La legge della notte

La legge della notte è l'ultimo progetto titanico di Ben Affleck, fagocitato completamente dalla stazza del suo autore e, per questo, impossibile da non amare.

Nel 1998, un ragazzotto americano, mascella volitiva e fisico da quarterback, vinceva il Premio Oscar alla Miglior Sceneggiatura Originale per Will Hunting. Per Ben Affleck, la strada che lo avrebbe condotto verso il grande cinema americano era spianata. Nei successivi due lustri, tuttavia, la carriera dell’attore si sarebbe totalmente arenata nel deserto mediatico attraversato dal fratello e dal suo migliore amico in Gerry, alle prese con una relazione sentimentale trasformata dai media in un’esperienza narrativa da brandizzare.

Fin dalle prime esperienze lavorative, la vita di Ben Affleck è stata attanagliata da pericolosi Phantoms (per citare il misconosciuto film di Joe Chappelle): l’ombra del migliore amico più talentuoso, dei pettegolezzi maligni che mettono in dubbio l’autenticità del copione di Will Hunting e, allo stesso tempo, della vicenda edificante che vede protagonisti due americani dalle velleità autoriali. L’impressione è che Daredevil ed Amore estremo condannino definitivamente quel pilota della RAF che, soltanto pochi anni prima, riusciva a stento a riemergere dai gorghi voluttuosi di un oceano che lo avrebbe tenuto ostaggio per qualche settimana ma che, nel corto circuito della vita reale, gli avrebbe riservato un viscoso fondale oscuro (quasi) impossibile da risalire.

Fino al 2007, l’anno della rivalsa con Gone Baby Gone, seguito a ruota da The Town e da Argo, tutti diretti da Affleck e tratti da opere letterarie, e da un climax di recensioni positive. Ma, così come nel secondo movimento di ogni fiaba studiata da Vladimir Propp, l’antagonista torna a perseguitare e sfidare l’eroe del racconto, anche nella vita di Ben Affleck, il tempo e la morte non si arrendono facilmente ma continuano a riscuotere tributi fin troppo elevati. La legge della notte ha interrotto il percorso positivo intrapreso dall’attore-regista, riservandogli in dono 75 milioni di dollari di perdite ed una matassa di critiche difficili da districare persino per un personaggio pubblico che ha fatto della sua rinascita una cifra peculiare.

Nel periodo della Grande Depressione e del proibizionismo, Joe Coughlin live(s) by night guadagnandosi da vivere con la piccola delinquenza locale di Boston. Ripudia il padre, capo della polizia, per alimentare l’immaginario dell’eroe romantico che si innamora della pupa del boss e che si muove a disagio nei panni del gangster. Decide di vendicarsi del tradimento della femme fatale lavorando per il boss della mafia italiana che gli ordina di trasferirsi a Tampa per contrabbandare alcool. Con l’aiuto di alcuni personaggi del luogo, Coughlin si libererà delle ombre che lo perseguitano, raggiungendo la tanto desiderata redenzione.

Che nella carriera di Ben Affleck vita, cinema, tempo e morte siano termini particolarmente adiacenti si evince da quanto scritto finora. La legge della notte si presta ad essere letto come una sorta di testamento spirituale del suo autore, qui nelle vesti di sceneggiatore, produttore esecutivo ed attore. Tradurre in immagini un’opera letteraria non è mai un’operazione semplice né ha senso giudicare un film sulla base del testo da cui è tratto: la costruzione per immagini in movimento si differenzia completamente da un universo che basa la propria forza narrativa sulla suggestione della parola. Ebbene, La legge della notte è costruito sull’immane fisico del suo attore principale che finisce per ingurgitare la sua stessa creazione, sotto il peso di un titanismo che lo sottopone ad una pressione inaudita capace di deragliare il film e di condannarlo ad una serie di impasse da cui riesce a fuggire con sofferenza. La verbosità estrema, le dilatazioni e le ellissi temporali ed il senso di ossessione di sottofondo fanno da contorno ad un racconto che affonda le sue radici in un universo onirico. Tempo e morte non sono termini utilizzati per caso: è una serie di immagini fotografiche, infatti, a dare l’avvio al film e a fungere da dichiarazione di intenti. È proprio la profondità contemplativa tutta fotografica, con la lentezza dei suoi ritmi e la ricchezza percettiva, ad offrire una chiave di lettura del film e una via di fuga allo svuotamento di senso di un mondo infernale che merita comunque la salvezza.

Pochi minuti dopo questa dichiarazione d’intenti, un piano sequenza avvolge lo spettatore nelle sue spire, cullandolo dolcemente all’interno di un universo popolato da personaggi in cerca di riscatto che rispettano i cliché del genere ma che, al contempo, se ne discostano, segnando uno scarto rispetto ai loro predecessori. In tal senso, il cinema di Ben Affleck è un simulacro cannibale, una finzione che guarda al mondo della finzione e che di essa si nutre, credendo in una purezza paradisiaca situata al di là del visibile, fuori da ogni campo possibile. Il mondo del cinema è il grembo materno in cui rintracciare l’ultimo residuo di un’umanità che, nonostante tutto, ribolle di suggestioni, di sangue e di passioni e che rende la filmografia del suo autore meno perfetta ma dotata di uno sguardo romantico difficilmente rintracciabile altrove, meritevole di uno sconfinato atto d’amore da parte del pubblico.

Autore: Matteo Marescalco
Pubblicato il 05/03/2017

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