It

di Andrés Muschietti

It e l'horror 2.0. Un'operazione di marketing, perfetta per non scontentare nessuno

it - recensione film

Lasciamo perdere per un momento il confronto con l’opera di King, ìmpari per definizione, dinanzi alla quale il film di Andréas Muschietti ne uscirebbe molto peggio di quanto effettivamente meriti. E lasciamo perdere pure il concetto di trasposizione kinghiana tout-court, nonostante - a più di quarant’anni di distanza da Carrie di Brian De Palma - ancora molti non sembrano aver capito che se esiste un metodo efficace per trasformare quelle parole in immagini, è appunto quello di tradire il libro, trasfigurarlo, strappargli via il nome del suo autore dalla copertina per affibbiargli quello di qualcun altro (regista, sceneggiatore, quello che preferite). E in questo nemmeno Muschietti ha fatto eccezione: ma è un argomento da affrontare certamente in un’altra sede, e sul quale è già stato detto e scritto fin troppo (anche se non ancora abbastanza, a quanto pare).

È innegabile però che le prime impressioni risultino negative proprio in virtù del legame con il libro, rispetto al quale lo script di Chase Palmer, Cary Fukunaga e Gary Dauberman è ossessionato sì dal risultarne fedele, ma soltanto negli aspetti più superficiali: perché qui manca completamente il rapporto con la Storia dell’Uomo, con Derry (la città è la vera protagonista delle pagine di King), con la ciclicità del Male, e i Perdenti sono protagonisti anonimi privi di personalità (persino la miniserie tv del 1990 li caratterizzava meglio, ed è tutto dire). Ma se ci siamo imposti di non considerare tutto questo, o almeno di provarci, è inutile girare il coltello nella piaga. Superata allora l’ingombrante parentela con il romanzo, cosa rimane? Ben poco comunque.

Mentre l’horror che conta, quello che si interroga sulla realtà, la indaga e cerca nuove forme per raccontarla, guardando al passato per superarlo imparandone una lezione, It 2017 è ancora fermo a trent’anni fa perché, di fatto, è questo che il mercato chiede oggi. L’horror in salsa 2.0 quindi come capolavoro di un’operazione di marketing, perfetto per non scontentare nessuno. A scapito di tutto il resto: idee, suggestioni, immaginari. Magia. Non c’è mai vera paura, non si respira mai il Male che dovrebbe strisciare sottoterra (letteralmente), sotto le strade e dentro le vite dei protagonisti, perché la visione di Muschietti si limita al jumpscare e al trucco in CGI (e il suo film precedente, La madre, avrebbe dovuto far suonare più di un campanello di allarme, ma in pochi se ne sono ricordati). Il tutto filtrato attraverso un’operazione di pulizia (tanto visiva quanto tematica) asettica e impersonale, volta ad assecondare lo spettatore e mai a metterne in discussione le certezze. Del resto, oggi chi mai pagherebbe un biglietto per vedere un film diverso da quello che si aspetta? Appunto.

Un prodotto che di norma sarebbe destinato a sparire dalla memoria nel giro di un attimo ma che, in quanto film-fenomeno che tutti vedono e di cui tutti parlano, sembra quasi doveroso massacrare più del dovuto. In realtà non è neppure un brutto film comunemente inteso, anzi, magari lo fosse: almeno avremmo qualcosa contro cui scagliarci e in grado comunque di suscitare una reazione emotiva forte. La verità semmai è che, in questo ossessivo e maniacale ripescaggio dagli immaginari del passato, quasi mai si ha il coraggio di osare: in questo modo non avremo più brutti film in senso stretto, ma soltanto film inerti (Il risveglio della Forza uber alles). È questo il destino che ci attende?

Autore: Giacomo Calzoni
Pubblicato il 23/10/2017

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