I Am Mother

di Mattia Caruso
I Am Mother - recensione film sputore

Di film di fantascienza che sanno fare del proprio ristretto budget una virtù ne è pieno il mondo (e, soprattutto, Netflix). I Am Mother, opera prima del regista Grant Sputore, sembra rientrare in questa categoria, anzi, pare essere la summa perfetta di quello che la piattaforma di streaming ha da offrire in materia di prodotti di genere, con tutti i pro e i contro che ciò comporta.
Perché in questo dramma da camera in chiave sci-fi, consumato all'interno di una manciata di mura – fuori, invisibile (o quasi), l'apocalisse, dentro, una ragazza (la giovane e decisamente convincente Clara Rugaard) e il robot (doppiato da Rose Byrne) che l'ha allevata come fosse sua figlia – ci sono tutti gli elementi del classico film targato Netflix: un'idea forte alla base, uno sviluppo serrato capace di tenere alta la tensione nonostante le ristrettezze di mezzi (e spazi) e un volto celebre per dare spessore e garanzia di qualità all'operazione (ruolo questa volta assegnato a Hilary Swank, misteriosa donna destinata a spezzare l'equilibrio tra madre e figlia). D'altronde, non è all'insegna né dello spettacolo né degli effetti speciali ma della paranoia e dell'ambiguità che si gioca tutto il senso di un progetto come questo, un kammerspiel fatto di colpi di scena e ribaltamenti prospettici che non ha paura della prevedibilità, riscattato com'è da una regia solida, capace di ovviare agli evidenti limiti produttivi in maniera inventiva ed efficace, il tutto per mettere in scena il più distopico dei viaggi di formazione: la crescita in cattività di un'adolescente pronta a diventare donna, anche a costo di mettere in discussione l'autorità materna, le sue apprensioni, i suoi divieti, le sue bugie.
Nel mezzo, tutto l'armamentario del genere, da un robot che per ambiguità ed estetica pare fare il verso all'HAL 9000 di 2001: Odissea nello spazio, al sempre controverso rapporto tra uomo e macchina, qui arricchito da un'idea di fondo non del tutto scontata.

È così che il percorso di crescita della giovane protagonista – prototipo di una nuova umanità, perfetta non per ragioni genetiche ma per gli insegnamenti (etici, soprattutto) ricevuti – guarda al presente con sguardo nuovo, relegando i temi post apocalittici e tecnologici fuori dalla porta e concentrandosi sulla differenza che può fare l'educazione sulle nuove generazioni e sul loro futuro.
Il risultato è un'opera minimale, che rifugge lo spettacolo e che, forse, proprio per questo avrebbe potuto osare di più a livello tematico ed espressivo, ma che riesce, nonostante tutto, a tenere alta l'attenzione, garantendo un intrattenimento decisamente non scontato. Quanto basta comunque a Netflix per riproporre ancora una volta la sua formula (per ora) vincente.

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Grant Sputore Hilary Swank Clara Rugaard Rose Byrne 115 minuti
Australia, USA 2019
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Barry - Seconda stagione

di Irene De Togni
Barry - serie tv hbo recensione

A dispetto – o forse proprio in forza – dell’andamento più discreto e di gran lunga meno esibizionista di altri titoli di punta HBO con cui lo show di Alec Berg e Bill Hader è arrivato a fine seconda stagione (e si avvia verso una terza già confermata), Barry avrebbe tutte le carte in regola per raggiungere, intrattenere e far riflettere una larghissima fetta di pubblico. Barry è intrigante, divertente, spessa, agevole e di ottima fattura. La storia della riconversione di un ex marine degli Stati Uniti, Barry Berkman (ora un hitman nel Midwest) a una carriera di attore teatrale permette di far entrare in risonanza il gangster movie esistenzialista, umoristico e fortemente estetizzato à la fratelli Coen (che, in televisione, ritroviamo in serie come Fargo o Patriot, recentemente raggruppate da Vulture nel sottogeneri della murder-com) con l'ipertestualità della scena teatrale (tema sviluppato con alcuni tratti comuni da Michael Gondry in Kidding) e con quel particolare tipo di coralità che nasce dall’esaltazione e dal coinvolgimento delle singolarità tipica dei gruppi di studenti di recitazione.

Lungi dal seguire una semplice linea retta che porterebbe il nostro protagonista dalla vita criminale a una onesta, la trama di Barry si allarga fino ad abbracciare un complesso gioco di rimandi e rivolgimenti delle due vite parallele che il nostro eroe sta conducendo. La scena teatrale in Barry è altrettanto mortifera, dolorosa e irta di ostacoli della scena criminale, altrettanto esigente, altrettanto motrice dell’azione. Essa si nutre del vissuto del nostro eroe, ne rimescola le tensioni e le ricostruzioni, lo flette, lo riflette. Presentata come una diversa Weltanschauung rispetto alla vita criminale, l’avvicinamento al teatro è foriero di una vera e propria trasformazione del modo di vedere le cose per Barry, di un allargamento del suo piano di esistenza, e richiede un volontario e paziente sforzo di apprendimento.

Una delle scelte più interessanti della serie è stata quella di far adottare a Barry (in netta opposizione all’expertise che dimostra nel vecchio mestiere) il punto di vista del principiante, dello studente, figure che trovano il loro punto di accesso alla conoscenza nella curiosità e nello stupore. Complice anche la ricchissima recitazione di Bill Hader, capace di sostare per intere scene negli intervalli fra autentico e inautentico, lo spettatore diventa anch’egli un apprendista confuso e stupito ora dalla semplicità delle cose che non conosceva (buffi e toccanti i momenti in cui Barry sviluppa un rapporto di amicizia con Fuches) ora dall’imprevedibilità del concatenamento di eventi che guida la serie, una su tutte il susseguirsi delle scene dell’episodio 5,  Ronny/Lily.

Quella che spettatore e protagonista assimilano pian piano è, shakespearianamente, una diversa materialità della vita, quella più eterea dei sogni e delle ombre deambulanti, di un agire in cui si concentra e si esprime l’attore e di una actio che può realizzarsi solo in conseguenza di un tentativo di raccoglimento, di autoanalisi, di comprensione e trasformazione del proprio vissuto. Ed è in questo senso che Barry si discosta da una riflessione sulla vita criminale in termini binari di bene e male per preferirle un’esplorazione dell’autentico e dell’inautentico. Come per le grandi riflessioni sul male contenute nelle serie di Vince Gilligan e Matthew Weiner, anche per Berg e Hader il perno di un’autentica trasformazione è rappresentato da una certa onestà intellettuale ed emotiva, da una coerenza narrativa verso la propria persona. Si tratta di uno spostamento di baricentro importante che si sposta da un bene ed un male esterni ed assoluti verso un punto di vista sulla singolarità e sul lavoro su sé stessa che questa mette in atto, spostamento che permette di descrivere le cose in modo nuovo, di ridisporre le cose intorno alla forma cangiante della propria persona e non intorno a quella rigida del “giusto”.

Come emerge anche dalle scene dedicate al personaggio di Sally (più ampie in questa seconda stagione), la recitazione, soprattutto nella forma reiterante del re-acting, è, allora, un esercizio fondamentale per la scoperta e la costruzione del sé.

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Bill Hader Stephen Root Sarah Goldberg Henry Winkler Seconda stagione da 8 episodi
USA 2019
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Gli Indocili

di Giorgio Sedona
Gli Indocili di Ana Shametaj

Fuori dalla stereotipizzazione e dentro al lavorio teatrale sul personaggio, nel verso sciolto che diventa immagine per il declamatore, nel quale immergersi per non affogare nell’anonimato. Parole selvagge per persone indocili. Atti teatrali da urlare a sguarciagola nei portici di città resistenti, atti di frizione poetica per attriti consapevoli del peso di ogni singolo verso pronunciato. Nel mezzo della pratica teatrale sperimentale del Teatro Valdoca di Cesare Ronconi e di Mariangela Gualtieri, Ana Shametaj si muove con passo felpato, docile tra gli indocili. E’ negli spazi della residenza teatrale L’arboreto – Teatro Dimora di Mondaino che un gruppo di ragazzi sperimenta tutta la potenza del training teatrale, libera enunciazione di un’armonia psicologica, ecologica, culturale, intellettuale ed artistica. Sito per un’arte aperta, onnicomprensiva, trasparente come le vetrate della dimora che includono nello spazio interno l’esterno, l’aperto, la natura che è parte di noi. In ogni individuo c’è un artista, con questo famosissimo motto l’artista tedesco Joseph Beuys definisce la sua utopia di scultura sociale. Una definizione che induce l’individuo a farsi parte integrante di una processualità in grado di modellare se stessi, e di conseguenza la società, nella capacità di creare un gesto artistico in comunità con la natura. E’ proprio di questa forza invisibile, sottesa, che il documentario Wild Words – Gli indocili si fa schermo ed obiettivo comprensivo, canale attraverso il quale riprendere e riportare l’allenamento, in un movimento diaristico e quotidiano; una regia che si sottrae allo sguardo scultoreo per portare all’attenzione i personaggi, i ragazzi, come nei racconti in terza persona che essi stessi producono al mattino. Sono loro, gli indocili, loro che nello spazio e nel tempo della grammatica cinematografica, montata da Jacopo Quadri - figlio del critico teatrale Franco Quadri e per il quale fa proseguire il suo interesse nei confronti dell’espressione teatrale nel suo perscorso nel cinema documentario - a divenire esseri viventi, consapevoli di un’identità straripante, urlante in corpi sinuosi, flessibile in parole “inadeguate”, giovani espressioni di una plasticità che solo nella venata messa in scena si possono cristallizzare. Come una necessaria espressività che viene dal di dentro e che vuole presentarsi, agli altri, all’esterno, in un soffio vitale che percorre le sale del teatro, che insegue i corpi indocili dei ragazzi che fuggono nella natura, da loro stessi, dai loro corpi e dalle loro identità, per ritrovarsi nei versi sfuggenti di un’organicità espressiva e naturalistica. Per togliersi la scorza della maschera sociale, per scarnificarsi dalla polvere che opprime l’identità, per raggiungere la fluidità, l’essenza e il grido di un’identità nuova, teatrale, libera e pura.

Prodotto da Ubulibri, storica casa editrice nata proprio dall’iniziativa di Franco Quadri, e da sempre interessata all’avanguardia teatrale, e cinematografica, il documentario di Ana Shametaj, a cui viene assegnato il Gran Premio Asolo, è un’operazione contemplativa di un’azione collettiva in un luogo specifico, un’ampolla di libertà creativa ed artistica immersa nelle verdi colline emiliane.

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Ana Shametaj 65 minuti
Italia, 2018
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Gelsomina Verde

di Veronica Vituzzi
gelsomina verde - recensione film

La notte del 22 novembre del 2004 un’auto bruciata viene trovata a Napoli, nella periferia di Secondigliano. I poliziotti che accorrono sul posto trovano un corpo quasi del tutto carbonizzato, e non possono fare a meno di immaginare un’altra vittima, l’ennesima, della faida mafiosa che sta spargendo sangue per tutta Scampia. Da un mese le famiglie camorriste si stanno facendo guerra per il controllo del territorio, tra continue esecuzioni di affiliati delle diverse fazioni e le relative, tragiche ripercussioni per i loro parenti. Facile dunque pensare che quel cadavere dilaniato dalle fiamme sia l’ennesimo pregiudicato colpevole di aver imboccato la strada sbagliata.  Per questo è un shock tremendo scoprire che il morto in questione è una ragazza di soli 22 anni, di nome Gelsomina Verde. Non aveva mai fatto niente di male, a parte un errore considerato fatale dai camorristi: frequentare per qualche mese un ragazzo che aveva tradito la “famiglia” ed era fuggito. Tanto era bastato per considerare la ragazza qualcuno da interrogare, torturare brutalmente, uccidere e poi bruciare.

Gelsomina Verde parte da questo orribile omicidio proponendosi un obiettivo duplice: raccontare e capire qualcosa che è sia troppo facile che impossibile da comprendere. Difatti alla fine ciò che di cui si sta parlando è una questione di degrado sociale e culturale, qualcosa per cui è assai semplice approcciarsi con sdegno a distanza. E d’altra parte l’omicidio di Gelsomina detta Mina, che si divideva fra volontariato e lavoro nel tentativo di apportare un contributo positivo alla travagliata collettività del suo quartiere, è qualcosa che va oltre una semplice reazione di disgusto, perché è stato generato anche dalla comune omertà di chi, non specificatamente criminale, ha comunque preferito rimanere in silenzio. Non a caso la famiglia di Gelsomina sarà l’unica a costituirsi parte civile nel processo, quasi che l’accaduto non riguardasse gli altri abitanti del quartiere.

Narrare la storia di Gelsomina significa raccontare la comunità in cui è nata e cresciuta, e per ciò molto intelligentemente il regista Massimiliano Pacifico si serve di un'altra comunità in piccolo, ovvero un collettivo teatrale (Collettivo Mina) gestito qui dal drammaturgo Davide Iodice, allo scopo di tentare di mettere in scena un contesto ben particolare. Ciò non significa una semplice rappresentazione del fatto, quanto di un racconto corale che è anche elaborazione meditata attraverso punti di vista diversi e contraddizioni condivise, unite alla testimonianza del fratello di Mina, Francesco, anch’esso perdutosi allora sulla medesima strada fatta di carcere e reati.

Il punto più potente dell’opera di Pacifico è proprio questo emergere di voci che talvolta si sovrappongono incomprese e discordi – il killer, l’amica omertosa, il fratello, il poliziotto - perché il caso di Gelsomina ha attirato a suo tempo sospetti e pregiudizi: perché la ragazza aveva avuto una storia con un ragazzo poco raccomandabile? Perché la sua famiglia ha accettato un risarcimento da Cosimo Lauro, considerato il mandante dell’omicidio? E in fondo, non è tutta colpa della stessa Scampia, dove fin da bambini per tanti viene facile essere automaticamente instradati verso il crimine e l’affiliazione verso una o un’altra famiglia mafiosa?

Invece di assopirsi sugli allori di una facile pietà Gelsomina Verde racconta la struttura sociale dilaniata e corrotta, l’assoluta mancanza di scelte alternative per i giovanissimi, la mafia come figlia e madre di una povertà economica, lavorativa e culturale che avvelena ogni appartenente al quartiere. Condanna, ma cerca anche di indagare emotivamente oltre l’istintivo ritrarsi orripilati. È il modo migliore, oltre ogni ritratto martirizzante, per capire la vita e le scelte di una ragazza che ha preferito sporcarsi le mani all’interno del suo mondo sbagliato, per provare a migliorare a migliorarlo, piuttosto che dissociarsene completamente.

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Massimiliano Pacifico Pietro Casella Giuseppe D'Ambrosio Margherita Laterza 78 minuti
Italia 2019
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Kemp. My best dance is yet to come

di Donato Guida
Kemp. My best dance is yet to come di Edoardo Gabbriellini

“No art is superior to another one, but every art looks for expertise and perfection. This is life, which continues; this is why there is no death. There is continuation. There is no silence. There is a continuation of thought.” In questo pensiero di Marcel Marceau potrebbe racchiudersi l’essenza della vita di Lindsay Kemp. Sarebbe estremamente complesso riuscire a categorizzare il senso del lavoro proposto dall’artista britannico nel corso della sua vita. Ballerino, mimo, coreografo, regista, attore: il suo è un percorso artistico pensato e realizzato al fine di rinnovare e potenziare l’Arte stessa, che non trova né ostacoli né gabbie politiche, ideologiche e sociali. Kemp attraversa i campi della sperimentazione, la visione onirica, il gusto dell’eccesso e la narrazione mimica; ne fa proprie le radici più profonde per poi restituirle in opere che, pur se difficilmente assimilabili ad altre analoghe (o, forse, proprio per questo), ipnotizzano lo spettatore e lo rigettano, simbolicamente, in uno stato arcaico e primitivo dell’esistenza.

Nell’arte di Kemp sembrano vivere due realtà osmotiche e contrapposte al tempo stesso: da un lato si fa strada la sensazione di aver già visto e vissuto l’opera che si sta osservando, mentre dall’altro si percepisce di essere dinnanzi a qualcosa di innovativo, embrionale, mai incontrato in queste sembianze.  Dalla sperimentazione di Derek Jarman e Ken Russel all’onirismo di Werner Herzog e Klaus Kinski; dall’opera rock e glam di David Bowie all’Horror Vacui di Carmelo Bene, fino ad aprirsi alla Trilogia della Vita di Pasolini e alla sua successiva eresia visionaria Salò o le 120 giornate di Sodoma. Tutto è presente all’interno della poetica di Kemp ma, allo stesso tempo, nulla è ripetuto; un ciclo in costante evoluzione, che porta il pubblico a (ri)vivere emozioni quasi primordiali.

Edoardo Gabbriellini è volto noto del cinema italiano: attore per Virzì (Ovosodo, Baci e abbracci, Tutta la vita davanti), Guadagnino (Io sono l’amore) e Gianni Zanasi (Non pensarci), ha avuto già modo, in passato, di vestire i panni di regista (B.B. e il cormorano e Padroni di casa). Ciò che colpisce positivamente nel suo documentario Kemp. My best dance is yet to come è la totale assenza di didascalismo e classicismo di genere. Gabbriellini elude la “cronistoria d’artista” ed evita la ricerca di altri personaggi che a Kemp si sono ispirati, per concentrarsi sul percorso artistico raccontato in prima persona. Poche le informazioni biografiche che emergono (la nascita sull’isola scozzese Lewis e Harris, il padre marinaio, la madre da lui stesso definita una “party girl”, la ricerca di ispirazione in alcol e LSD), semplice corredo alla sua opera.

La narrazione di Gabbriellini è asciutta e diretta, sintetica (63 minuti la durata del film) ed estremamente curata nel montaggio, che alterna interviste all’artista con ricche sequenze di repertorio. La sua macchina da presa è quasi del tutto impercettibile: all’interno della casa livornese di Kemp (alcova dei suoi ultimi anni di vita), fin dalle prime immagini lo spettatore viene trasportato in un mondo onirico, sperimentale e frammentato.

Quello che emerge, infine, è un ritratto intimo ed essenziale: chi osserva è invitato nel soggiorno vittoriano di casa Kemp e non può fare altro che restare affascinato da un racconto che, dopo un’iniziale predisporsi verso lo spettatore, sembra (auto)rivolgersi al narratore stesso come se si fosse di fronte a uno specchio, o – misteriosamente - ad un Io passato.

Kemp. My best dance is yet to come è un lavoro prezioso e completo, che permette di comprendere al meglio Lindsay Kemp e di osservare il suo multiforme operato, la sua fantasiosa sperimentazione e la sua arte rivoluzionaria che, come nutrendosi di input dal sapore primordiale, interrogando e provocando costantemente lo spettatore, si fa viva e diviene specchio dell’Arte stessa.

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Edoardo Gabbriellini 63 minuti
Italia, 2019
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Lo specchio nero – I sovranismi sullo schermo dal 2001 ad oggi

di Matteo Marescalco
Lo specchio nero - Recensione libro Dikotomiko

Bisogna partire da una verità incontrovertibile: Lo specchio nero, firmato dal micro-collettivo Dikotomiko e uscito per DOTS edizioni lo scorso 25 Aprile (e quando, sennò?), ha il grande merito di guardare la bestia negli occhi e di non distogliere mai lo sguardo. L'oggetto editoriale, difficile da inquadrare del tutto, pesca a piene mani tra la sporcizia e le brutture di un mondo ridotto a canale di scolo, traboccante di macerie, popolato di detriti, attraversato da sete di vendetta, risentimento e da violenza. E lo fa prendendo in considerazione la capacità dell'audiovisivo di specchiare la contemporaneità e di prefigurare la realtà attraverso film e documentari che, dagli anni 2000 in poi, hanno rappresentato sui nostri schermi le nuove strategie di conquista del potere da parte della covata malefica che emula le azioni di Hitler e Mussolini.

Lo specchio nero – I sovranismi sullo schermo dal 2001 ad oggi è un titolo imprescindibile, in grado di partire dalla settima arte per arrivare al nostro mondo. Il libro è necessariamente partigiano ed ideologico e prova ad interrogarsi sull'errore di sistema che ha reso possibile un altro mondo, quello sbagliato però. Dalla cosmesi (definita il primo maquillage) in epoca Berlusconiana, che ha consentito una riorganizzazione di neofascismi capaci di svanire dietro termini quali sovranismi e populismi, allo sdoganamento televisivo e social, che ha dato in pasto agli spettatori storie(s) di ordinario revisionismo.

Dopo un'introduzione cristallina che delinea una cavalcata storica basata su cancellazione della memoria e diffusione virale di false notizie e menzogne, Dikotomiko invita i lettori a schierarsi, prendendoli per mano e conducendoli verso l'abisso della società e il controcampo dell'Unione Europea. La riorganizzazione ed il maquillage sono passati attraverso le pratiche di familiarità, normalizzazione, accettazione e propagazione. Tra le macerie provocate dal ventennio telecratico, sono riusciti a sopravvivere i vermi più sordidi, che si sono cibati di furbizia e prevaricazione social(e), in grado di fare proselitismo nel disagio e nelle periferie e di dar vita ad un linguaggio imbevuto di retorica retromaniacale. Com'è stata possibile la trasformazione dei vermi in farfalle svolazzanti da un palinsesto all'altro, da un video privato diventato virale ad un comizio in piazza accolto da braccia tese?

Lo specchio nero si interroga e tesse una rete di risposte attraverso una serie di audiovisivi (molti dei quali passati sotto-traccia. La cortina di fumo per far sì che il pubblico non vedesse ha giovato ai neofascisti stessi, che attraverso quel fumo si muovono con particolare abilità) che mostrano il legame tra neofascismo e periferia, tra ghettizzazione urbana, degrado, descolarizzazione, crisi economica e insorgere delle destre. Dikotomiko indaga la rappresentazione e svela la rimozione che narcotizza sguardi e orecchie, e che produce un immaginario nazionalpopolare capace di dar vita ad immagini e rievocazioni distorte.

L'analisi critica parte dai casi italiani mainstream di Sono tornato di Luca Miniero e di Diaz – Non pulire questo sangue di Daniele Vicari per abbracciare anche docufilm soggetti a damnatio memoriae come Crescere neofascisti – Viaggio all'interno dell'universo Lealtà Azione. Per il resto, escludendo casi come The act of killing di Joshua Oppenheimer, Caterina va in città di Paolo Virzì e 22 July di Paul Greengrass, chi può dire di conoscere Profugos di Pablo Larrain o Inconscio Italiano, un docu-saggio di Luca Guadagnino che fa luce sul colonialismo italiano con l'obiettivo di intervenire sul modo di pensare e sull'immaginario della contemporaneità?

La sensazione è che il testo del micro-collettivo sia stato creato dal miglior Charlie Brooker. La sua lettura è in grado di inquietare e di provocare un malessere sordido che stenta ad abbandonare il lettore. Per il semplice fatto di riuscire a dar vita a sensazioni del genere, si tratta di un testo che deve essere letto ed approfondito, senza se e senza ma. I riferimenti di Dikotomiko alla cultura visuale contemporanea e a concetti quali quelli di premediazione, rimediazione, visione soggettiva e diffusione virale delle immagini alla base dei meccanismi di creazione del consenso popolare creano un fitto reticolato molto utile anche per chi sceglie un approccio differente alla tematica politica e sociale. È stato un difetto di rappresentazione e non di esistenza a rendere pressochè incomprensibile il ritorno alla vita di zombie che non hanno più paura di correre, dopo essersi scrollati di dosso il cameratismo e aver riconquistato i termini linguistici cari al gergo criminale di CasaPound.

La divisione del libro in due macro-capitoli (Prima gli italiani e A casa loro) rappresenta proprio la sostanziale differenza attraverso cui si è indagato e rappresentato il (ri)sorgere dei fascismi in Italia e in Europa. Mentre i film internazionali non hanno avuto timore a guardare il passato e a immergersi in un presente nero, il belpaese ha preferito pulire tutto con un colpo di spugna, incapace di convivere con un passato ridotto a tabù anche dalla sinistra, convinta che la rimozione forzata dell'idea dei fascismi equivalga alla loro non esistenza. Il libro di Dikotomiko è anche impreziosito dai disegni del collettivo La psicoscimmia e, in definitiva, offre una possibilità fondamentale per provare a guardare al di là dello schermo nero che riflette l'epoca in cui viviamo. Senza paura. Ma con la volontà di studiare, scoprire e analizzare per preparare anticorpi migliori e più resistenti.

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Again - Noch Einmal

di Leonardo Gregorio
Again di Mario Pfeifer

Again. Di nuovo. Ma di nuovo cosa, esattamente? Perché, in questa opera del tedesco Mario Pfeifer (Menzione Speciale della Giuria all’Asolo Art Film Festival 2019), a dispetto dell’assertività implacabile del titolo, o della stessa posizione dell’autore, del suo sguardo, che è stringente, “tracciabile”, a dispetto perfino di una certa inevitabile programmaticità, i cortocircuiti di senso, di significato si rivelano, qui, problematici. E stranamente, ma in fondo neanche tanto, a visione conclusa capita che il pensiero corra per un po’ da tutt’altra parte, magari nella Finlandia del bellissimo L’altro volto della speranza di Aki Kaurismäki (2017): qui, il siriano Khaled dice al suo amico iracheno: “Sembri felice e soddisfatto”, e la risposta che riceve è questa: “Fingo. Quelli malinconici sono i primi che mandano via. Tutti i malinconici vengono respinti”. Ecco, è difficile trovare altrove una scena, un dialogo, un momento che sappia comprendere in maniera così concisa e al contempo meravigliosa – e meravigliosamente politica – una delle questioni centrali del nostro tempo. Che, sganciandoci dalla poesia lunare di Kaurismäki e tornando alla feroce e ignorante ottusità di questo presente permanente,  è il tempo – nostro, italiano, europeo, occidentale – della criminalizzazione di poveri e disperati, di chi li salva, di chi riesce poi ad approdare, di chi invece in mare muore. Non basta non accogliere più il dissimile, ma è la sua stessa esistenza a essere tragicamente e assurdamente opzionale. Again, allora?  Forse sì, forse no. Come scrive lo storico George Fredrickson, «il termine razzismo è entrato per la prima volta nell’uso comune negli anni trenta del Novecento quando si avvertì l’esigenza di una nuova locuzione per descrivere le teorie sulle quali i nazisti basavano la loro persecuzione contro gli ebrei. Come avviene per molti termini usati dagli storici, però, il fenomeno esisteva prima che la parola che adoperiamo per descriverlo venisse inventata».

Again? Un fatto vero. Luglio 2016: in Sassonia, nella Germania orientale, in un supermercato, alcuni uomini – mentre qualcuno col suo cellulare riprende tutto e diffonderà poi in rete – bloccano e aggrediscono Schabas Saleh Al-Aziz, rifugiato iracheno, epilettico. Lo porteranno via e lo legheranno a un albero; tempo dopo, tra molte ombre e inquietanti interrogativi, verrà ritrovato il cadavere del giovane.

Pfeifer, classe 1981, rimette in scena, rifà, riformula e geometrizza gli eventi e compenetra le implicazioni, colloca una voice over, dirige attori e non attori, palesa il meccanismo e le strutture di messa in forma, pone in comunicazione il reale e la finzione, il visuale e il percettivo, le immagini autentiche e il set, i tempi e i luoghi (non esistono confini, e il luogo è un supermercato, un parcheggio, un tribunale…),  congiunge le forme e le figure dello show TV, del reality, con l’installazione. Il caso giudiziario, le interviste dei telegiornali, o le testimonianze, il punto di vista e il vissuto delle persone – nate in Germania o giunte lì da lontano anni prima  –  coinvolte nel film: tutto questo, in Again, si muove tra asciuttezza ed effetto, tra linguaggio e didascalia, tra cronaca e riflessione più ad ampio spettro. È un antimanifesto,  ma dice, afferma, organizza il suo pensiero (per quanto non sia infine chiaro se, per dire tutto, i suoi 39 minuti siano troppi oppure troppo pochi: ma anche in questo sta l’interesse che suscita il lavoro del regista di Dresda). Un’opera che non evoca spettri ma fa emergere punti critici, i semi della violenza e della paura, del coraggio e della responsabilità individuale e sociale. Un lavoro sul presente della Germania, ma anche su ciò che è stata, su ciò che potrebbe essere. Un lavoro sul nostro tempo. Una riflessione, un documento, uno sguardo che ci chiede chi siamo, ancora, oggi. Again? Evidentemente sì.

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Mario Pfeifer Mark Waschke Dennenesch Zoudé 39 minuti
Germania 2018
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Years and Years

di Sara Mazzoni
years and years - recensione serie tv davis

Si è da poco conclusa su BBC One la prima stagione di Years and Years, serie in 6 episodi firmata da Russell T Davies. Classe 1963, Davies è stato l’head writer di Doctor Who per 4 stagioni, nonché il creatore di Torchwood, Queer As Folk, Cucumber e molto altro. In Years and Years lautore inglese sovrappone due aree in cui eccelle: il racconto di storie queer e la fantascienza. Sebbene sia facile definire Years and Years come un “nuovo Black Mirror”, il taglio scelto da Davies è più socio-politico che tecnologico: lo show è una saga familiare che inizia nel presente ma salta rapidamente nel futuro prossimo, percorrendo 15 anni di storia possibile. Seguiranno spoiler sui contenuti della stagione.

La prima cosa che possiamo notare è come Davies riesca a smarcarsi da quel moralismo anti-tecnologico che per anni ha contraddistinto la serie di Charlie Brooker. Years and Years mostra con precisione le resistenze psicologiche dei non nativi digitali davanti alla possibilità di una vita da cyborg, ma non costruisce il suo cautionary tale attorno a questo elemento. L’intuizione più felice di Years and Years è infatti quella di focalizzarsi sul tramonto delle democrazie occidentali: mantiene un punto di vista scettico sulle possibilità del transumanesimo ma la tensione da techno-thriller presente nel pilot si rivelerà una falsa pista. La tecnologia di Years and Years è uno strumento neutrale, sprovvisto di un intrinseco valore etico, che dipende solo dall’utilizzo estremamente variabile che ne fanno gli umani.
Le influenze di Years and Years sono prossime all’immaginario di film come I figli degli uomini di Alfonso Cuarón mentre la struttura del racconto è piuttosto originale, pur rimanendo ancorata a elementi classici. La serie evita una narrazione smaccatamente incentrata sui personaggi, descrivendo i suoi protagonisti con pochi tratti e mettendoli a confronto con la Storia in un racconto corale in cui gli eventi si susseguono a velocità vertiginosa. Ma è pur sempre una saga familiare: lo spaccato di Regno Unito che seguiamo è quello filtrato dall’esperienza della famiglia estesa dei Lyons, formata da 4 fratelli e sorelle, i relativi congiunti e la nonna matriarca.

Years and Years usa grandi semplificazioni per raggiungere i suoi obiettivi. Lo fa in modo consapevole, accumulando eccessi sulla base della sua tacita premessa: sembra dirci che qui troveremo tutte le nostre paranoie, nessuna esclusa. Ogni singolo evento e ogni scena devono contenere un elemento futuribile i cui germogli siano già visibili nel nostro presente. E quindi ci troviamo di fronte alle conseguenze della Brexit, a una gig economy spietata e a un’automazione che non si mette al servizio del benessere umano. E poi ancora, supervirus, alluvioni e blackout. Sullo sfondo l’ascesa al potere dell’imprenditrice Vivienne Rook (Emma Thompson, più convincente che mai), leader del partito populista Quattro Stelle, personaggio ispirato ai vari Trump, Le Pen e Farage, i trickster che hanno imparato a usare social media e intrattenimento, secondo Davies.

Ma anche Davies sa come intrattenere e come fregarci. Years and Years parte travestito da Black Mirror, mettendo in evidenza la vicenda dell’aspirante transumana Bethany Lyons (Lydia West) e facendoci credere che sarà un elemento primario dello show. Nel pilot, la storia si focalizza su un punto di vista conservatore, quello dei suoi genitori – ultraquarantenni a cavallo tra Gen X e Millennial –  terrorizzati dal coming out della figlia. La puntata è costruita per farci provare la stessa diffidenza davanti a una trasformazione che è presentata come inequivocabilmente sinistra. Bethany del resto si nasconde dentro a degli agghiaccianti filtri ispirati a Snapchat e nell’episodio successivo rischia di perdere un occhio in una clinica clandestina che truffa i transumani. Il colpo di scena è quindi la progressiva accettazione della sua identità da parte dei genitori. La famiglia di Bethany non comprenderà mai del tutto la sua natura, ma questo non è più un problema, arrivati al finale di stagione, anzi: le facoltà transumane di Bethany, già pienamente accettate dai Lyons, si rivelano fondamentali per risolvere la storia.

Con l’avanzare della trama, si capisce che il punto nevralgico di Years and Years è la vicenda del rifugiato gay Viktor (Maxim Baldry), fidanzato di Danny Lyons (Russell Tovey). La loro odissea non finisce mai di angosciare perché è tragicamente ancorata al presente e non a un futuro ipotetico. Con la parabola di Victor e Danny, Davies ci racconta le leggi sull’immigrazione già esistenti nel Regno Unito, ci parla della sorte di chi scappa dai regimi, di persone sequestrate dai paesi ospitanti, private dei diritti civili, detenute e spostate come oggetti. Questo non è solo il futuro, ma anche il presente e il passato, come la serie si premura di ricordarci.

Il dramma delle attraversate clandestine è il picco della stagione, a cui però fanno seguito sviluppi ancora più forti. La gestione dell’immigrazione nel regno di Vivienne Rook viene usata per raccontare la formazione di una nuova banalità del male. Sfruttando il personaggio tragico di Stephen Lyons (Rory Kinnear), al pubblico viene proposto un orrore ancora più grande di quello precedente – secondo il ritmo in perenne crescendo che caratterizza lo show. Stephen è un nuovo nazista, asservito a un regime che in segreto ha creato dei campi di concentramento. Lo snodo narrativo è sottolineato da un discorso di Vivienne Rook, che rivendica l’invenzione dei campi da parte della Gran Bretagna nel suo passato coloniale in Sudafrica.

Years and Years non è un Black Mirror: non ci sono schermi da incrinare, perché non è (solo) attraverso le nuove tecnologie che il Male infiltra il mondo. Dopo una stagione devastante, Davies ci offre un finale pieno di speranza rivoluzionaria, in cui non sono gli schermi a essere infranti, ma le barriere che rinchiudono i corpi tangibili delle persone. I cattivi soccombono, qualcuno cerca la redenzione, mentre sono le figure femminili della famiglia Lyons a stagliarsi positivamente su un orizzonte futuribile in cui, forse, grazie alla tecnologia sarà possibile essere immortali.
In conclusione, Davies firma sei puntate che si scapicollano fino alla fine lasciando senza fiato. Col suo incedere inesorabile, col suo umorismo beffardo e nerissimo, con la sua consapevolezza del presente, Years and Years è la serie di fantascienza che ci meritiamo nel 2019.

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Summer of ‘84

di Jacopo Bonanni
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Nella torrida estate del 1984, mentre al cinema prorompenti sirene si spiaggiano a Manhattan, universitari falliti si inventano acchiappafantasmi, e orde di famelici gremlins assediano la provincia americana, in un tranquillo sobborgo dell’Oregon un manipolo di avventurosi adolescenti, armato di torce, bmx, walkie-talkie e un briciolo di immaginazione, si ritrova coinvolto in un’adrenalica “caccia all’uomo” sulle tracce di un misterioso serial-killer, scomparso dieci anni prima, che sembra nascondersi dietro le staccionate verniciate di fresco e le aiuole rasate del loro quartiere, convinto di non poter essere smascherato in nome delle regole di buon vicinato. In un un microcosmo dove gli adulti sono confinati al margine della storia, come nella miglior tradizione della narrativa per ragazzi che va da Mark Twain a Stephen King, spetterà proprio al piccolo commando di detective allo sbaraglio, composto dal classico quartetto di clichè (eroe, ribelle, spalla comica e nerd) e capitanato dall’imberbe protagonista Davey Armstrong, il compito di setacciare la città per raccogliere gli indizi e scoprire la vera identità dell’assassino; portando a galla un’insospettabile verità che segnerà la fine della loro spensierata vita da teenager.

Per chiunque sia cresciuto a cavallo degli anni ottanta e novanta l’adolescenza non è un film, è molti film: da Goonies a Stand By Me passando per Explorers e Scuola di mostri; un’antologia di “classici” che è piacevole tornare a guardare, rigorosamente in comitiva, con la giusta dose di ironia per rivivere la magia di un’epoca improbabile in cui tutto sembrava più semplice e spontaneo perché ambientato tra i banchi di scuola, alle soglie del fine settimana. Questo è lo spirito con cui affrontare la visione di Summer of ‘84: un film orgogliosamente ancorato al passato, che sbircia attraverso il buco della serratura della memoria collettiva per raccontare un’avventura analogica di amicizia e vulnerabilità, perennemente in bilico tra nostalgia e colta rielaborazione.

La pellicola segna il ritorno dei Roadkill Superstar. A pronunciarlo, Roadkill Superstar o meglio RKSS, potrebbe sembrare il nome di una gang di motociclisti infernali fuggita direttamente dall’immaginario di Mad Max, oppure il modello di una BMX avveniristica munita di flusso canalizzatore e circuiti temporali, ed in certo senso è proprio così; perché dietro questo acronimo si cela un collettivo iperattivo di registi indipendenti innamorati degli anni ottanta:  François Simard, Anouk Whissell e Yoann-Karl Whissell. Sconosciuti ancora al pubblico mainstream, questi tre geek canadesi, ubriachi di cultura pop e musica synthwave, sono in realtà i precursori dei Duffer Brothers di Stranger Things.
Infatti sono loro gli autori dell’acclamato Turbo Kid del 2015: un delirante film underground dalle roboanti ambientazioni postatomiche, infarcito di adolescenzialismo e citazioni cinefile -  Waterworld, BMX, Bandits Solarababies - che sul solco già tracciato da Ernest Cline (Ready Player One) e JJ Abrams (Super 8) ha contribuito a dare “nuova linfa” al virus inarrestabile di retromania che ha contagiato tanti dei prodotti mediali degli ultimi anni, di cui Summer of 84 è l’ennesimo tassello. A differenza del lavoro precedente, nato sulla scia dell’entusiasmo riscosso dal piccolo web-cult Kung Fury di David Sandberg il nuovo film dei RKSS si presenta fin dal soggetto iniziale (“Ogni serial killer è il vicino di qualcuno”)  come un lavoro decisamente più  maturo e interessante.

In questo secondo lungometraggio, l’estetica da videoclip lascia il posto a un solido intreccio narrativo, liberamente ispirato a L'erba del vicino di Joe Dante, dove la cura per i dettagli non è mai autoreferenziale e ogni singolo elemento gioca un ruolo preciso all’interno della costruzione della tensione, dalle dinamiche che si creano tra i giovani protagonisti alle atmosfere notturne evocate dalla colonna sonora - più dosata ed efficace - firmata dal duo elettronico dei Le Matos. In compenso il collettivo di registi rifiuta le abusate atmosfere scifi e gli elementi soprannaturali, in favore di un protoslasher dalle sfumature inquietanti e dal black humor pronunciato, che funziona anche se spogliata della confezione “retrò” e richiama quanto già apprezzato nei recenti Super Dark Times e I'm Not a Serial Killer; conducendo per mano lo spettatore verso un finale inaspettatamente amaro che non guasta l’esperienza ma che al contrario ne esalta la piacevolezza della visione.

Forse gli unici difetti del film sono la durata troppo lunga e l’ingenuità di alcune soluzioni narrative ma si tratta di peccati veniali nell’epoca della serialità tout-court e della frammentazione, che vengono riscattati dal coraggio di una narrazione cinematografica compatta, senza compromessi con la televisione. Riassumendo, possiamo definire Summer of '84 come la risposta canadese a Stranger Things: un omaggio imperfetto ma onesto e spassionato alla lunga estate dei teen-movies generazionali del passato. Un thriller lillipuziano, ritmato e ben congegnato, che pur strizzando l’occhio al cinema di Joe Dante e Rob Reiner riesce tuttavia a non inciampare mai nella riproposizione ossessiva, totalizzante e mimetica degli stilemi della belle epoque del cinema d’intrattenimento americano. Un film che fino a ieri  avrebbe fatto la gioia di chi - da adolescente - amava spulciare tra i vhs impolverati dei negozi dell’usato ma che oggi non sfigurerebbe affatto nel catalogo originale di Netflix accanto a titoli simili come The Babysitter e Better Watch Out per chiunque sia in cerca di svago.

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François Simard Anouk Whissell Yoann-Karl Whissell Graham Vercher Judah Lewis Caleb Emery Cory Gruter-Andrew 105 minuti
USA/Canada 2018
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Toy Story 4

di Andrea Fontana
Toy Story 4 - recensione film pixar

A ben pensarci, Toy Story 4 ha rappresentato una doppia sfida.
Da una parte si poneva la necessità di dimostrare che le idee, in Pixar, sono ancora al centro di un discorso ampio e stratificato e che quindi la logica dei sequel non sta a indicare una mancanza di idee o solo la necessità di piegarsi alle logiche del marketing. Gli Incredibili 2, Monster University, Cars 3, Alla ricerca di Dory: tutti questi sequel, con alti e bassi, hanno dimostrato che lo spirito intellettuale che da sempre emerge nelle opere Pixar c’è ancora, pur privo di quella forza rivoluzionaria che ha contraddistinto il decennio magico che va dal 1999 al 2010 (ma su questo torneremo più avanti). Toy Story 4 era soggetto ancora di più a queste critiche, venendo dopo quel gioiello che fu Toy Story 3, così definitivo, radicale da far risultare inutile un quarto capitolo.
La seconda sfida di Toy Story 4 è indicativa di quale direzione la Pixar intenda prendere e, soprattutto, se è in grado di farlo. Come si sa, John Lasseter si è dimesso dalla guida di Pixar (e Disney) in seguito allo scandalo sessuale esploso con Harvey Weinstein e che ha colpito molte figure note a Hollywood. Pixar, dunque, è priva del suo padre fondatore e Toy Story 4 è il primo film in cui Lasseter appare solo di striscio (soggetto, produzione esecutiva). Avrebbe dovuto dirigerlo, perché Toy Story è una sua creatura, è il simbolo della Pixar, è il primo film in assoluto della casa di produzione con base a Emeryville. Ma lo scandalo sessuale, evidentemente, ha avuto le sue conseguenze e prima che Lasseter si prendesse un semestre sabbatico (novembre 2017), casualmente abbandona la regia dell’opera a cui è più legato (luglio 2017). Se è vero che non aveva diretto il terzo episodio, è altrettanto vero che la sua presenza in fase di produzione aveva permesso al film di essere fatto, nonostante la genesi molto travagliata. Questa lunga introduzione per dire che Toy Story 4, al netto dei dubbi che lo hanno caratterizzato prima della sua uscita ufficiale, rappresenta in qualche modo un crocevia.

Si diceva del “decennio d’oro” della Pixar. Si è aperto non a caso con Toy Story 2 nel 1999 e si è concluso con Toy Story 3 nel 2010. In questo arco di tempo sono uscite opere dall’immenso valore artistico e intellettuale: Monster & Co., Alla ricerca di Nemo, Gli Incredibili, Cars, Ratatouille, WALL•E, Up. Tutti film che hanno decretato definitivamente la Pixar come uno tra gli studi più importanti nel panorama internazionale, consegnandola alla storia del cinema. Toy Story, quindi, ha avuto anche un ruolo strategico nel delineare le fasi creative della Pixar, scandendone i momenti cruciali.
Poi c’è l’aspetto tecnico. È stato giustamente messo a confronto il cane di Toy Story (1995) con il gatto di Toy Story 4 (2019). In ventiquattro anni il balzo tecnico è stato così risolutivo da obbligarci a chiederci dove andrà l’animazione in computer graphic, su quali lidi visivi si posizionerà. La sequenza iniziale del quarto capitolo, quella sotto la pioggia, è strabiliante per perfezionismo tecnico: qualcosa che, nonostante i progressi, lascia a bocca aperta. Quindi, Toy Story 4 segna, ancora una volta, un importante capitolo nell’evoluzione tecnica dell’animazione contemporanea: una finestra sul futuro.

Ripensando alla mitopoiesi messa in scena nella saga, appare ovvio come tutti i vari film di Toy Story abbiano a che fare con il passaggio all’età adulta. La struttura narrativa tende a reiterarsi e questo, forse, è un po’ il suo limite: un personaggio si perde, gli altri lo cercano, nella ricerca scoprono qualcosa di sé. Ma è vero che la genialità di Toy Story è il saper raccontare le fasi dell’esistenza da un punto di vista privilegiato, quello del giocattolo passivo ma attento che, malinconicamente, osserva il mutare dell’uomo, dall’infanzia all’età adulta. E se i primi tre capitoli erano una poetica riflessione su questo transito (con particolare enfasi nel terzo episodio, quando Andy è ormai troppo grande per giocare e si rivela necessario un passaggio di consegne attraverso un doloroso addio), il quarto capitolo compie uno scarto. È quasi un’appendice del terzo, ma trasla il discorso: dall’uomo al giocattolo. La domanda che si pone il film (ma evidentemente tutta la saga) è: cosa significa diventare adulti?
Significa dimenticare i propri sogni? La propria innocenza? Forse.
Sicuramente diventare adulti è anche acquisire una coscienza tale da poter trovare il coraggio per fare il passo successivo, quello definitivo, quello che implica abbandonare il passato (dolce, caldo, nostalgico) e affrontare il futuro (incerto, ricco di paure). È quello che succede a Woody. È l’unico fra i giocattoli ad ammettere di avere una coscienza, questo lo porta ad avere un piano di consapevolezza diverso. E, a percorso intrapreso, riemerge come nuovo, forgiato, pronto ad affrontare nuove sfide.
Verso l’infinito e oltre.
Oltre è il futuro.
Oltre è lo sconosciuto.
Oltre è il nuovo sé che prende corpo e che, lentamente, cancella il passato e l’infanzia verso l’età adulta.
Quindi, se è vero che Toy Story 4 è un’appendice al terzo episodio, è anche vero che è la conclusione necessaria, quella che mancava.
Imperfetto, ripetitivo, ma poeticamente meraviglioso.
Verso l’infinito e oltre (di noi stessi).

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Josh Cooley Tom Hanks Tim Allen Annie Potts Jordan Peele Joan Cusack 100 minuti
USA 2019
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