Serenity

di Emanuele Di Nicola
Serenity di Steven Knight

Il colpo di scena. Uno dei trucchi antichi del cinema, ereditato dalla letteratura, e la più diffusa scelta narrativa per ribaltare le certezze di chi guarda: scardinare una convinzione, mettere in dubbio, costringere alla rilettura a posteriori. Ovviamente, divertire: cambiare improvvisamente sapore perché, come diceva Hitchcock, «il cinema non è una fetta di vita, è una fetta di torta». Non c’è fine al colpo di scena nel cinema del postmoderno: registi ci hanno costruito una carriera o almeno l’innesco, come Shyamalan, autori sotto la copertura del cinema commerciale lo hanno frequentato, come David Fincher. Serenity di Steven Knight si inserisce nella tendenza e pone un problema di senso: la possibilità del colpo di scena oggi.
Siamo a Plymouth Island, non meglio specificata isola dei Caraibi: qui l’ex soldato Baker Dill (Matthew McConaughey) porta i turisti a pesca in mare aperto con la sua imbarcazione (Serenity, appunto) ed è ossessionato dalla sfida di catturare un tonno gigante, più volte preso all’amo e sempre sfuggito. Uno scontro che si rinnova, come Santiago e il marlin ne Il vecchio e il mare - e allo stesso modo il pesce trascina la barca -, fino a sconfinare nella fissazione: «That’s the tuna in your head», gli dice un amico. Il pretesto che accende la miccia è l’arrivo sull’isola di Karen (Anne Hathaway), ex moglie di Baker e madre di suo figlio, con una richiesta particolare: portare a largo il suo nuovo marito Frank (Jason Clarke), alcolizzato e violento, per poi ucciderlo e gettarlo nell’oceano.

Lo sceneggiatore Steven Knight torna alla regia cinematografica sei anni dopo Locke (in mezzo la serialità, soprattutto Taboo da lui interamente scritta) e mette subito in chiaro una cosa: non siamo sul terreno del realismo. In Serenity infatti, sin dall’inizio, la partita si gioca apertamente nel campo dell’immaginazione: lo attestano gli archetipi installati sui personaggi, come il riferimento a Hemingway, i luoghi comuni del contesto (l’isola, l’amico nero, l’amante) e alcuni particolari che denotano una sfacciataggine così esasperata da risultare quasi ammirevole, vedi il tonno gigante chiamato Justice (e dunque, di conseguenza, Baker sta cercando giustizia). L’autore non fa niente per nascondere il suo intento, anzi lo espone: la prova è nel montaggio alternato che presto mostra la vicenda di Baker intrecciata alle immagini di un bambino che, davanti al dramma della madre maltrattata, sceglie di uscire dalla realtà e scappare nella fantasia diventando un giovanissimo programmatore informatico. Vediamo il piccolo Patrick, figlio di Baker, che scrive in codice html: è lampante che ciò che stiamo guardando è un videogioco programmato dal ragazzo, che lo costruisce gradualmente, a questo si devono gli stereotipi che riempiono il racconto (d’altronde Plymouth Island non ricorda forse Monkey Island?). È lui il master che crea la storia e, naturalmente, nella sua testa di bambino i tratti narrativi sono semplici e non strutturati: siamo nel cervello di un giovane che forse ha letto un libro a scuola (Il vecchio e il mare), forse ha visto Audrey Hepburn in Tv (i vestiti della Hathaway, soprattutto il primo), sicuramente è nutrito dei loop e ripetizioni del pop odierno, così si spiega il déjà-vu di Baker che si ritrova sempre allo stesso incrocio. Ma c’è di più: sul primo colpo di scena Knight innesta perfino il secondo, ovvero (spoiler) il protagonista che è morto in Iraq fatto rivivere nel videogioco del figlio.

L’autore lavora in antitesi sull’iperrealismo tentato in Locke, con Tom Hardy solo a bordo della sua macchina, e cesella un mondo inventato come - tutto sommato - già in Taboo che immaginava una Londra dell’Ottocento secondo lui, tra sfondi anneriti e cappelli a cilindro. Qui lo fa corteggiando l’immaginario contemporaneo del mind game movie, che va dalle cosmogonie del Nolan di Interstellar agli easter eggs di Spielberg in Ready Player One, per arrivare all’episodio Bandersnatch di Black Mirror (già giocato e dimenticato), perché Patrick alla fine riscrive il gioco per evitare la “scelta sbagliata”. Tutto questo, però, è anestetizzato, superficiale, automatico e for dummies: dalle smorfie di McConaughey (che sia anch’esso uno stereotipo?) alle svolte improbabili e grottesche, il film si getta nelle braccia dei suoi twist con una fiducia cieca e folle, destinata inevitabilmente al fallimento.

Serenity è stato stroncato all’unanimità dalla critica americana, tranne rare eccezioni («The best bad movie of the year», lo definisce Kristin Iversen nell’articolo In Defense of Serenity). Ma, forse, non è tutta colpa di Steven Knight. Il punto è un altro. E riguarda proprio il colpo di scena: si può rifare oggi, è credibile e opportuno? Nell’ultimo anno del Novecento usciva nelle sale Il sesto senso di M. Night Shyamalan, una rivoluzione per l’epoca (Bruce Willis è morto!), fondativo di quel cinema ma anche datato, non citato tra le vette del magnifico regista: era un’epoca con le Torri gemelle e le monete uniche, prima del digitale e delle “guerre al terrore” (e dei protagonisti morti in Iraq), dove l’incredulità poteva ancora essere sospesa. Oggi anche McConaughey è morto, ma questo non stupisce più nessuno: tutto è già visto e fatto, al tempo dei social network e dei sovranismi, il colpo di scena non può sorprendere davvero. Vent’anni dopo Il sesto senso basta guardare fuori dallo schermo e non c’è una serenity possibile.

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Steven Knight Matthew McConaughey Anne Hathaway Jason Clarke 106 minuti
USA 2019
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Il traditore

di Matteo Berardini
Il traditore - recensione film Bellocchio

È un maxi-processo quello che si mette in scena: giornalisti e telecamere, flash, microfoni, grandi gabbie colme di corpi, avvocati e magistrati stretti nelle vesti ufficiali, tutto il cerimoniale e la formalità giuridica di un Stato che manifesta e afferma sé stesso attraverso l’esercizio della Legge. Ma qualcosa avviene che stona e sfugge ai codici che quella sede impone, tra le grida dei presenti e sotto gli occhi di decine di poliziotti due degli imputati iniziano a fare l’amore, la forza pubblica interviene mentre una donna urla di lasciarli finire. È il 1986 e Marco Bellocchio filma il suo Diavolo in corpo, intrecciando echi politici e pulsioni psichiche, erotismo e autodistruzione, e in uno dei momenti più belli del film due brigatisti cercano di scardinare con il sesso la loro gabbia istituzionale, mentre il processo si avvia a conclusione grazie alle testimonianze di un pentito. Intanto, fuori dallo schermo, un altro maxi-processo è in corso, non sono terroristi questi ma mafiosi, tra i più importanti e bestiali di Cosa nostra, chiamati a rispondere di fronte lo Stato grazie alla lunga testimonianza del primo pentito di mafia, Tommaso Buscetta, Il traditore. Di nuovo dentro lo schermo, più di venti anni dopo, Bellocchio torna nelle aule di tribunali, torna a corpi in gabbia e palchi istituzionali, ma la lotta politica cede il passo alla farsa, al grottesco susseguirsi di macchiette, esibizionismi, pantomime, derisorie commedie dell’arte, alla sbruffoneria di assassini belluini che pavoneggiano un’autorità indipendente e alternativa a quella statale. I mafiosi si spogliano, mutilano, cuciono la bocca e fingono crisi epilettiche, urlano e scimmiottano, declamano e sbeffeggiano, mentre l’altra faccia di Cosa nostra si percuote il petto e agita le braccia attraverso un coro di mogli piangenti e vestite a lutto. È un vero e proprio teatro, una contro-storia che sbeffeggia l’esercizio del Diritto e la superiorità ubiquitaria della Legge; il tribunale diventa una frontiera dove si combatte per affermare l’esistenza e la necessità dello Stato.

Assieme a Martone, Marco Bellocchio è il solo regista italiano che continua oggi ad affrontare la Storia d’Italia, e lo fa ancora una volta mescolando pubblico e privato, lasciando che l’uno si manifesti nell’altro e viceversa. È come se per il regista di Bobbio non fosse possibile raccontare la macro-Storia senza scoprire la mini-Storia, la traccia biografica di personalità che si intrecciano agli eventi plasmandoli, decretandoli, soccombendovi. Magistralmente Bellocchio riporta alla mente i momenti migliori del cinema civile italiano, l’inchiesta e l’indagine di Rosi, Petri, Lizzani, ma la resurrezione cronachistica non può contenere uno sguardo che sempre resta affamato di ciò che sta oltre la realtà evenemenziale e che vive nella mente e nelle notti dei suoi personaggi. Da qui l’emergere ribollente di sogni e visioni, un magma che come sprazzi di inconscio collettivo porta a galla tanto gli orrori del singolo quanto i bisogni della comunità (la passeggiata finale del Padre-Aldo Moro di Buongiorno, notte). Il traditore è sì la ricostruzione fedele di un momento storico della vita italiana – e per farsi un’idea di quanto lo sia basta vedere pochi minuti del reale confronto in aula tra Buscetta e Pippo Calò – ma anche e ancora una volta la trasfigurazione metafisica di un trauma collettivo, quel nodo metastatico che ancora affligge il paese ma che, con le parole di Giovanni Falcone, «è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine».
Ma la magia sorprendente di questo film – e l’elemento che forse più di altri ne ha decretato lo straordinario successo nelle sale – è il modo in cui per la prima volta Bellocchio mescoli il suo approccio onirico e intimo alla Storia con il genere, e in particolare il gangster movie, che non bisogna aver paura di chiamare in causa in un film così violento, adrenalinico e ritmato, capace di affiancare agli incubi di Buscetta, alle straordinarie composizioni “televisive” delle celle riprese dalle videocamere, o agli affondi grotteschi e così tipici di Bellocchio contro le eminenze grigie del Potere, sequenze clamorose come le minacce di morte in elicottero alla moglie di Buscetta, che sembrano uscire da altre galassie di cinema italiano, oggi sconosciute (sequenze che, bene ribadirlo, non sarebbero state altrettanto potenti senza l’interpretazione davvero gigantesca di Pierfrancesco Favino, corpo possente e voce impastata, meraviglioso pastiche di siciliano e portoghese che è talento puro).

Lontano dal realismo sporco di Garrone o dalla sinfonia pop di Sorrentino (Gomorra, Il Divo), Bellocchio tira fuori alla bellezza di ottant’anni il suo Padrino, ma come il grande uomo di cinema che è ne raffina la dimensione morale, lo scarto umano, costruendo un ritratto complesso e sfaccettato di un traditore capace di denunciare un mondo criminale e sentirsi fino all’ultimo lui il tradito, colui che è stato colpito alla schiena da un sistema dominato da belve in cui non è più in grado di riconoscersi. Il traditore non sposerà mai il punto di vista di Buscetta ma compie lo sforzo estremo di affondare nelle contraddizioni del reale, senza cercare soluzioni facili o consolatorie. È il ritratto di un assassino, di un pentito, di un mafioso, di un uomo che amava e ha perso i suoi figli, un criminale forse etico, certamente sfuggente, figliol prodigo riaccolto e forse anche sfruttato dallo Stato, certamente temuto e odiato dal Potere, attorno al quale Bellocchio costruisce un’epica criminale che si ritaglia, già ora e subito, un posto nella storia del nostro cinema.

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Marco Bellocchio Pierfrancesco Favino Maria Fernanda Cândido Fabrizio Ferracane Luigi Lo Cascio Fausto Russo Alesi 148 minuti
Italia 2019
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X-Men - Dark Phoenix

di Matteo Berardini
X-men dark-phoenix recensione film

In tempi di #MeToo e casi Weinstein, in cui la nostra industria culturale è chiamata a confrontarsi con nuove istanze e logiche di rappresentazione (dovendo finalmente rispondere a una complessità del reale non più accantonabile), la saga di Fenice Nera scritta da Chris Claremont nel 1980 rappresenta un materiale dal grande potenziale narrativo e simbolico, un’epopea supereroica incentrata sul potere femmineo e il suo timore da parte maschile, e soprattutto sul controllo cui siamo soggetti fino a che non acquisiamo la possibilità di scrivere la nostra narrazione. Resa orfana dalla débâcle di Bryan Singer (dignitosissimo padre cinematografico dei mutanti Marvel fino al pessimo Apocalisse), la saga degli X-Men torna dopo Conflitto finale a confrontarsi con quella prima, storica, run di Claremont, consapevole della forza del materiale e spinta dalla necessità di chiudere il proprio arco narrativo (sul cui futuro, ora che le proprietà intellettuali della Fox sono state acquistate dalla Disney, è impossibile pronunciarsi). Tuttavia X-Men - Dark Phoenix è se possibile ancora più confuso e inconcludente del precedente Apocalisse, un ibrido mal riuscito tra la spettacolarità della prima trilogia e le ambizioni autoriali dei primi due prequel (X-Men – L’inizio e Giorni di un futuro passato).

Affidato per la regia all’esordiente Simon Kinberg, da tempo impegnato con i mutanti in veste di produttore e sceneggiatore, Dark Phoenix cerca di adattare la sua storia di potere e rapporti tra i sessi alla sensibilità attuale, ma l’unica cosa che riesce a fare è lanciare frecciatine e paralleli casuali riguardo i temi del sessismo e del paternalismo, argomenti che il film cerca di problematizzare senza riuscirci, mai, neanche alla lontana. Della storia di Jean Grey, compagna e allieva fedele il cui potere viene prima limitato dall’esterno e poi, una volta liberato, giudicato eccessivo e incontrollabile, resta soltanto il debole tentativo di raccontare un personaggio vittima dei propri conflitti interiori, contraddizioni e traumi enunciati dalla storia ma mai resi snodi narrativi avvincenti, fondanti. Dark Phoenix arriva a fine corsa nella saga ventennale dei mutanti, e se nel frattempo sono cambiati modelli e linguaggi, equilibri produttivi e proprietà intellettuali, il film accusa il suo essere fuori tempo massimo con un senso di inconcludenza che ne affligge ogni aspetto. Dal cast, svogliato e tirato dentro per meri doveri contrattuali, alle fasi di scrittura e regia, afflitte da una totale carenza di idee, da un vuoto pneumatico in cui, fondamentalmente, non era rimasto più nulla da mostrare o da dire. Il risultato è un film totalmente inerte che manca di qualsiasi epica finale e non riesce a risollevarsi neanche sul piano spettacolare, non avendo basi su cui appoggiarsi o soluzioni visive forti per compensare. Un finale mesto e di certo ingiusto per la bellezza e lo spessore di questi personaggi, tra i più affascinanti dell’universo Marvel, che nel 2000 hanno aperto assieme allo Spider-Man di Raimi la strada del cinecomic ma che oggi riescono soltanto a farci ricordare quanto sia complesso raggiungere i livelli toccati dal Marvel Studios con la chiusura del suo grande ciclo.

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Simon Kinberg Sophie Turner Jessica Chastain James McAvoy Michael Fassbender Jennifer Lawrence Nicholas Hoult Tye Sheridan Evan Peters Kodi Smit-McPhee 114 minuti
USA 2019
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Nuovo Cinema di Pesaro - Presentazione della 55° edizione

di Matteo Berardini
Pesaro Film Festival

Tra passato, presente e futuro del cinema.

Così si presenta la 55° edizione della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, con una frase che può sembrare a effetto ma che invece è ancora una volta esemplificativa dell’identità profonda di una manifestazione multiforme certo, esplosa geograficamente e linguisticamente, ma che proprio nella sua eterogeneità conferma di saper conservare la propria coerenza e coesione. Come esplicitato dal direttore Pedro Armocida, il Pesaro Film Festival prosegue nella sua strada chiedendosi «dove è il (nuovo) cinema oggi?», quesito guida che non punta a generare risposte certe, finite (se così fosse che senso avrebbe continuare?) quanto piuttosto a innescare a catena altri dubbi, esplorazioni, scoperte. Tra le pieghe delle quali pulsa, sotterranea, la domanda: cosa è un festival oggi? A cosa può servire? Forse, a guidarci proprio lì, tra passato, presente e futuro.

In questo senso non delude affatto la presentazione dello sfaccettato programma di questa nuova edizione, che dimostra ancora una volta di saper essere divulgazione e ricerca, condivisione e sperimentazione, storia e scoperta. Questo binomio attraversa tutte le sezioni del Festival e si manifesta anzitutto nella variabilità dei supporti presenti – digitale, 35mm, 16mm, Super8 – attraverso i quali si porterà avanti un dialogo tra l’anima popolare del progetto e la sua tradizione cinefila, scientifica, avanguardistica. A riguardo colpisce un Concorso con opere prime e seconde che si apre, letteralmente, a tutto il mondo, ospitando al suo interno sguardi da paesi come Giappone, Cile, India, Singapore, Brasile, Spagna e Taiwan; i focus dedicati al cinema femminile di Russia e Spagna (integrati da un nuovo percorso di Lezioni di storia, questa volta incentrato sul cinema femminista degli anni Settanta); gli omaggi a due trasmissioni tv diverse e per certi versi complementari come Stracult e Fuori Orario, quest’ultima in particolare protagonista di un incontro collettivo e di una mini-selezione interna con titoli inediti che non sono riusciti ad arrivare sul programma e che saranno invece dirottati qui, nelle sale pesaresi. In parallelo la Mostra conferma spazi importanti come quelli dedicati al cinema-saggio, agli home movies, alle sperimentazioni sonore (sempre sorprendenti e intriganti le serate musicali offerte dalla sezione Il muro del suono) e soprattutto al cinema (neo)sperimentale italiano, quel prezioso percorso nel Fuorinorma intrapreso negli ultimi anni da Adriano Aprà e il cui punto di arrivo sarà la presentazione dell’omonimo libro a esso dedicato.

Tuttavia di doppia anima si parlava, di sguardo popolare e sperimentazione; per questo la consona pubblicazione Marsilio che sempre accompagna il Festival è dedicata al cinema di genere italiano, con un testo intitolato Ieri, oggi, e domani – Il cinema di genere in Italia, curato dal direttore Armocida assieme a Boris Sollazzo. La pubblicazione è la controparte cartacea dello spazio retrospettivo che la Mostra dedica quest’anno al genere italiano, western, poliziottesco e giallo che animano una raccolta di film presentati nel nuovo spazio del Cinema in spiaggia, pensato per moltiplicare le identità urbane della Mostra e raggiungere così nuovi tipi di pubblico.

Questi e altri sono gli aspetti che colpiscono e attirano dell’imminente edizione del Festival, una Mostra che negli ultimi anni ci appare esser stata in grado di rilanciarsi e affermarsi con un’identità forte, sfaccettata, intelligentemente tarata sul dialogo tra parti diverse. Il Nuovo Cinema di Pesaro è una manifestazione con una storia gloriosa e importante alle spalle, ma fortunatamente quella spinta a conoscere, mostrare, scoprire, sembra non essersi spenta, e anzi adattata alle esigenze e sfide del cinema di oggi.

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Game of Thrones - Finale di serie

di Eugenia Fattori
recensione serie tv game of thrones finale di stagione

Quando si parla di finali televisivi, ogni volta che i fan perdono la loro serie preferita sentiamo dire che è “la fine di un’era”. Difficile contare quante volte questa espressione sia stata spesa, un po’ a vuoto, per celebrare la conclusione di qualsiasi grande narrazione seriale: da I Soprano a Lost, da Mad Men a Breaking Bad. Sembra quasi che abbiamo bisogno (o meglio, che ne abbia bisogno lo spettatore medio) di credere che ogni finale di un show che ci piace segni un passaggio significativo nell’estetica e nella narrazione televisiva, per il solo motivo che è stata un’esperienza importante per noi, che siamo affezionati ai personaggi e alla storia. Nella realtà invece, spesso i finali di stagione delle serie “importanti” aggiungono pochissimo a ciò che la serie ha già detto precedentemente, spesso sono molto lontani dall’essere gli episodi migliori dello show e oscillano tra due opposti, faticando a trovare l’equilibrio: da una parte il desiderio di non scadere nell’ovvio, di stupire a ogni costo lo spettatore deludendo le sue aspettative; dall’altra la voglia di compiacere il fandom e/o di dare una compiutezza alla vicenda raccontata, sia narrativamente che iconicamente.

Tra questi due estremi si nasconde sicuramente la ricetta del finale di serie perfetto, ma pochissimi riescono ad azzeccarla e creare un episodio che non sia passibile di essere criticato, frainteso, spesso con poche sfumature amato o odiato da chi segue la serie. Persino l’equilibrato e coerente finale di Breaking Bad è stato considerato inferiore al terzultimo episodio (Ozymandias); anche la chiusura sorprendente de I Soprano è stata presa di mira dai fan perché diversa da quello che avrebbero desiderato, mentre Damon Lindelof si dovette addirittura scusare con una lettera per l’ultimo episodio di Lost, che scatenò reazioni di odio inconsuete per l’epoca (ancora “antica” in termini di abitudini social) ma che oggi, in tempi di iper-condivisione delle opinioni, risultano perfettamente normali, se non addirittura prevedibili. Per questo motivo David Benioff e D.B. Weiss, gli autori di Game of Thrones, non soltanto non stanno chiedendo scusa per il finale delle serie ma hanno preparato anche una difesa anticipata per tutte le loro scelte, attraverso il commentary che seguiva ogni episodio di quest’ultima stagione. Ogni decisione veniva spiegata, sviscerata e approfondita dal loro punto di vista, con il probabile intento di togliere ai fan ogni dubbio, rendendo però gli autori, specie dal punto di vista dei critici, arroganti e insultanti nel voler giustificare e imporre un unico modello di lettura della loro opera, trasformando un punto di vista in un canone assoluto, quasi come se volessero sostituirsi al lavoro critico mettendo le mani avanti su ogni possibile “fraintendimento” delle proprie intenzioni.

Difficile immaginare una excusatio non petita più fastidiosa e un atto di entitlment nei confronti della critica più invasivo di quanto fatto da questi due autori che, concluso il proprio lavoro, invece di accettarne il percorso naturale di giudizio e lasciarlo “libero” di essere letto dagli esperti di televisione, cerca di imporre la propria, decisamente tutto meno che oggettiva, interpretazione dell’opera mettendo le intenzioni di realizzazione davanti alla percezione esterna del risultato finale.
Perché tra intenzioni e risultato, come sappiamo, spesso c’è una distanza enorme, e l’ottava stagione di Game of Thrones (a dire il vero, insieme alle due precedenti) potrebbe essere presa ad esempio della peggiore strategia di adattamento possibile di una trama che su carta era interessante e complessa. Abbandonata giocoforza la narrazione scritta da George R. R. Martin, ma essendo obbligati – almeno stando a quanto dichiarato – a seguirne il percorso tracciato in termini di sviluppo del plot, Benioff e Weiss hanno dimostrato una caratura professionale decisamente inferiore al materiale che dovevano adattare. Superato l'impegno di trasposizione del linguaggio scritto in linguaggio audiovisivo, compito che erano riusciti a svolgere con efficacia e professionalità, i due showrunner si sono trovati di fronte al compito (superiore alle loro capacità autoriali e obiettivamente non facile) di portare a compimento idee uscite dalla mente di qualcun altro, nella fattispecie qualcuno con più talento di loro. Pur avendo in mano la conclusione della vicenda, in cui le principali svolte narrative erano già state stabilite, hanno deciso di arrivarci con un percorso figlio degli stereotipi televisivi più antiquati, proprio quelli che Martin – scrittore che ricordiamolo, ha un lungo passato televisivo alle spalle – aveva cercato di scardinare nei suoi libri scrivendo una storia per sua stessa dichiarazione «anti-televisiva».

Le svolte narrative inaspettate, come la morte di personaggi fondamentali, il senso di ineluttabilità del destino, il peso circolare di una storia che ripete sé stessa, e la feroce critica al potere e al sistema patriarcale presenti nei romanzi di Martin, si sono così svuotati di senso, trasformandosi in cliffhanger fini a sé stessi, personaggi non dominati dal destino ma dalle necessità della trama, moralismo politico spicciolo e trattamento dei personaggi femminili e maschili aderente ai peggiori stereotipi della narrazione sessista.
La follia genetica dei Targaryen ad esempio, che nei romanzi e nelle prima stagioni è caricata di significati e simbolismi legati alla dittatura e agli errori del passato che ricadono sul presente – pensiamo alla potenza iconica dei draghi che man mano che la dinastia decade, diventano sempre più piccoli e deboli – è stata trasformata, in due soli episodi, in uno stanco trope che abbiamo visto ripetersi sullo schermo mille volte: Daenerys, la donna di potere in un mondo maschile, paga la sua ambizione impazzendo per la mancanza di amore e consenso intorno a sé, verrà punita, al contrario di Sansa che invece, pur essendo diventata ambiziosa e smaliziata, gioca secondo le regole degli uomini stando al suo posto – posto che peraltro deve agli uomini intorno a sé e che ringrazia, perfino quando viene stuprata, per averle insegnato a “essere più forte”, ovvero aver capito qual è il suo posto e che l’unico modo di ottenere ciò che si vuole è abbracciare il concetto di potere del mondo maschile.

Questi sono soltanto esempi, naturalmente, di come l’utilizzo di stereotipi familiari agli spettatori, che consentono di sveltire una storia lunghissima e risparmiarsi un lungo lavoro di sviluppo narrativo dei personaggi, abbia finito per portare la storia molto lontano da dove sarebbe potuta andare, soprattutto in termini di rappresentazione del mondo, perché la pigrizia delle scelte di adattamento si riverbera fin sul significato più profondo del racconto, che nelle intenzioni di Martin era appunto un attacco alla società del presente, e non una sua riproduzione pedissequa, priva di elaborazione critica degli stessi linguaggi che perpetuano.

Quando si racconta una storia dalle intenzioni rivoluzionarie, che si pone in posizione critica al funzionamento stesso del mondo, per tradurla coerentemente e raggiungere l’obiettivo di scuotere lo spettatore è necessario ragionare sulle modalità della messa in scena: oggi, nell’affollato mondo della peak tv, non bastano infatti l’enorme investimento economico e la spettacolare resa visiva per trasformare una serie in una pietra miliare. Rispetto a otto anni fa, infatti, oggi sono molti di più gli show che investono su una resa estetica televisiva degna del cinema che stupisca l’audience e arrivi a stabilire un canone stilistico per il genere del prestige drama.
Per stagliarsi all’interno di questo panorama è necessario ormai lo stesso impegno per portare anche la narrazione ad un livello superiore, perché la pigrizia narrativa, fatta di trope e cliché televisivi stantii anziché di una scrittura che cerchi di innovarli, finisce per distanziare lo stesso spettatore dal coinvolgimento nella visione, rompendo la magia dell’immedesimazione. Inutile attaccarsi alla “sindrome del critico della domenica” o rivendicare le proprie intenzioni a posteriori, quindi, perché se audience e fandom si concentrano su buchi narrativi e cattiva gestione dell’evoluzione dei personaggi il problema non sta negli occhi di chi guarda. Lo spettatore non è infallibile ed è vittima di bias come gli autori stessi, ma nel momento in cui si rivela più interessato a smontare il prodotto finale per guardare dentro gli ingranaggi che a immergersi nel racconto, è sicuro che qualcosa, da qualche parte, si è perso.

Resta, di Game of Thrones, l’innegabile eredità di un’esperienza collettiva di visione difficilmente replicabile in tempi di binge watching e frammentazione del target, resterà anche il ricordo di un fenomeno pop che ha trasceso le nazionalità, i gusti e le generazioni e soprattutto, lo show lascerà il segno come il primo grande esperimento riuscito di fantasy portato in televisione, sia pure fuori dai canoni del genere. In questo senso davvero si può parlare del finale di Game of Thrones come della fine di un’epoca, resta solo da stabilire se (almeno per quel che riguarda le ultime tre stagioni) quest’epoca sia da rimpiangere, o da archiviare senza tanti sentimentalismi.

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The Wandering Earth

di Alessandro Gaudiano
The Wandering Earth recensione film Gwo

Settecento milioni di dollari al botteghino cinese, cinque milioni di incasso per la sola release limitata negli Stati Uniti. Numeri impressionanti che danno un'idea del successo per un progetto come The Wandering Earth, opera terza del giovane regista cinese Frant Gwo (Guo Fan) recentemente inclusa nel catalogo Netflix.

Per chiarire il contesto, forniamo qualche dato aggiuntivo: The Wandering Earth è il secondo maggior incasso di sempre per il box office della Repubblica Popolare, secondo solo a Wolf Warrior II e superiore al pur impressionante successo di Avengers: Endgame. Il film è costato circa cinquanta milioni di dollari: non una cifra incredibilmente alta per il mercato cinese (Monster Hunt 2 è costato quasi il triplo, mentre I Fiori della Guerra di Zhang Yimou è costato quasi cento milioni di dollari), ma si tratta comunque di una cifra inedita per il cinema di fantascienza. Probabilmente, un tale investimento non sarebbe stato possibile senza un nome come quello di Liu Cixin, scrittore di fantascienza e autore di best seller indiscutibili che alimentano il crescente appetito del pubblico cinese per la letteratura di genere. La trama di The Wandering Earth è tratta dall’omonimo libro dell’autore, ma è stata pesantemente riscritta e declinata in chiave epica e action.

In un futuro non troppo lontano, la Terra è sull’orlo della distruzione: il Sole ha raggiunto la sua fase di espansione finale ed è previsto che, nell’arco di pochi decenni, inghiottirà il pianeta e buona parte del sistema solare. Per salvarsi da distruzione certa, i governi della Terra varano un piano di proporzioni ciclopiche che prevede di spostare il pianeta sull’orbita della stella compatibile più vicina, a oltre quattro anni luce di distanza. Vengono costruiti migliaia di giganteschi propulsori per spingere il pianeta al di fuori della sua orbita; gli abitanti della Terra si trasferiscono sottoterra per sopravvivere alle condizioni insostenibili della superficie.

L’ambientazione di The Wandering Earth è affascinante, al netto delle sue premesse poco verosimili. Orizzonti ghiacciati e terremoti, tempeste e immense rovine torreggiano sulla Terra, mentre le sue viscere sono un intrico di corridoi e architetture a metà tra lo steampunk e il brutalismo sovietico. Luoghi affascinanti e condizioni ideali per dispiegare le cospicue risorse degli effetti digitali, la cui efficacia è innegabile. La qualità è discontinua e varia dal solido al mediocre ma, nel complesso, l’effetto-attrazione di questo grande carosello scifi funziona e costituisce, di gran lunga, l’aspetto più convincente del kolossal di Frant Gwo.
Puntualmente, il piano per salvare la Terra fallisce e spetta ad un manipolo di uomini, tra cui l’astronauta Liu Peiqiang (interpretato dalla star Wu Jing, già protagonista di Wolf Warrior) e la sua famiglia, salvare il pianeta mettendo in atto un piano disperato.

The Wandering Earth, a tratti, lascia a bocca aperta: alcuni scorci di questo futuro sono di una bellezza struggente e sanno evocare il senso del sublime, anche grazie a una regia tutt’altro che piga. Purtroppo, tutto ciò non è supportato da una scrittura altrettanto convincente. Risulta chiaro l’intento di ispirarsi ad alcune opere hollywoodiane fondamentali in questo senso, a partire da Armageddon, ma la formula non viene svolta fino in fondo: gli autori preferiscono un ibrido citazionista che ingloba il grosso della fantascienza cinematografica in un arco che va da 2001: Odissea nello Spazio a Gravity. Il risultato è una narrazione incerta, ipertrofica, tesa a soddisfare tutti e omaggiare tutto: IA ribelli, disastri naturali, inserti da commedia, corse disperate e sequenze di guida tra i ghiacci si susseguono come in un interminabile trailer con lo scopo di dimostrare le capacità dei creatori del film.

A farne le spese è il ritmo nel suo complesso, arenato da un accumulo insostenibile di colpi di scena e climax. Soprattutto, a essere penalizzati sono i personaggi. Una scelta potenzialmente buona per questo tipo di storia, come quella di evitare il singolo protagonista-eroe a favore di un cast corale, è svolta in modo grossolano e ha come risultato quello di sottolineare ulteriorimente i limiti del film. Gli archetipi sono i soliti, dal padre con i sensi di colpa al figlio ribelle e arrabbiato, fino al soldato integerrimo che crede nel sacrificio a ogni costo. Purtroppo, nessuno di loro risulta ispirato o interessante. Ad esempio, uno dei personaggi, totalmente inconcludente, esiste con l’unico ruolo di fare da spalla comica, ma non riesce ad alleggerire i toni di un film apocalittico e risuona come una perenne nota stonata. Anche il personaggio di Han Duoduo convince poco: la figlia adottiva dell’astronauta sembra avere l’unico scopo di dare al fratello qualcuno da proteggere e, a livello produttivo, giustificare l’inclusione di un volto femminile in un contesto altrimenti dominato dagli uomini (en passant, è impossibile non notare che The Wandering Earth è praticamente privo di quella che Mao Zedong definiva come l’altra metà del cielo).

Nel complesso, The Wandering Earth è una giostra apocalittica che sa essere, a tratti, godibile, ma che non riesce a trovare una propria identità e sconta una serie di difetti da attribuire a uno scarso coraggio a livello di scrittura. Considerato che si tratta del primo vero kolossal di fantascienza prodotto dal cinema cinese, alcuni di questi problemi sono da considerare fisiologici. Ci auguriamo, come fa lo stesso Liu Cixin nel corso di un’intervista rilasciata di recente alla televisione cinese, che i produttori locali continuino ad investire nel cinema di genere e che siano disposti, in futuro, a rischiare di più. A farci perdere l'equilibrio mentre i nostri piccoli corpi sono in balia delle forze del cosmo.

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Frant Gwo Wu Jing Qu Chuxiao Zhao Jinmai 125 minuti
Cina, 2019
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They Shall Not Grow Old - Per sempre giovani

di Samuel Antichi
The Shall Not Grow Old - recensione film peter jackson

Nell’anno in cui ricorre il centenario della fine della Grande Guerra (1918), in collaborazione con l’Imperial War Museum e la BBC, Peter Jackson decide di descrivere il conflitto utilizzando esclusivamente materiale di repertorio. Per realizzare They Shall Not Grow Old - Per sempre giovani il regista parte da 600 ore di interviste e da 100 ore complessive di filmati d’archivio (di cui la maggior parte proveniente proprio dall’Imperial War Museum) al fine di raccontare l’esperienza di guerra, in particolar modo tra le fila dell’esercito britannico impegnato sul fronte occidentale. Le testimonianze dei reduci vengono pronunciate da una voice over che restituisce una dimensione corporale all’immagine d’archivio, formando il racconto storico. Ancora inconsapevoli di quello che sarebbe accaduto, ignari dello scenario politico e della natura del conflitto, i soldati raccontano di come si fossero arruolati nell’esercito anche senza una vera e propria motivazione o credo politico. Ragazzini di quattordici e quindici anni decidono di mentire sulla propria età per poter prendere parte a quella che per loro sembrava essere solo una stimolante avventura.

Ai volti sorridenti e contenti, agli scatti di gruppo, agli allenamenti e alle esercitazioni dell’inizio sopraggiunge la catastrofe, la distruzione. L’esercito passa attraverso alcuni villaggi completamenti rasi al suolo dal fuoco del conflitto. I morti e le macerie segnano il paesaggio. Nella prima parte del film i materiali di repertorio in bianco e nero incarnano un valore storico e antropologico, mostrano le modalità secondo cui la storia veniva filmata e rappresentata. Dopo circa mezzora l’immagine d’archivio, oltre a essere riconfigurata e ripresentata nel tempo presente, cambia radicalmente status attraverso l’utilizzo del colore, della computer grafica e del 3D. Dal momento della sua realizzazione a quello della sua ricollezione, il filmato d’archivio conquista un enorme potere spettacolare oltre che informativo e illustrativo. Jackson sembra voler svelare la natura spettacolare che contraddistingue l’esperienza di guerra. Il colore restituisce integra la sanguinosa vividezza del conflitto, i dettagli dei corpi caduti al suolo e del gas che infesta il campo di battaglia.

Effetti sonori oltre che visivi tendono ad arricchire i filmati di repertorio che mostrano soldati al riparo nelle trincee, intenti nelle operazioni di pattugliamento o nell’attacco per mezzo dei mortai. Dal momento che la macchina da presa non può ancora, agli inizi del Novecento, arrivare in prima linea per documentare e illustrare il conflitto a fuoco, è il rumore di esplosioni e raffiche di mitra inserito in post-produzione a calare lo spettatore nella dimensione aptica e multi-sensoriale dello scontro.

Nonostante il regista decida di eliminare la maggior parte di riferimenti a luoghi e a date, dando vita ad un racconto collettivo e non a una serie di testimonianze e storie individuali, Jackson nell’operazione di re-inquadramento del filmato d’archivio si concentra su specifici volti, primi piani che emergono a ripetizione dagli scatti di gruppo. In questo modo, nonostante non venga seguita una linea narrativa univoca, viene restituita l’esperienza umana del trauma della guerra. Il ri-uso del materiale d’archivio come linguaggio cinematografico, approccio critico definito da Catherine Russell archiveology, riflette sulla riconfigurazione e ripresentazione dell’immagine per produrre nuova conoscenza storica. In They Shall Not Grow Old la pratica del riciclo e del ri-utilizzo dell’immagine d’archivio non rimane esclusivamente strumento per una lettura meta-storica del passato. Il materiale di repertorio diventa elemento da rimodulare, riconfigurare e ri-attivare nel presente per formare un racconto storico che rispecchia determinati canoni estetici e stilistici del cinema contemporaneo.

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Peter Jackson 99 minuti
USA 2018
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Zombi Child

di Riccardo Bellini
zombi child - recensione film bonello

A Bertrand Bonello bastano poche inquadrature a macchina fissa per fondere, nei primi minuti di Zombi Child, dimensione magica e sguardo antropologico. L’ottavo lungometraggio del regista, presentato a Cannes nella Quinzaine des Réalisateurs, inizia nel tenebroso plenilunio di una notte haitiana, sui versi del poeta francese nato ad Haiti René Depestre:

«Écoutez monde blanc / Les salves de nos morts / Écoutez ma voix de zombi / En l’honneur de nos morts»

Seguono le immagini della preparazione di una polvere a base di tetrodotossina - veleno contenuto nel pesce Tetraodon (o pesce palla) - in grado di far piombare in uno stato catalettico simile alla morte il malcapitato. È il 1962, anno in cui Clairvius Narcisse, il cui caso venne studiato dall’antropologo Wade Davis nel celebre Il serpente e l’arcobaleno - già alla base dell’omonimo film di Wes Craven -, cade vittima di un rito di zombificazione. Bonello immagina che l’uomo, dato per morto, sepolto e poi riesumato in segreto, venga costretto in stato di trance a lavorare in una piantagione di canne da zucchero assieme ad altri sventurati. Si passa poi alla Parigi del 2017, dove tra le allieve della prestigiosa La maisons d’éducation of the Legion of Honor, c’è anche Mélissa, misteriosa nipote di Narcisse. La ragazza suscita ben presto le attenzioni di alcune compagne.

Zombi Child rivolge lo sguardo alla cultura vudù restituendola alla sua tradizione haitiana, a quel sistema di credenze profondamente radicato in ogni aspetto della vita locale, compreso quello politico. Basti pensare all’importanza che il vudù ha avuto nella retorica oscurantista di François Duvalier che proprio nei primi anni Sessanta instaurò il suo violento regime, e all’attuale esistenza di società segrete che praticano la zombificazione, nate a seguito della ribellione degli schiavi afroamericani nel XVIII secolo e descritte recentemente anche dal patologo Philippe Charlier. Ma il vero vudù è anche e soprattutto una religione ufficialmente riconosciuta e praticata da intere comunità con scopi tutt’altro che maligni, solo in parte legata alla magia nera.

Attingendo a questo panorama Bonello trasforma la figura dello zombi da minaccia verso l’ordine costituito (il grande terrore dell’immaginario hollywoodiano) a vittima di un regime repressivo. Si passa così dalla paura occidentale per il disfacimento del sistema alla paura suscitata dal sistema stesso. Il corpo zombificato, osservato con umana pietas, diventa corpo storico attraverso cui rivivono i fantasmi dell’orrore schiavista, così come nel precedente Nocturama - che con Zombi Child compone un dittico ideale - i corpi ridotti a manichini dei giovani attentatori diventano immagine agghiacciante della deriva capitalistica. Non è un caso del resto che tra le fonti ispiratrici di Nocturama Bonello citi proprio Zombi di George A. Romero. Ma se la rigorosa bipartizione narrativa e stilistica del film precedente avviene in continuità, in Zombi Child questa divisione è affidata al contrario alla ricorrente alternanza dialettica dei due piani temporali (Haiti 1962, Parigi 2017) che, allacciando tra di essi relazioni sotterranee e intermittenti («La storia è un flusso discontinuo di eventi» insegna, nel film, lo storico Patrick Boucheron alle allieve del collegio parigino), istituisce una rete di relazioni che proiettano la riflessione sul colonialismo ben al di là della mera storia haitiana.  

In modo intelligente e lampante, Bonello conduce tale riflessione proprio attraverso il lavoro sul sottogenere-cinematografico (appunto lo zombie-movie), come terreno di indagine di uno scontro sociale, politico ed economico che si fa lotta dell’immaginario. Come l’Occidente ha vampirizzato la figura dello zombi, colonizzandola a proprio uso e consumo fino a snaturarne l’identità originale, così il regista racchiude il retaggio della tradizione vudù, veicolata dal personaggio di Mélissa, all’interno di uno spazio asettico e restrittivo, il collegio parigino voluto da Napoleone, in cui si condensano le contraddizioni di un’Europa divisa tra valori democratici e la sua eredità imperialista. Spazio-ventre in cui domina un bianco abbacinante, in contrasto con le tinte fosche e il decadente lirismo del primo livello narrativo. Ma qui Bonello, regista di forze oppositive e radicali ribaltamenti, attua la sua inversione. Non è Mélissa a lasciarsi fagocitare, ma sarà al contrario l’amica Fanny a rischiare di smarrire sé stessa quando, spinta da una concezione superficiale e distorta della religione vudù, si sottoporrà a un rituale per lenire le pene d’amore, finendo accidentalmente posseduta dalla terribile divinità Baron Samedi, in un finale di inquietante potenza visionaria. Se dunque l’immaginario occidentale agita dapprima l’inconscio di Mélissa - che in una scena onirica si immagina nelle vesti di un famelico zombie mangia uomini -, è infine lo stesso Occidente a collassare metaforicamente su sé stesso, schiacciato dall’arroganza di poter addomesticare culture a sé estranee.   

Horror d’autore tra i più intelligenti nel rileggere il tema zombie, tra istanze storiche e riflessione universale, Zombi Child è anche un’esperienza cinematografica di magnetica fascinazione. Nonostante il budget modesto, Bonello non rinuncia al suo cinema estetizzante, prezioso e suggestivo in ogni sua inquadratura, qui più che mai immaginifico, capace di evocare luci e ombre del folklore magico haitiano, aleggiando sul filo di una perturbante inquietudine. L’ennesima conferma della vitalità e dell’importanza di questo autore.

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Bertrand Bonello Louise Labeque Wislanda Louimat Katiana Milfort 103 minuti
Francia
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Lake Bodom

di Gian Giacomo Petrone
Lake bodom - recensione film mustonen

Durante le prime ore della notte del 5 giugno 1960 (domenica di Pentecoste, per chi voglia scorgere esoteriche simbologie), sulle rive del lago Bodom nel sud della Finlandia, ebbe luogo uno dei fatti di cronaca nera più noti e controversi che la “terra dei mille laghi” ricordi. Un gruppo di quattro giovanissimi campeggiatori (due ragazze quindicenni, due maschi diciottenni) venne aggredito da un assassino che non fu mai scoperto, dando così adito a molteplici congetture e filoni di indagine: le due ragazze e uno dei due ragazzi furono pugnalati e percossi a morte, mentre l’altro sopravvisse, per poi venire accusato, ben 44 anni dopo l’evento, di essere l’omicida, anche se l’ulteriore e tardiva indagine non condusse a svelare alcuna definitiva verità.

L’alone di mistero che tuttora aleggia sull’avvenimento funge da innesco di Lake Bodom, terzo lungometraggio del finlandese Taneli Mustonen e sua prima incursione nei territori dell’horror. Il regista, ideatore anche della sceneggiatura assieme al sodale Aleksi Hyvärinen, sceglie di riallacciarsi alla vicenda realmente accaduta creandone un’immagine speculare, eppure distorta e deforme, tramite l'istituzione di un dialogo (intermittente, e proprio per questo fecondo per la narrazione) fra presente e passato, non tanto per riattualizzare quest'ultimo, quanto per restituirne gli aspetti problematici e irrisolti.

Finlandia, giorni nostri: due ragazze, Ida (Nelly Hirst-Gee) e Nora (Mimosa Willamo), e due ragazzi, Atte (Santeri Helinheimo Mäntylä) ed Elias (Mikael Gabriel), tutti provenienti dal medesimo istituto scolastico, si apprestano a trascorrere una nottata di tarda primavera presso le rive del lago Bodom. Solo Atte si dichiara interessato a ricreare/simulare la macabra mattanza del Bodom, improvvisandosi come indagatore fuori tempo (e fuori luogo, verrebbe da aggiungere), mentre gli altri tre giovani paiono più propensi alle schermaglie tipiche della tarda adolescenza, scandite da ineludibili richiami ormonali, gelosie reciproche, desideri di fuga dalla propria condizione di semi-adulti con scarso potere decisionale. Intanto, nella boscaglia circostante pare aggirarsi una presenza furtiva.

Le premesse per uno slasher di routine sembrano esserci tutte, eppure, ogni volta che il racconto dà l’idea di avere imboccato un sentiero noto o aver preso una piega prevedibile, ecco il twist che non solo spiazza, ma che è in grado anche di mutare radicalmente l’orizzonte complessivo del senso. La protasi da slasher potenziale inizia infatti a cedere, all’imbocco della seconda parte del film, sotto i colpi incalzanti di un giallo ribaltato (i cui archetipi sono da individuarsi in Nodo alla gola o in Frenesia del delitto), in cui sono noti gli assassini e la sorpresa del whodunit lascia spazio alla suspense dell’esecuzione del piano criminoso, del “delitto perfetto”, in quanto senza movente, pertanto architettato come somma dimostrazione di potere e di controllo sul reale. Anche questo schema viene però a sfumare, facendo emergere un’istanza emotiva, la brama di vendetta, anch’essa tuttavia incastonata all’interno di un progetto affatto diverso, vivificato dalla gelosia e reso operativo tramite la menzogna: evidente cortocircuito fra spinte istintuali e diabolica pianificazione. Un ulteriore e conclusivo ribaltamento ricondurrà infine, circolarmente, il tracciato narrativo a riallacciarsi alle avvisaglie slasher dell’inizio, in apparenza ormai relegate fuori dal quadro: entra infatti in scena un misterioso killer solitario proveniente dalla selva e, forse, dal passato.

Mustonen colloca al centro della propria composita matrioska narrativa le due figure femminili, dapprima apparentemente passive nei confronti della – quanto mai timida peraltro – controparte maschile, per poi divenirne inaspettatamente carnefici: annichilimento, anche simbolico, del maschile tout court. La passione che lega Ida e Nora, potente, soverchiante, distruttiva, e nondimeno mai del tutto simmetrica (Nora ama Ida e ne dirige gesti, comportamenti e reazioni; Ida non la ricambia e malgrado ciò ne è succuba, date le proprie insicurezze e fragilità, anche relative alla propria identità sessuale), è il vero motore di ogni inganno e mortale aggressione ai danni dei malcapitati Atte ed Elias. La comparsa del killer silvestre, tuttavia, spariglia ulteriormente le carte e dissemina ulteriore inquietudine, specie in relazione alla vicenda storica che lega la finzione filmica alla realtà.

Mustonen non si ferma neppure di fronte allo sviluppo di una trama complessa e alla psicologia sfaccettata e instabile dei personaggi, ma è in grado di regalare anche un secondo livello di significazione al suo film, a partire dal pretesto narrativo che muove gli eventi. Nora, sospettando un’attrazione di Ida nei confronti di Elias, decide di diffondere la voce che il ragazzo abbia fotografato Ida, a insaputa di quest’ultima, in pose sconvenienti. In realtà le foto non sono mai state scattate, eppure tutti, nella città, a scuola e soprattutto nella famiglia tradizionalista e bigotta di Ida, credono nella loro esistenza, pur non avendole mai viste. La ragazza diviene quindi lo zimbello della comunità. Questo secondo livello di significazione, che sconfina tutt’altro che in subordine in una dimensione meta-testuale e teorica, oltre a non appesantire la vicenda, la carica di ulteriore tensione e ambiguità, arrivando sostanzialmente a rilevare come la società dell’immagine sia talmente soverchiata dal visivo, e in sua balia, da credere in esso anche qualora esso non esista. Parola, immagine e credenza in esse ai limiti dell’idolatria arrivano quindi a costituire una sorta di beffarda allegoria del presente, tanto più se questo è legato a un passato (le sanguinose vicende del lago Bodom) arduo da decifrare e altrettanto colmo di false piste e verità sepolte.

In ultima istanza, il cinema, dal canto suo, non può far altro che continuare a giocare, come sempre ha fatto, con l’ambiguità del reale e col raddoppiamento di tale ambiguità in quel secondo mondo che è quello iconico. Peraltro, si tratta di un gioco che Mustonen dimostra di conoscere bene, mettendogli a disposizione ogni elemento possibile della messa in scena: il dosaggio sapiente dei ritmi del narrato e delle sue imprevedibili svolte; l’efficace valorizzazione dell’ambientazione selvaggia con le sue zone d’ombra e i suoi misteri latenti, ottenuta lavorando con abilità sull’illuminazione del set, tramite l’utilizzo frequente, nelle molte sequenze notturne (da applausi quella subacquea), della luce in funzione antinaturalistica ed espressiva; e infine i due ritratti femminili, sfaccettati e inafferrabili, col notevole contributo, in questo caso, delle due magnifiche interpreti. Là dove l’ipertrofica produzione anglofona spesso arranca e ripete se stessa, ecco un ammirevole esempio di horror nordeuropeo che, senza creare il nuovo tout court, rielabora con sagacia l’esistente portandolo a nuova vita.

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Taneli Mustonen 85 minuti
Estonia, Finlandia, Nuova Zelanda 2016
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Rocketman

di Matteo Marescalco
Rocketman-recensione film Dexter Fletcher

Pochi mesi fa usciva al cinema Bohemian Rhapsody, un film talmente ossessionato dalla riproduzione millimetrica della forma del reale da risultare addomesticato e, a tratti, persino anestetizzato. Su questo versante, Dexter Fletcher, regista di Rocketman e mano invisibile dietro Bohemian Rhapsody, sembra aver cercato una cesura netta nei confronti del film precedente. Tanto il biopic sui Queen effettuava un'operazione di mimetismo del reale (per evidente mancanza di carattere), utilizzando le canzoni del gruppo in modo decisamente posticcio, quanto il film su Elton John crea astrazioni visive sfruttando i motivi dell'artista per dar vita a coreografie fantasmagoriche che innestano la musica nel tessuto narrativo di Rocketman.

Come la lunga tradizione del musical ci ha insegnato, ogni canzone nel film di Fletcher porta avanti il racconto e si inserisce come uno strumento in grado di creare compattezza narrativa da un lato e puro artificio estetico dall'altro. È in tal senso che Rocketman decolla come un razzo e si lascia andare al camp e al kitsch più sfrenati. Lustrini, maschere, piume e occhiali a cuore fanno da corollario ad ogni sequenza, che esagera in fatto di superfici pop e sonore da ri-creare. L'enfasi anti-naturalistica è la traiettoria scelta da Fletcher, che si prende svariati rischi seguendo il binomio di magia e sogno del numero musicale e fa tutto ciò ancorando l'estroso all'archetipo.

Tutto, infatti, è ampiamente prevedibile in Rocketman. Non perché, in fin dei conti, si tratti di un biopic seppur poco convenzionale ma perché i numerosi flirt con il fantastico e l'immaginifico sono sviluppati a partire da una serie di tappe ben definite nella vita di Elton John: l'adolescenza da enfant prodige, il rapporto complesso con due figure genitoriali anaffettive, la scoperta del talento, l'incontro col migliore amico-paroliere dei suoi brani, l'ascesa inarrestabile e, come da copione, il tonfo clamoroso. Infine, la consapevolezza di sé e la nuova ascesa. Nulla in questi pilastri della tradizione classica del racconto impedisce al film di sprigionare tutta la sua verve. Anzi, è proprio attorno a essi che regista, sceneggiatori e coreografi costruiscono i numeri più “leggeri” del film, in grado di portare in aria lo spettatore e di farlo fluttuare nell'atmosfera.

Già la sequenza iniziale di Rocketman è un manifesto programmatico di quanto vedremo nel corso dei restanti 120 minuti. Con addosso un abito da diavolo e un vasto assortimento di paillettes e di piume, Taron Egerton nei panni di Elton John attraversa un corridoio per recarsi a un appuntamento di recupero per dipendenti da droghe. Ha così inizio il film, una gigantesca sessione di auto-terapia che John conduce su sé stesso, prendendo per mano lo spettatore e trascinandolo nel suo mondo ai limiti della realtà. Più di una volta, il film si concede una serie di licenze (a partire, appunto, dall'incipit) ma lo fa soltanto in nome di un'idea di spettacolo e di immaginario musicale da creare e rispettare. L'amore, l'ingenuità e la bulimia di vita saturano ogni momento del film e regalano persino attimi di commozione ben congegnati.

Probabilmente, l'esagerato accumulo finisce per saturare qualsiasi spazio del film e per togliere margine di movimento all'immaginazione dello spettatore; però, si tratta di uno di quei casi in cui persino essere intrappolati in un meccanismo spettacolare da togliere il fiato risulta funzionale al racconto portato in scena.

Categoria
Dexter Fletcher Taron Egerton Richard Madden Jamie Bell Bryce Dallas Howard 121 minuti
Regno Unito 2019
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