El Camino - Il film di Breaking Bad

di Matteo Marescalco
El Camino - Recensione Film Gilligan

«Sistemare le cose...questa è l'unica cosa che non si può mai fare».
È un rapido dialogo tra Jesse Pinkman e Mike Ehrmantraut a dare il via a El Camino, l'atteso capitolo finale di Breaking Bad, tutto dedicato al co-protagonista della parabola criminale di Walter White. Vince Gilligan aveva lasciato il suo personaggio in preda alla fuga su una Chevrolet El Camino rubata ai suoi aguzzini dopo lunghissimi mesi di prigionia ed agonia. L'unico obiettivo del ragazzo è quello di cambiare vita ma, per farlo, dovrà tornare sui suoi passi, sistemare le faccende irrisolte e nascondersi da tutti.

Un punto particolarmente critico relativo a El Camino riguarda le motivazioni che hanno spinto Gilligan a tornare a mettere mano all'universo che, più di tutti, ha colonizzato l'immaginario collettivo durante l'ultimo decennio di serialità americana. Ovviamente, l'operazione è totalmente differente rispetto a Better Call Saul, che poneva una serie di rischi sulla necessità di bilanciare la parentela nei confronti della serie madre con una propria originalità. Lo spin-off incentrato sulla figura di Jimmy McGill ha dato vita a quattro stagioni, mentre l'ultimo film di Gilligan resta soltanto un prodotto della durata di 120 minuti con l'obiettivo non di espandere e ramificare ulteriormente un universo che, sulla carta, potrebbe dar vita a digressioni infinite, ma di concludere il percorso di un personaggio fondamentale, sancendone la crescita.

In tal senso, El Camino si rivela un oggetto bifronte e può essere letto in due modi differenti ma, pur sempre, complementari tra loro. Lo spettatore che non abbia mai visto Breaking Bad potrebbe scorgere nel film un thriller di buona fattura e persino un tardivo coming of age su un personaggio che prova a mettere da parte tutte le sue certezze -tra cui quella di affidarsi alla generica casualità universale - per abbracciare una vita diversa basata sulla centralità delle proprie decisioni. Costruito su una serie di contraddizioni, questo western on the road riesce a creare i momenti migliori imprigionando Jesse tra le quattro mura di un appartamento. Ogni spazio sembra voler opprimere il protagonista, costringendolo in luoghi angusti, e anche le porte che si spalancano si rivelano più minacciose che altro. Alla necessità di mettere Pinkman su strada e fargli percorrere miglia e miglia per allontanarsi quanto più possibile dal suo passato ci pensa, quindi, l'architettura degli spazi, a cui si aggiungono numerosi momenti di stasi, talmente ricchi di idee di scrittura da risultare senza respiro. Come film di genere, El Camino funziona perché edifica un immaginario sul contrasto tra epica della fuga e intimità del privato, focalizzandosi su un personaggio che prova ad afferrare il suo presente, affidando al futuro la vaga speranza di esorcizzare il proprio passato.

Tuttavia, è innegabile affermare che il film di Gilligan sia soprattutto un dono nei confronti della comunità immaginata di Breaking Bad, che ritroverà quel mondo grottesco pieno di sabbia e di sangue, realtà brutale e violenza stupida e cieca, strade, deserti rocciosi e cavalcavia che hanno offerto riparo a spacciatori, fuggitivi e agli innumerevoli men of constant sorrow che hanno costruito il loro mestiere sulle esigenze dei criminali. In questo secondo caso, El Camino si rivela essere un percorso solcato da una profusione di easter-eggs e un meccanismo a incastro che, sulla scorta della serie, alterna momenti presenti a flashback popolati dai fantasmi di Pinkman. Jesse è continuamente ossessionato dagli spettri che sono entrati a far parte della sua esistenza e, allo stesso tempo, dai fantasmi di ciò che insegue per il suo futuro. L'assenza della presenza - in primo luogo dell'amata Jane - lo pone dinnanzi a insoddisfazioni, desideri e angosce, che possono essere affrontati soltanto dall'arma di un'immaginazione in grado di poter curare il presente e il lutto di ciò che è stato, favorendo la genesi del nuovo.

Tuttavia, la morsa della realtà è asfissiante e il destino di Pinkman non sarà mai uno di conquista della libertà -rinchiuso com'è ancora in una prigione, quella dei sensi di colpa e dei traumi del passato - ma il personaggio avrà almeno l'occasione di fare ammenda dei propri errori, possibilità che Walter White non ha voluto avere, inghiottito completamente dal gorgo oscuro della sua (vitale) ossessione. Insomma, Jesse non potrà mai sistemare le cose e la convivenza con il suo carico di ricordi e con un lieto fine, probabilmente, è soltanto un sogno. Eppure, nonostante il tono crepuscolare e il dolore che accompagna ogni scambio di sguardi e ogni suo vagheggiamento, non si può non riscontrare in questo secondo abbandono al fuori campo un gigantesco atto di fiducia nei confronti del futuro e di un personaggio che ha trascorso le sue ultime 48 ore che ci siano state concesse ponendo le basi per una nuova vita. Adesso, sta allo spettatore usufruire di questo dono e riempire a piacimento gli spazi bianchi, affidando al sorriso finale di Jesse le sensazioni che più crede opportune.

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Vince Gilligan Aaron Paul Jesse Plemons Krysten Ritter Charles Baker Matt L. Jones Robert Forster Jonathan Banks Bryan Cranston 122 minuti
USA 2019
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Satanic Panic

di Jacopo Bonanni
satanic panic recensione film

Halloween è ormai alle porte e con l’approssimarsi della vigilia di ognissanti tutto è lecito, soprattutto per uno spettatore smanioso di brividi dozzinali e facile umorismo; compreso avventurarsi nelle folle visione di un film come Satanic Panic: un’orgia (tele)visiva a base di pizza, sesso e paganesimo diretta dalla regista esordiente Chelsea Stardust.

La storia è la cronaca farsesca del primo giorno di lavoro di Samantha “Sam” Craft (Haley Griffith) : una ragazza mite e ingenua, con il conto in rosso e le bollette da pagare, che per sbarcare il lunario è costretta a consegnare pizze a domicilio, consapevole di doversi prestare alle battute misogine dei suoi colleghi e alle bizzarre richieste dei suoi clienti. Quello che la giovane non si aspetta, a fine giornata, è di ritrovarsi al centro di un lezioso sabba satanico nei “quartieri alti”, presieduto dalla luciferina e snob Danica Ross (Rebecca Romijin) alla disperata ricerca di una “vergine sacrificale” da immolare a Baphomet. Il resto della trama è intuibile: la “final girl”, supportata dalla figlia redenta di Danica, dovrà barcamenarsi fino al sorgere del sole in una lotta a colpi di incantesimi in mezzo a demoni, figli viziati e streghe sull’orlo di una crisi di nervi.

L’idea di Chelsea Stardust di dirigere una commedia horror dai toni satirici e dalle tinte splatter, incentrata sulle disavventure di una sbadata “millenial” alle prese con una congrega di vamp annoiate dedite all’occultismo, è un intuizione simpatica e sembra funzionare all’inizio del film, lasciando ben sperare; soprattutto grazie alla sadica performance della Romijin nel ruolo di un’ammaliante femme fatale intenta a sviscerare – in tutti i sensi – le sue arti magiche. Tuttavia qualcosa nella sceneggiatura inizia a scricchiolare non appena la narrazione perde mordente per focalizzarsi sulla backstory semitragica dell’amicizia sanguinolenta che si instaura tra le due fragili protagoniste, intente a superare le loro divergenze pur di lottare insieme contro il male; fino a collassare definitivamente proprio quando il film entra nel vivo dell’azione e Sam si trasforma immotivatamente da goffa spettatrice di un complotto esoterico in una risoluta eroina alle prese con situazioni sempre più improbabili, come in una sorta di parodia di Buffy spinta ai limiti dell’esasperazione.

Purtroppo, nonostante gli intenti pirotecnici, i buoni effetti speciali e le reiterate citazioni a registi come Brian Yuzna (Society) e Sam Raimi (La casa) , il peggior difetto di Satanic Panic è il suo essere un film totalmente innocuo, a tratti noioso, che non riesce né a osare né a stupire, o a intrattenere come ci si auspicherebbe da un film con delle premesse del genere; tanto da chiedersi che senso abbia invocare il maligno senza farlo entrare mai effettivamente in azione. È un peccato, perché gli ingredienti per una pellicola feroce e dissacrante di base c’erano tutti in nuce (voyeurismo, satira di costume, lotta di classe, conflitto generazionale) ma come si suol dire in certe occasioni: il diavolo fa le pentole ma non i coperchi.

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Chelsea Stardust Rebecca Romijin Haley Griffith Arden Myrin Ruby Modine 80 minuti
USA 2019
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The Beach Bum

di Tamara Gasparini
The Beach Bum - recensione film korine

Is that all there is?
Harmony Korine continua a scivolare sulla superficie patinata dell’ America contemporanea con una commedia spregiudicatamente sgangherata, come il protagonista, Moondog (Matthew McCoughney), poeta straccione e strafatto, “drugo” lebowskiano ciondolante nelle sue camicie hawaiane, felicemente alla deriva alle Keys Islands, al largo di Miami. The Beach Bum è l’altra faccia della parabola ludica e criminale della Florida di Spring Breakers; laddove il film di sei anni prima era la canzone pop ultra-violenta di una generazione allo sbando, quest’ultimo lavoro è l’epopea lisergica e “romantica” di un cantore del caos, del corpo e dell’oblio stupefacente. Raggiunto lo status di genio letterario grazie a lavori di gioventù, Moondog vive di momenti, di felicità istantanea, di eccessi, sballi psicotici, mondanità alcoliche e di tutti i piaceri che la vita può regalare. È l’energia pulsionale degli istinti. Puro essere e puro Es.

Un po’ Bukowski e Whitman, un po’ Arthur Miller e Thomson S. Thompson, Moondog è in grado di abbracciare la realtà nei suoi aspetti solennemente triviali, santificando il presente di una spring break eterna e attingendo alla vita e alle sue esperienze per comporre poemi che parlano di organi, di corpi e dello stordimento beato di certi momenti apparentemente insignificanti che ritmano dello splendore dell’esistenza.
Lo vediamo notte e giorno trascinarsi nei bar in compagnia di un tenero gattino albino, stordirsi di alcol, droghe e amori passeggeri, salpare sulla sua barca, incurante e ridanciano, verso un edonismo senza ritorno e infine battere sui tasti di una scassata macchina da scrivere una nuova opera poetica che da anni sembra non arrivare mai a conclusione. Viene da un’altra dimensione, come dice Minnie Boo (Isla Fisher), la moglie ricchissima che lo ama per come è e lo aspetta tra le braccia dell’amico Lingerie (Snoop Dogg) in una lussuosa villa sul mare di Miami. Moondog è come un’emanazione dello spirito di Alien/James Franco di Spring Breakers ma anche la sua evoluzione fuori dal tempo e dallo spazio del mondo, del realismo capitalista e dell’ideologia del materialismo americano. Non possiede nulla e non cerca nulla. Richiamato alla civilization della città e ai comforts della ricchezza per il matrimonio imminente della figlia, il suo stile non cambia, sempre teso tra cultura alta e cultura bassa, tra una poesia di D.H. Lawrence declamata davanti a un tramonto scintillante e una “fattanza” da stoner film.

Harmony Korine ha da sempre raccontato un’ America spiantata, marginale, spesso moralmente riprovevole, abitata da personaggi borderline, tra poesia e degrado, tra candida innocenza, dissolutezza distruttiva e amoralità. Moondog è solo un altro esempio, elevato allo stato di estro creativo e poetico, di questa galleria di bizzarri e strampalati personaggi, sostenuto da una delle performance più incontenibili di McCoughney. Devo andare a fondo per andare in alto dice Moondog alla moglie, in una dichiarazione d’intenti che sembra auto-riflettersi in Korine stesso. Il regista ci ha abituati a un tipo di narrazione frammentata e sconnessa, allergico ai codici del racconto classico hollywoodiano sin dalle sue opere cult degli anni 90: Gummo e Julien Donkey Boy. Anche in The Beach Bum la linearità narrativa viene sabotata con salti senza raccordo, stacchi di montaggio godardiani disseminati qua e là per tutto il film e atti a scompaginare il racconto in istantanee sospese in una sorta di magma ipnotico. Il film pedina Moondog nel suo vagabondare, da moderno hobo, dentro notti cristalline, crepuscoli lisergici e luci al neon fluo come se stessimo seguendo un flusso psichico scoordinato, un alterato stato di coscienza.
Tuttavia questo principio sabotatore qui viene applicato ad un plot più solido. C’è un intreccio da seguire: un evento tragico e inaspettato che costringerà Moondog a fare i conti con le regole del vivere sociale, andare in riabilitazione e concludere una nuova opera. «Non sopporto gli intrecci perché mi pare che la vita non ne abbia» dichiarava in un’intervista ad Herzog un giovanissimo Korine, rivendicando una forma di resistenza politica, oltre che poetica, a Hollywood e all’ideologia americana dominante del capitalismo applicato al sogno – per cui chiunque può essere l’eroe capace di rialzarsi e trionfare dopo aver incontrato avversità. In questo ultimo lavoro la sensazione è quella di trovarsi dentro un universo parallelo – o un cartoon – in cui tutti personaggi sono stralunati, hanno nomi assurdi e un pilota cieco può accompagnarti su un pazzo aereo a ritirare un premio letterario, facendo saltare il principio di realtà e avvalorando l’ipotesi che, al di là della trama, il significato da cogliere sia tutto nella superficiale levità di quegli istanti di ebbra e stordita felicità che allargano la vita. Che siano tramonti, risate o pisciare nell'oceano al chiaro di luna; o, ancora, le scorribande di un poeta naufrago (nella civiltà) insieme alla sua banda di pazzi compagni di viaggio.

Un film sballato e balordo, certo, ma che vuole celebrare e aderire alla vita per come è. La vita come estasi momentanea. Nella sua pienezza e nella sua insignificanza. Nel suo farsi bellezza o auto distruzione. «Bisogna amarlo così com’è», dice Minnie Boo. E così The Beach Bum – nonché, per esteso, la filmografia di Korine: un esempio di cinema che racconta l’America attraverso il disfacimento del sogno americano. Esaltando l’estetica da videoclip delle superfici luccicanti e dei colorismi accesi al neon (Benoît Debie alla fotografia già collaboratore in Spring Breakers nonché in Enter the Void di Gaspar Noè), Korine galleggia sul vuoto post-ideologico del mondo contemporaneo. Non c’è sogno, c’è solo una fenomenologia dell’essere (strafatti). Non denuncia e non fa apologie. È irriverente e sovverte (e si diverte). Moondog, a suo modo, è forza eversiva, di resistenza.

Is that all there is?
Canta Peggy Lee in una delle sequenze più struggenti, in sottofondo al volteggiare amoroso di Moondog e Minnie Boo. Sì è tutto quel che c’è. La vita e nient’altro. E nel fare questo affresco ultrapop dell’America contemporanea Korine manda in fumo tutto: l’ideologia del capitale e quel che ne rimane del sogno.

If that's all there is
my friends,
then let's keep dancing

“Is that all there is” - Peggy Lee

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Harmony Korine Matthew McConaughey Isla Fisher Snoop Dogg Zac Efron 95 minuti
USA 2019
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Manta Ray

di Riccardo Bellini
Manta Ray - recensione film Aroonpheng

Pànta rèi. Tutto scorre.
Già nel titolo Manta Ray (in originale Kraben Rahu) sembra evocare l’espressione eraclitea. Un titolo che ne racchiude altri (pànta rèi appunto ma anche mantra ray se volessimo concederci qualche funambolismo), dove le parole  si fondono e si confondono, così come accade alle storie e ai personaggi raccontati dal film, in una compenetrazione di sguardi, vite, memorie, a delineare un percorso di incessante rinascita e di eterni ritorni, di differenze e ripetizioni. Come un mantra che si ripete identico per farsi strumento di trasformazione. L’esordio del thailandese Phuttiphong Aroonpheng, - vincitore nel 2018 al 75° Festival di Venezia nella sezione Orizzonti -, è un’opera dolente intrisa di lirismo che rielabora attualità, credenze popolari, spiritualismo ed echi hitchcockiani (il riferimento è a La donna che visse due volte) in una favola che tramite l’aporia narrativa dischiude il suo senso.

Fin dai primi minuti, Manta Ray si presenta come un’esperienza rarefatta, priva di precise coordinate con cui orientare lo spettatore, lavorando sulla costruzione di luoghi, personaggi e atmosfere che nella loro indefinitezza anticipano l’ingresso in un mondo liminare, in cui lo stesso concetto di confine - tanto tra vita e morte, mito e realtà, quanto tra corpi e memorie estranee - acquista centralità.
Inizia in un imprecisato villaggio della Thailandia, con il ritrovamento da parte di un pescatore di un uomo ferito da un proiettile, senza nome e incapace di parlare. Il secondo salva la vita al primo, se ne prende cura, gli dà il nome di un cantante pop thailandese, Thongchai, e tra i due si sviluppa un forte legame. Tre sequenze, giocate sui campi/controcampi frontali tra i volti dei due personaggi, quasi delle soggettive, scandiscono le tappe essenziali di questo rapporto, in una presa di consapevolezza dell’altro che è al contempo anticamera di un annullamento identitario. Quando però il pescatore scompare improvvisamente, - si dice inghiottito dal mare -, Thongchai comincia ad assumerne la vita, tingendosi persino i capelli dello stesso biondo ossigenato dell’amico e ospitandone a casa l’ex moglie. Il pescatore ritorna ma in lui si agita una consapevolezza diversa: come dal ritorno dal regno dei morti, l’uomo ha dovuto vivere un’esperienza simile a quella di Thongchai, facendosi carico sul proprio corpo e attraverso la propria anima di un dolore come quello che nell’amico si manifesta a livello fisico (la cicatrice sul petto) e spirituale (il mutismo). Nello struggente finale, il ritorno di Thongchai alle acque in cui era stato trovato, con il riaprirsi della ferita sul petto dell’uomo, raggiunge il culmine di una tensione tra disfacimento della materia e preservazione della memoria che sottende un’indecidibilità vicina al connazionale Apichatpong Weerasethakul, il cui cinema «transita nell’aporia del Tempo», in un «presente abitato da una memoria non necessariamente soggettiva» (Massimo Causo, Il film in cui nuoto è una febbre. 10 registi fuori dagli schermi, p. 131).

Ma Phuttiphong Aroonpheng apre Manta Ray - patrocinato da Amnesty International - con una dedica al popolo Rohingya, minoranza etnica perseguitata da decenni e che dal 2012 sta vivendo una spaventosa repressione in Birmania, con centinaia di persone costrette all’esodo spesso mortale verso stati limitrofi e ostili come la Thailandia, Paese in cui nel 2015 è stata scoperta una fossa comune contenente i corpi di presunti migranti, probabilmente simile a quella mostrata nella prima scena del film. Con questo cartello iniziale, pur lavorando su una dimensione di generale indefinitezza, il regista salda la visione del film a coordinate storiche da cui diventa impossibile prescindere, e che anzi ridefinisce i confini umani di una memoria che è soprattutto fatto civile e umano, traccia pervicace resistente alla disgregazione e al mutamento della materia. Le voci che nel finale riecheggiano per tutta la foresta, risvegliate dal “mantra” funebre di Thongchai, dichiara il regista «sono voci di rifugiati Rohingya che avevo registrato. Queste voci non scompariranno e non saranno totalmente dimenticate. Continueranno a esistere nel mio film». Con una soluzione di forte impatto teorico ed emotivo, Aroonpheng imprime un solco al proprio lungometraggio d’esordio, una traccia che, alla ricerca del dato imperituro all’interno di un mondo evanescente, rimarrà inevitabilmente impressa come una ferita salvifica, ancora contro l’oblio del Tempo e soprattutto della Storia umana. Manta Ray è così un film sul riconoscimento dell’altro attraverso l’esperienza del dolore, un viaggio tra corpi fantasmatici che si attraversano come larve inquiete, vacillano tra memorie incerte e riacquistano consistenza, per farsi ancora diafane, senza mai scomparire del tutto. Opera dove i morti ritornano per reclamare un loro posto, chiederci di non essere dimenticati, e renderci consapevoli di sé e del nostro mondo attraverso il loro dolore.
Tutto scorre. Eppure qualcosa rimane.

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Phuttiphong Aroonpheng Wanlop Rungkumjad Abhisit Hama Rasmee Wayrana 105 minuti
Tailandia, Francia, Cina 2018
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Poetry

di Fiaba Di Martino
Poetry - recensione film lee

Mi-ja ha quasi settant'anni, abita nella provincia di Gyeonggi, nella Corea del Sud, insieme al nipote sedicenne. Quando le viene diagnosticato l'Alzheimer, la sua preoccupazione va non solo e non tanto alla perdita della memoria, del contatto con la realtà, ma a una condanna forse peggiore, il pericolo di non riuscire più a riconoscere la bellezza delle cose. Che, per Mi-ja , esistono nel quotidiano, nella casa che cura, nelle piante che coltiva, nel cielo che la sovrasta. Nell'affetto del e per il nipote. Il quale però, con un gruppo di coetanei, ha violentato una ragazza. Il cui corpo viene trasportato dal fiume, nella scena che apre Poetry, l'immenso film di Lee Chang-dong. Così, la bellezza, che è armonia del mondo, che è gentilezza e rispetto dell'altro, che è giovinezza, si spezza. Viene avvelenata al centro della sua natura.

I colpevoli fanno spallucce, non capiscono, non s'interessano del fatto, della sua atrocità e gravità e delle responsabilità individuali, scrollate via con un colpetto anche dai rispettivi genitori, che convocano una sconvolta Mi-ja per "sistemare la faccenda". Col vil denaro, s'intende. Per questi padri fondatori di un anempatico sistema di valori utilitaristici, l'essenziale è che il futuro dei figli, accuratamente programmato in termini carrieristici ed economici, non venga intaccato da uno scandalo. Bisogna insabbiare tutto: è una pura formalità. E un secondo scossone nella vita di Mi-ja. La malattia sembra quasi aver infettato istantaneamente chi la circonda, persino il sangue del suo sangue: tutti dimentichi, zombiescamente, roboticamente, di un senso d'umanità. Ma Mi-ja non ha scelto di dimenticare, e lotta per ricordare ciò che è giusto, ciò che è vero e ciò che è bello, mentre gli altri, che della scelta hanno il potere, invece no. Per contrastare l'avanzata del morbo, Mi-ja si è inoltre iscritta a un corso di poesia: ma in che punto del mondo, in che parte dell'esistenza si può rintracciare la poesia, quando l'unico sguardo che può risponderti è ritratto, scomparso, andato, quando il simbolo di un indicibile dolore ti dà le spalle, anche da fantasma?

Nella sua opera più stratificata e limpida, più dolorosa e composta, di trasparenza e imponenza gentile, Lee asciuga il quadro da qualsivoglia tentazione climatica, tensiva, pietistica, da qualunque sottolineatura aggiuntiva, da ogni orpello e amplificatore sentimentale. C'è solo il chiarore, il lucore, la luminosità terribile e glaciale del programmatico abbandono di una strada etica, di una riflessione, di un'autocoscienza da parte delle nuove generazioni - perdute per sempre oppure mai davvero avvicinabili - e della consapevolizzazione e autocritica da parte di quelle vecchie, che preferiscono sommergere, omettere, scordare. Un film quasi apocalittico, questo sgomento dramma intimista del grande autore sudcoreano; un film sulla fine di un mondo, di un esercizio di pensiero e di morale, di cuore e di ragionevolezza. Sulla fine della pietas. Non più compresa, non più restaurabile: ma ripercorribile, forse, con l'aiuto insperato di un poliziotto confuso e un po' balordo.

Poetry è una tragedia greca che non si fa, e non si dà, mai pienamente alla sua protagonista. Ed è lo studio di un personaggio (e di un tour de force attoriale in punta di piedi: Yoon Jeong-hee) che è figura impotente ma combattente, che è destinato ad annegare ma persevera nel nuotare, nel tenersi a galla, nel guardare, nel cercare; infine, nell'accettare che la poesia - il suo senso, il suo avverarsi concreto, la sua comprensione - in questo mondo sarà sempre incompleta, almeno quanto le opportunità - presenti e future - di una reale espiazione.

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Lee Chang-dong Yoon Jeong-hee Lee David 135 minuti
Corea del Sud 2010
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A prescindere… Antonio De Curtis

di Donato Guida
A prescindere...Antonio De Curtis di Gaetano Di Lorenzo

La mattina del 3 maggio 1957 la motonave Calabria della Tirrenia entra nel porto di Palermo. Tra i viaggiatori è presente il Principe Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio, in arte Totò, uno dei maggiori artisti del ‘900.

Dopo circa sei anni durante i quali è stato impegnato in una mastodontica produzione cinematografica (più di quaranta film all’attivo tra il 1949 e il 1957), Totò ritorna finalmente al suo primo e vero amore, il teatro. La compagnia di Rivista “A Prescindere” è nel pieno di un tour che ha riscontrato finora un enorme successo tra Campania, Lazio, Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. L’attore napoletano è all’apice della popolarità e tutta Palermo freme per vederlo in scena, facendo il tutto esaurito per le serate in programma dal 3 al 6 maggio. Nessuno ancora poteva immaginare che queste sarebbero state le ultime apparizioni di Totò a teatro. Infatti già durante la prima al Politeama di Palermo, l’attore, dietro le quinte, sente riacutizzarsi la pericolosa retinite di cui soffre da tempo e, all’improvviso, ciò che è davanti ai suoi occhi sembra svanire.

Su Totò è stato detto e scritto di tutto: il Principe della risata è stato un personaggio emblematico all’interno del panorama artistico italiano, una figura capace di attraversare gli anni mantenendo intatte le sue riconoscibili peculiarità, che lo hanno fatto amare da ogni generazione. La sua pungente comicità riecheggia ancora oggi in tante indimenticabili battute divenute proverbiali, specchio di una profonda saggezza popolare dal sapore marcatamente partenopeo ma al contempo dal valore innegabilmente universale.

Nel suo A prescindere…Antonio De Curtis, presentato in anteprima nel corso dell’undicesima edizione dell’Ortigia Film Festival, il regista Gaetano Di Lorenzo propone un ritratto inedito dell’attore, ricco di interviste a personaggi che hanno preso parte alla vita artistica ma anche personale di Totò (non da ultimo, il professore Giuseppe Cascio che si prese cura di lui durante la malattia), fotografie, immagini e ritagli di giornali dell’epoca. A fare da collante ai diversi tasselli di cui si compone il documentario, un incontro “ricostruito”, in bianco e nero, a creare un’immaginifica intervista all’attore da parte di un giovane giornalista.

Se è vero che l’immagine classica che si ha di Totò è quella cinematografica, Di Lorenzo offre finalmente una visione “mono-teatrale”, invitando lo spettatore ad immergersi completamente in quello che è stato il grande amore dell’attore napoletano. Ad accompagnare le parole degli intervistati, la voce intima e amorevole di Franca Faldini, sua compagna degli ultimi anni, che ci descrive un uomo non solo appassionato della propria arte, ma anche innamorato del pubblico che lo acclama. Perché la sua energia trova sempre nuova carica nel calore degli spettatori, linfa vitale della sua ispirazione e della sua vivacità; da qui, il suo preferire il teatro al cinema, tanto da superare ogni problema fisico fino a “recitare al buio”.

Ciò che colpisce del documentario di Gaetano Di Lorenzo, forte e diretto come il suo protagonista, è la capacità di rivoluzionare, in un certo senso, l’idea che di Totò si è sempre avuta. Grazie ad un montaggio fluido e ben ritmato, il regista lo sveste dei panni “chapliniani” che da sempre lo hanno caratterizzato e lo presenta nella sua complessità, intima e artistica.

“Cosa devo fare io con Totò? Metto la macchina da presa fissa e lui si muove. Totò non ha bisogno di storie”. Questa riflessione, attribuita a Federico Fellini da alcuni degli intervistati, suggerisce quello che forse è sempre stato il rammarico più grande dell’attore: non aver potuto collaborare con il regista riminese (argomento menzionato più volte nel documentario e affrontato anche nel “libro-verità” Totò, l’uomo e la maschera, di Franca Faldini e Goffredo Fofi). Del resto, il personaggio che ha fatto la fortuna di Totò - quello tipico delle sue commedie più spassose e popolari – in una certa misura sembra non avergli permesso, potremmo dire, di spaziare alla ricerca di altri modi espressivi del proprio fare artistico. Tuttavia, se è vero che a farla da padrone nella sua filmografia sono appunto i registi della commedia pura – Mario Mattoli, Steno, Mario Monicelli, Luigi Zampa – non si può non ricordare la sua preziosa, memorabile collaborazione con Pier Paolo Pasolini nella parabola di Uccellacci e uccellini (1966), nella visione “pop” de La Terra vista dalla Luna (1967) e nella gemma poetica di Che cosa sono le nuvole? (1967). Forse proprio in questo trittico si può individuare l’esigenza della ricerca, da parte di Totò, di un impegno che lo liberasse finalmente dalle catene del “personaggio” per ri-presentarlo al pubblico per quel che è sempre stato: l’Attore.

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Gaetano Di Lorenzo 52'
Italia, 2019
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The Politician

di Maria Cafagna
The_Politician - recensione serie tv netflix ryan murphy

Nel mondo delle serie tv sono pochi gli showrunner conosciuti dal grande pubblico, e uno di questi è certamente Ryan Murphy, attivo dai primi anni Duemila con Popular e Nip/Tuck e creatore, tra le tante cose, di Glee, American Horror Story, American Crime Story, Feud e Pose. Il suo è un curriculum ventennale impressionante, e lo sa bene Netflix, che sempre più affamata di contenuti originali di qualità ha blindato l’autore con un contratto che non ha precedenti nel mercato seriale americano, offrendo 300 milioni di dollari per cinque anni di lavoro in esclusiva. Il primo prodotto di questa collaborazione è The Politician, serie in nove episodi sulla corsa alla Casa Bianca intrapresa dal giovane Payton Hobart (Ben Platt). Un’impresa che parte dalle imminenti elezioni per diventare il rappresentante degli studenti della sua scuola. Perché è così importante vincerle? Perché bisogna vincere tutto quello che c’è da vincere, scegliere le persone giuste, frequentare le migliori scuole senza commettere nessun passo falso.

Nella prima scena della prima stagione Payton ci dice tutto quello che c’è da sapere su di lui, compreso il suo piano per diventare presidente ricalcando le orme di chi ha occupato lo studio ovale da Reagan in poi: Payton è stato adottato, non ha mai conosciuto la sua madre biologica ma ha una madre adottiva (Gwyneth Paltrow) dolce e incoraggiante, viene da una famiglia molto ricca e sa bene che per diventare Presidente non bisogna sbagliare una mossa, mai. E infatti Payton non lascia nulla al caso e ha già un team che lo segue, pronto a occupare assieme a lui la West Wing: i suoi spin doctors James (Theo Germaine) e McAfee (Laura Dreyfuss), e una First Lady, Alice (Julia Schlaepfer), la sua innamoratissima Lady Macbeth.

Ma l’ambizione di Payton si va subito a scontrare con un dato di realtà: in lui mancano totalmente empatia e carisma, caratteristiche che abbondano invece in River Barkley (David Corenswet), il suo rivale nella competizione elettorale nonché amante segreto. Il personaggio di River somiglia molto a John John Kennedy, l’unico figlio maschio di JFK, e come lui soffre di una profonda infelicità che nemmeno il denaro, la popolarità e lo straordinario patrimonio genetico riescono a colmare. Del resto, nel corso della prima puntata River si suicida davanti agli occhi di Payton, sparandosi alla tempia con una rivoltella, e da qui arriva la prima e forse più eclatante lacuna di The Politician: il suicidio di River non viene mai elaborato né all’interno della serie né dai suoi personaggi. L‘evento che segna la vita dei protagonisti e l’andamento della vicenda viene lasciato sullo sfondo, come se il personaggio di River si fosse preso un anno sabbatico.

Dopo la morte di River i giochi per l’elezione a Presidente del comitato studentesco sembrano chiusi, fino a che la fidanzata di lui e arcinemica di Payton, Astrid (Lucy Bolton), prende il posto del ragazzo suicida e nomina come sua VP Skye (Rahne Johnes), una ragazza lesbica e afro-americana. In risposta alla rivale, Payton sceglie Infinity Jackson, studentessa malata terminale. Ma qualcosa nella storia di Infinity non torna (e forse non torna perché una ragazza che fa la chemio non dovrebbe avere le sopracciglia): il segreto di Infinity, gelosamente custodito dalla nonna Dusty Jackson (Jessica Lange), costringe Payton a vivere le elezioni con la spada di Damocle di una verità che non può essere svelata.

Il personaggio di Payton ricorda molto quello dei due protagonisti di American Crime Story, O.J. Simpson e Andrew Cunanan, l’assassino di Gianni Versace: tutti e tre sognano di vivere il sogno americano ma vengono continuamente respinti, condannati a rimanere degli outkast. Un’ossessione, quella del sogno americano, dei loser, degli emarginati, sviscerata lungo tutta la carriera di Murphy, di cui The Politician non è però tra i prodotti migliori. La serie infatti, almeno da questa prima stagione, appare riuscita a metà, sorretta da un grande cast e ricca di trovate divertenti e geniali, ma carica anche di elementi deboli che non ne fanno un prodotto pienamente convincente ma anzi un calderone di generi, citazioni e auto-citazioni mescolate all’attualità che non colpiscono mai a fondo. Un prodotto cinico, freddo e ben confezionato che però non colpisce al cuore, proprio come Payton.

Probabilmente, se la serie avesse avuto meno episodi o se la durata di questi ultimi fosse stata inferiore ai 45 minuti, il risultato finale ne avrebbe giovato, come dimostra l’episodio più riuscito della serie, un piccolo capolavoro: The Voter. Diretto da Ian Brennan, co-creatore della serie insieme a Murphy e Brad Falchuk, The Voter ha una durata anomala (25 minuti sui 45 degli altri episodi); segue Eliot, uno studente del primo anno completamente disinteressato alle elezioni, ed è il ritratto dell’elettore medio che vive il dibattito politico come un fastidioso rumore di sottofondo di cui non vede l’ora di liberarsi. Un episodio che fa storia a sé, diretto, interpretato e scritto in maniera magistrale, ma anche una gemma di scrittura collocata a metà di una serie che proprio nella sceneggiatura ha il suo punto debole. The Voter alza per un poco l’asticella di The Politician, che dopo però si abbassa di nuovo e torna alla sufficienza.

Forse le aspettative suscitate dalla serie (e dall’accordo senza precedenti da cui proviene) erano troppo alte, forse c’era veramente troppo da dire, e certamente in ogni writer’s room del mondo dovrebbe esserci la foto di Franco Cristaldi, produttore di Nuovo Cinema Paradiso, che salvò il film di Tornatore imponendo tagli drastici all’autore. La prima stagione di The Politician non verrà ricordata tra i capolavori di Murphy, ma diverte, intrattiene e merita il binge watching. Ma non fatevi troppe aspettative.

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Ryan Murphy Ben Platt Zoey Deutch Lucy Boynton Bob Balaban Gwyneth Paltrow Jessica Lange 1stagione da 8 episodi
USA 2019
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Braid

di Pietro Lafiandra
Braid - recensione film horror

Nynphomaniac di Lars Von Trier, Raw - Una cruda verità di Julia Ducournau, The Neon Demon di Nicolas Winding Refn, L’inganno nella versione di Sofia Coppola, Hereditary di Ari Aster, La casa delle bambole di Pascal Laugier.
Che siano citazioni dirette o un semplice effetto déjà-vu, è impossibile non notare la quantità eterogenea di riferimenti thriller e horror (anche antitetici nello stile) su cui è stata costruita quest’opera prima della regista venticinquenne italo-americana Mitzi Peirone. Una lista che potrebbe tranquillamente essere ampliata e che, per costruire un discorso sulla forma di Braid, necessita di un’obbligatoria integrazione: affianco ai numerosi rimandi cinefili che ci si potrebbe divertire a scovare per tutta la durata della pellicola, e che si succedono cronologicamente uno di seguito all’altro — come se ogni sequenza fosse stata pensata e strutturata seguendo i canoni di uno specifico film — si può infatti inserire anche un elenco delle forme, degli stili e delle trovate estetiche/narrative.

Macchina da presa statica, macchina da presa a mano, zoom, riprese dalle videocamere di sorveglianza, inserti in bianco e nero, rotazione 360° della macchina da presa, piano inclinato a 180°, color correction virata al viola durante un trip allucinogeno, piani olandesi, fotografia antinaturalistica con luci asettiche o luci a effetto neon, a volte verdastre, a volte blu, a volte rosa, a volte viola, suddivisione per capitoli, flashback, titoli di testa grafici e policromatici oltre a scene di sesso saffico, esplosioni splatter tarantiniane e una lunga serie di generi convergenti: horror ospedaliero, torture horror, post-horror, crime, pulp, mind game movie, dramma psicologico ecc.
La forma di Braid è intricata, incalcolabile, indecifrabile, esattamente come la narrazione e la mente delle protagoniste, tre ragazze, tre amiche d’infanzia, legate da un rapporto morboso che affonda in un espediente (potenzialmente) utile per indagare la psicologia femminile, e da un gioco macabro che le porta a simulare un rapporto dominatore-dominato in cui ognuna delle ragazze protagoniste assume talvolta un ruolo, talvolta l’altro: a volte madri irascibili, altre figlie adolescenti incontrollabili.

In questo senso, gli intenti di Peirone sono chiari e suscitano interesse: costruire una forma/non-forma che tragga linfa proprio dal disorientamento dello spettatore per costruire un’atmosfera allucinata attorno a scenografie pop, minimali, recuperando il motivo delle “modelle-streghe” (Petula e Tilda, le due protagoniste sono delle artiste cool newyorchesi) dello Showgirls di Verhoeven e del Demone al neon di Refn, declinandolo all’interno di un’ambientazione casalinga, un microcosmo in cui si sgretolano i rapporti d’amicizia e di potere che il film aveva precostituito e in cui emergono vecchi drammi e rancori.

Questo sgretolarsi della narrazione e della forma di fronte a uno spettatore sempre più confuso è l’elemento che sembra aver convinto maggiormente i critici che hanno sostenuto il film, esaltando la (de)costruzione di una trama praticamente nulla: al contempo, paradossalmente, il tratto che sembra mancare a questa forma fluida è proprio la coerenza stilistica. A ogni inquadratura pare che Peirone si sforzi di costruire un’atmosfera allucinata attraverso ogni trovata possibile e attingendo a ogni cliché dell’horror estetico degli ultimi anni. Nei corpi nudi, nelle scritte fluo allo specchio, nelle mascherine chirurgiche, nei neon, nei dolci dai colori saturi decorati con scritte tetre, si respira non tanto la malattia, l’allucinazione, il delirio, l’aria di minaccia che la regista vorrebbe costruire,  quanto lo strenuo, inefficace (se non a brevi tratti) tentativo di impalcarla che finisce per donare al prodotto finale un aspetto posticcio e gratuito.

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Mitzi Peirone Madeline Brewer Imogen Waterhouse Sarah Hay Scott Cohen 82 minuti
USA 2018
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Secret Sunshine

di Veronica Vituzzi
Secret Sunshine - recensione film

Sembra quasi banale notare come il primo elemento che salti agli occhi guardando Secret Sunshine sia la notevole, quasi insopportabile luminosità delle sue scene in esterno. C’è tantissimo sole, bianco e accecante, per le strade della città di Miryang, il distretto sudcoreano dove Lee Shin-ae si trasferisce insieme al figlioletto dopo la morte del marito, che lì vi era nato. Poiché Miryang significa appunto “secret sunshine”, lo splendore segreto, la scelta estetica di Lee Chang-dong parrebbe un gesto stilistico fine a sé stesso, se non fosse che più il film prosegue, più si intuisce, con una certa inquietudine, di essere di fronte a uno sguardo che incastra nell’inquadratura cinematografica un significato astratto più complesso della pura immagine offerta allo spettatore.

Questo splendore nascosto è anche qualcos’altro, una sorta di pace interiore, di nuovo inizio, che la protagonista ricerca dopo l’esperienza del lutto. Invece, in una rapida progressione tragica, la morte le si ripresenta in una forma ancora più devastante: il figlio viene prima rapito e poi ucciso. Dopo un periodo iniziale di assoluto dolore e smarrimento spirituale, Shin-ae si getta nella fede religiosa, trovando l’oblio nell’idea che bisogna accettare tutto ciò che proviene da Dio. Una pace momentanea, salvifica, che si interrompe bruscamente quando si trova di fronte all’assassino di suo figlio, che ha trovato a sua volta il sollievo dal senso di colpa nella religione.

La reazione di Shin-ae la porta sull’orlo del suicidio e del crollo nervoso: come può Dio perdonare prima di lei, come può privarla del potere curativo dell’assoluzione che di diritto toccava a lei, la madre dal cuore spezzato? Come può averla ignorata? Da quel momento in poi Secret Sunshine diviene la storia di una ribellione impazzita e dolente, un rabbioso dialogo diretto con il Padre Eterno che tutto vede senza proferire parola. Non bisogna pensare che si tratti di una reazione in fondo universale e frequente in un animo spezzato. Shin-ae chiede ripetutamente «mi stai guardando?» girando il volto sempre verso l’alto, perché ciò che non sa, in quanto personaggio di una storia, è che in realtà dovrebbe voltarsi verso la stessa macchina da presa. Il Dio crudele di Secret Sunshine coincide con il suo autore: lo sguardo freddo, clinico e distante è quello di Lee Chang-dong, colui che decide del destino della sua protagonista senza pietà verso le sue ingenue speranze.

È uno sguardo che comprende spesso ciò che Shin-ae non riesce a vedere, come il figlio che si nasconde o origlia dalla porta, una visione superiore priva di compassione e pudore, tranne forse un attimo di imbarazzo durante il ritrovamento del cadavere del figlio, ove Lee concede alla protagonista l’intimità dolente di un campo lungo, suggerendo soltanto ciò che lei sta effettivamente guardando. Per il resto il regista si sofferma in modo brutale e prolungato sull’espressione del dolore, un linguaggio fisico che snerva, irrita. mette a disagio. C’è in Secret Sunshine una sofferenza cosi diretta, istintiva, da essere quasi grottesca e fastidiosa, perché così è la vera disperazione: manca di poesia, di senso, di ideale, fa solo venir voglia di distoglierne lo sguardo. Shin-ae (una straordinaria Song Kang-ho, vincitrice a Cannes per la miglior interpretazione femminile) soffre fisicamente, vomita, ha rigurgiti, attacchi strozzati di tosse, urla a dismisura, e non c’è dubbio che la reazione immediata sia di prenderne le distanze quasi trovandoci da ridere, come una cosa ridicola ed esagerata. Non è un caso che l’assiduo corteggiatore che per tutta la storia insegue la protagonista - amandola in modo ottuso senza mai conoscerla - parli di melodramma comico, perché questa rappresentazione non mediata del dolore stanca e affatica proprio in virtù della sua autenticità, e rischia in ogni momento di perdere il contatto emotivo con lo spettatore. Secret Sunshine è quel tipo di film che non ha alcuna intenzione di venir incontro al pubblico, rischiando come molti altri di simile grana di essere accusato di autoreferenzialità ed esser preso poco sul serio, se non fosse che le ragioni di Lee Chang-dong, quei significati astratti nascosti nell’inquadratura e nella storia, sono troppo solide e tenaci per girarvi le spalle.

Lo splendore è segreto proprio perché Shin-ae non riesce a vederlo, a raggiungerlo, e nel momento in cui crede di averlo intravisto nel suo incontro con Dio lo perde di nuovo come ha perso il figlio, che anche da vivo perde spesso di vista. Secret Sunshine è la storia di un’anima che cerca un senso senza trovarlo, che forse solo alla fine riesce a contrapporre di fronte al caos degli eventi quell’esiguo, minimo libero arbitrio che la rende umana pur in mezzo ad eventi incontrollabili. Shin-ae si ribella a Dio/Lee Chang-dong che le scrive una scena di riappacificazione spirituale – lasciare che la figlia del suo assassino le tagli i capelli in una sorta di tregua/rinascita personale –  ovvia e banale, esattamente ciò che ci si aspetterebbe per concludere una storia del genere; se non fosse che Shin-ae fugge dal salone e finisce da sola il taglio. Se non è possibile per le persone attingere al piano superiore, se si è destinati a rimanere ciechi e abbandonati, al massimo visti ma mai vedenti, che rimanga almeno quella lievissima facoltà di scelta che è tutto ciò che ci rimane su questa terra.

Per raccontare tutto ciò Lee Chang-dong deve giocare a fare Dio, deve creare il suo personale Giobbe al femminile e farne la metafora del dramma dell'essere umano qualora scelga la filosofia di vita più dolorosa che ci sia: una forma di resistenza inerte e quasi arresa, spezzata ma consapevole, alla natura, alla morte e al caso.

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Lee Chang-dong 142 minuti
Corea del Sud 2007
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Undone

di Maria Cafagna
Undone recensione serie tv amazon

«Ho ventotto anni e la mia vita è tutta qui?».
Undone inizia così, come il più classico viaggio dell’eroe. Una vita normale, apparentemente sempre uguale, di una ragazza come tante. Eppure a guardare bene c’è già qualcosa di insolito in Alma (Rosa Salazar): la mattina, quando si prepara, indossa il ricevitore esterno di un impianto cocleare. Alma è sorda.
Nel corso del primo episodio scopriamo che suo padre (Bob Odenkirk) è morto in un incidente stradale. E la storia sembra ripetersi quando Alma attraversa un incrocio con la sua auto senza fermarsi allo stop e va a sbattere. Risvegliatasi dal coma, niente sarà come prima: in seguito all’incidente Alma riesce sviluppare poteri sovrannaturali che le permettono di parlare con suo padre, il quale le chiede di usare il suo dono per tornare indietro nel tempo e salvargli la vita. Alma inizia così un viaggio tra le varie realtà possibili, quelle che sono, quelle che saranno e quelle che potrebbero essere. Ma sopratutto, inizia un viaggio tra le realtà che le sono state raccontate e le verità sul suo passato che le sono state nascoste.

Undone è realizzata in rotoscope, una tecnica che combina animazione e riprese dal vero. Ideata da Raphael Bob-Waksberg e Kate Purdy, rispettivamente creatore e sceneggiatrice di BoJack Horseman, Undone era stata pensata per essere girata come una serie normale, con effetti speciali e attori in carne e ossa, ma i suoi autori hanno pensato che l’animazione avrebbe reso più fluidi i salti temporali e i “viaggi” di Alma e suo padre. Il mix tra animazione e messa in scena tradizionale funziona perché è il riflesso della storia che vuole raccontare: un mix tra fantasy e melò, romanzo di formazione e la storia di una super eroina.

Il suo essere incastrato tra vari generi, proprio come la sua protagonista, è il vero punto di forza di questa serie che può essere amata sia da chi preferisce racconti più tradizionali, sia dagli appassionati dell’animazione che da quelli del fantasy. La forza di Undone è certamente la sua scrittura, che poggia su un impianto solido e classico ma si intreccia con suggestioni più moderne e contemporanee. Questa serie è, innanzitutto, una saga familiare al femminile dove tre donne, Alma, la sorella Becca (Angelique Cabral) e la madre Camila (Constance Marie) costruiscono ciascuna la propria vita attorno a un’assenza, quella del padre. Kate Purdy, creatrice e sceneggiatrice della serie, aveva già dato prova di riuscire a costruire personaggi femminili affascinanti e complessi in BoJack Horseman: chi ha amato la serie Netflix non farà fatica a riconoscere in Alma alcune caratteristiche di Diane. E anche qui, come in BoJack Horseman, tutto si muove in equilibrio sopra la follia: chi è pazzo, chi viene considerato tale o chi attorno a lui non si accorge che la realtà non è una sola? Ma Undone ricorda anche Fleabag, la serie BBC di Phoebe Waller-Bridge recentemente premiata con l’Emmy nella categoria comedy. Anche qui abbiamo una protagonista alle prese con un lutto, una storia classica (il romanzo di formazione, la saga familiare)  e un linguaggio visivo sperimentale e mai banale.

Undone si lascia guardare e riguardare, non solo per la complessità e la ricercatezza della storia e la caratterizzazione dei personaggi così riuscita, ma anche per la bellezza delle immagini in rotoscope che in effetti garantiscono la fluidità tra realtà e fantasia ricercata dai suoi autori. Una serie contemporanea che parla alla generazione dei 30-40enni e che è già un piccolo cult, che spazia tra i generi e piace a chi cerca di un linguaggio visivo originale. Ma anche una storia con un finale aperto che magari lascerà spazio a una seconda stagione. E che forse ci dice qualcosa che nella serie viene più volte accennata: non si sfugge al proprio destino. Non importa quanto tu possa scappare lontano, che sia nella prateria di un deserto o in una galassia lontana. Non si sfugge dal proprio destino perché non si sfugge da sé stessi. E il nostro futuro è scritto nel nostro passato.

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Raphael Bob-Waksberg Kate Purdy Hisko Hulsing Rosa Salazar Bob Odenkirk Constance Marie Angelique Cabral 1 stagione da 8 episodi
USA 2019
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