Fiore gemello

di Veronica Vituzzi
fiore gemello recensione film

Anna si allontana sempre di più da tutto e tutti. Fugge da qualcuno, evita gli spazi affollati. Basim tenta di avvicinarsi alle persone, vuole lavorare, viaggia alla ricerca di un posto dove vivere. Il primo incontro casuale fra i due è composto da questa danza di opposti che si completano: Basim si introduce nell’inquadratura per salvare Anna da due tipi molesti, Anna ne esce fuori e scappa via. Ma quando il ragazzo, una volta raggiuntala, capisce che lei, praticamente muta, non reagisce a nessun approccio, la saluta e si allontana. Solo allora, finalmente, Anna decide di entrare nell’inquadratura insieme a Basim, e fare insieme la stessa strada. Visivamente e no.

Fiore gemello costruisce tutto il rapporto fra i due protagonisti su questa metafora di due boccioli distinti ma uniti dal medesimo stelo: maschio/femmina, bianco/nero, italiano/straniero, in regola/clandestino, mutismo/parole, Anna che fugge via da qualcosa – da un uomo misterioso che la insegue – Basim che viaggia verso qualcosa. Eppure, una volta che si incontrano, i due ragazzi divengono parti dello stesso insieme. Parliamo di un film fatto di gesti e poche parole, quest’ultime perlopiù pronunciate in francese da Basim che è originario della Costa D’Avorio. La consuetudine di cenni e movimenti diviene pian piano una sorta di danza, un’armonia fisica creata dalla fiducia crescente fra Basim e Anna che imparano a ridere insieme, a scherzare, a guardarsi, fino a stringersi nell’abbraccio di due corpi oramai uniti oltre ogni differenza.

Il talento della regista Laura Luchetti sta nel saldare fermamente questa rappresentazione cosi tenera e delicata a un’ambiente e un paesaggio vivissimi, molteplici, dinamici. La natura, fatta di mari, spiagge, prati e boschi, insetti e uccelli, sole vivido e notti cristalline, avvolge in un parallelo e morbido abbraccio i personaggi, li accoglie in sé e li riconosce come propri elementi. Non a caso dunque ritorna l’assonanza metaforica con le piante, poiché Basim e Anna spuntano ripetutamente dall’inquadratura come fiori, i loro corpi e i loro gesti sono coesi con tutto ciò che li circonda, ed è a questo creato primordiale che sembra dirigersi il loro viaggio improvvisato.  Il mondo degli uomini, a confronto, pare vuoto, incoerente, crudele, destinato a corrompersi e cadere a pezzi come il vecchio edificio abbandonato dove i due ragazzi si rifugiano.

D’altra parte tutti gli altri personaggi di Fiore gemello sono uomini: comparse anonime, oppure vittime inerti e carnefici maneschi. L’antagonista del film è l’uomo con cui lavorava il padre di Anna, un individuo massiccio che si occupa di traffico clandestino di migranti e che vuole ritrovare la ragazza che gli è fuggita dopo il loro ultimo tragico incontro. Il suo è lo stato perenne di chi si identifica come straniero nel mondo e denuncia una solitudine che lo aliena dalla natura entro la quale invece i protagonisti si incastrano così bene, una natura benevola e salvifica che esso non sa riconoscere. Ecco allora che l’unica persona oltre a Basim che cerca di proteggere Anna è un fioraio (Giorgio Colangeli) che la fa lavorare in mezzo alle piante; gli altri uomini sono invece forieri di aggressioni e sfruttamenti che avvengono dentro le macchine, sui motorini, davanti ai supermercati, nascosti nei vicoli. Hanno divelto le proprie radici dal suolo, e sono divenuti bestie anziché flora.

Film intenso e delicato, che unisce la passione dello sguardo alla tenerezza del racconto, Fiore gemello è un’opera letteralmente da vedere perché la costruzione gentile di ogni sua inquadratura accarezza gli occhi dello spettatore e sa ispirare la visione di una – chissà - utopica ma istintiva connessione con la natura: non ideale arcadico ma una felice invenzione cinematografica.

Categoria
Laura Luchetti Anastasyia Bogach Kalill Kone Giorgio Colangeli Aniello Arena Fausto Verginelli 95 minuti
Italia 2018
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Square

di Riccardo Bellini
Square - recensione film bregula

L’arte, e di conseguenza il ruolo dell’artista, possono ancora cambiare le cose in modo concreto? In un mondo dove anche il messaggio più nobile rischia continuamente di trasformarsi in prodotto indifferenziato, svuotato di senso, è ancora possibile uno sconvolgimento che porti a una matura presenza di coscienza? Che rapporto si instaura, oggi come prima, tra l’artista e il pubblico al quale ci si rivolge? La regista e video-artista polacca Karolina Bregula è partita da questi quesiti per il suo Square, ultimo film in concorso al 55° Pesaro Film Festival, al cui centro si instaura proprio il terrore verso l’eventualità di una domanda che non verrà mai posta. Nella piazza di una cittadina in Taiwan, infatti, una statua nascosta da alcuni cespugli inizia a parlare ai passanti ripetendo in continuazione, prima con tono gentile e poi in modo sempre più insistente, la frase “vorrei farti una domanda”. La curiosità di alcuni abitanti e lo scetticismo di altri si trasformano presto in preoccupazione e aperta ostilità, fino a che la situazione non diventa insostenibile, quando la statua inizia ad urlare senza sosta le stesse parole.

Nella sua essenzialità narrativa, Square ci pone di fronte a un quadro arido e preoccupante di coscienze sopite, in cui interrogarsi su stessi e sul mondo che ci circonda è già di per sé un atto sovversivo. Dinanzi al pericolo di una domanda, le reazioni sono diverse ma quasi tutte poco consolanti: c’è chi rifiuta perentoriamente questa eventualità, fino a dare vita a gruppi reazionari, chi nella sua indolente indifferenza spera che accada qualcosa senza darsi la pena di intervenire, e chi semplicemente si lascia cullare dal canto della statua, forse disinteressato a comprendere il valore di quelle parole. La mobilità di pensiero invocata con fiducia e poi urlata dalla statua, si scontra con la fissità di una società alienata nella sua asfissiante routine, tanto nel lavoro quanto nella vita privata. Momenti che Bregula ci restituisce nella loro coercizione attraverso lente inquadrature a macchina fissa abitate da figure che si muovono con lentezza a tratti disumanizzante, in totale contrasto con la concitazione della macchina a mano delle scene meta-filmiche ambientate a Varsavia, in cui la stessa regista, in corsa verso una meta imprecisata, espone guardando in macchina le ragioni che l’hanno portata a realizzare il film.

Tanto nella quotidianità di chi vive passivamente la propria vita, quanto nella ricerca dell’artista mosso dall’urgenza del cambiamento, la parola risulta così impotente, trasformata in refrain sempre più privo di senso, ripetuto dai passanti ma mai assimilato con coscienza. Inevitabile - e poco ottimista - risulta allora il cortocircuito cui arriva Square: scontata l’impossibilità di trasmettere il contenuto del messaggio, non resta che rigurgitare la protesta presa in quanto tale. La parola perde di significato, trasformata prima in canto - e dunque in ritmo e melodia -, reiterata fino allo sfinimento e poi ridotta in urlo disperato, unico modo per sconvolgere. Con la scelta di inserire l’installazione artistica all’interno della finzione narrativa - la statua nascosta dal cespuglio e la circoscrizione dello spazio, limitato appunto a una piazza, fanno pensare proprio a una sorta di installazione da museo in cui coinvolgere direttamente il pubblico - Bregula lega ancora di più la riflessione sull’efficacia dell’arte al nostro presente, attenta però a non sottrarre al proprio lavoro una valenza che resta, nell’incomunicabilità tra artista e pubblico, di portata più universale. Se nel finale si arriva sì allo sconvolgimento ma non alla presa di coscienza tanto cercata - tranne forse che per pochi -, e se delle istanze che muovono l’artista sembra sopravvivere soltanto la disperazione per una missione frustrata, resa ancora più incomprensibile a chi non vuole scardinare le proprie certezze, - non importa quanto illusorie -, l’ultima inquadratura ci concede comunque, timidamente, la possibilità di una piccola speranza.

Categoria
Karolina Bregula Karolina Bregula 78 minuti
Polonia, Taiwan 2018
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Shéhérazade

di Domenico Saracino
 Shéhérazade - recensione film Jean Bernard Marlin

Ci sono posti – e momenti, condizioni, circostanze – in cui l’amore muore o si affila. In cui avvizzisce o si fa largo, con lenta dolcezza, nei gineprai oscuri che la vita a volte ci riserva. La periferia marsigliese in cui è ambientata Shéhérazade, vigorosa opera prima di Jean-Bernard Marlin, è uno di questi spazi ostili, una di quelle fratte in cui inciampare e farsi male è più facile che altrove.

Zach (Dylan Robert), giovanissimo beur non ancora maggiorenne, si è già trovato invischiato in scippi, rapine e aggressioni. È finito in carcere per qualche mese e anche se si augura di non tornarci mai più (“à jamais” risponde alla guardia che scarcerandolo gli dice “à bientôt”) non fa molto per restare fuori dai guai.  Sheherazade (Kenza Fortas), la prostituta del titolo di cui il ragazzo diventa protettore – dopo aver capito che la madre, disoccupata e impotente, non lo avrebbe aiutato – batte per strada, costretta a subire ogni giorno l’umiliazione di rapporti sessuali indesiderati e dello sprezzo altrui.  Entrambi vivono in una città multietnica con alti tassi di povertà, disoccupazione e dispersione scolastica, una metropoli che fa fatica ad emanciparsi dal proprio passato di capitale del traffico mondiale di droga e della criminalità organizzata.

Su questo fronte lo sguardo di Marlin, nato e cresciuto nella grande città portuale francese, non fa sconti: le inquadrature strette, la claustrofobia urbana che si respira, con le luci livide che si allargano a macchia, fino a molestare il quadro filmico, come se tutto fosse filmato attraverso un finestrino sporco, non fanno che enfatizzare il senso di soffocamento e di rassegnazione che pervade luoghi e personaggi. Così come alcune linee di dialogo dai toni amaramente apodittici (“A Marsiglia è come i soldi”, dice Zach di una tavoletta di hashish con cui intende pagare Shéhérazade quando si incontrano per la prima volta, prima di innamorarsi l’uno dell’altro). Eppure dietro gli atteggiamenti da duri, Zach e Shéhérazade non sono che bambini costretti a crescere e svilirsi troppo in fretta: lei con il suo pollice da succhiare, lui con la sua paura del buio. Marlin li segue con rispetto e delicatezza, li lascia liberi di compiere i loro errori, senza denigrarli, senza giudizi, ma con profondo riguardo.
Ad interpretarli due giovani attori non professionisti, capaci di sfoderare performance notevolissime, entrambe premiate con il César per la migliore promessa. Kenza Fortas, cresciuta tra le strade di Belle de Mai, uno dei quartieri più difficili della città, avendo mollato la scuola a 16 anni. E poi Robert, che con il suo personaggio condivide praticamente tutto: la residenza a Marsiglia, l’origine straniera (e a tal proposito sono interessanti le immagini d’archivio all’inizio del film, con gli immigrati in arrivo a Marsiglia, sulla musica moroderiana di Keli Hlodversson, Sad Disco), persino la detenzione nello stesso carcere, luogo in cui si trovava quando ha appreso del casting di Shéhérazade.

È l’amore tra i due – inizialmente intimidito, schiacciato, assottigliato fino a scomparire per paure e dolori, eppure proprio per questo capace di farsi aguzzo, resistente, una volta scoperto e nutrito – a dare forza e poesia al film, ad affrancarlo dalla pur pregevole (ma tutto sommato consueta) “trattazione” neorealistica. L’amore capace di fiorire anche negli ambienti più desertificati (nel puro senso etimologico: abbandonati, dis-connessi, vuoti), l’amore come balzo fuori dal baratro, come riabilitazione alla vita.
Shera è per Zach una figura trasformativa, trasfigurante, non meno di quanto la sua celebre omonima lo sia stata in Le mille e una notte per lo scià accecato dalla rabbia, trasformato in mostro femminicida da un adulterio mal digerito e un’insana voglia di vendetta, ma ancora capace di pentirsi e di redimersi grazie al potere delle storie e dell’amore.

La grandezza di Marlin sta proprio qui, nell’aver creduto fino in fondo al miracolo del gesto amoroso. Condensato meravigliosamente nel bellissimo finale, con quel dolce fatto apposta per lui, passato tra le sbarre ottuse che li separano, le mani che si cercano e si lasciano con una promessa: “Ti aspetterò”.

Categoria
Jean-Bernard Marlin Dylan Robert Kenza Fortas Idir Azougli 116 minuti
Francia 2018
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Chernobyl

di Saverio Felici
Chernobyl recensione serie tv HBO Renck

Chissà la gioia di Craig Mazin, ideatore e sceneggiatore di Chernobyl, di fronte al coro di sopracciglia alzate e battutine che ha accolto l'atteso arrivo del suo magnum opus. Praticamente nessuna recensione apparsa online ha fatto a meno di rimarcare sarcasticamente il suo curriculum, ironizzando su come l'autore di copioni per Scary Movie 3 e 4 (grandissimi film peraltro) e della saga di Una notte da leoni avesse infine sentito l'urgenza esistenziale di una svolta “seria”. Come se una carriera al servizio della commedia fosse da ritenersi implicitamente inferiore alla “televisione di qualità”, un marchio di vergogna con l'approdo al dramma come unica forma di redenzione concessa. Ironia a parte, l'operazione peculiare lo è senz'altro: il Chernobyl HBO è uno dei grandi eventi televisivi dell'anno, oltre che un essenziale reminder di cosa sia capace la madre di tutte le case di produzione televisive moderne quando non ancorata agli obblighi del fan service e alle pretese di un pubblico ingestibile (leggasi Game of Thrones). Chernobyl è l'opera della vita dell'autore di Scary Movie 3, almeno a leggere i credits: quanto poi sia legittimo parlare di “autori” in un contesto ultra-strutturato e così frammentario in termini decisionali quale quello della televisione, resta un discorso ancora tutto da valutare. Chernobyl è un trionfo di scrittura e regia, ma come ogni grande opera televisiva è soprattutto un trionfo produttivo.

Riassumere Chernobyl non è cosa da farsi. Come nelle opere di David Simon (che ha endorsato entusiasta la miniserie), i singoli personaggi e le moltitudini di sottotrame e punti di vista convergono al servizio di un racconto d'insieme, atto a fornire il ritratto di qualcosa di altrimenti irrappresentabile. Una città, un periodo, o la più spaventosa catastrofe ambientale della storia dell'umanità. Qui, i punti focali del racconto sono le drammatiche operazioni condotte da tre protagonisti per contenere il disastro e individuarne le cause: il fisico nucleare Valerij Legasov (Jared Harris – uno dei più grandi attori viventi né più né meno), il generale Boris Shcherbina (Skarsgard), la scienziata Ulana Khomyuk (Watson). Attorno a loro, ruotano le storie di civili, pompieri, soldati, ricercatori, politici, e ovviamente delle istituzioni, determinate a trovare i colpevoli e negare ogni responsabilità dello Stato nella follia annunciata della corsa al nucleare.

Mazin e il regista Johan Renck (factotum televisivo con Breaking Bad e The Walking Dead in portfolio) calibrano il racconto al millimetro, dando fondo a tutti i trucchi del mestiere cinematografico. L'obbiettivo, un'autentica sfida, è articolare una panoramica multiforme e bizantina che risulti inattaccabile su tre piani: il racconto di suspense, il report scientifico divulgativo, e il film di denuncia. Una volta tanto, di film si può parlare sul serio: il formato da miniserie si presenta veramente come quello di un lungometraggio di 6 ore, pensato per l'era del binge e dello streaming, e in cui i titoli di coda a intervalli di 70 minuti servono solo a tirare il fiato prima di ripartire. Dunque, la tensione narrativa è tenuta insieme da una serie di elementi provenienti dal mondo delle sale più che da quello della tv. Attraverso la struttura a mosaico (Simon, ancora) e la ricerca ossessiva e meticolosa del dettaglio iperrealista, Chernobyl si porta a tratti quasi nel territorio di Peter Berg, e dei suoi lavoro di cronaca-action “storie vere” in coppia con Mark Wahlberg. I trick ritmici sono quelli: la scansione temporale implacabile (minuti, ore, giorni, un bollettino di guerra) e ovviamente l'utilizzo sapiente del flashback e dei tempi incrociati; non tanto subordinati a “scombinare le carte”, quanto a riportarci costantemente a rivivere, ogni volta da un nuovo punto di vista, i momenti chiave della vicenda. Quando gli errori umani o le drammatiche casualità si sarebbero rivelati tasselli di un'Apocalisse sventata.

A livello tematico, la serie sa dividersi tra il succitato modello action di Berg e il classico concetto di dramma di denuncia, mirato ad agitare le coscienze, lodare gli eroi e invocare una piuttosto generica indignazione da parte del pubblico. Il vero “obiettivo” di Chernobyl in tal senso emerge solamente nel quinto e ultimo atto del dramma. L'episodio finale rappresenta un significativo colpo di coda, in cui lo scarto di tono improvviso ci porta dal fuoco e il fumo del Disastro all'algida aula di tribunale dove un processo farsa voluto dal Cremlino si appresta a condannare i colpevoli e disconoscere ogni implicazione del Partito. E' il momento in cui Chernobyl rallenta, indottrina (con tanto di grafici e modellini), mostra le carte e lancia il suo potente j'accuse contro il pericolo della menzogna politica. I copioni di Mazin non si fanno problemi a sposare un punto di vista, come certi prodotti sono inevitabilmente chiamati a fare: la sconsiderata e conclamata follia di Anatoly Dyatlov non avrebbe avuto le conseguenze che ha avuto, se gli organi di informazione moscoviti non avessero per primi mentito sulla stabilità e la sicurezza dei propri giocattoli apocalittici. Alla resa dei conti contro le invisibili e spaventose istituzioni rosse, Legasov, Shscerbina e Khomyuk ribadiranno l'importanza della presa di posizione individuale, dell'umano nella macchina, per contrastare l'inumano di quegli apparati burocratici per cui è normale “mentire fino a dimenticarsi di farlo”. Una chiamata alle responsabilità felicemente individualista, quasi spielberghiana. C'è chi ha parlato anche di Schindler's List, e anche questo paragone è centrato: la bontà e il coraggio di piccoli grandi uomini blue collar, chiamati a rimediare alle catastrofi volute da grandi piccoli uomini white collar. Un manifesto che ci riporta alla natura più americana del prodotto. In senso positivo, ovviamente.

In senso negativo, il retroterra ideologico di Chernobyl e il suo fine sottilmente propagandistico non sono esattamente nascosti tra le righe. E se la notizia che la Russia preparerà una propria serie in risposta resta un clickbait (è in produzione da anni, e ci resterà ancora a lungo), è ancora una volta importante provare a leggere oltre il “messaggio”, e arrivare a scorgere i motori sociali dietro una produzione di largo consumo. L'insistita e appassionata requisitoria contro i malefici valori dell'URSS, a molti (persino in America, il che è tutto dire) ha fatto comprensibilmente storcere il naso. L'intera operazione, così attenta nel sottolineare l'ipocrita malvagità del regime sovietico come “peccatore originale” e primo vero nemico dei working class heroes protagonisti, si ascrive a quella robusta corrente propagandistica del mainstream americano contemporaneo che ha recentemente riscoperto il Comunismo storico come nemico da affrontare. La denuncia di Chernobyl, l'intrattenimento basso di Red Sparrow, persino il biopic innocuo di Nureyev: nell'ultimo anno, con lo spauracchio di Putin e il suo legame di potere con il Presidente USA, la Russia politica è tornata a rappresentare un mostro da temere, e un villain cinematografico plausibile. In più, in un momento in cui l'american way of life del capitalismo liberista è ai minimi storici in termini di popolarità locale, è interessante ritrovare un cinema americano che si prodighi nel ricordare ai propri cittadini quanto l'incubo del socialismo sovietico debba ancora far paura. Sotto una simile lettura, il recente afflato nello scavare tra le piaghe oscure della Guerra Fredda appare meno nobile. Ma negare l'influenza della sfera politica su quella creativa è ingenuo per definizione, e ancor di più in un'industria così strettamente connessa ai mutamenti sociali come è quella dell'intrattenimento hollywoodiano. Sia Disney o HBO, nessuna decisione apparentemente radicale è in realtà presa se non in funzione del pubblico e dei suoi bisogni percepiti. Ed è questo che le rende così significative. Se si ha la freddezza di inquadrare al loro posto le ovvie e prevedibili ideologie alla base, e ricondurle ad una precisa scala di importanza, Chernobyl appare per quello che è: un'epica sociale e individuale tra le più potenti degli ultimi anni.

Etichette
Categoria
Johan Renck Jared Harris Stellan Skarsgård Emily Watson Paul Ritter Jessie Buckley 1 stagione da 5 episodi
USA 2019
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

The Bride

di Gian Giacomo Petrone
The bride - recensione film podgayevskiy

Non si può certo affermare che la terra di Russia sia mai stata prodiga di racconti filmici horror, specie a causa degli orientamenti politico-ideologici del realismo socialista, che rigettavano la sfera dell’irrazionale e le sue derive, evidentemente individualiste, legate all’interiorità dell’uomo anziché alla sua collocazione nella dimensione della polis come portatore di istanze collettive. Tuttavia, fanno capolino talora elementi perlomeno fantastici nella produzione cinematografica sovietica, già a partire dagli anni Trenta. A tal proposito, non vanno dimenticati esempi assai intriganti, costituiti dai lavori di registi come Aleksandr Ptuško o Lev Atamanov, o da – rari – film con vaghe venature di macabro come The Drowned Maiden (Aleksandr Rou, 1952) o Viy (Georgij Kropačëv e Konstantin Eršov, 1967).

Questa generale idiosincrasia per il cinema del brivido, apparentemente sedimentata ancora oggi in Russia, almeno a livello produttivo se non spettatoriale, risulta talora incrinata dallo sforzo di recuperare terreno, rispetto a paesi come USA, Giappone, Francia, con tentativi più o meno timidi di varcare la soglia dell’incubo e di immergervisi finalmente a occhi spalancati. Sicuramente, uno dei nomi più interessanti in questo – al momento ancora relativamente spoglio – orizzonte è quello del moscovita Svyatoslav Podgayevskiy, con all’attivo già due lungometraggi horror prima di The Bride. Con quest’ultimo titolo, Podgayevskiy attinge a suggestioni folcloriche slave legate alla condizione della figura femminile in procinto di contrarre matrimonio, ibridate con le inquietanti dinamiche che presiedono alla pratica della fotografia post mortem.
Diffusasi qualche tempo dopo la nascita della dagherrotipia e conclusasi verso gli anni Quaranta del secolo scorso, con un indubbio sostrato latente magico-apotropaico, tale pratica prevedeva la raffigurazione visiva di un defunto – da solo o circondato dai congiunti – come se fosse ancora vivo. Le implicazioni teoriche di tale usanza risultano di certo palesi, innanzitutto tenendo presenti le notevoli riflessioni baziniane sulle arti plastiche e la fotografia, in quanto pratiche connesse alla necessità dell’uomo di “avere ragione del tempo attraverso la perennità della forma”; in secondo luogo non va trascurata l’idea, diffusa presso alcune culture, che la fotografia non catturi solo l’immagine bensì anche l’anima del soggetto inquadrato. Tuttavia, Podgayevskiy fa uso di queste intriganti possibilità meta-riflessive e credenze quasi esclusivamente come innesco narrativo di una ghost story senz'altro d’atmosfera, ma che nondimeno avrebbe potuto giovarsi di una maggiore articolazione significante. D’altro canto il regista risulta assai abile nello sviluppare l’altro snodo narrativo cruciale, quello di matrice folclorico-tradizionale legato a quella sorta di limbo in cui risiederebbe la sposa promessa (laddove la dimensione della promessa non si coagula soltanto intorno al suo valore assertivo o predittivo, bensì si sostanzia di un valore performativo): non più compiutamente nubile e, malgrado ciò, neppure giuridicamente maritata, e per ciò stesso potenziale preda di spiriti malvagi.

La vicenda di The Bride prende le mosse da un antefatto lontano nel tempo: nella Russia della metà dell’Ottocento un uomo, abile dagherrotipista, tenta di preservare l’anima della moglie defunta, conservandone l’immagine nel negativo su lastra, affinché ella possa reincarnarsi nel corpo di una ragazza, seppellita viva assieme alla donna. Ai giorni nostri, la giovanissima Nastya (Viktoriya Agalakova) si sposa col fotografo Vanya (Vyacheslav Chepurchenko); tradizione vuole, però, che ella trascorra un periodo presso i parenti del marito, al fine di essere accolta come nuovo membro della famiglia a tutti gli effetti. Ciò implica che il matrimonio, per considerarsi effettivo, debba venire sancito da una sorta di rito familistico-tribale. Naturalmente, Vanya è un discendente del dagherrotipista dell’antefatto, e inoltre nella magione avita è ancora conservato il negativo dell’immagine della defunta moglie di quest’ultimo; conseguentemente, la matassa si imbroglia.

Podgayevskiy focalizza la propria attenzione sulla giovane protagonista e sul suo rapporto col nuovo (ma ancestrale) mondo rurale e isolato in cui è costretta a stabilirsi per seguire il consorte, un microcosmo di cui sono custodi due donne: la sorella di Vanya, Liza (Aleksandra Rebenok), e l’anziana dottoressa Aglaya (Natalia Grinshpun). Come in ogni storia di fantasmi che si rispetti, non mancano un’incombente presenza maligna e una tetra dimora carica di mistero e di spazi labirintici. Il duello fra colpa atavica e innocenza, fra tradizione e ansia di libertà, fra oscuri residui di un passato incancellabile e vitalità dirompente si sviluppa quasi esclusivamente fra figure femminili, mentre il baricentro del racconto si regge sulle fragili – anche se inaspettatamente resistenti – spalle della protagonista, attraverso i cui occhi si snoda la progressione del racconto e il flusso di informazioni per lo spettatore.

Nonostante il rischio di cadere nello stereotipo ad ogni passo, Podgayevskiy tratteggia una vicenda in cui il senso onnipresente di déjà vu non è il limite bensì la chiave per oltrepassarlo, per decifrare il modo in cui un bagaglio di elementi narrativi consolidati si trasfigura se osservato con occhi nuovi. Ecco allora che l’atmosfera di complotto alla Polanski, le temporalità e gli spazi labirintici alla Bava o, ancora una volta, alla Polanski, o magari alla Tarkovskij, accanto a trovate visive e registiche peculiari dell’horror di oggi, trovano nelle immagini di The Bride una sorta di sintesi che è solo concettualmente postmoderna, ma che (quasi) mai scade nel gioco citazionistico fine a se stesso o nella ripetizione di stilemi e temi consunti. Il film risulta infatti marcato da una organica unità interna, a cui concorrono tutti gli elementi che lo compongono: ambientali, narrativi, atmosferici, attoriali, luministici, persino linguistici. Podgayevskiy riesce a non perdere di vista l’insieme e a centrare quello che probabilmente è l’obiettivo primario di un film horror, di ieri come di oggi: inquietare con le immagini, senza che queste costituiscano soltanto un pretesto, un espediente.

Categoria
Svyatoslav Podgayevskiy Viktoriya Agalakova Vyacheslav Chepurchenko Aleksandra Rebenok 96 minuti
Russia 2017
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Weeeping on a Pile Carpet

di Elvira Del Guercio
Weeeping on a Pile Carpet - recensione film

Vincitore ad Asolo nella categoria Post Internet Art, Weeping on a Pile Carpet di Désirée Nakouzi De Monte e Andrea Parenti è un cortometraggio che cerca di far addentrare lo spettatore in un qualcosa di più vicino a un incubo cibernetico che alla realtà, trascinando qui guarda in un microcosmo sospeso, in un tempo che incede per istantanee di immagini e fotografie che spezzano il ritmo già flemmatico della narrazione; o per improvvisi baluginii di senso derivati dalla vista e poi dall’utilizzo di un computer, un cellulare, una videocamera. Tutti non a caso oggetti-feticcio di cui i personaggi non possono fare a meno per comunicare: il cortometraggio è scandito in due momenti, in cui rispettivamente una ragazza e un ragazzo sembra si scambino video della loro quotidiana e “logora” intimità, riprendendo(si) dal di fuori e dal di dentro. Quasi fosse l’unico modo per testimoniare al mondo e a loro stessi il proprio esserci. In questo senso non è semplice chiarirsi l’entità di un prodotto così respingente, anche eccentrico, quantomeno nella forma, senza dialoghi o parlato e con un sonoro straniante ed elettronico, risultando quindi assai complesso decifrarne il codice espressivo, capirne il significato, la teoria dietro l’immagine così ruvida, madida. Ci si domanda poi che cosa i due protagonisti vogliano dirsi e dire, se si tratti di nostalgia, mancanza, impossibilità di incontrarsi, plasmando così lo spazio e il tempo lasciati vuoti dalla lontananza attraverso un mondo immaginario, di comunicazione inter-specie e pratiche feticistiche, con i rispettivi corpi che sono come patchwork di frammenti giustapposti, ricuciti.

È possibile però che Weeeping on a Pile Carpet voglia trasmettere nient’altro che ciò che si vede, senza una particolare ricerca di profondità. Non c’è nulla dietro quei (non a caso) neri occhi privi di pupille ed espressione, solo un vuoto che li rende simili e sostituibili, automi. La videocamera si insinua infatti prima sui rispettivi volti esangui, quasi da vampiri, non umani, percorrendone i tratti estremamente da vicino, e poi sugli oggetti, su epidermidi diafane con occhi stralunati o grondanti di glitter, sui pavimenti sporchi, sugli ambienti claustrofobici. Nonostante ci sia un momento in cui ci allontana da questa dimensione domestica alienante i due la percepiscono tuttavia come unica possibile, sentendosi perfettamente a loro agio all’interno dei suoi confini, non desiderando mai uscirne, mai incontrarsi, toccarsi.

Categoria
Désirée Nakouzi De Monte Andrea Parenti 17 minuti
Italia 2019
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Landing

di Donato Guida
Landing di Shirin Sabahi

Corea del Sud, Seoul. La macchina da presa sorvola la città e presenta uno scenario dove natura e architettura sembrano convivere in una stessa alchimia. Nessun suono imposto in sottofondo, se non quello della vita quotidiana che scorre come ogni giorno. Dopo la panoramica visione dello skyline della metropoli, la ripresa area cattura il protagonista del racconto: l’immenso quartier generale della Company coreana Amorepacific, azienda cosmetica. Un planare lento ci accompagna verso il ventre della costruzione e poi lo sguardo si adagia dolcemente nell’area centrale, a inquadrare alberi ed acqua rivelando così il cuore pulsante della grande struttura.

Ad attendere lo spettatore c’è Daekwang Lee, fotografo di architettura che, come un moderno Virgilio, lo affianca nel lungo percorso all’interno dell’edificio; e così come un diplomatico francese accompagnava Sokurov all’interno dell’Hermitage di San Pietroburgo alla (ri)scoperta della grande storia russa, anche qui Lee spoglia l’imponente fabbricato, mostrandone la geometria trasparente, la composizione perfetta, i meandri nascosti, le luci – che attraversano le facciate di vetro - e i significati intrinsechi.

La macchina da presa della regista Shirin Sabahi si muove armoniosamente e segue, senza mai interferire, il dialogo immaginifico che si crea tra il pensiero di Lee e la voce narrante dell’architetto inglese David Chipperfield. Tra ascensori, scale mobili, parcheggi, terrazzi e aree ancora incompiute, le parole accompagnano la visione globale delle fasi realizzative della grande, luminosa costruzione.

Vincitore del premio come miglior cortometraggio nella categoria “Films on art” all’Asolo Art Film festival, Landing è un film essenziale e, allo stesso tempo, esaustivo. Pone lo spettatore al centro di un’opera architettonica imponente, accompagnandolo e guidandolo a svelarne l’interno. Sabahi ci invita ad essere parte integrante dei pensieri che accompagnano la visione, condensando nella voce fuori campo le conversazioni avvenute con ben ventisei architetti, e ci fa sentire quasi coautori di questo approfondito studio su un’opera grandiosa, che in un certo senso sposa la natura inglobandola dentro di sé.

La collettività (il gruppo di architetti e i loro discorsi) diventa singolo (Lee che attraversa lo stabile/la voce narrante di Chipperfield che lo accompagna) e l’opera unica (edificio) diventa totalità (Architettura/Natura). Nell’arco di venti minuti, Sabahi attraversa e indaga la struttura da diverse prospettive (verticale, orizzontale, trasversale), componendo con  le immagini un nuovo rapporto tra architettura e ambiente, cinema e narrazione.

L’essenza di Landing risiede proprio nel “cuore” dell’edificio: uno spazio verde e silenzioso, dove alberi e corsi d’acqua artificiali dettano un tempo non più caotico e metropolitano, ma palpitante e ritmico e naturale, come intriso di linfa vitale; dove il cemento non vuole più soffocare le radici della natura, ma si affida ad esse per cercare un nuovo, e più armonico, respiro.

Categoria
Shirin Sabahi 21 minuti
Germania, 2018
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

I Am Mother

di Mattia Caruso
I Am Mother - recensione film sputore

Di film di fantascienza che sanno fare del proprio ristretto budget una virtù ne è pieno il mondo (e, soprattutto, Netflix). I Am Mother, opera prima del regista Grant Sputore, sembra rientrare in questa categoria, anzi, pare essere la summa perfetta di quello che la piattaforma di streaming ha da offrire in materia di prodotti di genere, con tutti i pro e i contro che ciò comporta.
Perché in questo dramma da camera in chiave sci-fi, consumato all'interno di una manciata di mura – fuori, invisibile (o quasi), l'apocalisse, dentro, una ragazza (la giovane e decisamente convincente Clara Rugaard) e il robot (doppiato da Rose Byrne) che l'ha allevata come fosse sua figlia – ci sono tutti gli elementi del classico film targato Netflix: un'idea forte alla base, uno sviluppo serrato capace di tenere alta la tensione nonostante le ristrettezze di mezzi (e spazi) e un volto celebre per dare spessore e garanzia di qualità all'operazione (ruolo questa volta assegnato a Hilary Swank, misteriosa donna destinata a spezzare l'equilibrio tra madre e figlia). D'altronde, non è all'insegna né dello spettacolo né degli effetti speciali ma della paranoia e dell'ambiguità che si gioca tutto il senso di un progetto come questo, un kammerspiel fatto di colpi di scena e ribaltamenti prospettici che non ha paura della prevedibilità, riscattato com'è da una regia solida, capace di ovviare agli evidenti limiti produttivi in maniera inventiva ed efficace, il tutto per mettere in scena il più distopico dei viaggi di formazione: la crescita in cattività di un'adolescente pronta a diventare donna, anche a costo di mettere in discussione l'autorità materna, le sue apprensioni, i suoi divieti, le sue bugie.
Nel mezzo, tutto l'armamentario del genere, da un robot che per ambiguità ed estetica pare fare il verso all'HAL 9000 di 2001: Odissea nello spazio, al sempre controverso rapporto tra uomo e macchina, qui arricchito da un'idea di fondo non del tutto scontata.

È così che il percorso di crescita della giovane protagonista – prototipo di una nuova umanità, perfetta non per ragioni genetiche ma per gli insegnamenti (etici, soprattutto) ricevuti – guarda al presente con sguardo nuovo, relegando i temi post apocalittici e tecnologici fuori dalla porta e concentrandosi sulla differenza che può fare l'educazione sulle nuove generazioni e sul loro futuro.
Il risultato è un'opera minimale, che rifugge lo spettacolo e che, forse, proprio per questo avrebbe potuto osare di più a livello tematico ed espressivo, ma che riesce, nonostante tutto, a tenere alta l'attenzione, garantendo un intrattenimento decisamente non scontato. Quanto basta comunque a Netflix per riproporre ancora una volta la sua formula (per ora) vincente.

Etichette
Categoria
Grant Sputore Hilary Swank Clara Rugaard Rose Byrne 115 minuti
Australia, USA 2019
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Barry - Seconda stagione

di Irene De Togni
Barry - serie tv hbo recensione

A dispetto – o forse proprio in forza – dell’andamento più discreto e di gran lunga meno esibizionista di altri titoli di punta HBO con cui lo show di Alec Berg e Bill Hader è arrivato a fine seconda stagione (e si avvia verso una terza già confermata), Barry avrebbe tutte le carte in regola per raggiungere, intrattenere e far riflettere una larghissima fetta di pubblico. Barry è intrigante, divertente, spessa, agevole e di ottima fattura. La storia della riconversione di un ex marine degli Stati Uniti, Barry Berkman (ora un hitman nel Midwest) a una carriera di attore teatrale permette di far entrare in risonanza il gangster movie esistenzialista, umoristico e fortemente estetizzato à la fratelli Coen (che, in televisione, ritroviamo in serie come Fargo o Patriot, recentemente raggruppate da Vulture nel sottogeneri della murder-com) con l'ipertestualità della scena teatrale (tema sviluppato con alcuni tratti comuni da Michael Gondry in Kidding) e con quel particolare tipo di coralità che nasce dall’esaltazione e dal coinvolgimento delle singolarità tipica dei gruppi di studenti di recitazione.

Lungi dal seguire una semplice linea retta che porterebbe il nostro protagonista dalla vita criminale a una onesta, la trama di Barry si allarga fino ad abbracciare un complesso gioco di rimandi e rivolgimenti delle due vite parallele che il nostro eroe sta conducendo. La scena teatrale in Barry è altrettanto mortifera, dolorosa e irta di ostacoli della scena criminale, altrettanto esigente, altrettanto motrice dell’azione. Essa si nutre del vissuto del nostro eroe, ne rimescola le tensioni e le ricostruzioni, lo flette, lo riflette. Presentata come una diversa Weltanschauung rispetto alla vita criminale, l’avvicinamento al teatro è foriero di una vera e propria trasformazione del modo di vedere le cose per Barry, di un allargamento del suo piano di esistenza, e richiede un volontario e paziente sforzo di apprendimento.

Una delle scelte più interessanti della serie è stata quella di far adottare a Barry (in netta opposizione all’expertise che dimostra nel vecchio mestiere) il punto di vista del principiante, dello studente, figure che trovano il loro punto di accesso alla conoscenza nella curiosità e nello stupore. Complice anche la ricchissima recitazione di Bill Hader, capace di sostare per intere scene negli intervalli fra autentico e inautentico, lo spettatore diventa anch’egli un apprendista confuso e stupito ora dalla semplicità delle cose che non conosceva (buffi e toccanti i momenti in cui Barry sviluppa un rapporto di amicizia con Fuches) ora dall’imprevedibilità del concatenamento di eventi che guida la serie, una su tutte il susseguirsi delle scene dell’episodio 5,  Ronny/Lily.

Quella che spettatore e protagonista assimilano pian piano è, shakespearianamente, una diversa materialità della vita, quella più eterea dei sogni e delle ombre deambulanti, di un agire in cui si concentra e si esprime l’attore e di una actio che può realizzarsi solo in conseguenza di un tentativo di raccoglimento, di autoanalisi, di comprensione e trasformazione del proprio vissuto. Ed è in questo senso che Barry si discosta da una riflessione sulla vita criminale in termini binari di bene e male per preferirle un’esplorazione dell’autentico e dell’inautentico. Come per le grandi riflessioni sul male contenute nelle serie di Vince Gilligan e Matthew Weiner, anche per Berg e Hader il perno di un’autentica trasformazione è rappresentato da una certa onestà intellettuale ed emotiva, da una coerenza narrativa verso la propria persona. Si tratta di uno spostamento di baricentro importante che si sposta da un bene ed un male esterni ed assoluti verso un punto di vista sulla singolarità e sul lavoro su sé stessa che questa mette in atto, spostamento che permette di descrivere le cose in modo nuovo, di ridisporre le cose intorno alla forma cangiante della propria persona e non intorno a quella rigida del “giusto”.

Come emerge anche dalle scene dedicate al personaggio di Sally (più ampie in questa seconda stagione), la recitazione, soprattutto nella forma reiterante del re-acting, è, allora, un esercizio fondamentale per la scoperta e la costruzione del sé.

Etichette
Categoria
Bill Hader Stephen Root Sarah Goldberg Henry Winkler Seconda stagione da 8 episodi
USA 2019
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Gli Indocili

di Giorgio Sedona
Gli Indocili di Ana Shametaj

Fuori dalla stereotipizzazione e dentro al lavorio teatrale sul personaggio, nel verso sciolto che diventa immagine per il declamatore, nel quale immergersi per non affogare nell’anonimato. Parole selvagge per persone indocili. Atti teatrali da urlare a sguarciagola nei portici di città resistenti, atti di frizione poetica per attriti consapevoli del peso di ogni singolo verso pronunciato. Nel mezzo della pratica teatrale sperimentale del Teatro Valdoca di Cesare Ronconi e di Mariangela Gualtieri, Ana Shametaj si muove con passo felpato, docile tra gli indocili. E’ negli spazi della residenza teatrale L’arboreto – Teatro Dimora di Mondaino che un gruppo di ragazzi sperimenta tutta la potenza del training teatrale, libera enunciazione di un’armonia psicologica, ecologica, culturale, intellettuale ed artistica. Sito per un’arte aperta, onnicomprensiva, trasparente come le vetrate della dimora che includono nello spazio interno l’esterno, l’aperto, la natura che è parte di noi. In ogni individuo c’è un artista, con questo famosissimo motto l’artista tedesco Joseph Beuys definisce la sua utopia di scultura sociale. Una definizione che induce l’individuo a farsi parte integrante di una processualità in grado di modellare se stessi, e di conseguenza la società, nella capacità di creare un gesto artistico in comunità con la natura. E’ proprio di questa forza invisibile, sottesa, che il documentario Wild Words – Gli indocili si fa schermo ed obiettivo comprensivo, canale attraverso il quale riprendere e riportare l’allenamento, in un movimento diaristico e quotidiano; una regia che si sottrae allo sguardo scultoreo per portare all’attenzione i personaggi, i ragazzi, come nei racconti in terza persona che essi stessi producono al mattino. Sono loro, gli indocili, loro che nello spazio e nel tempo della grammatica cinematografica, montata da Jacopo Quadri - figlio del critico teatrale Franco Quadri e per il quale fa proseguire il suo interesse nei confronti dell’espressione teatrale nel suo perscorso nel cinema documentario - a divenire esseri viventi, consapevoli di un’identità straripante, urlante in corpi sinuosi, flessibile in parole “inadeguate”, giovani espressioni di una plasticità che solo nella venata messa in scena si possono cristallizzare. Come una necessaria espressività che viene dal di dentro e che vuole presentarsi, agli altri, all’esterno, in un soffio vitale che percorre le sale del teatro, che insegue i corpi indocili dei ragazzi che fuggono nella natura, da loro stessi, dai loro corpi e dalle loro identità, per ritrovarsi nei versi sfuggenti di un’organicità espressiva e naturalistica. Per togliersi la scorza della maschera sociale, per scarnificarsi dalla polvere che opprime l’identità, per raggiungere la fluidità, l’essenza e il grido di un’identità nuova, teatrale, libera e pura.

Prodotto da Ubulibri, storica casa editrice nata proprio dall’iniziativa di Franco Quadri, e da sempre interessata all’avanguardia teatrale, e cinematografica, il documentario di Ana Shametaj, a cui viene assegnato il Gran Premio Asolo, è un’operazione contemplativa di un’azione collettiva in un luogo specifico, un’ampolla di libertà creativa ed artistica immersa nelle verdi colline emiliane.

Categoria
Ana Shametaj 65 minuti
Italia, 2018
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima
Iscriviti a