Euphoria - Stagione 1

di Elvira Del Guercio
Euphoria - recensione serie tv hbo

Euphoria è un universo iperreale, stratificato, traslato. Non c’è pretesa di verità, o meglio, di verosimiglianza assoluta nella rappresentazione di questa gioventù formicolante, dissezionata puntata dopo puntata dall’onnisciente voce fuori campo di Rue (Zendaya): la vita dei ragazzi e delle ragazze che Sam Levinson raffigura pare così scorrere sotto uno strato di epidermidi e corpi denso e magmatico, fatto di eccesso, immagini innaturali e, come muovendosi in uno stato di trance “euforica” incontrollata, di continue allitterazioni visive e sonore. Ma soprattutto di fantasmi. A inseguire questa gioventù è lo spettro di qualcuno o qualcosa, madri, padri, aspettative e angosce, finendo in questo modo per contorcersi sul solo e unico presente: esacerbati all’ennesima potenza, i giovani di Euphoria sono tutti disseminati in una specie di alveare cybernetico, quello dei social, l’unico in cui ci si può conoscere “davvero” e nel profondo (come nel caso di Jules e Nate) e in cui si possono trarre profitto e vantaggio personali dal revenge porn, come agirà infatti Kat. C’è poi il sesso visto come necessaria iniziazione, performativo, vischioso e vissuto unicamente in sé stessi e mai nel completamento con l’altro e nell’altro.

Si tratta di temi per la maggior parte già accennati nel precedente Assassination Nation, che molti hanno definito come il riadattamento nell’epoca dei social network di Le regole dell’attrazione di Roger Avary, e di cui Levinson condivide, oltre che la coralità dei punti di vista – e quindi una direzione specifica nella scrittura, volta a un colpo d’occhio cumulativo –  anche una riproposizione amorale e disinteressata della materia; conservando la medesima forza deflagrante della serie HBO, il film si rivelerà però essere una feroce e sanguinaria satira dell’America contemporanea, carnevalizzata e ridotta a macchietta.
La narrazione si dipana qui intorno alle figure delle quattro protagoniste che incarnano in un certo senso la disinibizione, il “peccato” che andrà a rivelare il reale e squallido volto del cittadino medio americano: turbato dalla nudità, da ciò che fuoriesce dai propri parametri esistenziali e impossibilitato a riconoscersi al di fuori del proprio Io, come se non ci potesse essere altra realtà al di fuori di quella standardizzata da un’etica congelata e monocorde. Tuttavia, se nel film ciò che si poteva comprendere erano unicamente le idee rincalzate dalle quattro ragazze e mai le rispettive individualità, in Euphoria si assiste, all’inizio di ogni puntata, all’indagine acuminata dei singoli, squadernati dalla voce profetica di Rue, per poi riuscire a comprenderne il ruolo o l’atteggiamento all’interno della comunità, per cui l’approccio di Levinson si configura in questo senso meno spiccatamente politico e più intimista.

Attraverso uno stile fondato sul grado più alto di artificio e stilizzazione dell’immagine, eccentrica e coi piani scomposti, la messa in scena bizzarra e difforme e aderente al mondo raccontato, Levinson costruisce un teen drama a sé stante, che intende dissigillare e mandare in crisi le categorie rappresentative del suddetto genere alla stregua di serie come Sex Education, e lo fa delineando anche alcuni particolari personaggi. Ci vorrebbe tanto altro spazio per rivelarne le contraddizioni e le debolezze, poiché tutti vengono equamente e spudoratamente sviscerati. Senza moralismi e retorica. Ed è forse il personaggio di Jules più che Rue che, d’altra parte, le fa da contraltare, a definire il senso complessivo dell’opera di Levinson: reso come in una condizione di permanente incandescenza, si potrebbe dire che Jules incarni una minaccia all’ordine precostituito, a tutto ciò che è consono, pronto, anzi pronta, a ridefinirsi, a rinascere sempre: una nuova possibilità di essere al mondo.

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Sam Levinson Zendaya Maude Apatow Eric Dane Jacob Elordi 1 stagione da 8 episodi
USA 2019
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Motherless Brooklyn - I segreti di una città

di Matteo Marescalco
Motherless Brooklyn - Recensione Film Norton

«È come se avessi un lato totalmente anarchico nel mio cervello che vuole gettare tutto nel caos ma, allo stesso tempo, tenere qualsiasi cosa sotto stretto controllo».
L'affermazione di Lionel Essrog è in grado di sintetizzare il personaggio tipo interpretato da Edward Norton durante la sua carriera e anche il suo approccio al genere in occasione delle due regie curate, Tentazioni d'amore e, appunto, Motherless Brooklyn - I segreti di una città, progetto della vita che l'attore ha coltivato durante gli ultimi 19 anni e tratto dall'omonimo romanzo di Jonathan Lethem. Il personaggio di Lionel dice di avere il vetro dentro il cervello, è un detective privato affetto dalla sindrome di Tourette e si ritrova a indagare sull'omicidio del suo amico e mentore Frank Minna (Bruce Willis). Con pochi indizi alla mano, Essrog si trova coinvolto in un oscuro gorgo di corruzione e violenza, speculazioni edilizie e faide familiari.

Il secondo film diretto da Norton è un coagulo schizofrenico di note dissonanti. La scelta spiazzante consiste nell'enorme lavoro portato avanti dall'attore, regista e sceneggiatore nei confronti del materiale di partenza, la cui narrazione viene traslata alla New York degli anni '50. La memoria della Seconda Guerra Mondiale è ancora gravosa sulle spalle, lo spettro della Grande Crisi aleggia sulla città e le alte sfere del potere vorrebbero ricostruire il tessuto metropolitano per trasformare la Grande Mela in una città diversa e moderna. Tra i bassifondi di Brooklyn e i jazz-club di Harlem, si consumano le indagini di un detective che filtra gli eventi attraverso il suo punto di vista e li restituisce mediante la sua voce narrante. Motherless Brooklyn rappresenta la trasformazione e la sublimazione in film del personaggio Edward Norton ma rispecchia anche la metamorfosi a cui è sottoposta la città di New York. Il tessuto epidermico, infatti, è curato allo stremo e, probabilmente, raffredda a sproposito le spinte melodrammatiche e le pulsioni sanguigne che, sottocute, caratterizzano il genere del noir. Le scelte fotografiche certosine privano di bollore la materia scelta e danno vita ad una deriva estetizzante che pone una barriera tra spettatore ed immagini - in modo contrario alle scelte classiche dell'ultima regia di Ben Affleck che, proprio nelle immagini vulcaniche del cinema di genere e nel suo sguardo fuori campo intravedeva l'ultima possibilità edenica di redenzione.

Piuttosto che dar vita ad una costruzione audiovisiva compatta ed essenziale, Norton si abbandona a un approccio ricco di digressioni labirintiche, come fosse nel mezzo di una jam-session alla quale si affida per detonare dall'interno la classicità del genere. I suoi scatti improvvisi, i tic nervosi e i continui «If» si trasformano in partitura musicale e scandiscono il ritmo del racconto più di quanto non faccia il montaggio relativamente alle immagini. Lontana da ogni volontà programmatica, la musicalità estrema di Motherless Brooklyn passa attraverso la sua fluvialità letteraria. Le associazioni verbali di Lionel seguono l'andirivieni delle onde del suo cervello e (s)formano un film che vive di pause e intermezzi.

Non dubitiamo che Norton abbia amato allo stremo il progetto intrapreso, fino a restarne intrappolato e a trasformarlo in un ibrido dissennato e ricco di sottotesti che tendono alla dispersione. Probabilmente, il maggiore difetto del film consiste proprio in questo lavoro superficiale, che finisce per spegnere gli intrighi e la gigantesca matassa da dipanare attraverso un nervosismo caleidoscopico e le improvvisazioni patologiche. Anche i germi capaci di far esplodere ogni contraddizione si rivelano più ammansiti di quanto ci si sarebbe aspettato, sancendo i limiti di un'anarchia tenuta troppo spesso sotto stretto controllo.

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Edward Norton Edward Norton Gugu Mbatha-Raw Willem Dafoe Bruce Willis Alec Baldwin Bobby Cannavale Cherry Jones Leslie Mann 144 minuti
USA 2019
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Assassination Nation

di Mattia Caruso
Assassination Nation - recensione film levinson

«Questo è il vostro mondo, lo avete costruito voi. Non prendetevela con me. Io sono arrivata adesso». Si sfoga così, sguardo in macchina e fare agguerrito, Lily (Odessa Young), protagonista e capro espiatorio ideale di Assassination Nation di Sam Levinson (figlio di Barry), quasi un calco delle stesse parole che userà, qualche tempo dopo, la sua coetanea Rue nel pilota di Euphoria, serie evento firmata dallo stesso autore.

Sono mondi comunicanti, del resto, i teen drama di Levinson, così platealmente codificati da farsi immediatamente racconti universali, terreno fertile e congeniale – quando usato sapientemente – per parlare del presente e delle sue derive, non solo generazionali. Una narrazione inevitabilmente (e necessariamente) urlata, eccessiva, sopra le righe, sin da un incipit che grida i suoi temi a tutto schermo (ABUSO, OMOFOBIA, TRANSFOBIA, SESSISMO, MASCOLINITÀ TOSSICA, VIOLENZA, BULLISMO, RAZZISMO), sbattendoli direttamente in faccia allo spettatore, in un concentrato ipertrofico capace di farsi quintessenza di un intero genere.

Del racconto adolescenziale, d'altronde, Assassination Nation pare avere proprio tutto, a partire dalle sue premesse, con quella prima parte che insegue modelli risaputi (in una sorta di ibrido che mescola Mean Girls a Spring Breakers), aggiornandoli però al gusto contemporaneo e a uno sguardo decisamente più crudo, scorretto e insolito della media. Proprio come in Euphoria, il mondo di Lily e compagne pare infatti attraversato da linee invisibili, traiettorie che ne descrivono i rapporti, i desideri, le dinamiche sociali e virtuali, con tutti i paradossi, le degenerazioni e le anomalie del caso. Ma cosa succede se su questo mondo ipercodificato, fatto di party, foto erotiche, pettegolezzi social, tradimenti e insicurezze, viene sganciata una bomba? Cosa succede se, per esempio, un misterioso hacker comincia a rendere pubblici i segreti contenuti negli smartphone e nei pc di mezza città?
È qui che le dinamiche del teen drama irrompono prepotentemente nel mondo (e nei generi) degli adulti, e la commedia lascia presto il posto a un horror distopico pericolosamente vicino a The Purge, dando vita a una caccia alle streghe (non è un caso che la città dove Levinson decide di ambientare la vicenda sia proprio Salem) sgradevole e respingente nella sua cocente attualità.
Un cambio di tono e prospettiva repentino e inaspettato, che il regista gestisce però con mano ferma e consapevole, senza mai prendersi veramente sul serio o cadere in un eccessivo didascalismo, mettendo in scena un mondo malato e marcio sin dalle fondamenta, pronto a scagliarsi sul primo capro espiatorio a portata di mano pur di lavarsi la coscienza.

Il risultato è un film che accatasta, uno sull'altro, temi fondamentali ed estremamente attuali con un gusto per l'eccesso in grado di infarcire di rimandi e significati impensati la sua parabola di vendetta (i riferimenti si sprecano: dai pinku eiga giapponesi fino a Revenge, passando per Carrie), il suo viaggio di formazione alla ricerca di un'immagine e di un ruolo libero da qualsiasi imposizione o condizionamento.
Tra esplosioni di violenza e sfacciati vezzi stilistici (gli stessi che troveremo nella serie targata HBO), fatti di split screen, luci al neon e piani sequenza impazziti, Assassination Nation, dietro il suo gusto patinato per l'assurdo e per l'exploitation, si rivela così un perfetto specchio dei nostri tempi, un Black Mirror appena più cinico e brutale, grido rabbioso e liberatorio di un'intera generazione vittima di una barbarie e di un grottesco che non le appartengono ma con cui è tragicamente chiamata a confrontarsi.

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Sam Levinson Odessa Young Suki Waterhouse Hari Nef Bella Thorne Bill Skarsgård 110 minuti
USA 2018
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Più de la vita

di Carmen Albergo
Più de la vita - recensione film Rivi

Un uomo, artista eclettico (pittore, musicista, performer, fondatore del TAM teatro-musica, "artigiano" delle arti visive) e il suo personalissimo black mirror. Lo schermo come specchio di brame e pulsioni nell'adoperarsi con qualsiasi dispotivo capace di riprodurre e ridefinire un inesauribile estro creativo, un rigore sperimentale che negli anni non ha mai smesso d'ardere con la medesima intensità, pur cambiando l'uomo e i suoi orizzonti. L'uomo che riflette (con) se stesso e su se stesso. Questo il caleidoscopico universo concentrato in Più de la vita, documentario prodotto da Kublai Film e firmato dalla video artista multimediale Raffaella Rivi, che abbraccia la quarantennale parabola artistica e filosofica del maestro padovano Michele Sambin, intellettuale e pionere delle tecnologie e delle arti.

Programmaticamente, l'inquadratura da subito lo ritrare nella posa simultanea (più che posizione) di guardato e spettatore insieme, arrovellato in uno sdoppiamento dialettico che attraversa e supera gli spazi fisici e mentali, amplificando la percezione del tempo memoriale e svelando una dimensione iper-linguistica che non può che eccedere i limiti relazionali della vita lineare - individuale. Un'estensione virtuale, in cui sono faccia a faccia il figlio, il Sé-opera, che ha generato il proprio padre, il Sé – Autore. Un loop concentrico, il crescendo di una spirale in cui concetti e percezioni si espandono, costituiscono il cuore della poliedrica ricerca di Sambin sul potenziale del connubio immagine-suono; una esplorazione che trova nell'audiovisivo il miglior campo sinestesico di comprensione e rifrazione. I corpi, umani, materici o astratti che siano, diventano cromatiche partiture sonore in movimento, richiamo polisensoriale a lasciarsi trasportare nelle fantasticherie dell'immaginario d'artista, lì dove il video è atto trasformante, che non fissa e eternizza l'istante, ma genera e moltiplica la visione, finalmente emancipata dall'autore.  

Da un lato le sonorità raccordano il flusso di sequenze che va dall'attualità al repertorio  (dall' l'installazione fondante "Il tempo consuma le immagini, il tempo consuma i suoni" , alla rielaborazione tarkovskijana "Il sogno di Andrej", passando per l'esperienza del Teatro – Carcere e la drammaturgia strumentale per bambini) dall'altro i commenti recitati in voice over dallo stesso Sambin, sono sia ancoraggi al presente che slanci per nuove incursioni al passato. Tracce e varchi di memorie, ogni passaggio ricompone uno dopo l'altro il percorso creativo e utopistico di un autore che, sin dalle primissime armi, persegue l'intento di rivoluzionare il mondo attraverso idee sintomatiche del contemporaneo e dei suoi congegni, artefatti o naturali. Comunicare idee o sabotare idee? Le operazioni Sambiniane decontestualizzano e destabilizzano i ragionevoli legami causa-effetto, per poter scandire un battito ancora sopito di nuove energie e prospettive ed innestare in questi nuovi solchi le radici sensibili dell'essere. Tutto senza mai scostarsi dalle proprie radici. Gran parte del racconto visivo, fatta eccezione per le riproposizioni d'archivio, si dispiega infatti tra le mura domestiche delle sue due abitazioni, la casa natale nel centro di Padova e la casa-ovile nella campagna salentina, oasi d'artista eretta a propria immagine e somiglianza, spazio d'arte da vivere (bianca, essenziale, lucente, modulabile), ulteriore specchio - quintessenza di sé.

Raffella Rivi realizza un resoconto tutt'altro che descrittivo e conclusivo, mettendo a punto (più che in-scenare) una sorta di ipertesto diaristico tutto da scoprire, in cui nulla è posto a caso, i manufatti, gli arnesi, gli sguardi e le parole nello scambio di battute con l'unica interlocustrice in campo - la compagna artistica Pierangela Allegro - diventano dei link di rimando ad un diverso approfondimento-interrogazione. E' autore anche chi guarda? Stanca più lavorare o riposare? C'è differenza tra potare un ulivo e suonare il violoncello? se risposte ci sono, sono regola di vita dello stesso protagonista: "nei luoghi in cui abito tutto deve funzionare e se funziona c'è bellezza". La bellezza che impegna tutta la vita senza sosta e fatica, come il clarinetto che sfuggente e leggiadro oscilla tra le nuvole, favoloso metronomo dei sogni.

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Raffaella Rivi Michele Sambin Pierangela Allegri 60 minuti
Italia, 2019
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El Camino - Il film di Breaking Bad

di Matteo Marescalco
El Camino - Recensione Film Gilligan

«Sistemare le cose...questa è l'unica cosa che non si può mai fare».
È un rapido dialogo tra Jesse Pinkman e Mike Ehrmantraut a dare il via a El Camino, l'atteso capitolo finale di Breaking Bad, tutto dedicato al co-protagonista della parabola criminale di Walter White. Vince Gilligan aveva lasciato il suo personaggio in preda alla fuga su una Chevrolet El Camino rubata ai suoi aguzzini dopo lunghissimi mesi di prigionia ed agonia. L'unico obiettivo del ragazzo è quello di cambiare vita ma, per farlo, dovrà tornare sui suoi passi, sistemare le faccende irrisolte e nascondersi da tutti.

Un punto particolarmente critico relativo a El Camino riguarda le motivazioni che hanno spinto Gilligan a tornare a mettere mano all'universo che, più di tutti, ha colonizzato l'immaginario collettivo durante l'ultimo decennio di serialità americana. Ovviamente, l'operazione è totalmente differente rispetto a Better Call Saul, che poneva una serie di rischi sulla necessità di bilanciare la parentela nei confronti della serie madre con una propria originalità. Lo spin-off incentrato sulla figura di Jimmy McGill ha dato vita a quattro stagioni, mentre l'ultimo film di Gilligan resta soltanto un prodotto della durata di 120 minuti con l'obiettivo non di espandere e ramificare ulteriormente un universo che, sulla carta, potrebbe dar vita a digressioni infinite, ma di concludere il percorso di un personaggio fondamentale, sancendone la crescita.

In tal senso, El Camino si rivela un oggetto bifronte e può essere letto in due modi differenti ma, pur sempre, complementari tra loro. Lo spettatore che non abbia mai visto Breaking Bad potrebbe scorgere nel film un thriller di buona fattura e persino un tardivo coming of age su un personaggio che prova a mettere da parte tutte le sue certezze -tra cui quella di affidarsi alla generica casualità universale - per abbracciare una vita diversa basata sulla centralità delle proprie decisioni. Costruito su una serie di contraddizioni, questo western on the road riesce a creare i momenti migliori imprigionando Jesse tra le quattro mura di un appartamento. Ogni spazio sembra voler opprimere il protagonista, costringendolo in luoghi angusti, e anche le porte che si spalancano si rivelano più minacciose che altro. Alla necessità di mettere Pinkman su strada e fargli percorrere miglia e miglia per allontanarsi quanto più possibile dal suo passato ci pensa, quindi, l'architettura degli spazi, a cui si aggiungono numerosi momenti di stasi, talmente ricchi di idee di scrittura da risultare senza respiro. Come film di genere, El Camino funziona perché edifica un immaginario sul contrasto tra epica della fuga e intimità del privato, focalizzandosi su un personaggio che prova ad afferrare il suo presente, affidando al futuro la vaga speranza di esorcizzare il proprio passato.

Tuttavia, è innegabile affermare che il film di Gilligan sia soprattutto un dono nei confronti della comunità immaginata di Breaking Bad, che ritroverà quel mondo grottesco pieno di sabbia e di sangue, realtà brutale e violenza stupida e cieca, strade, deserti rocciosi e cavalcavia che hanno offerto riparo a spacciatori, fuggitivi e agli innumerevoli men of constant sorrow che hanno costruito il loro mestiere sulle esigenze dei criminali. In questo secondo caso, El Camino si rivela essere un percorso solcato da una profusione di easter-eggs e un meccanismo a incastro che, sulla scorta della serie, alterna momenti presenti a flashback popolati dai fantasmi di Pinkman. Jesse è continuamente ossessionato dagli spettri che sono entrati a far parte della sua esistenza e, allo stesso tempo, dai fantasmi di ciò che insegue per il suo futuro. L'assenza della presenza - in primo luogo dell'amata Jane - lo pone dinnanzi a insoddisfazioni, desideri e angosce, che possono essere affrontati soltanto dall'arma di un'immaginazione in grado di poter curare il presente e il lutto di ciò che è stato, favorendo la genesi del nuovo.

Tuttavia, la morsa della realtà è asfissiante e il destino di Pinkman non sarà mai uno di conquista della libertà -rinchiuso com'è ancora in una prigione, quella dei sensi di colpa e dei traumi del passato - ma il personaggio avrà almeno l'occasione di fare ammenda dei propri errori, possibilità che Walter White non ha voluto avere, inghiottito completamente dal gorgo oscuro della sua (vitale) ossessione. Insomma, Jesse non potrà mai sistemare le cose e la convivenza con il suo carico di ricordi e con un lieto fine, probabilmente, è soltanto un sogno. Eppure, nonostante il tono crepuscolare e il dolore che accompagna ogni scambio di sguardi e ogni suo vagheggiamento, non si può non riscontrare in questo secondo abbandono al fuori campo un gigantesco atto di fiducia nei confronti del futuro e di un personaggio che ha trascorso le sue ultime 48 ore che ci siano state concesse ponendo le basi per una nuova vita. Adesso, sta allo spettatore usufruire di questo dono e riempire a piacimento gli spazi bianchi, affidando al sorriso finale di Jesse le sensazioni che più crede opportune.

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Vince Gilligan Aaron Paul Jesse Plemons Krysten Ritter Charles Baker Matt L. Jones Robert Forster Jonathan Banks Bryan Cranston 122 minuti
USA 2019
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Satanic Panic

di Jacopo Bonanni
satanic panic recensione film

Halloween è ormai alle porte e con l’approssimarsi della vigilia di ognissanti tutto è lecito, soprattutto per uno spettatore smanioso di brividi dozzinali e facile umorismo; compreso avventurarsi nelle folle visione di un film come Satanic Panic: un’orgia (tele)visiva a base di pizza, sesso e paganesimo diretta dalla regista esordiente Chelsea Stardust.

La storia è la cronaca farsesca del primo giorno di lavoro di Samantha “Sam” Craft (Haley Griffith) : una ragazza mite e ingenua, con il conto in rosso e le bollette da pagare, che per sbarcare il lunario è costretta a consegnare pizze a domicilio, consapevole di doversi prestare alle battute misogine dei suoi colleghi e alle bizzarre richieste dei suoi clienti. Quello che la giovane non si aspetta, a fine giornata, è di ritrovarsi al centro di un lezioso sabba satanico nei “quartieri alti”, presieduto dalla luciferina e snob Danica Ross (Rebecca Romijin) alla disperata ricerca di una “vergine sacrificale” da immolare a Baphomet. Il resto della trama è intuibile: la “final girl”, supportata dalla figlia redenta di Danica, dovrà barcamenarsi fino al sorgere del sole in una lotta a colpi di incantesimi in mezzo a demoni, figli viziati e streghe sull’orlo di una crisi di nervi.

L’idea di Chelsea Stardust di dirigere una commedia horror dai toni satirici e dalle tinte splatter, incentrata sulle disavventure di una sbadata “millenial” alle prese con una congrega di vamp annoiate dedite all’occultismo, è un intuizione simpatica e sembra funzionare all’inizio del film, lasciando ben sperare; soprattutto grazie alla sadica performance della Romijin nel ruolo di un’ammaliante femme fatale intenta a sviscerare – in tutti i sensi – le sue arti magiche. Tuttavia qualcosa nella sceneggiatura inizia a scricchiolare non appena la narrazione perde mordente per focalizzarsi sulla backstory semitragica dell’amicizia sanguinolenta che si instaura tra le due fragili protagoniste, intente a superare le loro divergenze pur di lottare insieme contro il male; fino a collassare definitivamente proprio quando il film entra nel vivo dell’azione e Sam si trasforma immotivatamente da goffa spettatrice di un complotto esoterico in una risoluta eroina alle prese con situazioni sempre più improbabili, come in una sorta di parodia di Buffy spinta ai limiti dell’esasperazione.

Purtroppo, nonostante gli intenti pirotecnici, i buoni effetti speciali e le reiterate citazioni a registi come Brian Yuzna (Society) e Sam Raimi (La casa) , il peggior difetto di Satanic Panic è il suo essere un film totalmente innocuo, a tratti noioso, che non riesce né a osare né a stupire, o a intrattenere come ci si auspicherebbe da un film con delle premesse del genere; tanto da chiedersi che senso abbia invocare il maligno senza farlo entrare mai effettivamente in azione. È un peccato, perché gli ingredienti per una pellicola feroce e dissacrante di base c’erano tutti in nuce (voyeurismo, satira di costume, lotta di classe, conflitto generazionale) ma come si suol dire in certe occasioni: il diavolo fa le pentole ma non i coperchi.

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Chelsea Stardust Rebecca Romijin Haley Griffith Arden Myrin Ruby Modine 80 minuti
USA 2019
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The Beach Bum

di Tamara Gasparini
The Beach Bum - recensione film korine

Is that all there is?
Harmony Korine continua a scivolare sulla superficie patinata dell’ America contemporanea con una commedia spregiudicatamente sgangherata, come il protagonista, Moondog (Matthew McCoughney), poeta straccione e strafatto, “drugo” lebowskiano ciondolante nelle sue camicie hawaiane, felicemente alla deriva alle Keys Islands, al largo di Miami. The Beach Bum è l’altra faccia della parabola ludica e criminale della Florida di Spring Breakers; laddove il film di sei anni prima era la canzone pop ultra-violenta di una generazione allo sbando, quest’ultimo lavoro è l’epopea lisergica e “romantica” di un cantore del caos, del corpo e dell’oblio stupefacente. Raggiunto lo status di genio letterario grazie a lavori di gioventù, Moondog vive di momenti, di felicità istantanea, di eccessi, sballi psicotici, mondanità alcoliche e di tutti i piaceri che la vita può regalare. È l’energia pulsionale degli istinti. Puro essere e puro Es.

Un po’ Bukowski e Whitman, un po’ Arthur Miller e Thomson S. Thompson, Moondog è in grado di abbracciare la realtà nei suoi aspetti solennemente triviali, santificando il presente di una spring break eterna e attingendo alla vita e alle sue esperienze per comporre poemi che parlano di organi, di corpi e dello stordimento beato di certi momenti apparentemente insignificanti che ritmano dello splendore dell’esistenza.
Lo vediamo notte e giorno trascinarsi nei bar in compagnia di un tenero gattino albino, stordirsi di alcol, droghe e amori passeggeri, salpare sulla sua barca, incurante e ridanciano, verso un edonismo senza ritorno e infine battere sui tasti di una scassata macchina da scrivere una nuova opera poetica che da anni sembra non arrivare mai a conclusione. Viene da un’altra dimensione, come dice Minnie Boo (Isla Fisher), la moglie ricchissima che lo ama per come è e lo aspetta tra le braccia dell’amico Lingerie (Snoop Dogg) in una lussuosa villa sul mare di Miami. Moondog è come un’emanazione dello spirito di Alien/James Franco di Spring Breakers ma anche la sua evoluzione fuori dal tempo e dallo spazio del mondo, del realismo capitalista e dell’ideologia del materialismo americano. Non possiede nulla e non cerca nulla. Richiamato alla civilization della città e ai comforts della ricchezza per il matrimonio imminente della figlia, il suo stile non cambia, sempre teso tra cultura alta e cultura bassa, tra una poesia di D.H. Lawrence declamata davanti a un tramonto scintillante e una “fattanza” da stoner film.

Harmony Korine ha da sempre raccontato un’ America spiantata, marginale, spesso moralmente riprovevole, abitata da personaggi borderline, tra poesia e degrado, tra candida innocenza, dissolutezza distruttiva e amoralità. Moondog è solo un altro esempio, elevato allo stato di estro creativo e poetico, di questa galleria di bizzarri e strampalati personaggi, sostenuto da una delle performance più incontenibili di McCoughney. Devo andare a fondo per andare in alto dice Moondog alla moglie, in una dichiarazione d’intenti che sembra auto-riflettersi in Korine stesso. Il regista ci ha abituati a un tipo di narrazione frammentata e sconnessa, allergico ai codici del racconto classico hollywoodiano sin dalle sue opere cult degli anni 90: Gummo e Julien Donkey Boy. Anche in The Beach Bum la linearità narrativa viene sabotata con salti senza raccordo, stacchi di montaggio godardiani disseminati qua e là per tutto il film e atti a scompaginare il racconto in istantanee sospese in una sorta di magma ipnotico. Il film pedina Moondog nel suo vagabondare, da moderno hobo, dentro notti cristalline, crepuscoli lisergici e luci al neon fluo come se stessimo seguendo un flusso psichico scoordinato, un alterato stato di coscienza.
Tuttavia questo principio sabotatore qui viene applicato ad un plot più solido. C’è un intreccio da seguire: un evento tragico e inaspettato che costringerà Moondog a fare i conti con le regole del vivere sociale, andare in riabilitazione e concludere una nuova opera. «Non sopporto gli intrecci perché mi pare che la vita non ne abbia» dichiarava in un’intervista ad Herzog un giovanissimo Korine, rivendicando una forma di resistenza politica, oltre che poetica, a Hollywood e all’ideologia americana dominante del capitalismo applicato al sogno – per cui chiunque può essere l’eroe capace di rialzarsi e trionfare dopo aver incontrato avversità. In questo ultimo lavoro la sensazione è quella di trovarsi dentro un universo parallelo – o un cartoon – in cui tutti personaggi sono stralunati, hanno nomi assurdi e un pilota cieco può accompagnarti su un pazzo aereo a ritirare un premio letterario, facendo saltare il principio di realtà e avvalorando l’ipotesi che, al di là della trama, il significato da cogliere sia tutto nella superficiale levità di quegli istanti di ebbra e stordita felicità che allargano la vita. Che siano tramonti, risate o pisciare nell'oceano al chiaro di luna; o, ancora, le scorribande di un poeta naufrago (nella civiltà) insieme alla sua banda di pazzi compagni di viaggio.

Un film sballato e balordo, certo, ma che vuole celebrare e aderire alla vita per come è. La vita come estasi momentanea. Nella sua pienezza e nella sua insignificanza. Nel suo farsi bellezza o auto distruzione. «Bisogna amarlo così com’è», dice Minnie Boo. E così The Beach Bum – nonché, per esteso, la filmografia di Korine: un esempio di cinema che racconta l’America attraverso il disfacimento del sogno americano. Esaltando l’estetica da videoclip delle superfici luccicanti e dei colorismi accesi al neon (Benoît Debie alla fotografia già collaboratore in Spring Breakers nonché in Enter the Void di Gaspar Noè), Korine galleggia sul vuoto post-ideologico del mondo contemporaneo. Non c’è sogno, c’è solo una fenomenologia dell’essere (strafatti). Non denuncia e non fa apologie. È irriverente e sovverte (e si diverte). Moondog, a suo modo, è forza eversiva, di resistenza.

Is that all there is?
Canta Peggy Lee in una delle sequenze più struggenti, in sottofondo al volteggiare amoroso di Moondog e Minnie Boo. Sì è tutto quel che c’è. La vita e nient’altro. E nel fare questo affresco ultrapop dell’America contemporanea Korine manda in fumo tutto: l’ideologia del capitale e quel che ne rimane del sogno.

If that's all there is
my friends,
then let's keep dancing

“Is that all there is” - Peggy Lee

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Harmony Korine Matthew McConaughey Isla Fisher Snoop Dogg Zac Efron 95 minuti
USA 2019
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Manta Ray

di Riccardo Bellini
Manta Ray - recensione film Aroonpheng

Pànta rèi. Tutto scorre.
Già nel titolo Manta Ray (in originale Kraben Rahu) sembra evocare l’espressione eraclitea. Un titolo che ne racchiude altri (pànta rèi appunto ma anche mantra ray se volessimo concederci qualche funambolismo), dove le parole  si fondono e si confondono, così come accade alle storie e ai personaggi raccontati dal film, in una compenetrazione di sguardi, vite, memorie, a delineare un percorso di incessante rinascita e di eterni ritorni, di differenze e ripetizioni. Come un mantra che si ripete identico per farsi strumento di trasformazione. L’esordio del thailandese Phuttiphong Aroonpheng, - vincitore nel 2018 al 75° Festival di Venezia nella sezione Orizzonti -, è un’opera dolente intrisa di lirismo che rielabora attualità, credenze popolari, spiritualismo ed echi hitchcockiani (il riferimento è a La donna che visse due volte) in una favola che tramite l’aporia narrativa dischiude il suo senso.

Fin dai primi minuti, Manta Ray si presenta come un’esperienza rarefatta, priva di precise coordinate con cui orientare lo spettatore, lavorando sulla costruzione di luoghi, personaggi e atmosfere che nella loro indefinitezza anticipano l’ingresso in un mondo liminare, in cui lo stesso concetto di confine - tanto tra vita e morte, mito e realtà, quanto tra corpi e memorie estranee - acquista centralità.
Inizia in un imprecisato villaggio della Thailandia, con il ritrovamento da parte di un pescatore di un uomo ferito da un proiettile, senza nome e incapace di parlare. Il secondo salva la vita al primo, se ne prende cura, gli dà il nome di un cantante pop thailandese, Thongchai, e tra i due si sviluppa un forte legame. Tre sequenze, giocate sui campi/controcampi frontali tra i volti dei due personaggi, quasi delle soggettive, scandiscono le tappe essenziali di questo rapporto, in una presa di consapevolezza dell’altro che è al contempo anticamera di un annullamento identitario. Quando però il pescatore scompare improvvisamente, - si dice inghiottito dal mare -, Thongchai comincia ad assumerne la vita, tingendosi persino i capelli dello stesso biondo ossigenato dell’amico e ospitandone a casa l’ex moglie. Il pescatore ritorna ma in lui si agita una consapevolezza diversa: come dal ritorno dal regno dei morti, l’uomo ha dovuto vivere un’esperienza simile a quella di Thongchai, facendosi carico sul proprio corpo e attraverso la propria anima di un dolore come quello che nell’amico si manifesta a livello fisico (la cicatrice sul petto) e spirituale (il mutismo). Nello struggente finale, il ritorno di Thongchai alle acque in cui era stato trovato, con il riaprirsi della ferita sul petto dell’uomo, raggiunge il culmine di una tensione tra disfacimento della materia e preservazione della memoria che sottende un’indecidibilità vicina al connazionale Apichatpong Weerasethakul, il cui cinema «transita nell’aporia del Tempo», in un «presente abitato da una memoria non necessariamente soggettiva» (Massimo Causo, Il film in cui nuoto è una febbre. 10 registi fuori dagli schermi, p. 131).

Ma Phuttiphong Aroonpheng apre Manta Ray - patrocinato da Amnesty International - con una dedica al popolo Rohingya, minoranza etnica perseguitata da decenni e che dal 2012 sta vivendo una spaventosa repressione in Birmania, con centinaia di persone costrette all’esodo spesso mortale verso stati limitrofi e ostili come la Thailandia, Paese in cui nel 2015 è stata scoperta una fossa comune contenente i corpi di presunti migranti, probabilmente simile a quella mostrata nella prima scena del film. Con questo cartello iniziale, pur lavorando su una dimensione di generale indefinitezza, il regista salda la visione del film a coordinate storiche da cui diventa impossibile prescindere, e che anzi ridefinisce i confini umani di una memoria che è soprattutto fatto civile e umano, traccia pervicace resistente alla disgregazione e al mutamento della materia. Le voci che nel finale riecheggiano per tutta la foresta, risvegliate dal “mantra” funebre di Thongchai, dichiara il regista «sono voci di rifugiati Rohingya che avevo registrato. Queste voci non scompariranno e non saranno totalmente dimenticate. Continueranno a esistere nel mio film». Con una soluzione di forte impatto teorico ed emotivo, Aroonpheng imprime un solco al proprio lungometraggio d’esordio, una traccia che, alla ricerca del dato imperituro all’interno di un mondo evanescente, rimarrà inevitabilmente impressa come una ferita salvifica, ancora contro l’oblio del Tempo e soprattutto della Storia umana. Manta Ray è così un film sul riconoscimento dell’altro attraverso l’esperienza del dolore, un viaggio tra corpi fantasmatici che si attraversano come larve inquiete, vacillano tra memorie incerte e riacquistano consistenza, per farsi ancora diafane, senza mai scomparire del tutto. Opera dove i morti ritornano per reclamare un loro posto, chiederci di non essere dimenticati, e renderci consapevoli di sé e del nostro mondo attraverso il loro dolore.
Tutto scorre. Eppure qualcosa rimane.

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Phuttiphong Aroonpheng Wanlop Rungkumjad Abhisit Hama Rasmee Wayrana 105 minuti
Tailandia, Francia, Cina 2018
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Poetry

di Fiaba Di Martino
Poetry - recensione film lee

Mi-ja ha quasi settant'anni, abita nella provincia di Gyeonggi, nella Corea del Sud, insieme al nipote sedicenne. Quando le viene diagnosticato l'Alzheimer, la sua preoccupazione va non solo e non tanto alla perdita della memoria, del contatto con la realtà, ma a una condanna forse peggiore, il pericolo di non riuscire più a riconoscere la bellezza delle cose. Che, per Mi-ja , esistono nel quotidiano, nella casa che cura, nelle piante che coltiva, nel cielo che la sovrasta. Nell'affetto del e per il nipote. Il quale però, con un gruppo di coetanei, ha violentato una ragazza. Il cui corpo viene trasportato dal fiume, nella scena che apre Poetry, l'immenso film di Lee Chang-dong. Così, la bellezza, che è armonia del mondo, che è gentilezza e rispetto dell'altro, che è giovinezza, si spezza. Viene avvelenata al centro della sua natura.

I colpevoli fanno spallucce, non capiscono, non s'interessano del fatto, della sua atrocità e gravità e delle responsabilità individuali, scrollate via con un colpetto anche dai rispettivi genitori, che convocano una sconvolta Mi-ja per "sistemare la faccenda". Col vil denaro, s'intende. Per questi padri fondatori di un anempatico sistema di valori utilitaristici, l'essenziale è che il futuro dei figli, accuratamente programmato in termini carrieristici ed economici, non venga intaccato da uno scandalo. Bisogna insabbiare tutto: è una pura formalità. E un secondo scossone nella vita di Mi-ja. La malattia sembra quasi aver infettato istantaneamente chi la circonda, persino il sangue del suo sangue: tutti dimentichi, zombiescamente, roboticamente, di un senso d'umanità. Ma Mi-ja non ha scelto di dimenticare, e lotta per ricordare ciò che è giusto, ciò che è vero e ciò che è bello, mentre gli altri, che della scelta hanno il potere, invece no. Per contrastare l'avanzata del morbo, Mi-ja si è inoltre iscritta a un corso di poesia: ma in che punto del mondo, in che parte dell'esistenza si può rintracciare la poesia, quando l'unico sguardo che può risponderti è ritratto, scomparso, andato, quando il simbolo di un indicibile dolore ti dà le spalle, anche da fantasma?

Nella sua opera più stratificata e limpida, più dolorosa e composta, di trasparenza e imponenza gentile, Lee asciuga il quadro da qualsivoglia tentazione climatica, tensiva, pietistica, da qualunque sottolineatura aggiuntiva, da ogni orpello e amplificatore sentimentale. C'è solo il chiarore, il lucore, la luminosità terribile e glaciale del programmatico abbandono di una strada etica, di una riflessione, di un'autocoscienza da parte delle nuove generazioni - perdute per sempre oppure mai davvero avvicinabili - e della consapevolizzazione e autocritica da parte di quelle vecchie, che preferiscono sommergere, omettere, scordare. Un film quasi apocalittico, questo sgomento dramma intimista del grande autore sudcoreano; un film sulla fine di un mondo, di un esercizio di pensiero e di morale, di cuore e di ragionevolezza. Sulla fine della pietas. Non più compresa, non più restaurabile: ma ripercorribile, forse, con l'aiuto insperato di un poliziotto confuso e un po' balordo.

Poetry è una tragedia greca che non si fa, e non si dà, mai pienamente alla sua protagonista. Ed è lo studio di un personaggio (e di un tour de force attoriale in punta di piedi: Yoon Jeong-hee) che è figura impotente ma combattente, che è destinato ad annegare ma persevera nel nuotare, nel tenersi a galla, nel guardare, nel cercare; infine, nell'accettare che la poesia - il suo senso, il suo avverarsi concreto, la sua comprensione - in questo mondo sarà sempre incompleta, almeno quanto le opportunità - presenti e future - di una reale espiazione.

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Lee Chang-dong Yoon Jeong-hee Lee David 135 minuti
Corea del Sud 2010
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A prescindere… Antonio De Curtis

di Donato Guida
A prescindere...Antonio De Curtis di Gaetano Di Lorenzo

La mattina del 3 maggio 1957 la motonave Calabria della Tirrenia entra nel porto di Palermo. Tra i viaggiatori è presente il Principe Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio, in arte Totò, uno dei maggiori artisti del ‘900.

Dopo circa sei anni durante i quali è stato impegnato in una mastodontica produzione cinematografica (più di quaranta film all’attivo tra il 1949 e il 1957), Totò ritorna finalmente al suo primo e vero amore, il teatro. La compagnia di Rivista “A Prescindere” è nel pieno di un tour che ha riscontrato finora un enorme successo tra Campania, Lazio, Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. L’attore napoletano è all’apice della popolarità e tutta Palermo freme per vederlo in scena, facendo il tutto esaurito per le serate in programma dal 3 al 6 maggio. Nessuno ancora poteva immaginare che queste sarebbero state le ultime apparizioni di Totò a teatro. Infatti già durante la prima al Politeama di Palermo, l’attore, dietro le quinte, sente riacutizzarsi la pericolosa retinite di cui soffre da tempo e, all’improvviso, ciò che è davanti ai suoi occhi sembra svanire.

Su Totò è stato detto e scritto di tutto: il Principe della risata è stato un personaggio emblematico all’interno del panorama artistico italiano, una figura capace di attraversare gli anni mantenendo intatte le sue riconoscibili peculiarità, che lo hanno fatto amare da ogni generazione. La sua pungente comicità riecheggia ancora oggi in tante indimenticabili battute divenute proverbiali, specchio di una profonda saggezza popolare dal sapore marcatamente partenopeo ma al contempo dal valore innegabilmente universale.

Nel suo A prescindere…Antonio De Curtis, presentato in anteprima nel corso dell’undicesima edizione dell’Ortigia Film Festival, il regista Gaetano Di Lorenzo propone un ritratto inedito dell’attore, ricco di interviste a personaggi che hanno preso parte alla vita artistica ma anche personale di Totò (non da ultimo, il professore Giuseppe Cascio che si prese cura di lui durante la malattia), fotografie, immagini e ritagli di giornali dell’epoca. A fare da collante ai diversi tasselli di cui si compone il documentario, un incontro “ricostruito”, in bianco e nero, a creare un’immaginifica intervista all’attore da parte di un giovane giornalista.

Se è vero che l’immagine classica che si ha di Totò è quella cinematografica, Di Lorenzo offre finalmente una visione “mono-teatrale”, invitando lo spettatore ad immergersi completamente in quello che è stato il grande amore dell’attore napoletano. Ad accompagnare le parole degli intervistati, la voce intima e amorevole di Franca Faldini, sua compagna degli ultimi anni, che ci descrive un uomo non solo appassionato della propria arte, ma anche innamorato del pubblico che lo acclama. Perché la sua energia trova sempre nuova carica nel calore degli spettatori, linfa vitale della sua ispirazione e della sua vivacità; da qui, il suo preferire il teatro al cinema, tanto da superare ogni problema fisico fino a “recitare al buio”.

Ciò che colpisce del documentario di Gaetano Di Lorenzo, forte e diretto come il suo protagonista, è la capacità di rivoluzionare, in un certo senso, l’idea che di Totò si è sempre avuta. Grazie ad un montaggio fluido e ben ritmato, il regista lo sveste dei panni “chapliniani” che da sempre lo hanno caratterizzato e lo presenta nella sua complessità, intima e artistica.

“Cosa devo fare io con Totò? Metto la macchina da presa fissa e lui si muove. Totò non ha bisogno di storie”. Questa riflessione, attribuita a Federico Fellini da alcuni degli intervistati, suggerisce quello che forse è sempre stato il rammarico più grande dell’attore: non aver potuto collaborare con il regista riminese (argomento menzionato più volte nel documentario e affrontato anche nel “libro-verità” Totò, l’uomo e la maschera, di Franca Faldini e Goffredo Fofi). Del resto, il personaggio che ha fatto la fortuna di Totò - quello tipico delle sue commedie più spassose e popolari – in una certa misura sembra non avergli permesso, potremmo dire, di spaziare alla ricerca di altri modi espressivi del proprio fare artistico. Tuttavia, se è vero che a farla da padrone nella sua filmografia sono appunto i registi della commedia pura – Mario Mattoli, Steno, Mario Monicelli, Luigi Zampa – non si può non ricordare la sua preziosa, memorabile collaborazione con Pier Paolo Pasolini nella parabola di Uccellacci e uccellini (1966), nella visione “pop” de La Terra vista dalla Luna (1967) e nella gemma poetica di Che cosa sono le nuvole? (1967). Forse proprio in questo trittico si può individuare l’esigenza della ricerca, da parte di Totò, di un impegno che lo liberasse finalmente dalle catene del “personaggio” per ri-presentarlo al pubblico per quel che è sempre stato: l’Attore.

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Gaetano Di Lorenzo 52'
Italia, 2019
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