzi delle scuole superiori, è stato organizzato un incontro con il documentarista Raffele Rago e la creative ed executive producer Daniela Masciale, registi del film Segretarie. Una vita per il cinema.

Segretarie. Una vita per il cinema, soggetto e produzione della pugliese Daniela Masciale e co-diretto a quattro mani col regista romagnolo Raffaele Rago (compagno della stessa Masciale), si apre alternando immagini di affollati red carpet, flash abbaglianti e radiosi divi del cinema alle inquadrature più statiche di alcune donne, sedute all’interno dei loro studi e salotti, che parlano di sé e, condividendo la propria storia personale, raccontano gli anni d’oro del cinema italiano e i suoi protagonisti.

Le sei narratrici sono volti sconosciuti al grande pubblico ma tasselli essenziali per la produzione cinematografica nazionale dagli anni ’60 in poi: Cesarina Marchetti, segretaria e confidente di Goffredo Lombardo, Paola Quagliero, collaboratrice di Franco Cristaldi, Liliana AvincolaAnna Maria Scafasci, segretarie dei fratelli Dino e Luigi de Laurentiis, Resi Bruletti, preziosa dipendente della sezione romana della 20th Century Fox e Fiammetta Profili che, appena diciannovenne, avviò un’avventurosa carriera al fianco del maestro Federico Fellini.

Con la naturalezza di chi parla degli amici di una vita, Cesarina, Paola, Liliana, Anna Maria, Resi e Fiammetta aprono spiragli sulla vita personale dei loro principali, demistificando e svelando l’umanità di individui ritenuti e ossequiati come giganti del cinema italiano. Attraverso una serie di aneddoti, le protagoniste di questo documentario raccontano i propri esordi, riflettono su come hanno saputo coniugare la vita personale al lavoro, ricostruiscono il rapporto di reciproca fiducia e rispetto con i propri capi, che più volte sarebbero stati persi senza gli astuti suggerimenti e il costante supporto di queste preziose collaboratrici. Lo stesso periodo storico e gli stessi ambienti ci vengono così raccontati da sei donne accomunate da una forte risoluzione e da un’intensa passione per la professione svolta. L’equilibrio fra momenti di comicità, commozione e tenerezza è perfettamente mantenuto, alle raccomandazioni premurose di Resi sul non mischiare il lavoro con le relazioni personali si accosta il racconto dei silenziosi viaggi in auto della giovanissima e timida Fiammetta e di un Fellini maturo e paterno. Commovente soprattutto il racconto del momento in cui, durante una conversazione di ritorno da un funerale, Cesarina, con un tono di premurosa ovvietà, risponde alla domanda di Goffredo Lombardo suggerendo al produttore di predisporre come colonna sonora del suo funerale il “Valzer brillante” tratto da Il Gattopardo, celebre produzione della Titanus, di cui Lombardo era erede e dirigente.

Nell’assistere ai questi racconti non si può che osservare come le protagoniste abbiano ricoperto un ruolo di norma considerato marginale e secondario in maniera insolita, personale e artistica, rendendosi non solo ingranaggi indispensabili all’interno delle case di produzione ma anche fonti inestimabili di ispirazione e ottime dispensatrici di consigli. Si potrebbe dire che il processo che ha visto molte donne battersi e guadagnarsi spazi d’azione maggiori all’interno dell’industria cinematografica sia iniziato anche con le segretarie che, come il comune passato da comparse o ruoli minori di alcune di loro dimostra, non si sono limitate ad essere graziosi manichini da esporre dinnanzi alla cinepresa ma preziose collaboratrici e, con il tempo, manager e dirigenti. La considerazione più piacevole giunge infatti proprio al termine, quando si realizza come la scalata dei vertici gestionali del cinema che le sei donne hanno realizzato nel corso di una vita intera, sia avvenuta in tempi ben più brevi per la stessa Daniela Masciale la quale, dopo alcuni anni trascorsi al fianco del celebre regista Giuseppe Tornatore, ha avuto la possibilità di tracciare il proprio percorso dedicandosi alla produzione. Infatti, per Daniela come per le sei protagoniste del documentario, l’esperienza a fianco del “maestro” è stata formativa ed essenziale, tanto che il progetto di Segretarie è stato presentato in prima battuta proprio a Tornatore, soprattutto a seguito della sua esortazione a sbrigarsi «prima che sia troppo tardi» (infatti il documentario è dedicato ad Anna Maria Scafasci, scomparsa poco dopo le riprese). Lo stesso Tornatore, alla visione di un premontaggio della pellicola, aveva osservato come Daniela Masciale fosse pienamente coinvolta nell’opera, forse per via degli esordi comuni alle arzille protagoniste e dell’entusiasmo per una prima produzione personale.

In conclusione, Segretarie offre, attraverso un fresco tuffo nel passato, spunti di riflessione sul presente. Un presente dove, nonostante i molti progressi, le donne hanno ancora molta strada da fare, nell’industria cinematografica come in ogni altro campo professionale; Segretarie tuttavia, nonostante il repertorio di immagini in bianco e nero e il cast attempato (ma vivace), è una visione ottimista, la piacevole testimonianza di una generazione che ha contributo, talvolta anche inconsapevolmente, a porre le basi per la crescita socioculturale delle donne.

 

Sara Sicolo

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Daniela Masciale Raffaele Rago Cesarina Marchetti Paola Quagliero Liliana Avincola Anna Maria Scafasci Resi Bruletti Fiammetta Profili 60 minuti
Italia 2018
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Highwaymen - L'ultima imboscata

di Saverio Felici
Highwaymen - recensione film Hancock

La prima bozza del copione di Highwaymen - L'ultima imboscata vedeva nientemeno che Robert Redford e Paul Newman come interpreti designati di Frank Hames e Maney Gault. Questo per rendersi conto da quanto tempo John Fusco (una carriera a tema tra Young Guns, Hidalgo e Spirit - Cavallo selvaggio) si portasse dietro la storia dei due Texas Ranger in pensione, chiamati nel maggio del 1934 a porre fine al killing spree di Bonnie Parker e Clyde Barrow. Il soggetto, comprato dalla Universal, finì accantonato per quasi due decenni prima di essere riscattato da Netflix. La casa di Los Gatos convocò Kevin Costner e Woody Harrelson come protagonisti, e affidò al mestierante John Lee Hancock la guida dell'operazione.

Highwaymen è un western. Non "spaghetti", non "post-", non "neo": western, nel senso più fordiano del termine.
La sua reincarnazione televisiva stupisce fino a un certo punto: cose come Godless e La Ballata di Buster Scruggs hanno già stabilito come la sfida alle sale portata avanti da Ted Sarandos e compagni stia passando anche per la colonizzazione del genere più classico e "cinematografico" di tutti. E grazie alla solida guida di un professionista come Hancock, mestierante del cinema più di sistema (The Blind Side, The Founder, Saving Mister Banks), il film fa ciò che deve fare: portare il vecchio western dei grandi divi e dei tempi lunghi nel catalogo colorato e giovanilistico del distributore.

La storia di Highwaymen - L'ultima imboscata riporta ancora una volta sullo schermo i giorni finali della Barrow Gang. Nel 1934, i ventenni Bonnie & Clyde attraversano gli stati del Sud americano spalleggiati da una banda di amici e parenti. Vengono da Dallas, Texas, negli anni della depressione e delle dust bowls che stanno rovinando gli agricoltori del Midwest. Rapinano banche, massacrano poliziotti e vivono come rockstar in fuga. Per il popolo della zona, impoverito e arrabbiato con fisco e governo, rappresentano degli eroi, il simbolo della ribellione violenta al sistema. Per lo Stato, sono l'incarnazione di un nichilismo anarcoide da distruggere. Di fronte all'impotenza degli organi principali, la governatrice texana Ma Ferguson (Kathy Bates) accetta a malincuore di spedire in missione segreta Frank Hames (Costner) e il suo compare Maney Gault (Harrelson). I due anziani sono tra i pochi reduci del vecchio corpo dei Texas Ranger: pistoleri e assassini al soldo del governo, ormai fuori tempo e fuori dal mondo. Starà a questi due relitti porre fine alla follia giovanile della banda, dimostrando la superiorità dei vecchi metodi sulle diavolerie spionistiche di Hoover e i suoi scagnozzi, e arrivando per primi alla leggendaria sparatoria del 23 maggio.

Highwaymen, è chiaro fin dal sunto, è interessante prima di tutto per la chiave di lettura che adotta. Hancock e Fusco scelgono infatti di raccontare il primo mito contestatario-giovanile americano da un punto di vista apparentemente opposto: quello dei "vecchi" cacciatori, ovviamente conservatori, idealisti e disgustati dall'edonismo omicida della banda. Al leggendario Gangster Story di Arthur Penn (godardiano, proto-sessantottesco e pioniere della New Hollywood), Highwaymen antepone una lettura eastwoodiana, sottilmente (ma neanche tanto) reazionaria e fondata su concetti di moralità molto più pragmatici. Il ribaltamento di prospettiva contrappone allora due visioni del mito di Bonnie & Clyde: mai inquadrati, sfuggenti e metafisici come un Moby Dick delle praterie, i due sono alternativamente degli eroi per il popolo invasato e irrazionale, e dei mostri per il "buon senso" del vecchio Ranger Hamer, insofferente a letture complesse e determinato a distruggerli in quanto giusto. Idea buona, ma sviluppata in una sola direzione: il film racconta questa contrapposizione dal punto di vista di Hames, sposandone evidentemente la visione e rifiutando di metterla in crisi. Lo scontro dialettico non avviene mai, e la chiave del tutto rimane più superficiale: Barrow e Parker sono due criminali, e in palio nella caccia all'uomo c'è solo la soddisfazione di fermare un nemico, e del dimostrarsi ancora una volta capaci di farlo.

Highwaymen - L'ultima imboscata è allora un film più rozzo di quanto forse potrebbe. La sua storia si riduce principalmente all'aggiornamento del topos (anche) western del vecchio eroe chiamato a "scendere in campo" un'ultima volta, confrontandosi con il tempo che è passato e con la mutazione del proprio ruolo. Il peso si sposta dunque sugli attori, e sulla capacità di Hancock nel valorizzarli. Da quel punto di vista il film non delude, e anzi si dimostra forse la migliore tra le opere recenti del regista. Se Harrelson va di maniera (occhi arrossati, parlata biascicata, sofferenza sopra le righe), è interessante studiare l'evoluzione del personaggio-Costner: da volto pulito e kennediano del western '80-'90, a raggrinzita e appesantita maschera dei vecchi valori in disfacimento. Facendo il paio con il recente Yellowstone di Taylor Sheridan, è un attore che sembra aver trovato la sua grandezza a sessant'anni, approdando peraltro ad un archetipo opposto a quello che lo lanciò. La regia lo accompagna, silenziosa e dolente, lungo le infinite highway dell'inseguimento, moderni sentieri selvaggi (Ford, appunto) dove braccare ancora una volta un nemico senza volto. Vecchi metodi, grande mestiere.

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John Lee Hancock Kevin Costner Woody Harrelson Kathy Bates John Carroll Lynch Kim Dickens 132 minuti
USA 2019
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