L'impostore - The Imposter

di Pietro Lafiandra
L'impostore - recensione film

Cos’è? Come lo si riconosce? Chi è l’impostore? Un falso, un bugiardo, un millantatore. Certo, ma c’è di più. Sfogliando le definizioni dei vari dizionari, salta agli occhi un motivo ricorrente con cui l’impostore viene identificato, la peculiarità che può sancire la maggior o minor riuscita del suo inganno: la capacità di sfruttare la credulità altrui, di chiunque con lui entri in contatto o lo stia guardando, lontano o vicino che sia. L’impostore non solo si camuffa e si trasforma, ma fa leva sulle emozioni di chi sta raggirando, sul bisogno di chi assiste alla sua performance di colmare la finzione con i propri significati, di giustificare come reale ciò che reale non è, o non sembra essere.

Chi è quindi l’impostore dell’omonimo, primo lungometraggio di Bart Layton, L'impostore - The Imposter? È forse Frédéric Bourdin, l’uomo con milioni di (o con nessuna) identità che, nonostante i suoi ventiquattro anni e le origini francesi, si finge un giovane scomparso da una famiglia texana all’età di tredici anni, nel 1994, e che viene riaccolto dai suoi stessi parenti nel 1997 senza riserva alcuna? o sono forse gli stessi famigliari, genitori e figli distrutti dalla scomparsa ma che potrebbero aver finto di riconoscere il figlio per nasconderne l’omicidio? o è forse, infine, il cinema stesso l’impostore? la macchina da presa, il montaggio, il sound design, tutti quegli strumenti che permettono al regista di manipolare le emozioni degli spettatori esattamente come Bourdin ha manipolato quelle delle decine e decine di persone che ha imbrogliato nel corso della sua carriera di attore-truffatore?

Il film di Layton è unopera proteiforme che può essere letta come documentario, mockumentary, film d’inchiesta, film narrativo, e che al suo interno contiene una pluralità di forme e stili differenti: ci sono le interviste, le ricostruzioni narrative, il materiale d’archivio audio e il materiale d’archivio video, ci sono tecniche giornalistiche (il recupero di materiali che ricostruiscono l’intera vicenda) e tecniche cinematografiche (carrellate, panoramiche, lyp sinch) ma, soprattutto, c’è un’unica forma fluida in cui si alternano realtà e finzione, dove si può passare da un’intervista alla ricostruzione degli eventi narrati nell’intervista stessa, dall’autodenuncia e la ricostruzione orale all’interpretazione e la ricostruzione visiva. Bourdain, intervistato dal regista, può ricostruire i suoi passi come calarsi nuovamente negli unici panni che abbia mai avuto, quelli degli altri, riabbracciare la sua non-identità e mimare le sue stesse parole registrate su nastro, può vedersi interpretato da un altro uomo, può ricostruire e presentare allo spettatore i metodi della sua interpretazione, quasi che l’intero film sia sviluppato sul modello della masterclass di un attore consumato che ripercorre i suoi primi passi nel mondo della recitazione: lo sviluppo della sue tecniche, l’assunzione di una precisa personalità attoriale, le difficoltà in cui si è imbattuto nel confrontarsi con un nuovo personaggio, molto più giovane di lui ma caratterizzato a tal punto da non suscitare il minimo dubbio in una sorella che gli corre incontro e lo abbraccia, ancora prima di averlo visto in faccia.

Che il rapporto tra il figlio scomparso, Bourdin e la famiglia si declini in un triangolo simil-cinematografico - un triangolo che riproduce il rapporto tra il regista, l’attore feticcio e lo spettatore - è chiarito da Layton con la decisione di inserire un breve estratto di materiale d’archivio, un home movie per la precisione, in cui Nicholas Barclay (il ragazzino) ricorda involontariamente il grado di finzionalità inscindibile dalla presenza di una macchina da presa pronunciando queste parole mentre guarda dritto nell’obiettivo: «io sono il regista». Una frase che induce a una lettura metanarrativa di un’opera che non ha valore unicamente documentaristico ma che, anzi, sembra una riflessione sulla forma e il potere del mezzo cinematografico, sul bisogno del pubblico (la famiglia) di leggere nell’attore feticcio (Bourdin) le tracce biografiche del regista (Nicholas) e di colmare le lacune della narrazione o interpretare la storia (il film) secondo i propri bisogni e desideri: si vede ciò che si vuole vedere.

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Bart Layton 99 minuti
Regno Unito 2012
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Ofelia non annega

di Arianna Pagliara
Ofelia non annega di Francesca Fini

La performance è azione, gesto simbolico, forma espressiva e comunicativa del qui e ora. Le immagini d'archivio sono invece traccia, sedimento, memoria e quindi essenzialmente passato. In Ofelia non annega la regista e performer Francesca Fini fa dialogare queste due realtà apparentemente quasi antitetiche con equilibrio e fluidità, dando luogo a un suggestivo processo di osmosi per sviluppare una riflessione coerente e suggestiva sul corpo femminile - sempre costretto, tormentato, aggredito - entro la quale la femminilità stessa finisce per configurarsi, per forza di cose, come atto di resistenza. È in questo senso che Ofelia, appunto, non annega: nel suo tentativo reiterato, ostinato e ineludibile di risorgere.

Ma più che personaggio, Ofelia è emblema, sunto, o forse semplicemente segno di uno stato di cose, di uno specifico sentire. Il linguaggio della Fini è stratificato, fantasioso e denso ma al contempo sorprendentemente limpido e conciso: come in un sogno, l'idea si fa immediatamente metafora, l'oggetto si fa immancabilmente simbolo. Ecco allora una gabbia, un occhio dolorosamente cucito con ago e filo, una serie di tentativi disperati di agire nonostante, di agire contro: mangiare un ghiacciolo indossando un burqa, truccarsi con le braccia semibloccate da elettrodi, fino a scrivere, letteralmente, con il sangue, imbevendone un lunghissimo nastro poi inserito in una macchina da scrivere. È il controcanto, quest'ultima eloquente performance, alla tragedia avvenuta nel gennaio del '51 in Via Savoia a Roma, quando settantasette ragazze in coda per un posto da dattilografa rimasero coinvolte nel rovinoso crollo di una scala.

Ma Ofelia non annega è anche visione surrealista pura, nella quale si percepiscono echi di certo cinema underground italiano e si affastellano vertiginosamente citazioni letterarie (Montale, Dante, Coleridge, Piandello, oltre – ovviamente – a Shakespeare) prima ancora che cinematografiche. C'è il futurismo di Marinetti, la poesia epistaltica di Mimmo Rotella e c'è perfino Dalì, a fare capolino, per un istante, in questo caleidoscopio audiovisivo, dove la parola (recitata dalla voce fuori campo oppure scritta disordinatamente su un volto) non è mai secondaria all'immagine. Perché lo sperimentalismo esuberante della Fini, in questo film, non si esaurisce nell'incisivo e perturbante discorso su femminilità/costrizione/violenza ma fa di questo uno spazio permeabile per altre diverse, infinite e complesse riflessioni.

Infine, se è vero che il corpo è spesso l'oggetto sacro - e al contempo sacrificato - al centro della poetica dell'autrice (tanto da divenire passaggio cruciale anche nel bellissimo Hippopoetess, dedicato alla poetessa Amy Lowell) va evidenziato come Ofelia non annega sia anche attenta mappatura di una geografia assolutamente reale che tuttavia quasi trasfigura nel fantastico: la città fantasma di Canale Monterano con le rovine della chiesa di San Bonaventura - ruderi di un sogno passato, Bernini - e poi la futuribile Villa-astronave di Perugini a Fregene - di nuovo ruderi, ma di un mondo misterioso e ancora al di là da venire.

Altro splendente e preziosissimo tassello - assieme a Hippopoetess – del progetto Fuori Norma di Adriano Aprà, Ofelia non annega è insomma un cinema oltre il cinema, vulcanico e incontenibile, multiforme e cangiante, dove si mangiano insetti, ci si ferisce, ci si dipinge addosso e si sogna, nostalgicamente, un mare irraggiungibile, mentre le parole di Montale trasfigurano in un canto arcano e segreto.

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Francesca Fini 90 minuti
Italia, 2016
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Black Mirror - Quinta stagione

di Attilio Palmieri
black mirror quinta stagione recensione

Per diversi anni Black Mirror è stata sinonimo non solo di serialità televisiva di qualità, ma anche di come i prodotti britannici fossero sempre un passettino avanti al resto, soprattutto riguardo alla brutalità senza compromessi con cui analizzavano le parti più contraddittorie dell'animo umano. La creatura di Charlie Brooker nel corso delle sue prime stagioni – più l'eccellente speciale di Natale White Christmas – si è fatta conoscere in tutto il mondo, grazie a un'ironia peculiare e alla capacità di leggere il legame inscindibile tra la nostra società e la pervasività della tecnologia, ragionando episodio dopo episodio su quanto e come questa relazione cambia all'intensificarsi della presenza dei dispositivi tecnologici nelle nostre vite.

Dalla terza stagione Black Mirror è passata dal locale al globale, abbandonando la nicchia perennemente tesa alla sperimentazione di Channel 4 per passare al pubblico sempre più numeroso di Netflix. Questo cambiamento ha innescato un processo di trasformazione della serie ancora in atto, in particolare per l'esigenza di parlare a tutti, diversificare il proprio stile e trasformare alcune caratteristiche produttive come formato e personalità coinvolte.
Gli episodi sono passati da tre a sei per le stagioni terza e quarta, in modo da spaziare di più dal punto di vista dell'esplorazione dei generi; sono comparse star internazionali come Bryce Dallas Howard; le puntate hanno raggiunto il minutaggio di circa un'ora per uniformarsi ai drama targati Netflix; alcuni registi di fama internazionale come Joe Wright sono stati chiamati a dirigere gli episodi. Questo percorso ha visto una tappa sperimentale e contraddittoria con Bandersnatch, episodio interattivo e per questo decisamente innovativo (almeno dal punto di vista dell'esperienza di visione) arrivato alla fine del 2018, che da un lato ha stimolato la curiosità dei fan, dall'altro ha lasciato una leggera delusione perché le principali svolte drammaturgiche non facevano parte di quelle opzionabili dagli spettatori.

La quinta stagione arriva dopo questo percorso, presentandosi per stessa ammissione degli showrunner Charlie Brooker e Annabelle Jones come una diretta prosecuzione del percorso iniziato con Bandersnatch, anche solo per il fatto che sono storie pensate e realizzate contemporaneamente. Allo stesso tempo però, almeno sulla carta,  la serie sembra tornare al passato scegliendo il formato da tre episodi stagionali, dando l'idea di rimediare al rischio di dispersione narrativa corso dalle stagioni precedenti e tornando a un modello in grado di valorizzare di più il singolo tassello narrativo. Questo compromesso però non è bastato a ridare smalto a Black Mirror, che a giudicare da questi episodi appare come una serie senza più nulla di davvero importante da raccontare, cosa che è forse il peggiore dei mali per uno show che faceva dell'urgenza del messaggio (oltre che della qualità con cui veniva veicolato) una delle sue principali caratteristiche.


Questi episodi riprendono in tutto e per tutto lo stile dell'era “americana” della serie creata da Charlie Brooker, ma a differenza delle migliori puntate degli ultimi due anni (San Junipero e USS Callister), non c'è qualcosa di nuovo da raccontare, bensì nel migliore dei casi una buona idea sviluppata in maniera superficiale.
Dal punto di vista promozionale Netflix ha cercato di vendere meglio che poteva quest'annata – come già fatto con Bandersnatch – in particolare puntando sui tre volti che caratterizzano gli episodi: Anthony Mackie (famoso per il ruolo di Falcon negli Avengers), Andrew Scott (conosciuto per il personaggio di Moriarty in Sherlock) e Miley Cyrus (popstar dal successo planetario). Possiamo dire con ragionevole certezza che il comparto attoriale è forse tra le cose più riuscite di questa stagione, perché pur allargando lo spettro agli interpreti meno noti di quelli appena citati, siamo di fronte a una serie di eccellenti interpretazioni, in grado di trasmettere in maniera convincente tutto ciò che la serie vuole raccontare.

E qui arrivano i problemi, perché ciascuno di questi tre episodi è caratterizzato da importanti criticità, tanto da rendere addirittura imbarazzante il paragone con qualsiasi delle stagioni precedenti della serie.
Il secondo episodio, per esempio si allontana completamente dal concept della serie per ragionare sulle conseguenze mortifere che può avere l'attuale legame di dipendenza che esiste tra uomo e tecnologia. Il problema non è tanto la mancanza di immaginazione di un futuro possibile – cosa che da sempre ha caratterizzato la serie rendendola più di una volta profetica – ma la pigrizia con cui la riflessione sul presente viene sviluppata, apparendo scentrata e priva di una reale urgenza. Se non ci fosse la straordinaria interpretazione di Andrew Scott a rapire gli spettatori, infatti, Smithereens sarebbe un episodio estremamente banale, in cui l'effetto domino che si innesca ha ben poco a che vedere con la tecnologia.
Il terzo episodio è quello che ha ricevuto più spazio dal punto di vista promozionale per via della presenza di Miley Cyrus e per certi versi rappresenta la più cocente delle delusioni. Rachel, Jack, and Ashley Too, infatti, si basa su un'idea che al contrario di Smithereens c'entra tantissimo col concept di Black Mirror, così tanto che è stata già ampiamente (e molto meglio) sfruttata in episodi come Be Right Back. Nonostante non sia per nulla originale e sia privo dell'urgenza che ha sempre caratterizzato Black Mirror, questo episodio è anche uno di quelli che riflette meglio lo stato attuale della serie, mostrando un prodotto che non ha più l'obiettivo di angosciare il mondo con racconti sofisticati, inquietanti e – a guardar bene – non adatti a tutti, ma mira a un pubblico molto più ampio, anche a costo di apparire una parodia di se stesso. A questo proposito Rachel, Jack, and Ashley Too può essere visto come un episodio senza alcuna ambizione, senza la voglia di stupire e di rivelare una nuova prospettiva sul contemporaneo e sul futuro, ma anche come una storia compiuta e ben gestita, una sorta di favola sul female empowerment che alla fine lascia gli spettatori col sorriso sulle labbra.
Sulla carta il miglior episodio è il primo Striking Vipers, che gode come gli altri di ottime interpretazioni e in più è supportato da un'idea di partenza estremamente originale, che prova a riflettere sulla moltiplicazione delle identità (in particolare nel passaggio da reale a virtuale) e sui limiti e le contraddizioni della mascolinità tradizionale. Il discorso sulla bromance, sull'omosessualità repressa, sull'amore come sentimento fluido e sul legame tra sentimenti e attrazione sessuale rivelava una vasta quantità di possibili sviluppi, tutti molto interessanti, soprattutto se legati all'intensificazione tecnologica e al mondo dei videogame. Purtroppo però la gran parte delle questioni messe sul tappeto sono state trascurate, perché Brooker ha evitato di ragionare su cose come il cambio di genere nel passaggio da reale a virtuale, sugli effetti di questa trasformazione identitaria nella concezione del sé, sui confini tra sesso reale e sesso virtuale e su tante altre facce dell'intrigante prisma che aveva tra le mani. In maniera molto comoda ed eteronormativa, la riflessione dell'autore si sposta sulla monotonia della coppia etero e sulla salute coniugale che viene garantita attraverso una serie di trasgressioni controllate da parte di entrambe le persone. Una vera occasione sprecata per un'idea di partenza meravigliosa, che in mano a un'autrice come Jill Soloway (solo per fare un esempio) sarebbe potuta sfociare in qualcosa di davvero importante.

Black Mirror sembra essere un brand su cui Netflix vuole ancora investire, perché l'esperimento interattivo è andato molto bene e dal punto di vista promozionale la serie rende ancora tanto. È impossibile però non constatare l'involuzione dello show, soprattutto in un contesto in cui prodotti seriali che trattano temi simili riescono a esprimersi con acutezza infinitamente maggiore, come sta dimostrando in queste settimane Years and Years di Russell T. Davies.

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Andrew Scott Anthony Mackie Miley Cyrus 5° stagione da 3 episodi
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Selfie

di Samuel Antichi
Selfie di Agostino Ferrente

È certamente vero che ormai le tecnologie dei media digitali oltre ad attivare innovative modalità di partecipazione, interazione, comunicazione, promuovono nuove forme contemporanee di narrazione. Nel momento in cui lo smartphone diventa un’estensione protesica sia del braccio che dell’occhio dell’utente il racconto in prima persona viene risemantizzato in un’enfatica modalità di auto-rappresentazione come nel caso di Selfie (2018) di Agostino Ferrente. Il regista decide di lasciare il potere del racconto per immagini a due ragazzi di sedici anni, Alessandro e Pietro, che devono documentare e testimoniare la propria quotidianità attraverso la pratica del video-selfie. Ferrente decide infatti di affidarsi al racconto in prima persona dei giovani, dal momento che la natura del suo sguardo su una realtà e una dimensione che non gli appartiene ne avrebbe contaminato la rappresentazione. Alessandro e Pietro diventano dunque soggetti/registi, oltre a filmare la realtà che li circonda nel quartiere Traiano di Napoli si posizionano loro stessi sempre di fronte alla camera e al centro dell’evento. Il selfie implica infatti una doppia azione, mostrare o catturare un evento e comunicare qualcosa riguardo a questo nel momento in cui la foto o il video vengono condivisi con altri. Il soggetto/fotografo si presenta come testimone e il suo atto di testimoniare necessita un pubblico. Il significato del sé rappresentato dal selfie è restituito e ottenuto tramite l’interazione tra la persona e lo spazio/evento che si mostra alle spalle.

Nonostante Ferrente abbia il potere, non secondario, delle scelte finali in fase di montaggio, sono Alessandro e Pietro ad avere in mano la macchina da presa (lo smartphone) e sono loro a decidere su cosa concentrarsi, cosa mettere a fuoco, cosa integrare e cosa escludere dalla narrazione. Ferrente certamente vuole che emergano le problematicità di una realtà complicata come quella della periferia di Napoli in cui spesso i giovani abbandonanti da genitori e istituzioni si lascano conquistare dai “soldi facili” e prendono parte ad attività criminose. “Ho anche provato a fare lo spacciatore ma non fa per me” confida Pietro. “Non crediate che tutti si muovano con il macchinone o che abbiano il rolex al polso, ce ne sarà uno così, tutti gli altri sono poveri disperati che cercano di portare il pane a casa” prosegue il ragazzo. Da una parte la realtà criminale rappresentata nel cinema e nella televisione, raccontata dai media d’informazione, dall’altra quella che i giovani vogliono mostrare e restituire. A farsi produttori d’immagini sono due ragazzi con prospettive e intenzioni, apparentemente, diametralmente opposte. Pietro condanna la parte marcia del quartiere e sembra voler realizzare una video inchiesta. Arriva addirittura ad intervistare un ragazzo del quartiere che di spalle e con la voce camuffata dovrebbe raccontare come funziona lo spaccio nel rione. “Perché non lo sai come funziona?” gli risponde contrariato l’intervistato concludendo in questo modo la conversazione. Contrariamente, Alessandro vuole solo mostrare “le cose belle”, “le cose positive” del quartiere così come del loro vivere quotidiano.

A riecheggiare più volte all’interno della narrazione è l’episodio della morte di Davide Bifolco, sedicenne ucciso nel 2014 da un carabiniere perché creduto un pregiudicato in fuga, a cui viene dedicato il film. Il racconto di Alessandro e Pietro cerca di gettare una nuova luce sulla figura del giovane ucciso, vicenda distorta e deformata dai media e dall’opinione pubblica. Pietro e Alessandro incontrano anche i genitori di Davide per parlare della tragica vicenda mentre rivedono le immagini dei telegiornali che trattano l’argomento. Lo sguardo dei media depersonalizza e oggettifica la comunità giovanile di Napoli non attribuendo ai ragazzi alcun valore identitario e strumentalizzando le loro azioni e quello a cui vanno incontro.

La soggettività specifica dei giovani non emerge dal racconto dei media, il cui sguardo egemonico oscura il soggetto altro, così come le immagini realizzate dall’occhio depersonalizzato dei sistemi di video-sorveglianza che vengono inserite nel film come contrapposizione ai video-selfie di Pietro e Alessandro. La realtà catturata dai sistemi robotici di controllo mostra, a distanza, individui senza singolarità, senza un nome e un volto. Dall’altra parte invece, il racconto in prima persona non rimane una modalità di rappresentazione visiva o un semplice strumento mnemonico ma una forma di comunicazione e di formazione identitaria dal momento che il selfie assume il ruolo di lingua parlata nel corrente panorama della comunicazione sociale. Nella relazione e nell’interazione tra il sè e lo spazio geografico e sociale intorno il videoselfie diventa un’esibizione che rende esplicito il valore performativo del processo mnemonico, della trasmissione del ricordo e della creazione di significato.

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Agostino Ferrente Pietro Orlando Alessandro Antonelli 78 minuti
Italia, 2019
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Serenity

di Emanuele Di Nicola
Serenity di Steven Knight

Il colpo di scena. Uno dei trucchi antichi del cinema, ereditato dalla letteratura, e la più diffusa scelta narrativa per ribaltare le certezze di chi guarda: scardinare una convinzione, mettere in dubbio, costringere alla rilettura a posteriori. Ovviamente, divertire: cambiare improvvisamente sapore perché, come diceva Hitchcock, «il cinema non è una fetta di vita, è una fetta di torta». Non c’è fine al colpo di scena nel cinema del postmoderno: registi ci hanno costruito una carriera o almeno l’innesco, come Shyamalan, autori sotto la copertura del cinema commerciale lo hanno frequentato, come David Fincher. Serenity di Steven Knight si inserisce nella tendenza e pone un problema di senso: la possibilità del colpo di scena oggi.
Siamo a Plymouth Island, non meglio specificata isola dei Caraibi: qui l’ex soldato Baker Dill (Matthew McConaughey) porta i turisti a pesca in mare aperto con la sua imbarcazione (Serenity, appunto) ed è ossessionato dalla sfida di catturare un tonno gigante, più volte preso all’amo e sempre sfuggito. Uno scontro che si rinnova, come Santiago e il marlin ne Il vecchio e il mare - e allo stesso modo il pesce trascina la barca -, fino a sconfinare nella fissazione: «That’s the tuna in your head», gli dice un amico. Il pretesto che accende la miccia è l’arrivo sull’isola di Karen (Anne Hathaway), ex moglie di Baker e madre di suo figlio, con una richiesta particolare: portare a largo il suo nuovo marito Frank (Jason Clarke), alcolizzato e violento, per poi ucciderlo e gettarlo nell’oceano.

Lo sceneggiatore Steven Knight torna alla regia cinematografica sei anni dopo Locke (in mezzo la serialità, soprattutto Taboo da lui interamente scritta) e mette subito in chiaro una cosa: non siamo sul terreno del realismo. In Serenity infatti, sin dall’inizio, la partita si gioca apertamente nel campo dell’immaginazione: lo attestano gli archetipi installati sui personaggi, come il riferimento a Hemingway, i luoghi comuni del contesto (l’isola, l’amico nero, l’amante) e alcuni particolari che denotano una sfacciataggine così esasperata da risultare quasi ammirevole, vedi il tonno gigante chiamato Justice (e dunque, di conseguenza, Baker sta cercando giustizia). L’autore non fa niente per nascondere il suo intento, anzi lo espone: la prova è nel montaggio alternato che presto mostra la vicenda di Baker intrecciata alle immagini di un bambino che, davanti al dramma della madre maltrattata, sceglie di uscire dalla realtà e scappare nella fantasia diventando un giovanissimo programmatore informatico. Vediamo il piccolo Patrick, figlio di Baker, che scrive in codice html: è lampante che ciò che stiamo guardando è un videogioco programmato dal ragazzo, che lo costruisce gradualmente, a questo si devono gli stereotipi che riempiono il racconto (d’altronde Plymouth Island non ricorda forse Monkey Island?). È lui il master che crea la storia e, naturalmente, nella sua testa di bambino i tratti narrativi sono semplici e non strutturati: siamo nel cervello di un giovane che forse ha letto un libro a scuola (Il vecchio e il mare), forse ha visto Audrey Hepburn in Tv (i vestiti della Hathaway, soprattutto il primo), sicuramente è nutrito dei loop e ripetizioni del pop odierno, così si spiega il déjà-vu di Baker che si ritrova sempre allo stesso incrocio. Ma c’è di più: sul primo colpo di scena Knight innesta perfino il secondo, ovvero (spoiler) il protagonista che è morto in Iraq fatto rivivere nel videogioco del figlio.

L’autore lavora in antitesi sull’iperrealismo tentato in Locke, con Tom Hardy solo a bordo della sua macchina, e cesella un mondo inventato come - tutto sommato - già in Taboo che immaginava una Londra dell’Ottocento secondo lui, tra sfondi anneriti e cappelli a cilindro. Qui lo fa corteggiando l’immaginario contemporaneo del mind game movie, che va dalle cosmogonie del Nolan di Interstellar agli easter eggs di Spielberg in Ready Player One, per arrivare all’episodio Bandersnatch di Black Mirror (già giocato e dimenticato), perché Patrick alla fine riscrive il gioco per evitare la “scelta sbagliata”. Tutto questo, però, è anestetizzato, superficiale, automatico e for dummies: dalle smorfie di McConaughey (che sia anch’esso uno stereotipo?) alle svolte improbabili e grottesche, il film si getta nelle braccia dei suoi twist con una fiducia cieca e folle, destinata inevitabilmente al fallimento.

Serenity è stato stroncato all’unanimità dalla critica americana, tranne rare eccezioni («The best bad movie of the year», lo definisce Kristin Iversen nell’articolo In Defense of Serenity). Ma, forse, non è tutta colpa di Steven Knight. Il punto è un altro. E riguarda proprio il colpo di scena: si può rifare oggi, è credibile e opportuno? Nell’ultimo anno del Novecento usciva nelle sale Il sesto senso di M. Night Shyamalan, una rivoluzione per l’epoca (Bruce Willis è morto!), fondativo di quel cinema ma anche datato, non citato tra le vette del magnifico regista: era un’epoca con le Torri gemelle e le monete uniche, prima del digitale e delle “guerre al terrore” (e dei protagonisti morti in Iraq), dove l’incredulità poteva ancora essere sospesa. Oggi anche McConaughey è morto, ma questo non stupisce più nessuno: tutto è già visto e fatto, al tempo dei social network e dei sovranismi, il colpo di scena non può sorprendere davvero. Vent’anni dopo Il sesto senso basta guardare fuori dallo schermo e non c’è una serenity possibile.

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Steven Knight Matthew McConaughey Anne Hathaway Jason Clarke 106 minuti
USA 2019
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Il traditore

di Matteo Berardini
Il traditore - recensione film Bellocchio

È un maxi-processo quello che si mette in scena: giornalisti e telecamere, flash, microfoni, grandi gabbie colme di corpi, avvocati e magistrati stretti nelle vesti ufficiali, tutto il cerimoniale e la formalità giuridica di un Stato che manifesta e afferma sé stesso attraverso l’esercizio della Legge. Ma qualcosa avviene che stona e sfugge ai codici che quella sede impone, tra le grida dei presenti e sotto gli occhi di decine di poliziotti due degli imputati iniziano a fare l’amore, la forza pubblica interviene mentre una donna urla di lasciarli finire. È il 1986 e Marco Bellocchio filma il suo Diavolo in corpo, intrecciando echi politici e pulsioni psichiche, erotismo e autodistruzione, e in uno dei momenti più belli del film due brigatisti cercano di scardinare con il sesso la loro gabbia istituzionale, mentre il processo si avvia a conclusione grazie alle testimonianze di un pentito. Intanto, fuori dallo schermo, un altro maxi-processo è in corso, non sono terroristi questi ma mafiosi, tra i più importanti e bestiali di Cosa nostra, chiamati a rispondere di fronte lo Stato grazie alla lunga testimonianza del primo pentito di mafia, Tommaso Buscetta, Il traditore. Di nuovo dentro lo schermo, più di venti anni dopo, Bellocchio torna nelle aule di tribunali, torna a corpi in gabbia e palchi istituzionali, ma la lotta politica cede il passo alla farsa, al grottesco susseguirsi di macchiette, esibizionismi, pantomime, derisorie commedie dell’arte, alla sbruffoneria di assassini belluini che pavoneggiano un’autorità indipendente e alternativa a quella statale. I mafiosi si spogliano, mutilano, cuciono la bocca e fingono crisi epilettiche, urlano e scimmiottano, declamano e sbeffeggiano, mentre l’altra faccia di Cosa nostra si percuote il petto e agita le braccia attraverso un coro di mogli piangenti e vestite a lutto. È un vero e proprio teatro, una contro-storia che sbeffeggia l’esercizio del Diritto e la superiorità ubiquitaria della Legge; il tribunale diventa una frontiera dove si combatte per affermare l’esistenza e la necessità dello Stato.

Assieme a Martone, Marco Bellocchio è il solo regista italiano che continua oggi ad affrontare la Storia d’Italia, e lo fa ancora una volta mescolando pubblico e privato, lasciando che l’uno si manifesti nell’altro e viceversa. È come se per il regista di Bobbio non fosse possibile raccontare la macro-Storia senza scoprire la mini-Storia, la traccia biografica di personalità che si intrecciano agli eventi plasmandoli, decretandoli, soccombendovi. Magistralmente Bellocchio riporta alla mente i momenti migliori del cinema civile italiano, l’inchiesta e l’indagine di Rosi, Petri, Lizzani, ma la resurrezione cronachistica non può contenere uno sguardo che sempre resta affamato di ciò che sta oltre la realtà evenemenziale e che vive nella mente e nelle notti dei suoi personaggi. Da qui l’emergere ribollente di sogni e visioni, un magma che come sprazzi di inconscio collettivo porta a galla tanto gli orrori del singolo quanto i bisogni della comunità (la passeggiata finale del Padre-Aldo Moro di Buongiorno, notte). Il traditore è sì la ricostruzione fedele di un momento storico della vita italiana – e per farsi un’idea di quanto lo sia basta vedere pochi minuti del reale confronto in aula tra Buscetta e Pippo Calò – ma anche e ancora una volta la trasfigurazione metafisica di un trauma collettivo, quel nodo metastatico che ancora affligge il paese ma che, con le parole di Giovanni Falcone, «è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine».
Ma la magia sorprendente di questo film – e l’elemento che forse più di altri ne ha decretato lo straordinario successo nelle sale – è il modo in cui per la prima volta Bellocchio mescoli il suo approccio onirico e intimo alla Storia con il genere, e in particolare il gangster movie, che non bisogna aver paura di chiamare in causa in un film così violento, adrenalinico e ritmato, capace di affiancare agli incubi di Buscetta, alle straordinarie composizioni “televisive” delle celle riprese dalle videocamere, o agli affondi grotteschi e così tipici di Bellocchio contro le eminenze grigie del Potere, sequenze clamorose come le minacce di morte in elicottero alla moglie di Buscetta, che sembrano uscire da altre galassie di cinema italiano, oggi sconosciute (sequenze che, bene ribadirlo, non sarebbero state altrettanto potenti senza l’interpretazione davvero gigantesca di Pierfrancesco Favino, corpo possente e voce impastata, meraviglioso pastiche di siciliano e portoghese che è talento puro).

Lontano dal realismo sporco di Garrone o dalla sinfonia pop di Sorrentino (Gomorra, Il Divo), Bellocchio tira fuori alla bellezza di ottant’anni il suo Padrino, ma come il grande uomo di cinema che è ne raffina la dimensione morale, lo scarto umano, costruendo un ritratto complesso e sfaccettato di un traditore capace di denunciare un mondo criminale e sentirsi fino all’ultimo lui il tradito, colui che è stato colpito alla schiena da un sistema dominato da belve in cui non è più in grado di riconoscersi. Il traditore non sposerà mai il punto di vista di Buscetta ma compie lo sforzo estremo di affondare nelle contraddizioni del reale, senza cercare soluzioni facili o consolatorie. È il ritratto di un assassino, di un pentito, di un mafioso, di un uomo che amava e ha perso i suoi figli, un criminale forse etico, certamente sfuggente, figliol prodigo riaccolto e forse anche sfruttato dallo Stato, certamente temuto e odiato dal Potere, attorno al quale Bellocchio costruisce un’epica criminale che si ritaglia, già ora e subito, un posto nella storia del nostro cinema.

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Marco Bellocchio Pierfrancesco Favino Maria Fernanda Cândido Fabrizio Ferracane Luigi Lo Cascio Fausto Russo Alesi 148 minuti
Italia 2019
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X-Men - Dark Phoenix

di Matteo Berardini
X-men dark-phoenix recensione film

In tempi di #MeToo e casi Weinstein, in cui la nostra industria culturale è chiamata a confrontarsi con nuove istanze e logiche di rappresentazione (dovendo finalmente rispondere a una complessità del reale non più accantonabile), la saga di Fenice Nera scritta da Chris Claremont nel 1980 rappresenta un materiale dal grande potenziale narrativo e simbolico, un’epopea supereroica incentrata sul potere femmineo e il suo timore da parte maschile, e soprattutto sul controllo cui siamo soggetti fino a che non acquisiamo la possibilità di scrivere la nostra narrazione. Resa orfana dalla débâcle di Bryan Singer (dignitosissimo padre cinematografico dei mutanti Marvel fino al pessimo Apocalisse), la saga degli X-Men torna dopo Conflitto finale a confrontarsi con quella prima, storica, run di Claremont, consapevole della forza del materiale e spinta dalla necessità di chiudere il proprio arco narrativo (sul cui futuro, ora che le proprietà intellettuali della Fox sono state acquistate dalla Disney, è impossibile pronunciarsi). Tuttavia X-Men - Dark Phoenix è se possibile ancora più confuso e inconcludente del precedente Apocalisse, un ibrido mal riuscito tra la spettacolarità della prima trilogia e le ambizioni autoriali dei primi due prequel (X-Men – L’inizio e Giorni di un futuro passato).

Affidato per la regia all’esordiente Simon Kinberg, da tempo impegnato con i mutanti in veste di produttore e sceneggiatore, Dark Phoenix cerca di adattare la sua storia di potere e rapporti tra i sessi alla sensibilità attuale, ma l’unica cosa che riesce a fare è lanciare frecciatine e paralleli casuali riguardo i temi del sessismo e del paternalismo, argomenti che il film cerca di problematizzare senza riuscirci, mai, neanche alla lontana. Della storia di Jean Grey, compagna e allieva fedele il cui potere viene prima limitato dall’esterno e poi, una volta liberato, giudicato eccessivo e incontrollabile, resta soltanto il debole tentativo di raccontare un personaggio vittima dei propri conflitti interiori, contraddizioni e traumi enunciati dalla storia ma mai resi snodi narrativi avvincenti, fondanti. Dark Phoenix arriva a fine corsa nella saga ventennale dei mutanti, e se nel frattempo sono cambiati modelli e linguaggi, equilibri produttivi e proprietà intellettuali, il film accusa il suo essere fuori tempo massimo con un senso di inconcludenza che ne affligge ogni aspetto. Dal cast, svogliato e tirato dentro per meri doveri contrattuali, alle fasi di scrittura e regia, afflitte da una totale carenza di idee, da un vuoto pneumatico in cui, fondamentalmente, non era rimasto più nulla da mostrare o da dire. Il risultato è un film totalmente inerte che manca di qualsiasi epica finale e non riesce a risollevarsi neanche sul piano spettacolare, non avendo basi su cui appoggiarsi o soluzioni visive forti per compensare. Un finale mesto e di certo ingiusto per la bellezza e lo spessore di questi personaggi, tra i più affascinanti dell’universo Marvel, che nel 2000 hanno aperto assieme allo Spider-Man di Raimi la strada del cinecomic ma che oggi riescono soltanto a farci ricordare quanto sia complesso raggiungere i livelli toccati dal Marvel Studios con la chiusura del suo grande ciclo.

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Simon Kinberg Sophie Turner Jessica Chastain James McAvoy Michael Fassbender Jennifer Lawrence Nicholas Hoult Tye Sheridan Evan Peters Kodi Smit-McPhee 114 minuti
USA 2019
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Nuovo Cinema di Pesaro - Presentazione della 55° edizione

di Matteo Berardini
Pesaro Film Festival

Tra passato, presente e futuro del cinema.

Così si presenta la 55° edizione della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, con una frase che può sembrare a effetto ma che invece è ancora una volta esemplificativa dell’identità profonda di una manifestazione multiforme certo, esplosa geograficamente e linguisticamente, ma che proprio nella sua eterogeneità conferma di saper conservare la propria coerenza e coesione. Come esplicitato dal direttore Pedro Armocida, il Pesaro Film Festival prosegue nella sua strada chiedendosi «dove è il (nuovo) cinema oggi?», quesito guida che non punta a generare risposte certe, finite (se così fosse che senso avrebbe continuare?) quanto piuttosto a innescare a catena altri dubbi, esplorazioni, scoperte. Tra le pieghe delle quali pulsa, sotterranea, la domanda: cosa è un festival oggi? A cosa può servire? Forse, a guidarci proprio lì, tra passato, presente e futuro.

In questo senso non delude affatto la presentazione dello sfaccettato programma di questa nuova edizione, che dimostra ancora una volta di saper essere divulgazione e ricerca, condivisione e sperimentazione, storia e scoperta. Questo binomio attraversa tutte le sezioni del Festival e si manifesta anzitutto nella variabilità dei supporti presenti – digitale, 35mm, 16mm, Super8 – attraverso i quali si porterà avanti un dialogo tra l’anima popolare del progetto e la sua tradizione cinefila, scientifica, avanguardistica. A riguardo colpisce un Concorso con opere prime e seconde che si apre, letteralmente, a tutto il mondo, ospitando al suo interno sguardi da paesi come Giappone, Cile, India, Singapore, Brasile, Spagna e Taiwan; i focus dedicati al cinema femminile di Russia e Spagna (integrati da un nuovo percorso di Lezioni di storia, questa volta incentrato sul cinema femminista degli anni Settanta); gli omaggi a due trasmissioni tv diverse e per certi versi complementari come Stracult e Fuori Orario, quest’ultima in particolare protagonista di un incontro collettivo e di una mini-selezione interna con titoli inediti che non sono riusciti ad arrivare sul programma e che saranno invece dirottati qui, nelle sale pesaresi. In parallelo la Mostra conferma spazi importanti come quelli dedicati al cinema-saggio, agli home movies, alle sperimentazioni sonore (sempre sorprendenti e intriganti le serate musicali offerte dalla sezione Il muro del suono) e soprattutto al cinema (neo)sperimentale italiano, quel prezioso percorso nel Fuorinorma intrapreso negli ultimi anni da Adriano Aprà e il cui punto di arrivo sarà la presentazione dell’omonimo libro a esso dedicato.

Tuttavia di doppia anima si parlava, di sguardo popolare e sperimentazione; per questo la consona pubblicazione Marsilio che sempre accompagna il Festival è dedicata al cinema di genere italiano, con un testo intitolato Ieri, oggi, e domani – Il cinema di genere in Italia, curato dal direttore Armocida assieme a Boris Sollazzo. La pubblicazione è la controparte cartacea dello spazio retrospettivo che la Mostra dedica quest’anno al genere italiano, western, poliziottesco e giallo che animano una raccolta di film presentati nel nuovo spazio del Cinema in spiaggia, pensato per moltiplicare le identità urbane della Mostra e raggiungere così nuovi tipi di pubblico.

Questi e altri sono gli aspetti che colpiscono e attirano dell’imminente edizione del Festival, una Mostra che negli ultimi anni ci appare esser stata in grado di rilanciarsi e affermarsi con un’identità forte, sfaccettata, intelligentemente tarata sul dialogo tra parti diverse. Il Nuovo Cinema di Pesaro è una manifestazione con una storia gloriosa e importante alle spalle, ma fortunatamente quella spinta a conoscere, mostrare, scoprire, sembra non essersi spenta, e anzi adattata alle esigenze e sfide del cinema di oggi.

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Game of Thrones - Finale di serie

di Eugenia Fattori
recensione serie tv game of thrones finale di stagione

Quando si parla di finali televisivi, ogni volta che i fan perdono la loro serie preferita sentiamo dire che è “la fine di un’era”. Difficile contare quante volte questa espressione sia stata spesa, un po’ a vuoto, per celebrare la conclusione di qualsiasi grande narrazione seriale: da I Soprano a Lost, da Mad Men a Breaking Bad. Sembra quasi che abbiamo bisogno (o meglio, che ne abbia bisogno lo spettatore medio) di credere che ogni finale di un show che ci piace segni un passaggio significativo nell’estetica e nella narrazione televisiva, per il solo motivo che è stata un’esperienza importante per noi, che siamo affezionati ai personaggi e alla storia. Nella realtà invece, spesso i finali di stagione delle serie “importanti” aggiungono pochissimo a ciò che la serie ha già detto precedentemente, spesso sono molto lontani dall’essere gli episodi migliori dello show e oscillano tra due opposti, faticando a trovare l’equilibrio: da una parte il desiderio di non scadere nell’ovvio, di stupire a ogni costo lo spettatore deludendo le sue aspettative; dall’altra la voglia di compiacere il fandom e/o di dare una compiutezza alla vicenda raccontata, sia narrativamente che iconicamente.

Tra questi due estremi si nasconde sicuramente la ricetta del finale di serie perfetto, ma pochissimi riescono ad azzeccarla e creare un episodio che non sia passibile di essere criticato, frainteso, spesso con poche sfumature amato o odiato da chi segue la serie. Persino l’equilibrato e coerente finale di Breaking Bad è stato considerato inferiore al terzultimo episodio (Ozymandias); anche la chiusura sorprendente de I Soprano è stata presa di mira dai fan perché diversa da quello che avrebbero desiderato, mentre Damon Lindelof si dovette addirittura scusare con una lettera per l’ultimo episodio di Lost, che scatenò reazioni di odio inconsuete per l’epoca (ancora “antica” in termini di abitudini social) ma che oggi, in tempi di iper-condivisione delle opinioni, risultano perfettamente normali, se non addirittura prevedibili. Per questo motivo David Benioff e D.B. Weiss, gli autori di Game of Thrones, non soltanto non stanno chiedendo scusa per il finale delle serie ma hanno preparato anche una difesa anticipata per tutte le loro scelte, attraverso il commentary che seguiva ogni episodio di quest’ultima stagione. Ogni decisione veniva spiegata, sviscerata e approfondita dal loro punto di vista, con il probabile intento di togliere ai fan ogni dubbio, rendendo però gli autori, specie dal punto di vista dei critici, arroganti e insultanti nel voler giustificare e imporre un unico modello di lettura della loro opera, trasformando un punto di vista in un canone assoluto, quasi come se volessero sostituirsi al lavoro critico mettendo le mani avanti su ogni possibile “fraintendimento” delle proprie intenzioni.

Difficile immaginare una excusatio non petita più fastidiosa e un atto di entitlment nei confronti della critica più invasivo di quanto fatto da questi due autori che, concluso il proprio lavoro, invece di accettarne il percorso naturale di giudizio e lasciarlo “libero” di essere letto dagli esperti di televisione, cerca di imporre la propria, decisamente tutto meno che oggettiva, interpretazione dell’opera mettendo le intenzioni di realizzazione davanti alla percezione esterna del risultato finale.
Perché tra intenzioni e risultato, come sappiamo, spesso c’è una distanza enorme, e l’ottava stagione di Game of Thrones (a dire il vero, insieme alle due precedenti) potrebbe essere presa ad esempio della peggiore strategia di adattamento possibile di una trama che su carta era interessante e complessa. Abbandonata giocoforza la narrazione scritta da George R. R. Martin, ma essendo obbligati – almeno stando a quanto dichiarato – a seguirne il percorso tracciato in termini di sviluppo del plot, Benioff e Weiss hanno dimostrato una caratura professionale decisamente inferiore al materiale che dovevano adattare. Superato l'impegno di trasposizione del linguaggio scritto in linguaggio audiovisivo, compito che erano riusciti a svolgere con efficacia e professionalità, i due showrunner si sono trovati di fronte al compito (superiore alle loro capacità autoriali e obiettivamente non facile) di portare a compimento idee uscite dalla mente di qualcun altro, nella fattispecie qualcuno con più talento di loro. Pur avendo in mano la conclusione della vicenda, in cui le principali svolte narrative erano già state stabilite, hanno deciso di arrivarci con un percorso figlio degli stereotipi televisivi più antiquati, proprio quelli che Martin – scrittore che ricordiamolo, ha un lungo passato televisivo alle spalle – aveva cercato di scardinare nei suoi libri scrivendo una storia per sua stessa dichiarazione «anti-televisiva».

Le svolte narrative inaspettate, come la morte di personaggi fondamentali, il senso di ineluttabilità del destino, il peso circolare di una storia che ripete sé stessa, e la feroce critica al potere e al sistema patriarcale presenti nei romanzi di Martin, si sono così svuotati di senso, trasformandosi in cliffhanger fini a sé stessi, personaggi non dominati dal destino ma dalle necessità della trama, moralismo politico spicciolo e trattamento dei personaggi femminili e maschili aderente ai peggiori stereotipi della narrazione sessista.
La follia genetica dei Targaryen ad esempio, che nei romanzi e nelle prima stagioni è caricata di significati e simbolismi legati alla dittatura e agli errori del passato che ricadono sul presente – pensiamo alla potenza iconica dei draghi che man mano che la dinastia decade, diventano sempre più piccoli e deboli – è stata trasformata, in due soli episodi, in uno stanco trope che abbiamo visto ripetersi sullo schermo mille volte: Daenerys, la donna di potere in un mondo maschile, paga la sua ambizione impazzendo per la mancanza di amore e consenso intorno a sé, verrà punita, al contrario di Sansa che invece, pur essendo diventata ambiziosa e smaliziata, gioca secondo le regole degli uomini stando al suo posto – posto che peraltro deve agli uomini intorno a sé e che ringrazia, perfino quando viene stuprata, per averle insegnato a “essere più forte”, ovvero aver capito qual è il suo posto e che l’unico modo di ottenere ciò che si vuole è abbracciare il concetto di potere del mondo maschile.

Questi sono soltanto esempi, naturalmente, di come l’utilizzo di stereotipi familiari agli spettatori, che consentono di sveltire una storia lunghissima e risparmiarsi un lungo lavoro di sviluppo narrativo dei personaggi, abbia finito per portare la storia molto lontano da dove sarebbe potuta andare, soprattutto in termini di rappresentazione del mondo, perché la pigrizia delle scelte di adattamento si riverbera fin sul significato più profondo del racconto, che nelle intenzioni di Martin era appunto un attacco alla società del presente, e non una sua riproduzione pedissequa, priva di elaborazione critica degli stessi linguaggi che perpetuano.

Quando si racconta una storia dalle intenzioni rivoluzionarie, che si pone in posizione critica al funzionamento stesso del mondo, per tradurla coerentemente e raggiungere l’obiettivo di scuotere lo spettatore è necessario ragionare sulle modalità della messa in scena: oggi, nell’affollato mondo della peak tv, non bastano infatti l’enorme investimento economico e la spettacolare resa visiva per trasformare una serie in una pietra miliare. Rispetto a otto anni fa, infatti, oggi sono molti di più gli show che investono su una resa estetica televisiva degna del cinema che stupisca l’audience e arrivi a stabilire un canone stilistico per il genere del prestige drama.
Per stagliarsi all’interno di questo panorama è necessario ormai lo stesso impegno per portare anche la narrazione ad un livello superiore, perché la pigrizia narrativa, fatta di trope e cliché televisivi stantii anziché di una scrittura che cerchi di innovarli, finisce per distanziare lo stesso spettatore dal coinvolgimento nella visione, rompendo la magia dell’immedesimazione. Inutile attaccarsi alla “sindrome del critico della domenica” o rivendicare le proprie intenzioni a posteriori, quindi, perché se audience e fandom si concentrano su buchi narrativi e cattiva gestione dell’evoluzione dei personaggi il problema non sta negli occhi di chi guarda. Lo spettatore non è infallibile ed è vittima di bias come gli autori stessi, ma nel momento in cui si rivela più interessato a smontare il prodotto finale per guardare dentro gli ingranaggi che a immergersi nel racconto, è sicuro che qualcosa, da qualche parte, si è perso.

Resta, di Game of Thrones, l’innegabile eredità di un’esperienza collettiva di visione difficilmente replicabile in tempi di binge watching e frammentazione del target, resterà anche il ricordo di un fenomeno pop che ha trasceso le nazionalità, i gusti e le generazioni e soprattutto, lo show lascerà il segno come il primo grande esperimento riuscito di fantasy portato in televisione, sia pure fuori dai canoni del genere. In questo senso davvero si può parlare del finale di Game of Thrones come della fine di un’epoca, resta solo da stabilire se (almeno per quel che riguarda le ultime tre stagioni) quest’epoca sia da rimpiangere, o da archiviare senza tanti sentimentalismi.

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The Wandering Earth

di Alessandro Gaudiano
The Wandering Earth recensione film Gwo

Settecento milioni di dollari al botteghino cinese, cinque milioni di incasso per la sola release limitata negli Stati Uniti. Numeri impressionanti che danno un'idea del successo per un progetto come The Wandering Earth, opera terza del giovane regista cinese Frant Gwo (Guo Fan) recentemente inclusa nel catalogo Netflix.

Per chiarire il contesto, forniamo qualche dato aggiuntivo: The Wandering Earth è il secondo maggior incasso di sempre per il box office della Repubblica Popolare, secondo solo a Wolf Warrior II e superiore al pur impressionante successo di Avengers: Endgame. Il film è costato circa cinquanta milioni di dollari: non una cifra incredibilmente alta per il mercato cinese (Monster Hunt 2 è costato quasi il triplo, mentre I Fiori della Guerra di Zhang Yimou è costato quasi cento milioni di dollari), ma si tratta comunque di una cifra inedita per il cinema di fantascienza. Probabilmente, un tale investimento non sarebbe stato possibile senza un nome come quello di Liu Cixin, scrittore di fantascienza e autore di best seller indiscutibili che alimentano il crescente appetito del pubblico cinese per la letteratura di genere. La trama di The Wandering Earth è tratta dall’omonimo libro dell’autore, ma è stata pesantemente riscritta e declinata in chiave epica e action.

In un futuro non troppo lontano, la Terra è sull’orlo della distruzione: il Sole ha raggiunto la sua fase di espansione finale ed è previsto che, nell’arco di pochi decenni, inghiottirà il pianeta e buona parte del sistema solare. Per salvarsi da distruzione certa, i governi della Terra varano un piano di proporzioni ciclopiche che prevede di spostare il pianeta sull’orbita della stella compatibile più vicina, a oltre quattro anni luce di distanza. Vengono costruiti migliaia di giganteschi propulsori per spingere il pianeta al di fuori della sua orbita; gli abitanti della Terra si trasferiscono sottoterra per sopravvivere alle condizioni insostenibili della superficie.

L’ambientazione di The Wandering Earth è affascinante, al netto delle sue premesse poco verosimili. Orizzonti ghiacciati e terremoti, tempeste e immense rovine torreggiano sulla Terra, mentre le sue viscere sono un intrico di corridoi e architetture a metà tra lo steampunk e il brutalismo sovietico. Luoghi affascinanti e condizioni ideali per dispiegare le cospicue risorse degli effetti digitali, la cui efficacia è innegabile. La qualità è discontinua e varia dal solido al mediocre ma, nel complesso, l’effetto-attrazione di questo grande carosello scifi funziona e costituisce, di gran lunga, l’aspetto più convincente del kolossal di Frant Gwo.
Puntualmente, il piano per salvare la Terra fallisce e spetta ad un manipolo di uomini, tra cui l’astronauta Liu Peiqiang (interpretato dalla star Wu Jing, già protagonista di Wolf Warrior) e la sua famiglia, salvare il pianeta mettendo in atto un piano disperato.

The Wandering Earth, a tratti, lascia a bocca aperta: alcuni scorci di questo futuro sono di una bellezza struggente e sanno evocare il senso del sublime, anche grazie a una regia tutt’altro che piga. Purtroppo, tutto ciò non è supportato da una scrittura altrettanto convincente. Risulta chiaro l’intento di ispirarsi ad alcune opere hollywoodiane fondamentali in questo senso, a partire da Armageddon, ma la formula non viene svolta fino in fondo: gli autori preferiscono un ibrido citazionista che ingloba il grosso della fantascienza cinematografica in un arco che va da 2001: Odissea nello Spazio a Gravity. Il risultato è una narrazione incerta, ipertrofica, tesa a soddisfare tutti e omaggiare tutto: IA ribelli, disastri naturali, inserti da commedia, corse disperate e sequenze di guida tra i ghiacci si susseguono come in un interminabile trailer con lo scopo di dimostrare le capacità dei creatori del film.

A farne le spese è il ritmo nel suo complesso, arenato da un accumulo insostenibile di colpi di scena e climax. Soprattutto, a essere penalizzati sono i personaggi. Una scelta potenzialmente buona per questo tipo di storia, come quella di evitare il singolo protagonista-eroe a favore di un cast corale, è svolta in modo grossolano e ha come risultato quello di sottolineare ulteriorimente i limiti del film. Gli archetipi sono i soliti, dal padre con i sensi di colpa al figlio ribelle e arrabbiato, fino al soldato integerrimo che crede nel sacrificio a ogni costo. Purtroppo, nessuno di loro risulta ispirato o interessante. Ad esempio, uno dei personaggi, totalmente inconcludente, esiste con l’unico ruolo di fare da spalla comica, ma non riesce ad alleggerire i toni di un film apocalittico e risuona come una perenne nota stonata. Anche il personaggio di Han Duoduo convince poco: la figlia adottiva dell’astronauta sembra avere l’unico scopo di dare al fratello qualcuno da proteggere e, a livello produttivo, giustificare l’inclusione di un volto femminile in un contesto altrimenti dominato dagli uomini (en passant, è impossibile non notare che The Wandering Earth è praticamente privo di quella che Mao Zedong definiva come l’altra metà del cielo).

Nel complesso, The Wandering Earth è una giostra apocalittica che sa essere, a tratti, godibile, ma che non riesce a trovare una propria identità e sconta una serie di difetti da attribuire a uno scarso coraggio a livello di scrittura. Considerato che si tratta del primo vero kolossal di fantascienza prodotto dal cinema cinese, alcuni di questi problemi sono da considerare fisiologici. Ci auguriamo, come fa lo stesso Liu Cixin nel corso di un’intervista rilasciata di recente alla televisione cinese, che i produttori locali continuino ad investire nel cinema di genere e che siano disposti, in futuro, a rischiare di più. A farci perdere l'equilibrio mentre i nostri piccoli corpi sono in balia delle forze del cosmo.

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Frant Gwo Wu Jing Qu Chuxiao Zhao Jinmai 125 minuti
Cina, 2019
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