L'uomo fedele

di Fiaba Di Martino
L'uomo fedele - recensione film garrell

Lui e lei, un appartamento parigino, l'annuncio en passant di una gravidanza imprevista, ma il padre è un altro. E cioè il miglior amico di lui, ombra ectoplasmatica, rivale senza volto, che un volto, un'immagine non acquisterà per tutta la (brevissima: meno di 75 minuti) durata di L’uomo fedele. Lei li ama entrambi. Così lancia una monetina: la monetina sceglie il fantasma, e lei scompare a sua volta. Lei è Marianne, l'amore della vita di lui, Abel, che dormirà con un'altra e probabilmente con altre per dimenticarla, ma dimenticherà soltanto loro, aloni passeggeri di lei. La ritroverà nove anni dopo al funerale di quel compagno eletto dalla sorte, un amico dimenticato, parte del loro ormai perduto trio – non ancora triangolo – universitario (di dreamers?) scioltosi con l'avvento dell'adultità. La morte li riunisce, e permette ad Abel e Marianne di riprendere il discorso amoroso, mai davvero interrotto, comunque mai risolto; e non sarà un canto a due voci, ma corale: un francesissimo ménage à trois, naturalmente, anzi à quatre, con gli incomodi Eve, sorella del defunto che nutre un amour fou bambino per Abel, e Joseph, pargolo di Marianne e (forse...) del fu partner, che non può soffrire il repentino rimpiazzo del padre e dunque s'inventa (forse...) ch'egli è perito per avvelenamento, per mano proprio della dolce genitrice.

Eros, Thanatos, bugie e twist d'amorosi sensi, sogni labili quanto il loro avverarsi: il debutto in cabina di regia di Louis Garrel sta a qualche metro di distanza dalla tristesse autobiografica delle opere paterne (ma il co-sceneggiatore Jean-Claude Carrière è stato autore per Philippe e pure per Buñuel, e qualche zampata la tira), e un paio di metri vicino a un senso truffautiano del cinema (il citatissimo Baci rubati, ma anche, e particolarmente, Non drammatizziamo... è solo questione di corna).

In questa commedia sentimentale spruzzata di thriller (tutto nella testa e nello sguardo del piccolo guastafeste Joseph), malinconico divertissement di laconica autoironia, Garrel si fa beffe del proprio profilo d'icona romantica parisienne, smontandone la parvenza ombrosa e desiderabile, un po' umiliandosi, ma con tenerezza, raccontando Abel come un attonito e volubile fanciullo senza qualità peculiari, un bambolotto di buone intenzioni in balìa delle onde del destino e soprattutto delle volontà delle due donne che gli strattonano il cuore: Marianne, la Laetita Casta sua consorte qui femme fatale del quotidiano, con un segreto negli occhi e un incanto sfuggente che ipnotizza le di lui azioni; e Eve, bellissima post-adolescente, la figlioccia d'arte Lily Rose-Depp, fresca, sorprendentemente in parte, che si strugge per Abel per metà della sua vita e raggiunge la maturità nel momento in cui quasi per caso attesta l'ordinarietà, la mediocrità del proprio enfatico sogno d'amore («Quando facevo l'amore con altri, pensavo a lui... ora che lui è mio, a chi penso?»); ed è peraltro a lei che Garrel  regala i momenti più ispirati del film, con la rielaborazione fantastica di un presente sempre imperfetto, la diagnosi di una distanza incolmabile fra immaginazione/cinema e realtà fugace, opaca, immancabilmente deludente. Scartando la figurina di Abel rimane un uomo fedele all'idea dell'amore per se, e resta egli stesso idea, a incarnare tanto l'inafferrabilità implicitamente tragica dell'amore quanto, in fondo, il suo ridicolo.

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Louis Garrel Louis Garrel Laetitia Casta Lily-Rose Depp Joseph Engel 75 minuti
Francia 2018
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Intervista a Daniela Masciale e Raffaele Rago

di Giuseppe Caste…
Segretarie, una vita per il cinema - di Daniela Masciale e Raffaele Rago

Daniela Masciale è creative ed executive producer, nonchè docente alla Scuola di Cinema di Ostana. Con il  documentarista Raffaele Rago ha firmato a quattro mani la sua opera prima Segretarie. Una vita per il cinema, racconto della carriera di sei segretarie, collaboratrici di celebri registi e produttori italiani, quali furono per esempio Paola Quagliero per Franco Cristaldi e  Fiammetta Profili per Federico Fellini.


L’idea di questo documentario nasce dalla necesità di sottolineare l’importanza di un lavoro che spesso viene considerato subalterno, o dallo stupore che hanno suscitato in voi le storie di queste segretarie?

 R. R. - L’idea era questa, ci siamo chiesti se queste signore, che hanno fatto il grande cinema italiano, negli anni 50 e 60,  non avessero nessun obbiettivo che mirasse ad arrivare sotto i riflettori o se magari erano già felici con il ruolo che ricoprivano, che non definirei all’ombra di queste personalità, bensì al fianco, aiutandoli a raggiungere i loro successi. Nel documentario una di loro dirà 'è meglio che ci sia una figura femminile come confidente, perché aiuta meglio a lavorare nel settore'. Il cinema italiano, più di tutti è sempre stato maschilista, la preponderanza maschile è sicuramente molto alta, loro stesse erano stupite di entrare nelle sale riunioni e vedere che erano le uniche donne, oggi vediamo la stessa cosa, nei luoghi di potere, o magari nei luoghi tecnici. Tempo fa, mentre lavoravo per una grossa trasmissione televisiva RAI, il fonico era donna, l’unica figura femminile tecnica. Per un problema di salute, all’ultimo minuto, rimase a casa creando panico per trovare un sostituto, e nel mentre la battuta tra gli uomini era 'ecco dicevamo che non bisogna prendere le donne per i lavori tecnici'. Quindi con questo documentario ci siamo divertiti a mostrare queste 'pioniere' del lavoro.

Qual è la sua esperienza personale, avendo ricoperto il ruolo di segretaria di Giuseppe Tornatore? Rispecchia ancora ciò che è presente nel documentario?

D. M. - Il documentario muove sostanzialmente da questo, io e Raffaele in quel periodo eravamo a Bologna con amici documentaristi e mi si chiese il motivo per cui avessi lasciato dopo due anni il posto come assistente personale di Giuseppe Tornatore, il grande regista italiano. Volevo seguire in autonomia i progetti, mettermi in prima linea, lavorare come producer, avere la mia carriera, insomma volevo lavorare in modo attivo su un progetto, questo mi ha portato a questa scelta; da lì nacque tutto, sono entrata nel cinema romano…non è cosi facile entrarci, soprattutto se vieni dalla provincia, io non ho nessuno in famiglia che ha fatto questo percorso, ho dovuto pian piano muovere i miei passi. Il pensiero è quindi giunto a loro che hanno fatto le segretarie per tutta la vita, con grande gioia e soddisfazione.

Restando nel contesto di cinema scritto e prodotto da donne, il cinema al femminile deve essere anche femminista, o possono essere scindibili i due aspetti?

 D. M. - Assolutamente no. Katherine Bigelow è una grandissima regista ma penso non ci sia nulla di più maschile della sua regia e io l’apprezzo molto, anche la nostra Alice Rohrwacher ha una sensibilità femminile, ma non penso rappresenti tematiche femministe, la politica è una cosa l’arte è un'altra, se si riesce a dire qualcosa di interessante in modo politico, ben venga, ma il racconto è quello che conta, e si può trattare anche di una storia molto semplice, umana, ovviamente il punto di vista fa la differenza.

Come spiega l’incoerenza tra le politiche di pari opportunità e le statistiche che riportano che le donne sono ancora una minoranza nel settore audio visivo? 

D. M. - Penso che si stia facendo molto in questi ultimi anni, soprattutto dopo ciò che è accaduto. C’è stato una forte eco del discorso sugli abusi, prima negli Stati Uniti poi in Europa, sino in Italia; anche il fenomeno di 'Wage gap', quindi la differenza di salari tra attori e attrici. Si è iniziato molto a parlare anche della mancata rappresentanza di registe donne, se ne sta parlando molto, ci sono anche delle associazioni internazionali che si muovono in questo senso. Penso quindi che si stia facendo qualcosa, il percorso è lungo, consideriamo tutte le conquiste, a partire dal divorzio, l’aborto, le conquiste a livello professionale. C'è stato un tempo in cui le donne non avevano neanche la possibilità di essere studentesse, oppure potevano acculturarsi privatamente solo al fine di acquisire un profilo alto e visibile alla società, per bella figura del proprio compagno. Quindi non si è mai smesso di fare molto.

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1983

di Matteo Berardini
1983 - recensione serie tv netflix

Nella storia della Polonia i primi anni Ottanta sono un momento cruciale. Afflitto da contraddizioni interne ormai insolubili, il regime comunista inizia a perdere la sua presa sul tessuto sociale, e per patteggiare con i cambiamenti in corso approva gli accordi di Danzica, una pietra miliare nella strada verso la democrazia. Tuttavia un’improvvisa legge marziale frena il processo in corso: leader, operai e studenti vengono arrestati; le libertà ridotte al minimo; il controllo poliziesco diventa una prassi mentre il paese sprofonda nel caos di torture e dilazioni. Nella nostra storia la legge marziale viene abrogata nel luglio del 1983, dopo il quale il paese entra in una stasi sociale da cui si libererà solo con il collasso dell’Unione Sovietica. La realtà di 1983 è invece ben diversa: una serie di attentati terroristici colpisce le principali città del paese, centinaia sono le vittime e gli orfani, e da quel sangue e quei volti il regime trae nuova vita e forza. Nella realtà di 1983 la cortina di ferro è ancora in piedi, e la Polonia è stretta da una violenta dittatura. Almeno fino al 2003, quando nuove decisioni politiche e la pressione di un terrorismo interno innescano un’escalation dalla portata rivoluzionaria.

Distribuita come prima serie originale polacca nel panorama internazionale dei Netflix originals, 1983 è un ibrido che vede la genesi creativa dello sceneggiatore Joshua Long e la produzione dell’americanissima Kennedy/Marshall Company di Kathleen “Lucas film” Kennedy. Regia, maestranze e cast sono però polacche, come altrettanto localizzata è l’identità distopica del racconto, che si nutre del thriller distopico di stampo hollywoodiano per applicarne i moduli a una narrazione calata nel suo particolare contesto geopolitico, cantiere storico ancora aperto, diviso tra Est e Ovest, in cui terrorismo, repressione, agitazione e conformismo sociale sono gli attori principali. Il risultato di quest’incontro tra elementi americani e identità europea è quella che, ad oggi, possiamo indicare come la migliore serie internazionale Netflix, il risultato più maturo e consapevole di quell’approccio g-local che vuole sposare le necessità della localizzazione con quelle della distribuzione mondiale. 1983 infatti è una serie che evita i tipici limiti degli show Netflix (prolissità e superficialità del racconto, approccio conciliante a tutti i costi e taglio teen inteso come appiattimento di personalità) abbracciando piuttosto la complessità narrativa e tematica come valore aggiunto, scarto dalla norma. Come e meglio della tedesca Dark, 1983 non offre soluzioni facili, non porta per mano lo spettatore lungo ogni svolta, ma anzi innalza incredibilmente il livello di intreccio e densità narrativa pretendendo un’attenzione attiva. E ciò avviene perché vengono presi di petto temi delicati ed estremamente attuali come l’uso politico e identitario del terrorismo da parte del potere, o l’ingerenza invisibile e totalizzante dell’ideologia capitalistica; seppur nascosto da intrighi politici, giochi di spie e segreti di stato, il cuore del discorso portato avanti da Long riguarda i rapporti articolati e variabili che si istaurano tra identità locale e globalizzazione, terrore e comunione nazionale, benessere e asservimento. La via d’accesso è una riscrittura distopica e plumbea dell’Europa centrale e della Polonia, letta dalle due prospettive del noir poliziesco e del thriller politico. Così 1983 cerca di far dialogare due anime e linee narrative: la prima riguarda Anatol, poliziotto caduto in disgrazia, amareggiato e sfiduciato nei confronti del sistema, per quanto non apertamente in conflitto con esso; la seconda ruota attorno all’orfano Kajetan, diviso tra la sua ricerca d’identità e l’uso mediatico che la classe politica ha fatto del suo lutto per serrare le proprie dita di ferro attorno alla gola del paese. Redenzione e racconto di formazione, bisogno di riscatto e sete di verità si alternano e intrecciano nel corso del racconto, all’interno di una cornice estetica che sfrutta il tema dell’immigrazione per ricreare scorci fanta-noir a là Blade Runner, o calca la mano sull’oppressione militare e tecnologica ricordando le cupe atmosfere del V per vendetta di Alan Moore. Del resto il comparto visivo è il forte valore aggiunto della serie, capace di trovare una sua identità e di portarla avanti coerentemente, applicandola in forma spesso brillante ai vari momenti della storia.

Adulta e ambiziosa, 1983 è una serie importante nel panorama Netflix ma poco sfruttata da una piattaforma sempre più interessata ad un pubblico adolescenziale; del resto la sua materia in costante espansione mal si adatta al respiro normalizzante di molte produzioni coeve. Certo, 1983 osa tanto e non riesce sempre a mantenere un rapporto equilibrato tra i suoi elementi, fallendo in particolare nel cercare una coesione tra la linea del colpo di stato e quella dei protagonisti. Tuttavia, nonostante la confusione che periodicamente affligge il racconto e il desiderio sicuramente eccessivo e fuori controllo di espandere la materia trattata, siamo di fronte un tassello importante nella storia della serialità europea.

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1 stagione da 8 episodi
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Segretarie. Una vita per cinema

di Sara Sicolo
Segretarie, una vita per il cinema - di Daniela Masciale e Raffaele Rago

Ci fa piacere ospitare nella sezione I Sotterranei la recensione della giovane Sara Sicolo, allieva del workshop “Buona la prima!” promosso dal circolo Arci "Kirikù" di Bitonto (Ba) al quale la nostra redattrice Carmen Albergo ha partecipato in qualità di tutor. Nell’ambito del workshop, rivolto ai ragazzi delle scuole superiori, è stato organizzato un incontro con il documentarista Raffele Rago e la creative ed executive producer Daniela Masciale, registi del film Segretarie. Una vita per il cinema.

Segretarie. Una vita per il cinema, soggetto e produzione della pugliese Daniela Masciale e co-diretto a quattro mani col regista romagnolo Raffaele Rago (compagno della stessa Masciale), si apre alternando immagini di affollati red carpet, flash abbaglianti e radiosi divi del cinema alle inquadrature più statiche di alcune donne, sedute all’interno dei loro studi e salotti, che parlano di sé e, condividendo la propria storia personale, raccontano gli anni d’oro del cinema italiano e i suoi protagonisti.

Le sei narratrici sono volti sconosciuti al grande pubblico ma tasselli essenziali per la produzione cinematografica nazionale dagli anni ’60 in poi: Cesarina Marchetti, segretaria e confidente di Goffredo Lombardo, Paola Quagliero, collaboratrice di Franco Cristaldi, Liliana AvincolaAnna Maria Scafasci, segretarie dei fratelli Dino e Luigi de Laurentiis, Resi Bruletti, preziosa dipendente della sezione romana della 20th Century Fox e Fiammetta Profili che, appena diciannovenne, avviò un’avventurosa carriera al fianco del maestro Federico Fellini.

Con la naturalezza di chi parla degli amici di una vita, Cesarina, Paola, Liliana, Anna Maria, Resi e Fiammetta aprono spiragli sulla vita personale dei loro principali, demistificando e svelando l’umanità di individui ritenuti e ossequiati come giganti del cinema italiano. Attraverso una serie di aneddoti, le protagoniste di questo documentario raccontano i propri esordi, riflettono su come hanno saputo coniugare la vita personale al lavoro, ricostruiscono il rapporto di reciproca fiducia e rispetto con i propri capi, che più volte sarebbero stati persi senza gli astuti suggerimenti e il costante supporto di queste preziose collaboratrici. Lo stesso periodo storico e gli stessi ambienti ci vengono così raccontati da sei donne accomunate da una forte risoluzione e da un’intensa passione per la professione svolta. L’equilibrio fra momenti di comicità, commozione e tenerezza è perfettamente mantenuto, alle raccomandazioni premurose di Resi sul non mischiare il lavoro con le relazioni personali si accosta il racconto dei silenziosi viaggi in auto della giovanissima e timida Fiammetta e di un Fellini maturo e paterno. Commovente soprattutto il racconto del momento in cui, durante una conversazione di ritorno da un funerale, Cesarina, con un tono di premurosa ovvietà, risponde alla domanda di Goffredo Lombardo suggerendo al produttore di predisporre come colonna sonora del suo funerale il “Valzer brillante” tratto da Il Gattopardo, celebre produzione della Titanus, di cui Lombardo era erede e dirigente.

Nell’assistere ai questi racconti non si può che osservare come le protagoniste abbiano ricoperto un ruolo di norma considerato marginale e secondario in maniera insolita, personale e artistica, rendendosi non solo ingranaggi indispensabili all’interno delle case di produzione ma anche fonti inestimabili di ispirazione e ottime dispensatrici di consigli. Si potrebbe dire che il processo che ha visto molte donne battersi e guadagnarsi spazi d’azione maggiori all’interno dell’industria cinematografica sia iniziato anche con le segretarie che, come il comune passato da comparse o ruoli minori di alcune di loro dimostra, non si sono limitate ad essere graziosi manichini da esporre dinnanzi alla cinepresa ma preziose collaboratrici e, con il tempo, manager e dirigenti. La considerazione più piacevole giunge infatti proprio al termine, quando si realizza come la scalata dei vertici gestionali del cinema che le sei donne hanno realizzato nel corso di una vita intera, sia avvenuta in tempi ben più brevi per la stessa Daniela Masciale la quale, dopo alcuni anni trascorsi al fianco del celebre regista Giuseppe Tornatore, ha avuto la possibilità di tracciare il proprio percorso dedicandosi alla produzione. Infatti, per Daniela come per le sei protagoniste del documentario, l’esperienza a fianco del “maestro” è stata formativa ed essenziale, tanto che il progetto di Segretarie è stato presentato in prima battuta proprio a Tornatore, soprattutto a seguito della sua esortazione a sbrigarsi «prima che sia troppo tardi» (infatti il documentario è dedicato ad Anna Maria Scafasci, scomparsa poco dopo le riprese). Lo stesso Tornatore, alla visione di un premontaggio della pellicola, aveva osservato come Daniela Masciale fosse pienamente coinvolta nell’opera, forse per via degli esordi comuni alle arzille protagoniste e dell’entusiasmo per una prima produzione personale.

In conclusione, Segretarie offre, attraverso un fresco tuffo nel passato, spunti di riflessione sul presente. Un presente dove, nonostante i molti progressi, le donne hanno ancora molta strada da fare, nell’industria cinematografica come in ogni altro campo professionale; Segretarie tuttavia, nonostante il repertorio di immagini in bianco e nero e il cast attempato (ma vivace), è una visione ottimista, la piacevole testimonianza di una generazione che ha contributo, talvolta anche inconsapevolmente, a porre le basi per la crescita socioculturale delle donne.

 

Sara Sicolo

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Daniela Masciale Raffaele Rago Cesarina Marchetti Paola Quagliero Liliana Avincola Anna Maria Scafasci Resi Bruletti Fiammetta Profili 60 minuti
Italia 2018
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Highwaymen - L'ultima imboscata

di Saverio Felici
Highwaymen - recensione film Hancock

La prima bozza del copione di Highwaymen - L'ultima imboscata vedeva nientemeno che Robert Redford e Paul Newman come interpreti designati di Frank Hames e Maney Gault. Questo per rendersi conto da quanto tempo John Fusco (una carriera a tema tra Young Guns, Hidalgo e Spirit - Cavallo selvaggio) si portasse dietro la storia dei due Texas Ranger in pensione, chiamati nel maggio del 1934 a porre fine al killing spree di Bonnie Parker e Clyde Barrow. Il soggetto, comprato dalla Universal, finì accantonato per quasi due decenni prima di essere riscattato da Netflix. La casa di Los Gatos convocò Kevin Costner e Woody Harrelson come protagonisti, e affidò al mestierante John Lee Hancock la guida dell'operazione.

Highwaymen è un western. Non "spaghetti", non "post-", non "neo": western, nel senso più fordiano del termine.
La sua reincarnazione televisiva stupisce fino a un certo punto: cose come Godless e La Ballata di Buster Scruggs hanno già stabilito come la sfida alle sale portata avanti da Ted Sarandos e compagni stia passando anche per la colonizzazione del genere più classico e "cinematografico" di tutti. E grazie alla solida guida di un professionista come Hancock, mestierante del cinema più di sistema (The Blind Side, The Founder, Saving Mister Banks), il film fa ciò che deve fare: portare il vecchio western dei grandi divi e dei tempi lunghi nel catalogo colorato e giovanilistico del distributore.

La storia di Highwaymen - L'ultima imboscata riporta ancora una volta sullo schermo i giorni finali della Barrow Gang. Nel 1934, i ventenni Bonnie & Clyde attraversano gli stati del Sud americano spalleggiati da una banda di amici e parenti. Vengono da Dallas, Texas, negli anni della depressione e delle dust bowls che stanno rovinando gli agricoltori del Midwest. Rapinano banche, massacrano poliziotti e vivono come rockstar in fuga. Per il popolo della zona, impoverito e arrabbiato con fisco e governo, rappresentano degli eroi, il simbolo della ribellione violenta al sistema. Per lo Stato, sono l'incarnazione di un nichilismo anarcoide da distruggere. Di fronte all'impotenza degli organi principali, la governatrice texana Ma Ferguson (Kathy Bates) accetta a malincuore di spedire in missione segreta Frank Hames (Costner) e il suo compare Maney Gault (Harrelson). I due anziani sono tra i pochi reduci del vecchio corpo dei Texas Ranger: pistoleri e assassini al soldo del governo, ormai fuori tempo e fuori dal mondo. Starà a questi due relitti porre fine alla follia giovanile della banda, dimostrando la superiorità dei vecchi metodi sulle diavolerie spionistiche di Hoover e i suoi scagnozzi, e arrivando per primi alla leggendaria sparatoria del 23 maggio.

Highwaymen, è chiaro fin dal sunto, è interessante prima di tutto per la chiave di lettura che adotta. Hancock e Fusco scelgono infatti di raccontare il primo mito contestatario-giovanile americano da un punto di vista apparentemente opposto: quello dei "vecchi" cacciatori, ovviamente conservatori, idealisti e disgustati dall'edonismo omicida della banda. Al leggendario Gangster Story di Arthur Penn (godardiano, proto-sessantottesco e pioniere della New Hollywood), Highwaymen antepone una lettura eastwoodiana, sottilmente (ma neanche tanto) reazionaria e fondata su concetti di moralità molto più pragmatici. Il ribaltamento di prospettiva contrappone allora due visioni del mito di Bonnie & Clyde: mai inquadrati, sfuggenti e metafisici come un Moby Dick delle praterie, i due sono alternativamente degli eroi per il popolo invasato e irrazionale, e dei mostri per il "buon senso" del vecchio Ranger Hamer, insofferente a letture complesse e determinato a distruggerli in quanto giusto. Idea buona, ma sviluppata in una sola direzione: il film racconta questa contrapposizione dal punto di vista di Hames, sposandone evidentemente la visione e rifiutando di metterla in crisi. Lo scontro dialettico non avviene mai, e la chiave del tutto rimane più superficiale: Barrow e Parker sono due criminali, e in palio nella caccia all'uomo c'è solo la soddisfazione di fermare un nemico, e del dimostrarsi ancora una volta capaci di farlo.

Highwaymen - L'ultima imboscata è allora un film più rozzo di quanto forse potrebbe. La sua storia si riduce principalmente all'aggiornamento del topos (anche) western del vecchio eroe chiamato a "scendere in campo" un'ultima volta, confrontandosi con il tempo che è passato e con la mutazione del proprio ruolo. Il peso si sposta dunque sugli attori, e sulla capacità di Hancock nel valorizzarli. Da quel punto di vista il film non delude, e anzi si dimostra forse la migliore tra le opere recenti del regista. Se Harrelson va di maniera (occhi arrossati, parlata biascicata, sofferenza sopra le righe), è interessante studiare l'evoluzione del personaggio-Costner: da volto pulito e kennediano del western '80-'90, a raggrinzita e appesantita maschera dei vecchi valori in disfacimento. Facendo il paio con il recente Yellowstone di Taylor Sheridan, è un attore che sembra aver trovato la sua grandezza a sessant'anni, approdando peraltro ad un archetipo opposto a quello che lo lanciò. La regia lo accompagna, silenziosa e dolente, lungo le infinite highway dell'inseguimento, moderni sentieri selvaggi (Ford, appunto) dove braccare ancora una volta un nemico senza volto. Vecchi metodi, grande mestiere.

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John Lee Hancock Kevin Costner Woody Harrelson Kathy Bates John Carroll Lynch Kim Dickens 132 minuti
USA 2019
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Il venerabile W.

di Samuel Antichi
Il venerabile W., Barbet Schroeder

Dopo essersi concentrato sulla figura di Idi Amin Dada, sanguinario dittatore dell'Uganda dal 1971 al 1979, riflettendo sul regime e il potere assoluto nel film Général Idi Amin Dada: Autoportrait (1974) e su Jacques Vergès, avvocato francese noto per aver difeso terroristi e criminali di guerra come Klaus Barbie e l'ex capo dei Khmer Rossi Khieu Samphan in L’avvocato del terrore (2007), Barbet Schroeder chiude la propria personale trilogia sul male con il documentario Il venerabile W. (2017).

Fin dal titolo è evidente come il regista francese voglia sottolineare la natura estremamente contraddittoria del soggetto su cui ha intenzione di focalizzare l’attenzione. Venerabile infatti è l’appellativo con cui ci si rivolge ai monaci buddhisti, la cui dottrina e pratica religiosa (mahāyāna) si basa sulla compassione universale. Un’attitudine che si distanzia dal semplice pietismo ma che, in relazione dinamica con la realtà fattuale, non esclusivamente collocata dunque in una dimensione trascendentale, può orientare in maniera attiva l’intera esistenza dell’essere umano contro la rovina dell’egoismo e l’attaccamento ai beni materiali. Ashin Wirathu, il monaco a cui il titolo fa riferimento, estremamente influente in Birmania, altera e manipola gli insegnamenti del Buddha incitando i suoi discepoli all’islamofobia, spingendoli a compiere azioni criminose contro i Rohingya, una minoranza etnica che vive prevalentemente nel nord del Paese, costretta in passato a scappare dal Bangladesh durante il dominio britannico. Il termine razza nella lingua birmana “kula” viene spesso associato alla parola rakhita “protezione” per formare un costrutto che significa patriottismo. Durante i propri sermoni Wirathu modifica e altera i concetti espressi nei canoni del buddhismo sostenendo che il termine razza, con cui invece originariamente nei testi sacri si intende l’umanità intera, si riferisce invece alla religione buddhista da difendere e proteggere, minacciata, in questo caso, dall’Islam. Il monaco infonde nei giovanissimi allievi un germe di odio e violenza pronto ad esplodere.

Il film mostra come il nazionalismo insito nelle parole del leader, religioso e politico, cerchi di fornire, prima di tutto, una percezione distorta, falsa della realtà. La minoranza Rohingya, vista come una minaccia incombente, consiste solo nel 4% totale della popolazione, mentre quella buddhista rappresenta invece l’88%. La discrepanza tra realtà e percezione concernente la popolazione musulmana viene evidenziata anche in riferimento ai paesi occidentali. “Sapresti dire quanti musulmani ci sono nel tuo paese?” è la domanda che viene posta all’interno del film mentre alcuni grafici mostrano la percentuale di musulmani presenti in paesi come Germania, Francia e Stati Uniti secondo la popolazione a confronto con il numero realmente effettivo. L’operazione di propaganda assume una struttura mutevole e stratificata dal momento in cui, oltre i sermoni e alcuni pamphlet esplicativi, adesivi e poster, il monaco, grazie all’organizzazione da lui fondata, realizza dvd che contengono filmati amatoriali in cui vengono catturati momenti di protesta da parte dei Rohingya mentre la voice over sentenzia «vivono sfruttando la nostra terra, le nostre risorse, e nonostante questo non sono contenti e attaccano la nostra religione». Questi dvd vengono distribuiti gratuitamente, e in maniera capillare, in modo che i giovani capiscano fin da subito da dove proviene il male, la minaccia. Oltre ad immagini documentarie a cui viene attribuita oggettività assoluta, il processo di strumentazione si avvale anche dell’utilizzo di immagini di natura finzionale. Esempio paradigmatico è il video Black Days, sempre realizzato dall’organizzazione, in cui viene ri-messa in scena l’uccisione di una donna buddhista per mano di un gruppo di Rohingya, un episodio che aveva scatenato una vera e propria rivolta conclusasi con l’uccisione di decine di musulmani e la distruzione di centinaia di abitazioni. Come afferma Wirathu, il filmato in questione, nonostante consista in una ricostruzione finzionale si avvale di un indissolubile legame referenziale con l’avvenimento realmente accaduto dal momento che è stato realizzato basandosi sulla confessione di tre musulmani che hanno preso parte all’omicidio. Ancora una questione di percezione, di mediazione, di alterazione (distorta) della realtà esterna anche attraverso l’immagine filmica. La cinematografia è l’arma più forte diceva Mussolini in riferimento al ruolo del cinema come strumento di propaganda.

Barbet Schroeder senza giudicare direttamente le azioni e l’opera di persecuzione alterna l’intervista a Wirathu con quelle realizzate ad altri monaci contrari all’oppressione messa in atto così come a Matthew Smith fondatore dell’associazione Fortify Rights, per prevenire e combattere la violazione dei diritti umani, o al giornalista spagnolo Carlos Galache i cui report sono comparsi su El Diario ed Al Jazeera. Le parole di amore e benevolenza del dharma accompagnano le immagini di distruzione e di morte, in tensione, un ossimoro, come un monaco buddhista che predica l’odio, che veicola intenti repressivi e discriminatori partendo dai canoni di una religione che predica pace. Una religione che secondo il mondo occidentale, forse attraverso una propria interpretazione, una semplificazione, incarna l’emblema stesso della compassione ben lontana quindi da principi di violenza e sopraffazione insiti in altre religioni monoteistiche come il Cristianesimo prima e l’Islam ora. Questione ancora di percezione. Nonostante il film risulti piuttosto didascalico nel suo procedere, cosa non necessariamente negativa nel momento in cui il mondo occidentale sembra essere quasi del tutto all’oscuro del genocidio in atto, ad emergere con la molteplicità di strati, di voci, di livelli di sedimentazioni è l’impossibilità di una chiave di lettura univoca. Il film in questo modo si pone come una contro-narrazione che si vuole sostituire alla documentazione ufficiale, un processo di ri-scrittura storica che aggiunge un ulteriore strato nella costruzione e riformulazione della memoria collettiva e culturale. Ancora questione di prospettiva, questione di sguardo.

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Barbet Schroeder 100 minuti
Francia, Svizzera 2017
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Backcountry

di Jacopo Bonanni
Backcountry, Adam MacDonald

C’è un silenzio maestoso che sovrasta costantemente il suggestivo paesaggio di Backcountry, l’esordio cinematografico di Adam MacDonald. Un paesaggio apparentemente privo di qualsiasi segno di vita o di movimento, al punto da ispirare un profondo senso di disagio nello spettatore di fronte alle sterminate foreste di conifere del Canada immortalate dalla cinepresa. Tuttavia, ad un certo punto, sembra quasi di percepire che da quel paesaggio idilliaco trapeli una specie di risata sommessa, che irride i futili battibecchi della giovane coppia protagonista della pellicola. E’ la risata sardonica della natura selvaggia, pronta a tradursi nel bramito agghiacciante di un orso totemico per rammentare all’uomo l’incombere minaccioso di un destino ineluttabile di morte e disperazione. Tratto da una storia vera, e opportunamente romanzato, Backcountry è la cronaca feroce dell’angosciante odissea - finita in tragedia - di due fidanzati che per sanare le proprie divergenze interpersonali si allontanano durante il weekend dal caos cittadino per rifugiarsi nella pace fittizia di un'oasi naturale, incorniciata tra le montagne canadesi, dove scopriranno - a loro spese - che la natura che li circonda non è affatto benevola come lo scenario da cartolina che avevano sognato. Fin dalla prima inquadratura, oscurata dal ronzio delle mosche, si intuisce che è un viaggio di sola andata verso l’ignoto, e lo capiamo non appena Alex (Jeff Roop) e Jenn (Missy Peregrim) abbandonano la loro macchina per lasciarsi traghettare da una canoa in balia della corrente nel “cuore di tenebra” della foresta primordiale. Il campeggio è semplicemente il pretesto iniziale per raccontare il percorso solitario di una coppia che va lentamente alla deriva, depistata da dubbi, insicurezze ed equivoci che logorano la relazione lungo tutto il corso del tragitto, esasperata da un lato dalla presenza (in)visibile del plantigrado che segue le loro tracce; dall’altra dall’inettitudine di Alex: un uomo che sta cercando di impressionare la donna che ama, sfidando la natura impervia – personificata dall’orso - in una contesa testosteronica che lo umilia e lo spaventa ad ogni passo, mettendo in crisi la sua virilità fino a dilaniarla senza alcuna reticenza. Per il suo debutto alla regia l’autore canadese sceglie di seguire - a debita distanza - il solco tracciato prima di lui da John Boorman (Deliverance, 1972) e Werner Herzog (The Grizzly Man, 2004), dirigendo un survival drama cinico, violento e beffardo, che mette a nudo, senza eroismi ed artifici, i limiti e le incongruenze del sogno americano legato al mito “positivista” della natura incontaminata: la cosiddetta Great American Wilderness, professata da Thoreau nel suo celebre libro Vita nei Boschi. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare però quella documentata da MacDonald non è una natura crudele o vendicativa ma solo spietatamente indifferente, come lo sguardo vuoto ed impietoso del simbolico predatore che bracca da lontano i due incauti escursionisti, mosso unicamente dal suo inestinguibile istinto di sopravvivenza che lo spinge a sfamarsi. Soltanto in questa prospettiva è possibile cogliere ed apprezzare il valore effettivo del film, perché Backcountry non è un eco-vengeance convenzionale, dove la bestia di turno aggredisce le sue prede per ristabilire una sorta di equilibrio pre-esistente, né tanto meno l’aggressione è l’avvisaglia di un evento apocalittico imminente. Dietro lo scontro che insanguina i panorami dell’Ontario si nasconde in realtà una riflessione sulla fragilità dell’animo umano, su come sia sottile il diaframma posto dalla civiltà alle sue caratteristiche originarie e su come sia facile spazzare via i labili paraventi sociali una volta sradicati dal proprio contesto abituale. Come per Open Water – l’horror subacqueo di Chris Kentis – anche in questo caso la forza dell’orrore tratteggiato dal regista, con i suoi ritmi esasperati ed inesorabili, consiste nel ragionare per sottrazione, nel saper centellinare la suspence, per porre l’accento sullo spaesamento dei suoi protagonisti, separati a forza dal loro habitat naturale, senza mappe e senza indicazioni, preda degli istinti più bassi, immersi in un’area remota attorno a cui si coagulano le immagini di una natura governata da una logica ferina. Quella stessa logica secondo cui il bosco e il suo sovrano incontrastato – l’orso sacro ai nativi americani-  tornano ad assumere le connotazioni inquietanti di una tradizione ancestrale, quella dei racconti scolpiti sulla roccia o sussurrati attorno al focolare. Infatti il mondo di Backcountry non è quello virtuale che abbiamo imparato ad addomesticare sulle cartine geografiche ma un universo brutale e impenetrabile, dove il tempo è scandito da avventure primitive e da prove disumane, uno spazio estraneo ed ostile in cui ci si smarrisce impauriti e si vaga coraggiosamente a tastoni per non sprofondare nel buio dell’irrazionale. Una paura atavica che Adam MacDonald testimonia di essere riuscito puntualmente a catturare su pellicola grazie ad un esordio che lascia ben sperare.

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Adam MacDonald Missy Peregrim Jeff Roop Eric Balfour Nicholas Campbell 92 minuti
Canada, 2014
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Dumbo

di Matteo Marescalco
Dumbo recensione film Burton

«Vi ringrazio perché mi avete donato la possibilità di rivivere l'innocenza».

Durante gli ultimi nove anni, Walt Disney Pictures ha scelto di realizzare otto remake in live-action dei propri capolavori animati. Per la seconda volta dopo Alice in Wonderland, Tim Burton torna al timone di un transatlantico costruito con il compito ben preciso di solcare il vasto oceano dell'immaginario degli spettatori più giovani. Anche a causa della necessità di trasformare un film d'animazione di 64 minuti in un live-action di circa 120, in Dumbo, il regista di Burbank non si limita al rifacimento ma persegue una volontà reinterpretativa in grado di impreziosire il risultato finale. Il film di Burton ha le proprie premesse nel cartone animato del 1941 e il proprio motore narrativo nella figura del piccolo Dumbo, l'elefante dalle orecchie enormi che viene preso in giro da tutti. Al di là di un primo atto e mezzo in cui il film deve necessariamente agganciarsi al mito, il resto riesce a delineare abilmente svariate linee narrative nell'ottica di costruzione di uno spettacolo per famiglie in grado di emozionare e commuovere.

La Prima Guerra Mondiale è finita e tutti hanno perso qualcosa. Holt Farrier torna a casa con un braccio in meno. Sua moglie è deceduta e i due figli vivono nell'ambiente del circo di Maximilian Medici, un uomo buono che, grazie alla forza dei suoi sogni, prova a restare a galla in un contesto squallido. Niente è più come prima. La crisi finanziaria in cui versa il circo ha reso necessaria la vendita di due cavalli e Max punta tutto sul nuovo arrivato, un cucciolo di elefante. Tuttavia, il piccolo Dumbo deluderà le aspettative: le sue enormi orecchie gli impediranno di diventare la star degli spettacoli e gli attireranno soltanto insulti. Come se non bastasse, il piccolo viene anche separato dalla madre, riuscendo a guadagnarsi unicamente la simpatia di Milly e il fratellino, i due figlioletti di Farrier. Dietro l'handicap apparente, però, Dumbo nasconde una straordinaria capacità: se stuzzicato da una piuma, l'elefante è in grado di volare. Venuto a conoscenza di questa peculiarità, il furbo imprenditore Vandevere farà di tutto per portare Dumbo nella propria scuderia.

Nonostante i colori sbiaditi e malinconici, si respira levità e leggerezza in questo Dumbo di Tim Burton. A ogni personaggio manca qualcosa e tutti sono un po' tristi e depressi. Eppure, non c'è un singolo acrobata del circo che non provi ad andare avanti, facendo tesoro della famiglia sui generis da cui è circondato. In un contesto del genere, Dumbo è meno protagonista di quanto si possa pensare. Il piccolo elefante è il primo personaggio a lanciarsi nel vuoto e a dare il via ad un cambiamento che investe la collettività, piegata da una guerra appena conclusa e che sceglie di rialzarsi e andare avanti, accettando i propri limiti e i cambiamenti dettati dal tempo.

Più di ogni altra cosa, il film porta in scena il contrasto tra due modi di fare spettacolo, accomunati comunque dall'esigenza di costruire qualcosa di autentico a partire dalle menzogne. È l'esigenza di verità a costituire il cuore pulsante di Dumbo. Per tale motivo, Burton non si limita al rogo catartico finale ma costruisce un happy ending in cui i suoi personaggi sono liberi di mostrarsi per quello che sono, consapevoli di limiti e di difetti, e di dar vita ad uno spettacolo veramente autentico nella sua innocenza. Siamo lontani dai trip psichedelici del giovane Tim Burton. Ma quest'adesione ad un sano e puro spettacolo per famiglie non ha fatto altro che bene a un regista che lotta ancora con le proprie paure e i suoi demoni interiori.

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Tim Burton Colin Farrell Michael Keaton Danny DeVito Eva Green Alan Arkin 112 minuti
USA 2019
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Weird City

di Leonardo Strano
Weird City recensione serie YouTube Premium

Un racconto che sceglie un’estetica pulita, levigata e apparentemente priva di negatività per raccontare le forme latenti dell’oscenità e dell’inciviltà degli esseri umani provoca in chi guarda il riso generato dal “sentimento del contrario”, oppure una tensione interna che risveglia le meningi. Weird City, serie antologica distribuita da YouTube Premium e creata da Charlie Sanders e Jordan Peele (praticamente una prova di scatto ai blocchi di partenza della fantascienza prima del nuovo The Twilight Zone), gioca continuamente con la doppia distensione di questo tipo di rappresentazione. È infatti un’intelligente satira degli aspetti, capace non solo di carburare riflessioni e sentenze umoristiche a ripetizione ma anche di smuovere prese di posizioni emotive e psicologiche sul dato sociale: a volte dimostrandosi molto centrata e a volte invece affondando a vuoto, denotandosi quindi come un prodotto che al suo meglio si rivela un contenitore di ragionamenti interessanti e al suo peggio un catalogo di strisce comiche comunque facilmente assimilabili (data la brevità degli episodi e della stagione).

Al netto degli alti e bassi qualitativi comunque, gli otto episodi sono tutti consapevoli del potere rivelatorio di uno sguardo satirico posato su di una faccenda seria. Se, infatti, nei momenti peggiori il tentativo di rappresentare i difetti di una società (la nostra) assoggettata e/o instupidita dall'eccessiva fiducia nella tecnologia si risolve in idee solo potenzialmente molto interessanti, in quelli migliori la scrittura degli autori e l’attenta cura nel design degli ambienti si coordinano in armonia per congelare in costruzioni di senso compiuto intricate tracce e sotto tracce della contemporaneità: da una parte sottolineando, attraverso un uso allucinato e spesso folle della comicità, l’insensatezza di certi atteggiamenti umani e la problematicità di alcuni comportamenti diffusi nella civiltà digitale; dall’altra potenziando il messaggio mediante la progettazione di un contesto visivo famigliare, immersivo e quindi comprensibile a pieno anche nei suoi dettagli stranianti. 

Le vicende raccontate intorno alla Line, linea di demarcazione tra due società completamente diverse, sono quindi lo specchietto distorto perfetto per rappresentare un tableau delle distorsioni della rivoluzione antropologica protagonista nel ventunesimo secolo. Episodi come A Family, Go to College e Chonatan & Murlia & Barsley & Phephanie – perché Below è un gioiellino quasi a sé che riflette sui confini della meta narrazione - catturano in pochi brucianti minuti la realtà contorta e disturbante di uno schema sociale in cui le palestre sono diventate i nuovi centri di aggregazione sociale, i culti sono le nuove famiglie, l’anestesia della droga è la soluzione migliore alla sofferenza, la digitalizzazione ha disintegrato il contatto umano e la tristezza è stata bandita dalla legge della positività. Quindi la realtà del rizoma sociale occidentale: quello presente oltre la lente della finzione e oltre il distacco della narrazione fantascientifica, quello su cui la serie riflette senza dare giudizi ma firmando autopsie mascherate da freddure.

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Dylan O'Brien Ed O'Neill Michael Cera Rosario Dawson Mark Hamill Gillian Jacobs 1 stagione da 6 episodi
Usa 2019
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Pen15

di Irene De Togni
recensione serie tv pen15 hulu

All’interno di quella che è probabilmente la scena più variegata e prolifica della televisione attuale, il teen-drama, si sta pian piano sviluppando una piccola, ma non per questo meno degna di nota, appendice che si interessa agli ambienti della middle-school statunitense e alla fascia di età che corrisponde alla pubertà/pre-adolescenza. PEN15, la nuova serie Hulu creata da Maya Erskine, Anna Konkle e Sam Zvibleman, si pone a metà fra due prodotti che potrebbero definirsi apripista del genere e che hanno già ottenuto un relativo successo di pubblico e critica: uno cinematografico, Eighth Grade, presentato al Sundance Film Festival 2018 dallo statunitense Bo Burnham, che osserva con insistenza quasi sadica la vita di una ragazzina all’ultimo anno di middle-school, e uno televisivo, targato Netflix e creato da Nick Kroll, Big Mouth, una serie animata sul passaggio dall’infanzia all’adolescenza di un gruppo di ragazzini americani.

A metà fra l’onnipresenza quasi claustrofobica della protagonista nel primo film, e l’impostazione marcatamente corale del secondo, PEN15 racconta la storia di un binomio, quella delle due tredicenni Anna e Maya lungo tutto il corso della loro seventh grade. La narrazione si concentra, da una parte, sulle due protagoniste prese singolarmente, una statunitense ed una nippoamericana, vuoi ricontestualizzando in un ambiente più goffo ed acerbo alcuni dei topoi del teen-drama, come il perseguimento dell’esperienza romantico-sessuale, il ballo di fine anno o il bullismo; vuoi dando spazio a scorci di vita inediti o quasi in televisione come il risvegliarsi del desiderio sessuale femminile o le prime prese di coscienza delle violenze sistemiche subite. È soprattutto il personaggio di Maya, in questo senso, a portare sullo schermo il ritratto più inedito ed interessante, merito anche di una controparte, Anna, mai invasiva e sempre esattamente al posto giusto al momento giusto. Se c’è una cosa che PEN15 restituisce in pieno è, infatti, proprio l’idea della pubertà come di un momento fatto essenzialmente di scoperte, di introduzioni, di sproporzioni, di stupore, di passaggio.

Dall’altra parte, quella a cui assistiamo episodio dopo episodio è l’evoluzione di un rapporto fra due ragazzine, che va riconfigurandosi e raggiustandosi ad ogni mutamento fisico o emotivo delle due protagoniste. Così come le due amiche prese singolarmente, anche il loro legame viene presentato in tutta la sua ambiguità e portata comica, un’amicizia quasi ossessiva, soffocante ma anche così confortante e sincera.

La nuova serie Hulu si pone al contempo sia in continuità sia in discontinuità con i due prodotti citati anche da un altro punto di vista: come questi, si tratta di una cringe comedy che sfrutta il senso di inappartenenza e disagio legato alla fase preadolescenziale, ma lo fa adottando uno stile ibrido a metà fra il racconto iperrealista con attori in carne ed ossa (forte di una buona componente autobiografica delle due attrici protagoniste/autrici) e il caricaturale, se si considera il fatto che Maya Erskine e Anna Konkle sono due trentunenni che recitano le parti di due tredicenni in mezzo ad un intero cast di ragazzini. L’effetto comico ottenuto dal contrasto è evidente (e si avvicina a quello che si poteva trovare nella saga di Wet Hot American Summer) ed è anche ben sfruttato nelle diverse soluzioni narrative e registiche trovate nel far interagire le due protagoniste e gli altri attori, specie nelle situazioni che richiedono un contatto fisico più pronunciato come la scena del primo bacio di Anna con un compagno di scuola.

PEN15 è una serie molto intelligente che travolge lo spettatore in un continuo gioco di richiami e riflessi a partire dalla ricostruzione del 2000, presentato retrospettivamente come se fosse una pubertà della nostra era tecnologica con i primi computer e le playlist su CD. Scritta pensando a un pubblico ora adulto ma che ha attraversato proprio in quegli anni questa fase di trasformazione ormonale, imbarazzo e stupore che è la pubertà, la serie riesce a estrarre perfettamente l'anima comica del disagio tipico di questa parte della vita e al contempo, attraverso l'uso della comicità, trova la giusta distanza per riappropriarsi con una nuova sensibilità del discorso sulla pubertà.

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Maya Erskine Anna Konkle 1 stagione da 10 episodi
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