Nocturama

Il diorama notturno di Bonello inscena un attentato compiuto da ragazzi normali: fatti di carne e sentimenti, contradditori e inafferrabili esattamente come il reale.

Inquadratura dall’alto sui ponti di Parigi: un gruppo di ragazzi prepara un attentato.

L’ultimo film di Bertrand Bonello, come lo era Tiresia, è nettamente scisso in due parti: la prima parte di Nocturama inscena i giovani che guidati da un “maestro” organizzano l’attacco, seguendoli geometricamente nel metrò parigino, pedinando i loro movimenti e incroci scanditi dall’orologio che segna il tempo prima dell’atto. Non sono terroristi islamici ma tutti di origine francese, e non sono soldati del terrore: malgrado le mosse coordinate sono ragazzi qualsiasi, vestiti come tutti, e si scambiano sguardi umani come attesta la sequenza a tre nel vagone, che culmina perfino nel contatto delle mani. C’è il volto impaurito di uno di loro che sente uno sparo fuori campo, c’è un incidente stradale che – seppure subìto da un attentatore – fa temere per le sue conseguenze. Bonello non costringe i suoi protagonisti nello stereotipo di criminali, ci nega questo conforto. E così, nel fare affiorare cenni di sentimenti nell’automatismo del piano, si distanzia anche dalla registrazione “vansantiana” di Elephant, a cui Nocturama è stato ripetutamente associato: è più sfrangiato, si dimena dietro il velo della forma. I ragazzi ballano prima di colpire, ma si muovono asettici come fantasmi. Poi arriva l’esplosione, che brucia bersagli scontati come banche, ministeri e la statua di Giovanna d’Arco: l’attentato viene risolto da Bonello in singoli quadri e poi in uno splendido split screen, che fa rima con l’immagine gemella dello schermo diviso dalle telecamere di sorveglianza.

A quel punto i giovani cambiano: il botto li risveglia, da gusci diventano carne. Nella seconda parte, la rigida cronologia dell’attentato viene smentita da una nuova concezione del tempo: gli autori si rifugiano nello spazio chiuso di un grande magazzino, lì aspettano nell’arco di una notte. Anche la regia di Bonello cambia, dalla geometria dell’azione alla fluidità dell’attesa. Il cineasta rinchiude i protagonisti nella chiesa dell’oggi, l’ipermercato dove essi si specchiano: uno trova il manichino di se stesso, con abiti uguali e marchiato dal baffo della Nike, l’altra osserva una mela edenica e rompe la sua campana di vetro, prova a spaccare la superficie. Il paragone col cinema di Ferreri è soprattutto ne Il seme dell’uomo, nel museo della razza umana: l’enorme dirigibile Pepsi di quel film non è forse simile alla grande mela verde? È qui, in questo luogo selva di simboli, che la normalità emerge ulteriormente: i giovani si provano vestiti e guardano allo specchio, parlano e fanno l’amore, giocano ai videogame e all’autoscontro, in un teen movie perfino sciocco che li regredisce a bambini. Gli oggetti li assediano, loro si lasciano blandire, perché attaccano la società occidentale ma in realtà vi sono dentro. E allora sullo sfondo di musica pop si guardano in televisione, poi spengono perché non vogliono vedere, quindi si rivedono ancora: non possono evitarlo, devono continuare a guardare. Sono umani: compiono addirittura il gesto di solidarietà di ospitare un clochard.

All’improvviso un ragazzo esce. David, interpretato da Finnegan Oldfield, si porta fuori dal nascondiglio e passeggia per una Parigi spettrale, vede un’auto in fiamme. Qui accade il breve e fondamentale incontro con la sconosciuta incarnata in Adèle Haenel: l’informazione sui fatti è brancolante, per sentito dire, ma lei li accoglie con indifferenza e fatalismo perché, dice, prima o poi doveva succedere. È questa per Bonello la possibile fine della civiltà.

Al termine della notte, questi giovani eversivi ma calati nel loro tempo vengono repressi dallo Stato. Dopo averli individuati e accerchiati, i cecchini fanno irruzione con la stessa matematica coordinazione con cui avveniva l’attentato. Sparano a ognuno di loro, non risparmiano il senzatetto e, soprattutto, l’ultimo superstite che chiede pietà. Se l’autorità non è meno spietata dei criminali, allora l’immagine finale non può che essere l’inquadratura in fiamme: un fuoco che dall’attentato simbolicamente si estende, è il fuoco che brucia la società. Il cinema di Bonello continua a essere l’esatto contrario di una tesi, una spiegazione, un sociologismo: c’è solo una situazione e un’atmosfera, c’è l’uomo con i suoi bordi sbeccati, ci sono corpi contraddittori che si muovono inafferrabili proprio perché vivi. E così gli attentatori prendono forma come persone e senza la comoda condanna d’ordinanza; così l’autorità viene rivelata nell’ambigua giustizia che significa vendetta.

È un film stratificato ma anche chiaro, leggibile, evidente per chi vuole capire. In cui il coraggio sostanziale del regista si coniuga al suo splendore estetico (basti rivedere l’esecuzione queer di My Way) e tocca un esito supremo. È un film che si intitola Nocturama come diorama: una ricostruzione artificiale che, grazie alla luce e alla prospettiva, dà l’illusione del paesaggio vero. Ecco il cinema di Bonello, suggerire la sensazione del reale attraverso la rappresentazione. Riferirsi all’uomo senza psicologismo. Riportarne i frammenti parziali, mai definitivi, come gli squarci de L’Apollonide - Souvenirs de la maison close. Stavolta lo fa nel modo più ardito, applicando la sua idea al grande babau dell’oggi, il terrore: e il diorama è troppo estremo per le comode risposte del nostro tempo, da qui le polemiche che il film si porta dietro. Un capolavoro.

Autore: Emanuele Di Nicola
Pubblicato il 19/06/2017

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