Zombieland - Doppio colpo

di Matteo Marescalco
Zombieland - Recensione Fleischer

Cosa farebbe un nerd se gli zombie prendessero il posto degli esseri umani sulla Terra? Secondo Ruben Fleischer in Benvenuti a Zombieland, stilerebbe un catalogo di 32 regole da seguire pedissequamente per raggiungere l'obiettivo della sopravvivenza. E, magari, andrebbe a rifugiarsi nella villa hollywoodiana di Bill Murray, uno che, in fin dei conti, è abbastanza abituato alla fine del mondo.

Zombie e WTF a profusione: erano queste le premesse di un film che, dieci anni fa, raggiungeva lo stato di cult dopo un percorso in sala non troppo brillante (in Italia, Benvenuti a Zombieland è stato destinato soltanto al mercato degli home-video). Da allora, la carriera di alcuni dei protagonisti è decollata, i Marvel Studios hanno dato il via al più esteso universo condiviso cinematografico di tutti i tempi e l'industria mediale è stata colpita da un terremoto che ne sta scuotendo le fondamenta. Eppure, Tallahassee, Columbus, Wichita e Little Rock sono continuati ad esistere off-screen e a portare avanti la loro strenua resistenza contro i non-morti, più agguerriti e violenti che mai. L'interrogativo fondamentale di questo Zombieland: Doppio colpo consiste nel modo in cui i quattro personaggi possono continuare ad esistere sullo schermo cinematografico nonostante l'apocalisse.

In questo nuovo episodio i quattro si separano, intraprendono un viaggio per ricompattare la loro famiglia sui-generis, affrontano i loro doppi e si scontrano con alcune icone dell'immaginario collettivo americano. Più che sullo sviluppo di un plot compatto e organico, il regista e il team degli sceneggiatori si concentrano sulla riuscita di situazioni estemporanee, edificate attorno al nucleo tematico dell'abbandono della propria casa e della ricerca di una strada da percorrere per giungere all'età adulta. Una volta che l'architrave della struttura è stata posta, è abbastanza semplice dispiegare la parodia e infarcire l'insieme di gag, riproponendo lo stesso meccanismo di Benvenuti a Zombieland.

Dotato di una buona capacità di sopravvivenza e di adattamento, il film di Fleischer torna a riflettere sulla rielaborazione dei codici di genere facendo affidamento sulla propria competenza nerd. Tuttavia, in modo molto similare a Venom - approdo di Fleischer nell'MCU - , anche questa commedia horror sembra giunta fino a noi da uno spazio-tempo differente e altero. I ritmi da commedia demenziale segnata da venature horror funzionano ma il film è talmente chiuso nel proprio mondo da risultare privo della capacità di dialogare con il presente e con tutto ciò che esiste fuori Zombieland. Lo stesso rapporto che si instaura tra Tallahassee e Nevada (interpretata dalla rediviva Rosario Dawson) sembra esemplificare le dinamiche di un film condannato a partire e a cercare la propria via autonoma per poi girare in tondo su sé stesso e muoversi soltanto nel recinto di casa.

Dopo dieci anni di distanza dal primo episodio, era lecito aspettarsi qualcosa in più di un contenitore di autocitazioni in cui le singole scene contano più della creazione di una storia compatta e coesa.

Categoria
Ruben Fleischer Woody Harrelson Jesse Eisenberg Emma Stone Abigail Breslin Rosario Dawson Luke Wilson Bill Murray 96 minuti
USA 2019
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Parasite

di Matteo Berardini
Parasite - recensione film Bong

Forte della sua Palma d’Oro, Parasite di Bong Joon-ho si appresta a diventare uno dei film di maggior successo di questo 2019, una vittoria al botteghino internazionale per un autore solido e importante, finalmente legittimato e scoperto dal “grande” pubblico (ovvero dallo spettatore mediamente interessato al cinema ma non per forza cinefilo e indagatore di filmografie lontane come quella sudcoreana). Parasite del resto è il film perfetto per questa scalata, forse non il migliore di Bong ma di certo quello in cui il regista di The Host e Memories of Murder mette meglio a fuoco la cifra intima del suo cinema, la capacità (affatto scontata) di coniugare riflessione autoriale e piacere ludico della visione, indagine del contemporaneo e gusto per il racconto. Parasite del resto è una storia che parla di desiderio, dignità, umiliazione e conflitto di classe attraverso elementi che pur essendo particolarmente significativi a livello locale (tutto il film è – anche – una manifestazione molto intima delle due Coree) risultano familiari al pubblico internazionale, grazie alla narrazione dinamica e ricca di colpi di scena che sorregge il discorso metaforico – chiaro ma mai didascalico – del film. Lasciarsi andare alla visione di Parasite significa allora affidarsi a Bong e al suo cinema pirotecnico, una folle corsa sulle montagne russe del racconto in cui si viene condotti per mano e sedotti da uno sguardo capace di alternare divertimento e tensione, grottesco e melodramma. Bong è assai vicino ad Hitchcock per come riesce a trasformare la visione del film in una casa degli specchi che gioca con le corde emotive e le aspettative canoniche dello spettatore, e c’è da scommettere che è proprio quest’alternanza rocambolesca e liberissima tra i generi il fattore chiave del successo del film, non certo il primo ad affrontare la condizione umana ai tempi del tardo capitalismo.

Uncontainable Desire. Così recita la (splendida) locandina internazionale di Parasite, un’illustrazione allucinata del soprammobile roccioso che all’inizio del film viene regalato alla famiglia Kim; un portafortuna per le famiglie in cerca di successo materiale, si dice, di certo un oggetto di scena «così metaforico», come viene definito dal figlio dei coniugi Kim, l’intraprendente Ki-woo. Nel cinema di Bong c’è spesso un personaggio o una battuta ricorrente che funge da mise en abyme e svela la natura allegorica del racconto; in Snowpiercer ad esempio uno dei protagonisti si riferisce alle vicende in corso come a un blockbuster esercitato dal potere per disinnescare le tensioni di classe. In Parasite questo ruolo viene affidato a Ki-woo, artefice dell’infestazione parassitaria esercitata dai Kim ai danni della famiglia alto borghese dei Park e primo dei Kim ad essere infettato dal desiderio incontenibile, una voglia di riscatto che si mescola senza soluzione di continuità all’invidia, al bisogno di affermazione e di possesso, all’orgoglio che cerca di superare l’umiliazione e trovare la propria strada. Sono almeno due i momenti in cui Ki-woo definisce quanto sta avvenendo «così metaforico» eppure, e qui sta uno dei tanti talenti di Bong, il film non diviene mai un asettico teorema sociologico calato dall’alto, incurante di narrazione e personaggi (capito Lanthimos?); nonostante le due famiglie e le loro case siano studiate al millimetro per rappresentare le differenze di classe e le conseguenti tensioni, Parasite è anzitutto il ritratto di una vicenda umana straziante, scomoda, beffardamente tragicomica, ed è proprio attraverso l’intersecarsi dei generi che Bong riesce a restituire tutta l’umanità e il peso delle emozioni in gioco, troppo vivide e multiformi per esser contenute da un solo sistema di riferimento.

C’è tuttavia un’etichetta che ci sentiamo di voler affiancare a Parasite e che forse permette di mettere in evidenza, da una prospettiva leggermente diversa, il cuore di questo film. Ed è il concetto di weird, quel particolare genere di perturbazione che pone al centro del racconto un’entità o un oggetto «talmente inusuale da generare la sensazione che non dovrebbe esistere, o perlomeno non dovrebbe essere qui; eppure, se l’entità oppure l’oggetto è effettivamente qui, allora le categorie utilizzate finora per dare senso al mondo non possono essere valide». Queste parole sono di Mark Fisher, grande scrittore e critico culturale, scomparso troppo presto, che nel suo ultimo libro – The Weird and the Eerie, lo strano e l’inquietante nel mondo del contemporaneo, edito da Minimum Fax – si concentra sull’idea di weird definendone i tratti attraverso varie manifestazioni culturali. In relazione a Parasite risultano folgorati alcuni passaggi in particolare, dove viene definita come capacità principale del weird il suo aprire passaggi tra questo mondo e altri, mostrando come «l’esterno può fare irruzione, attraverso spazio e tempo, in un’ambientazione fattualmente familiare; […] è l’irruzione in questo mondo di qualcosa che proviene dall’esterno a fare da marcatore del weird».
Cos’è Parasite, con la sua orchestrazione millimetrica di salite e discese, scale percorse su e giù tra piani sopraelevati e soffocanti sotterranei, se non il manifestarsi concreto della soglia tra i mondi, l’irrompere alieno di elementi appartenenti a un’altra dimensione (o classe sociale) che non solo si intrufolano gradualmente nella casa ma infestano via via l’ambiente con i loro odori di corpi stanchi e umidi e ammuffiti? La convivenza forzata tra i Kim e i Park mostrata da Bong non può che generare tensioni e conflitto perché quella che salta è la soglia tra mondi che per loro natura sono fatti e pensati per essere ben distanti, e che, soprattutto, prevedono sì interazioni ma che siano accuratamente formalizzate e descritte da protocolli preimpostati, riconoscibili, riassumibili sempre in un rapporto di lavoro verticale e attento al «limite» (la parola chiave del capofamiglia Park). Parasite allora è uno dei grandi film weird dei nostri tempi, un’opera che raccoglie il concetto di soglia (già tipicamente lynchiano) e lo sgretola per mostrare come il superamento del «limite» significhi raccontare l’intrinseca e ipocrita instabilità di un mondo mettendone in mostra la sua apertura incontrollata verso l’esterno, la sua intima vulnerabilità nei confronti dell’altro.

Che meraviglioso e schietto ritratto della società capitalistica è Parasite, mai freddo, mai cinico, ma anzi partecipe e commosso delle sorti dei suoi personaggi, grande cinema capace di impiegare al meglio le sue risorse di tempo e spazio per mettere in scena sia l’aberrazione del nostro sistema economico che l’umana imperfezione universale.

Etichette
Categoria
Bong Joon-ho Song Kang-ho Park So-dam Lee Sun-kyun Choi Woo-shik 132 minuti
Corea del Sud 2019
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

The Report

di Matteo Berardini
The Report - recensione film Amazon

Uno contro molti, la crociata di un Davide contro le ingerenze e le pressioni tentacolari di un Golia che giustifica e preserva sé stesso, a qualunque costo, in qualunque circostanza. Patria del cinema liberal impegnato e schierato contro il Potere e le sue devianze, Hollywood si è fatta storicamente rifugio di figure cristologiche impegnate in crociate personali, pericolose e spesso al confine con la paranoia, volte a redimere gli errori più abietti della Nazione dopo che i suoi organi hanno agito nel pieno disprezzo delle leggi e delle norme civili e morali. Da Mr. Smith va a Washington a questo The Report c’è una linea rossa che attraversa il Novecento americano mettendone in scena gli anfratti più oscuri, in un bisogno palingenetico di opporre sempre alle storture del reale la forza dell’immaginario. Sono le immagini la prima linea di difesa, lo strumento principe con cui riscattarsi cercando di restituire giustizia ai paladini delle tante battaglie legali e sociali, e il percorso si è fatto via via così coerente e fedele a sé stesso da poter essere definito un genere vero e proprio. Un canone, fatto di narrazioni urbane asciutte e solidamente retoriche, informative per quanto infiammate di sdegno e sempre incentrate su personaggi esemplari ed umanissimi in lotta con forze più grandi di loro. A questo filone The Report si accosta pedissequamente e con grazia, offrendo una ricostruzione robusta e rigorosa del calvario attraversato dal membro del Senato Daniel Jones, cui viene affidato il compito di svelare la storia del programma di detenzione e interrogatorio avviato dalla CIA dopo gli attentati dell’undici Settembre. Il risultato sarà un rapporto di quasi settecento pagine denso di nomi, circostanze, eventi, che dimostrano come il servizio segreto americano avesse adottato i metodi illegali e immorali della tortura per portare avanti una battaglia già persa in partenza, affossata dall’intrinseca e comprovata inutilità di quelle procedure. Ma un conto è raccogliere le informazioni, un altro è riuscire farle venire alla luce. Il rapporto diventerà mai pubblico?

È attorno a questo pericolo che Scott Z. Burns costruisce il suo secondo film da regista, al quale arriva dopo un decennio passato a lavorare accanto a Steven Soderbegh, per il quale scrive una sequenza di opere formidabili (The Informant!, Contagion, Effetti collaterali, Panama Papers). Non a caso The Report non solo è prodotto dallo stesso Soderbergh, ma del suo ultimo Panama Papers si rivela il controcampo ideale, il completamento più tradizionale nel quale possiamo ritrovare lo stesso afflato liberal, la stessa rabbia e necessità di intervento che nel film di Soderbergh aveva assunto forma postmoderna e metalinguistica.
Lontano dall’ironia eversiva del suo film gemello, The Report è concentrato e monocorde come il suo protagonista, ma questa linearità classica diviene punto di forza nel momento in cui si serve il duplice compito di portare alla luce una storia importante e di dare forma a un’ossessione lunga anni, un vero percorso cristologico di espiazione con tanto di tentazioni, momenti di defaillance e solitudine sotto il peso della croce. Certo, a volte quest’estrema focalizzazione non rende giustizia ai (pochi) personaggi coinvolti, ma Burns riesce comunque a raccontare le difficoltà di Daniel Jones, il suo isolamento e la sua determinazione, pur mantenendo ai minimi l’esplorazione psicologica (merito anche di un Adam Driver al solito bravissimo e in parte). Non a caso la parte migliore dell’opera è la seconda, quella in cui a venire chiamata in causa è la fedeltà di Jones alle sue stesse idee e valori, in cui il dilemma morale si complica e il racconto assume i ritmi più serrati del thriller politico, mentre la battaglia per la libera informazione e la giustizia si infiamma, tocca corde personali e pagine di giornali, fino ad approdare, finalmente, pubblicamente, tra i banchi del Senato, davanti alle telecamere nazionali e al paese intero.

Categoria
Scott Z. Burns Adam Driver Annette Bening Michael C. Hall Jon Hamm Corey Stoll Tim Blake Nelson Matthew Rhys 118 minuti
USA 2019
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Ragazze interrotte

di Veronica Vituzzi
Ragazze interrotte - Recensione film James Mangold

C’è una scena in Ragazze interrotte che spiega perfettamente sia il titolo che il senso del film: solo che è stata tagliata al montaggio finale (ma si può vedere su YouTube). La ragazza interrotta originale è quella di un quadro di Vermeer che la protagonista (Winona Ryder), vede con grande turbamento in un museo. La fanciulla si volge verso lo spettatore mentre suona, come distratta dall’arrivo di un visitatore inatteso, e si cristallizza in quel intermezzo che a Susanna pare eco del suo periodo di pazzia giovanile, «un momento reso immobile, per tutti gli altri momenti, qualsiasi cosa fossero o avrebbero potuto essere». Così scriveva la vera Susanna Keynes, nelle proprie memorie da cui nel 1999 James Mangold traeva il suo film erroneamente ricordato dai più solo per l’Oscar come Miglior Attrice non Protagonista ad Angelina Jolie. Eppure Ragazze interrotte è stata soprattutto un’opera capace, pur con i suoi difetti, di rendere la complessità della malattia mentale e della sua concezione entro una società “normale” esponendo una pluralità di punti di vista senza prediligerne nessuno.

Susanna appare inizialmente niente più che una persona confusa, forse viziata dalla vita troppo facile, una ragazza pigra che si diverte ad andare fuori di testa, come la definirà in un momento di rabbia l’infermiera Valery (Whoopi Goodberg). Pertanto i genitori non trovano altra soluzione se non spedirla in un ospedale psichiatrico dove incontrerà alcune ragazze, tutte in apparenza davvero folli, soprattutto la carismatica Lisa (Angelina Jolie), vero e proprio capogruppo del reparto, sociopatica con la battuta pronta sempre incline a reiterate fughe con annesso recupero e ulteriore ricovero coatto. Eppure, siamo nel 1968, in America il movimento underground, gli hippie e la ribellione giovanile concorrono a rimettere in discussione i vecchi principi morali, ciò che era giusto e normale una volta non lo è più; e allora perché non dovrebbe essere Susanna una vittima, in quanto punita per aver rifiutato il consueto percorso esistenziale università-matrimonio-figli che aveva contraddistinto la vita di donne come sua madre? Sarebbe facile pensarlo, credere che lei e le sue compagne di ospedale siano vittime, come è facile credere che siano abili manipolatrici, oppure che la normalità non esista o che effettivamente siano tutte pazze.

L’intelligenza di Mangold sta nel non dare una risposta precisa, ma nel riconoscere la medesima percentuale di follia nelle pazienti come nel mondo che le ammala – nel film c’è sempre, esplicito o sottaciuto, un rapporto conflittuale o spezzato con i genitori come con l’autorità in generale – perché ciò che gli sta a cuore non è imputare le colpe quanto trovare una metafora visiva efficace per rendere il disagio mentale e strutturare tutta la vicenda secondo questo concetto, che è quello della stanza chiusa. Susanna è vista la maggior parte del tempo entro una stanza, e d’altra parte la sua è una storia di reclusione che non è solo quella concreta dell’ospedale ma quella inconsapevole di una chiusura esistenziale a ciò che è fuori – il mondo, le relazioni, la responsabilità della propria vita. Il suo ricovero ospedaliero è solo la conseguenza finale di un chiudersi che è andare in un altro luogo, un’altra dimensione della mente. In alcuni contesti è un processo caro agli artisti (e difatti quando Susanna dirà al tassista di dover andare all’ospedale perché vede delle cose, la risposta sarà «allora dovrebbero rinchiudere anche John Lennon!») ma nel caso della protagonista diviene una scelta precisa per rifiutare tutto ciò che sta fuori. Questo vale per lei come gli altri personaggi: da Lisa che cerca di perpetuare la propria malattia mentale per poter sempre tornare dentro, a Daisy che esce fuori dall’ospedale solo per rintanarsi nella casetta acquistata dal padre stupratore; per non dimenticare poi il volto deturpato di Polly che le aliena ogni relazione amorosa, le bugie patologiche di Georgina o l’anoressia clinica di Janet che cerca letteralmente di scomparire dal mondo.

Mangold accompagna le sue protagoniste lungo questo cammino ininterrotto entro un dedalo di stanze, porte aperte e chiuse, ove ogni fuoriuscita all’aria aperta, per quanto speranzosa, finisce male (ci si addormenta, si litiga, si scappa via) in quanto priva di quel presupposto necessario per rendere l’entrata nel mondo un atto consapevole. Uscire fuori significa anche lasciar uscire fuori ciò che si è tenuti dentro, e così Susanna, non ancora pronta, rifiuta la fuga col proprio ragazzo venuto a prenderla (Jared Leto) e ritorna in ospedale dopo essere scappata con Lisa.  Solo quando accetta di parlare, di esprimersi nella terapia, può deliberare il proprio stare al mondo tramite il violento confronto finale con Lisa, demistificando tutte le sue argomentazioni orgogliose e violente sulla malattia e l’alienazione come uniche esperienze di verità. Il disturbo borderline che le viene diagnosticato rappresenta infatti questa linea di delimitazione tra la normalità e la follia, la realtà e l’universo parallelo della malattia, sul cui confine la protagonista ondeggia indecisa su dove orientarsi, che non è tanto la questione dell’essere noi e il mondo più o meno folli, quanto se stare al mondo o andarsene, metaforicamente (l’alienazione mentale) o nel concreto (il suicidio). Se è certo che veniamo fisicamente al mondo espulsi dal grembo materno, è anche evidente che a questo parto deve sempre accompagnarsi una nascita spirituale, come esseri indipendenti e autonomi, che spesso si concretizza (se si concretizza mai) molti anni dopo la nostra comparsa. Dopo la lunga e dolorosa gestazione mentale avvenuta entro il chiuso dell’ospedale, Susanna finalmente si partorisce e viene al mondo: ed è lì, con la fine del film di Mangold, che la sua vita inizia davvero.

Categoria
James Mangold Winona Ryder Angelina Jolie Jared Leto Brittany Murphy Elisabeth Moss 125 minuti
USA 1999
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Aniara

di Leonardo Strano
Aniara - recensione film kagerman lilja

Aniara nei suoi primi minuti sembra essere un racconto fantascientifico personalizzato, dedicato esclusivamente a un personaggio, alle sue reazioni psicoemotive e ai suoi spostamenti espressivi all’interno del contesto complesso che lo accoglie. Le inquadrature iniziali del film di Pella Kågerman e Hugo Lilja (tratto dall’omonimo romanzo di Harry Martinson) raccontano del semplice accesso a un mondo ambiente - sconosciuto per lo spettatore posizionato fuori dal testo - mediante la descrizione prossemica, il pedinamento dell’individuo presente nel testo e quindi del semplice percorso conoscitivo del singolo nella collettività, nel tutto nuovo, nel costrutto sociale ignoto. Come narrazione bilanciata sull’asse dell’individuo e quindi sulla prospettiva del singolo sui molti, il film percorre i primi slalom narrativi trattenendo la propria storia a una misura giornaliera, giocata sulla percezione dell’unità minima psicologica, sociale e temporale: responsabile della gestione di un programma simulativo in grado di immergere i viaggiatori della crociera spaziale in rigogliosi ricordi passati, noto come Mima, la donna protagonista cerca di comprendere la propria posizione in quel nuovo microcosmo che dovrà abitare per due settimane prima dell’arrivo su Marte.

Aniara è infatti una nave di viaggio, partita dalla Terra – ormai non più abitabile per la desertificazione (accennata solo da implicite battute e da un esplicito campo lunghissimo) – diretta verso il pianeta rosso. Un incidente inatteso tuttavia costringe la nave a una deviazione drastica. Questo evento narrativo sposta l’equilibrio organizzato nei minuti iniziali, quello della narrazione personalizzata e misurata, a un nuovo equilibrio strutturale, depersonalizzato e collettivo, senza precisa riduzione personale e dedicato allo scorrere del tempo. In breve il film ridimensiona le sue premesse e da racconto individuale (centrifugo) sulle reazioni spettatoriali a un nuovo contesto si traduce a racconto sociale (centripeto), imperniato sull’analisi fredda e distante – si potrebbe dire cartesiana, per la natura meramente bidimensionale della documentazione visiva – degli eventi lasciati allo scorrere del tempo. La scatola significante – la nave – diventa gabbia per esaminare la reazione della collettività all’evento sconvolgente: quella della protagonista è solo una risposta indistinguibile (assimilabile) tra le tante – dall’incompetenza bugiarda delle istituzioni al ritorno a un tribalismo religioso - rilevate grazie al guadagno del punto di vista del tempo.

Abbandonando il cinema narrativo e abbracciando quello di osservazione – in un contesto fantascientifico funzionale solo a stressare con l’immaginazione le tematiche fino al parossismo più orrorifico – Aniara ottiene un punto di vista umanista scevro di ingenuità sul decorso culturale della storia umana e sulle prospettive future che ci attendono. La sua analisi della reazione della collettività a una tragedia inspiegabile – a un’urgenza umanitaria - è messa in scena puntuale di proiezioni sociologiche pessimiste e allo stesso tempo riflessione sulle ragioni del decadimento, del fallimento culturale e umano. Alla deriva nello spazio, gli abitanti della nave non attivano le loro coscienze per formulare soluzioni per la sostenibilità sociale: attendono un aiuto esterno e intanto scelgono di occupare il proprio tempo e la propria speranza in prolungate sessioni al simulatore. Ai confini del futuro, spinto verso nuovi mondi e costretto a inventare nuove soluzioni per sostenere la vita, l’uomo fallisce perché non è più capace di immaginare un futuro. Preferisce l’involuzione dell’immagine di un eden irraggiungibile fisicamente, ma virtualmente percettibile, il lento ammorbidirsi della morte sul proprio occhio, la riduzione del pensiero a archiviazione di momenti migliori. L’attesa che qualcosa succeda anche alla fine del tempo.

Categoria
Pella Kågerman Hugo Lilja Emelie Jonsson Bianca Cruzeiro Arvin Kananian Annelli Martini 106
Svezia-Danimarca
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Light of my life

di Domenico Saracino
 Light of my life - recensione film Casey Affleck

Si apre con un lungo racconto di un padre a una figlia Light of My Life, primo film di finzione di Casey Affeck, di ritorno dietro la macchina da presa dopo l’interessante esperimento del 2010 rappresentato da Joaquin Phoenix - Io sono qui!, mockumentary sul grande attore americano, a quel tempo cognato di Affleck. Ben undici minuti di runtime espressamente consacrati alla dettagliata enunciazione di una favola, inventata all’impronta dalla figura paterna ricorrendo liberamente al topos biblico del diluvio universale e dell’arca di Noè, una “variazione sul tema” i cui riferimenti non sfuggono affatto all’intelligente e curiosa ragazzina.
Un padre e una figlia dunque, soli, in una tenda immersa nell’oscurità dei boschi rischiarata dalla luce calda di un lume, si estraniano dal mondo, si avvolgono tra le dolci coperte della fantasia, dell’invenzione creativa. Che lì fuori ci sia un mondo distopico in cui le donne sono quasi tutte morte a causa di un misterioso virus, come vuole la trama del film, o che invece possa esserci la vita sbilenca che tutti conosciamo, coi suoi mali forse un filo meno apocalittici (almeno su scala globale, ma forse neanche, se si pensa alla follia dell’inquinamento e del cambiamento climatico), poco cambia: immoralità, ingiustizia, crudeltà, violenza, dolore, malattia, sono volti dell’orrore che la civiltà umana evoca, esorcizza, subisce e sperimenta da sempre. Nel tramonto della civiltà, allora, così come alla sua alba, sembra dirci questa prima emblematica sequenza iniziale, favola e favella possono offrire una via di fuga dalla tagliola della realtà e delle sue possibili ma indicibili brutture. A maggior ragione se a raccontare, a farsi rapsodo, è un padre il cui unico scopo nella vita è salvaguardare l’amatissima figlia.

Un modo per connettersi: questo sono le storie nelle parole stesse usate dal papà (il personaggio di cui non si conosce il vero nome interpretato da Casey Affleck) per spiegare alla piccola Rag (l’incredibile Anna Pniowsky), diminutivo di Raggedy Ann – il cui nome è lo stesso d’una bambola di pezza protagonista di vecchi libri illustrati per ragazzi – il senso più profondo del raccontare.  E quando lei gli chiede cosa succederà se lui muore, lui si inventa che anche se fosse legato, pugnalato, tramortito, messo in un blocco di ghiaccio e scaricato sul fondo dell’oceano, ne verrebbe fuori per andare a cercarla. «Anche se a te sembra impossibile, mi dispiace ma è vero», è la rassicurazione paterna. La forza dei sentimenti, dell’amore, viene fuori in tutta la sua potenza immaginifica, epica, romantica, proprio nell’eroica e stoica negazione della realtà, riplasmata taumaturgicamente dalla parola: è la resistenza di questi affetti, al cui centro c’è il rapporto padre-figlia, il tema principale del film.

A scorrere sotterraneamente in Light of My Life, sotto le parole sussurrate e il pragmatismo del padre, è la disperata paura di morire prima che un figlio sia diventato adulto e abbia imparato a fronteggiare le crudeltà del mondo, il terrore di abbandonare la propria creatura al suo destino in una landa ancora più avvelenata, devastata, violenta e tossica di quella ricevuta in eredità. E questo valeva tanto per il Cormac McCarthy di La strada (riadattato per il cinema nel 2009 da John Hillcoat) quanto per il Casey Affleck di Light of My Life.

Da questo punto di vista il film può dirsi riuscito: la scelta metalinguistica di assegnare alla narrazione un valore salvifico, liberatorio, per quanto già ampiamente abusata nella storia della letteratura e del cinema, contribuisce a restituire al mondo distopico una poetica e commovente – nella sua oggettiva incapacità di incidere materialmente sul miglioramento delle condizioni di vita – possibilità di obiezione. Un’obiezione, una resistenza, di natura spirituale, dunque sottile, universale ed eterna. Non si può non provare qualche brivido nel vedere papà Affleck impegnarsi in questo disperato tentativo di sottrarre la figlia alla mostruosità dell’abbrutimento umano (la violenza omicida, la totale scomparsa della fiducia e della solidarietà sociale, la legge del più forte) per mezzo della fantasia o di mani pronte a chiuderle gli occhi nei momenti di massima atrocità. E le ottime performance attoriali, così come la buona scrittura dei dialoghi (anch’essi opera di Affleck) danno ulteriore forza a questo aspetto del film. Ma ciò non basta a farne un’opera del tutto riuscita, convincente.

L’impianto visivo e quello narrativo non brillano certo per originalità e scontano una certa prevedibilità che non può non influire sul piacere della visione e sul giudizio a posteriori. L’impressione è che non ci sia poi così tanto da aggiungere, né per quanto concerne i meccanismi, i motivi ricorrenti e gli stilemi del genere del disaster movie, né per quanto riguarda il pur ben orchestrato rapporto genitore-figlio, a ciò che è già stato scritto e girato finora, The Road in primis.

Categoria
Casey Affleck Casey Affleck Anna Pniowsky Tom Bower Elisabeth Moss 119 minuti
USA 2019
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Cosmopolis

di Matteo Berardini
Cosmopolis - recensione film Cronenberg DeLillo

Pubblicato nel 2003, Cosmopolis di Don De Lillo è un romanzo scritto sul tessuto cicatriziale di ferite ancora di là da venire, una profezia racchiusa nel momento eterno che intercorre tra il movimento del braccio, lo sferrare rapido il colpo del coltello e l’aprirsi silenzioso della carne, purpurea promessa di rivoluzioni in lento avvicinamento. È un processo di riconoscimento nevrotico e indolente, l’attestazione dei limiti e forse della propria morte da parte di un sistema ritenutosi autonomamente infallibile. Era ed è la fine del mondo, pronta e perfetta per rivivere nelle mani del regista canadese: Cosmopolis di David Cronenberg è una lapide di celluloide, è la tomba del futuro.

Eric Packer (un Robert Pattinson inquietante e sotto le righe, all’altezza di un ruolo non facile) è un po’ il Leopold Bloom del 21° secolo, protagonista e vittima di un’autoimposta odissea lunga un sol giorno, nella quale cercherà di attraversare una Manhattan densa di incontri e ostacoli per giungere al suo obiettivo, tagliarsi i capelli. Erick del resto ha tutto quello che può desiderare tranne la capacità di desiderare ancora; figlio di un mondo solo accidentalmente coincidente col nostro, incarna in sé tutti i tratti e gli umori del neocapitalismo occidentale, compresa una magnetica e tendenziale deriva verso l’autodistruzione. Squalo di Wall Street e ricco a dismisura, Eric vive di respiri finanziari, legge e interpreta un mondo di numeri e valori e informazioni che manipola e trasforma «in qualcosa di orribile»; è alienato e disumanizzato e la sua sconnessione dal reale è quella dell’intero sistema capitalistico, che nella sua fame onnivora e metastatica ha infettato il tempo con il denaro, rovesciando le equazioni e liberando una corsa sfrenata che ha scambiato i centri di potere, facendo decadere l’uomo e la parola a favore degli oggetti e delle astrazioni. Non a caso a scandire la giornata rappresentata da Cosmopolis ci sono due minacce mortali; la prima è quella incarnata da Benno Levin (un Paul Giamatti che arriva all’ultimo, chiude il film nei suoi venti minuti di dialogo e lo marchia a fuoco, in tutta la sua splendida schizoide inadeguatezza), alter ego di Eric, scarto di sistema che ha preso eccessivamente coscienza di sé; la seconda è la manovra finanziaria dello stesso Eric, che rivela via via la sua natura suicida. Lo Yuan, la moneta cinese che continua a salire mandando così in briciole il patrimonio finanziario del magnate, è il manifestarsi concreto della fine di un’era, l’impertinente bussare di un nuovo futuro che nasce dall’imprevedibilità e straccia ogni splendido incubo che avevamo potuto immaginare su di esso. Non a caso nel confronto finale sarà Benno stesso a mostrare a Eric come la contraddizione e il limite del controllo assoluto fossero già presenti e intrinseci nel suo corpo, nell’asimmetricità della loro prostata, opposta per antonomasia al dittatoriale monopolio della mente.
Rispetto a De Lillo, al suo Eric Cronenberg non risparmia nulla, non offre appigli; il percorso fatto in macchina e gli incontri di cui è costellato sono le tappe di un processo di annichilimento esistenziale, ma se lo scrittore offre al suo squallido personaggio uno spiraglio di verità – il sesso con l’altrimenti intoccabile moglie, quella Elise Shifrin che compare puntualmente per le strade della città riproponendo ogni volta la propria natura catartica di purezza irraggiungibile – il regista lo depaupera ancor di più, accentuando con la semplice rappresentazione visiva la natura grottesca e assurda del suo potere. Cosmopolis è una farsesca sciarada sui limiti del controllo umano.

Scorrendo la sua filmografia appare evidente come Cronenberg si muova a suo agio nella transcodificazione di opere letterarie; a oggi almeno otto sono i film che derivano da racconti, romanzi o graphic novel pre-esistenti, e con molti di essi il risultato è stato superlativo (Crash, Spider, Il pasto nudo, A History of Violence). Allo stesso tempo Cosmopolis offriva una componente assolutamente inedita per il regista canadese, il denaro, tema finanziario e filosofico che attraversa molti dei dialoghi del film e genera di fatto l’intera vicenda. Abitato fino all’estremo da questi e altri discorsi, Cosmopolis è un film che si presuppone di portare con sé nella celluloide tutta la potenza dei simboli che vivevano nella carta di De Lillo, trasfusi in un copia-incolla tanto chirurgico quanto rischioso. Diverse sono le occasioni in cui il regista ha affermato che il vero motivo per cui aveva accettato di lavorare alla trasposizione erano stati i fulminanti dialoghi del romanzo, e non a caso questi sono riportati con fedeltà quasi assoluta nella sceneggiatura, firmata di suo pugno. Un tipo di transcodificazione estremamente rischioso questo, che infatti ad un primo livello di lettura del film appare insufficiente. Fin dai primi istanti è evidente la scelta di Cronenberg di calcare il carattere di immedesimazione proprio del romanzo, eliminando ogni punto di vista esterno e rendendo l’ipertecnologica limousine di Eric a tutti gli effetti la sua mente; seduto sul suo argenteo trono di pelle e metallo levigato, il dio del mondo occidentale riceve uno ad uno gli spettri che lo abitano e lo seguono, relegando l’interazione con il mondo reale alle figure agitate che si muovono oltre il vetro, o dentro lo schermo. E’ pura osservazione Eric, uno sguardo che si divide tra la piena incuranza e la curiosità tormentata di chi è escluso dai luoghi che cerca di scoprire, e come lui anche i suoi ospiti non possono che rimanere intrappolati in digressioni filosofiche mentre fuori il mondo esplode, si sgretola e dà fuoco, e lo spettro di ciò che era si aggira sotto forma di un topo. E’ un luogo abitato da parole, Eric, discorsi che paiono azzoppare la possibile visionarietà di un film che rimane invece rigidamente ancorato alla propria dimensione letteraria; ad aspettarsi ad esempio  la disamina tra corpi e macchine di Crash si rimane delusi, le curve e cavità sinusoidali della limousine ci sono, ma lo sguardo che si poggia su di esse non è più escavatore e morboso ma apparentemente arreso alla fusione: la macchina è Eric.

E’ quindi un mondo di parole Cosmopolis, dotato solo di poche ma fondanti soluzioni di aperta traduzione filmica, ma lo spiazzamento dovuto a quest’estrema – forse eccessiva – fedeltà alla genesi letteraria nasconde in realtà un’altra dimensione funerea, un occulto mondo di morte che nasce dalla fedeltà linguistica per trovare da essa origine e in essa giustificazione. Per comprenderlo basti tornare all’ opposto A Dangerous Method, incentrato sull’ambivalente potere guaritivo e infettivo del linguaggio. «Lo sanno che stiamo portando loro la peste?» dice Freud a Jung al momento di sbarcare in America, palesando la natura pandemica della «talking cure». E’ la parola a collegare e legittimare entrambe le pellicole, ma se in una essa era organismo vivo e carico di potenzialità nella seconda è ritratta sul punto di perdere ogni suo potere significante. Pur parlando in continuazione i personaggi di Cosmopolis raramente si capiscono, la maggior parte delle volte tirano dritti come linee parallele e quando effettivamente discorrono capita spesso che uno sia in ritardo sull’altro, che le parole si perdano e sia necessario ripeterle. «Fammi stare zitta» ripete più volte la mercante d’arte interpretata da Juliette Binoche; «Non ci capisco niente» recita Vija Kinski, l’analista di teorie; Eric stesso si interroga sul valore dei termini in lenta estinzione, mentre è una parola ad attivare la pistola di Torval e uccidere. È la parola la grande vittima di Cosmopolis, la sua fine come mezzo di comunicazione e veicolazione di concetti, perché in qualsiasi mondo si viva, per quanti siano i soldi che si spendono, un significante non può sopravvivere al proprio significato. Cosmopolis è la tomba del linguaggio.

Etichette
Categoria
David Cronenberg Robert Pattinson Paul Giamatti Juliette Binoche Sarah Gadon Mathieu Amalric Kevin Durand Samantha Morton 108 minuti
Canada, Francia 2012
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Oltre le nuvole, il luogo promessoci

di Alessandro Gaudiano
Oltre le nuvole - recensione film Shinkai

Il nostro viaggio a ritroso nell’immaginario visivo e sentimentale di Makoto Shinkai culmina con un’opera enigmatica, a sua volta frutto di idee e ispirazioni lungamente meditate, fin dai suoi primi cortometraggi. Oltre le nuvole, il luogo promessoci è un atlante sentimentale ed esistenziale che, al netto di alcuni tratti stilistici e narrativi ancora non del tutto maturi, contiene in nuce l’intera poetica del suo autore.

Innanzitutto, Oltre le nuvole è una struggente poesia dedicata alla giovinezza. La breccia per uscire dal quotidiano, questa volta, è il desiderio di volare e di riportare in vita un arnese da guerra dal fascino leonardesco. Hiroki e Takuya sono all’ultimo anno di scuola media e, nel tempo libero, lavorano in un'industria bellica per acquistare il necessario alla riparazione del vecchio drone militare che hanno scoperto per caso. A loro si aggiunge la compagna Sayuri e il comune desiderio di spiccare il volo è il collante di un’estate senza tempo, calda nei colori e nelle emozioni.

Come spesso accade con Shinkai, sono le immagini e le tavolozze cromatiche a parlare: in questo caso, un paesaggio collinare lussureggiante, acque profonde che lambiscono le tracce della vita umana. Soprattutto, è un orizzonte dominato dal profilo sublime di una torre che, in lontananza, si slancia verso il cielo. Completano il quadro una serie di virtuosismi stilistici e giochi di luce che riportano lo sguardo dal contenuto alla forma con cui viene portato alla vita. Lo stile dell’autore è inconfondibile nella sua sovrabbondanza di dettagli e nella mimesi del linguaggio cinematografico che si esprime in lens flare, bokeh e altri giochi visivi. A questa estate tinta di nostalgia segue una separazione e una disillusione. Ma il passato non è mai del tutto estinto, e dei legami della giovinezza restano le tracce indelebili. A questo bivio, Shinkai sceglie di imboccare la strada dell’(u)topia romantica e della poesia del cinema come sogno, apertura all’impossibile e all’altrove.

La misteriosa torre edificata nell’isola di Ezo (Hokkaido) è il monumento a un Giappone alternativo a quello uscito dalla seconda guerra mondiale e all’ingombrante abbraccio dell’Occidente; è un abisso storico che minaccia, con la sua radicale alterità, di inghiottire il mondo al di qua della soglia. Verso la torre sono tese le traiettorie dei tre protagonisti legati da una promessa che non ha bisogno di ragioni. Nelle sue trame simboliche e nelle sue metafore visive, Oltre le nuvole si rivela come una potente macchina desiderante volta verso l’Altrove, come e più che in ogni altra opera dell'autore. Il suo sguardo obliquo e mediato è la condizione senza la quale tale sincerità non sarebbe possibile. La natura di questa torre cosmica è volutamente aperta: portale per una dimensione parallela, arma di guerra, spazio del sogno, chiave per avere una seconda possibilità e ricominciare da capo.

Ricominciare. Correggere errori irrevocabili e traiettorie già segnate, come quelle che incanalano l’energia dell’adolescenza nella rigida intelaiatura della vita adulta. Ne Il crisantemo e la spada, Ruth Benedict ipotizzava la duplice natura dell’identità giapponese, tesa tra l’inestinguibile nostalgia dell’infanzia (il luogo della libertà, senza la vergogna e il senso del dovere che sono la base della società) e l'inflessibile durezza dell’età adulta, il giogo del dovere. La forza di questa nostalgia è ciò che sembra avere spinto le prime opere di Makoto Shinkai verso la fantascienza e le sue vertigini. Ed è, forse, ciò che attrae e conquista gli spettatori italiani quanto quelli dell’Estremo Oriente: questo atlante delle emozioni e questa nostalgia ci dicono qualcosa di famigliare. Il volo di Oltre le nuvole, la catabasi di Agartha o l’oasi urbana de Il giardino delle parole sono forme di trasporto nel senso affettivo del termine: per riprendere la definizione Treccani, un «impeto, moto irresistibile, intenso stato emozionale». Al di là della destinazione, è il trasporto a costituire il cuore del cinema di Shinkai: che la destinazione, in fondo, sia solo un colossale McGuffin non è poi rilevante.

Conta, invece, che il viaggio sia un percorso per rendere possibile l’impossibile; per far toccare, per un attimo,mondi paralleli e fatalmente destinati a non incontrarsi mai. Quando, infine, l’incontro avviene, crisantemo e spada si confondono: il tempo si piega su se stesso e la prosa cinematografica si cristallizza nel puro tempo della poesia. Il tempo, sembra dirci Shinkai, è una ferita che si può rimarginare solo nei territori di confine.

Categoria
Makoto Shinkai 91 minuti
Giappone, 2004
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Su "Bianco", di Bret Easton Ellis

di Emanuele Di Nicola
Bianco di Bret Easton Ellis

Da sempre la provocazione fa parte del gesto cine-letterario, è una costola di esso, esiste e basta, in senso non giudicante ma connotativo del termine. Ogni tempo ha i suoi provocatori: lo era a metà Ottocento Charles Baudelaire, costretto a ritirare sei poesie de I fiori del male per oltraggio alla morale pubblica; lo era a metà Novecento Vladimir Nabokov, con il divieto di Lolita imposto per due anni dal governo francese; lo è oggi Michel Houellebecq, che in Sottomissione immagina la vittoria del Partito islamico alle elezioni e in Serotonina racconta un uomo depresso che “sta morendo di tristezza”. Lo è Lars von Trier - piaccia o meno - che nei suoi ultimi film (Nynphomaniac e La casa di Jack: la storia di una ninfomane e la storia di un serial killer) inscena riflessioni teoriche sulle modalità di raccontare, e viene dunque equivocato. Anche Bret Easton Ellis è un provocatore. Non c’è niente di strano: più che limitarsi alla confezione (la provocazione, appunto) diventa quindi particolarmente importante la pratica dell’analisi minuziosa, dello sforzo per entrare nello specifico, della lettura riga a riga per confrontarsi con “cosa ci sta dicendo”.

Bianco è ipertrofico e denso di piste. Il nuovo libro di Bret Easton Ellis (Einaudi, pag. 280, euro 19) spiazza fin dal genere, perché rifiuta ogni etichetta: tra autobiografia e saggio, è una mescola di esperienze personali ellisiane e divagazioni sul mondo intorno. Il nostro. A partire dal titolo: ufficialmente ispirato a The White Album di Joan Didion (la raccolta di saggi preferita di Ellis), rimarca naturalmente lo statuto di uomo bianco di 55 anni in America oggi, ma Bianco è anche un colore. Quello della pagina bianca che lo scrittore confessa candidamente, dopo l’ultimo romanzo Imperial Bedrooms del 2010 (e in vista del prossimo che stavolta “potrebbe” scrivere); ma anche il colore mancante al nostro tempo, intriso di tonalità accese (il blu di Facebook, il rosso del sangue) oppure di nero, che del bianco è il contrario. Ellis vuole raffreddare la situazione, “imbiancarla”, uscire dalla semplificazione e parlare a mente fredda. Secondo lui.

Lo stato della narrativa ellissiana lo ha certificato tre anni fa la serie The Deleted (2016), da lui scritta e diretta: la storia di un gruppo di ragazzi che bevono, si drogano, fanno sesso recitando sempre nudi, talmente fuori tempo e luogo che diventava una riflessione formale sulla morte del narratore, sull’impossibilità di rifare una storia che è sempre la stessa storia. Una logica conseguenza della sceneggiatura di The Canyons scritta per Paul Schrader nel 2013, messinscena terminale sulla fine del cinema. I gusci vuoti delle ultime figure ellisiane segnalano con chiarezza il target a cui sono rivolti: occhi appassionati del meccanismo, innamorati della fine. Non può allora stupire che anche Bianco si muova sul piano formale, ovvero parta dalla forma per arrivare alla sostanza dei problemi e sviscerarli senza pietà, con sguardo fieramente soggettivo. «Non ho mai ceduto alla tentazione di dare al mio pubblico ciò che potevo immaginare desiderasse: il pubblico ero io e scrivevo per soddisfare me, e per alleviare il mio dolore».

Il libro si apre allora con una lucida ricognizione sui social network, che nell’illusione di aumentare la libertà di espressione al contrario la comprimono e riducono al silenzio: «Tutto ciò sarebbe stato impensabile dieci anni prima – l’idea che un’opinione potesse diventare qualcosa di sbagliato – ma in una società inferocita e polarizzata c’era chi veniva bloccato a causa delle proprie opinioni, e perdeva follower perché veniva percepito in modi che potevano essere inesatti (...). Come se nessuno sapesse più distinguere un essere umano da una serie di parole digitate su un touchscreen». In cambio l’era social ci ha consegnato una perenne autoscrittura di sé, la costruzione continua del proprio brand, la rappresentazione artigianale dell’ego: siamo tutti diventati attori, dice Ellis, stiamo sempre recitando. La rincorsa all’immagine migliore da postare conduce sotterraneamente al discorso sulla fruizione della cultura, con la tecnologia che rende disponibile tutto e subito, e di fatto lo sminuisce: «Il problema di stoppare un film comprato da Apple dopo dieci minuti, o di non ascoltare per intero una canzone su Spotify non si poneva nemmeno – perché farlo, dopo aver preso l’auto per raggiungere il cinema Sherman su Ventura Boulevard, la libreria Crown a Westwood, il negozio della Tower Records su Sunset Boulevard, l’edicola di Laurel Canyon?». Adesso invece «l’assenza di investimento appiattisce ogni cosa». Sapete chi la pensa allo stesso modo? I vampiri analogici in Solo gli amanti sopravvivono di Jim Jarmusch, mostri che ascoltano vinili per la lentezza della cultura, per la bellezza del gesto.

È pieno di cinema, Bianco. Ellis per tirare i suoi fili spesso ricorre a film, li recensisce, vi riflette sopra, li prende a esempio per visioni del mondo: come nell’ampio spazio dedicato al racconto dell’omosessualità oggi, postilla della lunga polemica dello scrittore, gay dichiarato, contro le associazioni Lgbt per i diritti civili. L’autore stronca Moonlight di Barry Jenkins: qui il gay viene visto come Elfo Magico (geniale definizione ellisiana), una vittima al quadrato senza problematicità e asessuata, che è anche nero, insomma un personaggio in favore del pubblico. Al contrario di Weekend di Andrew Haigh il quale, a suo avviso, mostra i gay come mai prima: due ragazzi normali che si incontrano, fanno sesso e si innamorano nell’arco di un fine settimana. Due come tutti. A Ellis si potrebbe rispondere che Moonlight non cerca la verosimiglianza, non si riferisce alla realtà ma piuttosto alla letteratura, evocando perfino l’imprescindibile romanzo queer La statua di sale di Gore Vidal.

Ma non è importante rispondere ad Ellis, e qui c’è il nocciolo della questione: lo scrittore nei vari capitoli critica il movimento femminista, la superiorità morale della sinistra su Trump, i millennial che definisce Generazione Inetti, l’horror come «metascherzo postmoderno» ormai troppo didascalico rispetto agli anni Settanta («Da dove arrivavano i poteri di Carrie White? Non c’erano risposte, proprio come nella realtà»). Il punto è che non occorre essere d’accordo con Bret Easton Ellis, parzialmente o su tutto, perché a rilevare davvero è il suo metodo: Bianco non fa proselitismo, non vuole convincere ma contiene una lezione di libero pensiero. Dice quello che pensa Bret, alla sua maniera ed esagerando, quando segnala il rischio della deriva orwelliana: l’unico possibile “messaggio” è uscire dal recinto dell’opinione precostituita per costruirsi la propria. Ricordarsi che l’ideologia non riassume la complessità dell’uomo. Tornare a giudicare l’arte con la lente dell’estetica e non della politica. Citando Springsteen: guardate l’opera d’arte, non l’artista.

E se guardiamo Bianco vediamo (anche) grande letteratura. Ellis descrive il burnout dell’attore Charlie Sheen, perso tra alcool, droga e prostitute, fino al licenziamento dalla popolare sitcom Due uomini e mezzo, per poi ritrovarsi nelle interviste televisive sostenute con disturbante onestà: «Sheen stava facendo saltare in aria il mito secondo cui gli uomini superavano la ricerca adolescenziale del piacere, perché i fugaci fremiti di quel sogno non si esaurivano mai». A proposito del sogno e della sua distruzione, nelle pagine aleggia sempre l’ombra di American Psycho, il capolavoro del 1991 portato sullo schermo nel 2000 da Mary Harron, incapace di restituirne la complessa grandezza (ma gli adolescenti negli Usa ad Halloween si vestono ancora da Christian Bale con l’impermeabile trasparente insanguinato). Ebbene, lo yuppie psicopatico Patrick Bateman appartiene agli anni Ottanta ma si addice al nostro tempo: Ellis lo immagina mentre rimorchia su Tinder e posta gli addominali su Instagram. Nel narcisismo del presente Bateman è il selfie definitivo.

Etichette
Categoria
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Cop Land

di Saverio Felici
Cop Land - Recensione film Mangold

Pochi film sono capaci di riecheggiare il proprio periodo di realizzazione come Cop Land. Erano gli anni di Tarantino, del neo-noir, e dell'improvviso interesse dell'industria americana nei confronti dei giovani geni o presunti tali del cinema indipendente.
Dai circuiti dei festival USA degli anni 90 sarebbero stati lanciati nel giro di poco tempo decine dei futuri campioni del mainstream, forgiatisi alla corte del Sundance di Redford e presto corteggiati dalle innamoratissime major.
Con l'Europa (Cannes in particolare) era una gara continua alla scoperta della next big thing, del wonder boy, degli eredi dell'ormai stanca e omologata generazione della New Hollywood. In un simile contesto, il giovane James Mangold si era giocato alla grande la sua carta d'esordio con Dolly's Restaturant, praticamente un compendio di tutto quell'immaginario creativo: tra Soderbergh, Van Sant, Coen bros e tanto noir, il film del 1995 aprì al trentaduenne regista le porte degli studios, ansiosissimi di investire su un nuovo possibile fenomeno. A prenderlo a bordo fu ovviamente la Miramax di Harvey Weinstein, mecenate e guru produttivo di un'intera generazione di registi ancora oggi in comprensibile difficoltà al momento di ricordarne l'apporto.

Lo sviluppo di Cop Land seguì al millimetro il copione del periodo: regista giovane del circuito indie, crime low-budget, voglia di guardare ai “generi” degli anni '70 con rinnovato sguardo autoriale. Per partire, mancava solo il grande attore in parziale declino, magari con la voglia di rimettersi in gioco con un personaggio in antitesi alle sue corde. A prendersi il ruolo di Henry Heflin non furono però John Travolta o Dennis Hopper, ma Sylvester Stallone.
Mentre il pubblico USA riscopriva la figura dell'Autore da festival, il campione dell'immaginario eighties non poteva che passarsela male. Toppati film fino a cinque anni prima infallibili (Dredd, Daylight, persino l'Assassins di Richard Donner), intrappolato in una fase personale a metà tra la fine del gradimento popolare e la riscoperta critica che sarebbe arrivata nel decennio successivo, Stallone si scoprì per la prima volta in vena di sperimentalismi. Nacque da qui il personaggio forse più alieno della sua carriera.
La presenza di Sly nel ruolo del protagonista è il colpo del campione di Cop Land. Mangold costruisce saggiamente l'intero film sulla distruzione del simbolo-Stallone: non solo grasso ma stupido, lento, persino mezzo sordo e maltrattato senza ritegno dalla pur sentimentalissima sceneggiatura dello stesso regista. Il suo Heflin (Heflin come Dan, protagonista di quel Treno per Yuma che l'eclettico autore già allora non vedeva l'ora di rifare) è Sly, nel più tipico esempio di “sovrapposizione” di cui è storicamente capace l'attore newyorkese. A disagio tra i poliziotti “bravi” (ma ambigui e malvagi) della city, lui, cretino del New Jersey con la pancia e il lavoro d'archivio nella suburbia, sarà costretto ad affrontare la propria codardia per denunciare una rete di colleghi corrotti.

La soggezione mista a voglia di rivalsa e forse anche ad un po' di rancore che Heflin prova nei confronti dell'NYPD, non era forse molto diversa da quella di Stallone stesso per quegli Dei dello schermo che lo circondano sul set di Cop Land. Eroi della critica e dell'Academy, sempre premiati, sempre arrivati davanti a lui nella vita e nella carriera, e con i quali Mangold lo spinge ora per la prima volta a confrontarsi. Per una sorta di congiunzione astrale, Cop Land si ritrova infatti ad avere forse il cast più clamoroso di quella stagione. Robert De Niro (il De Niro anni '90, quando con Al Pacino e Jack Nicholson ogni film era una gara di overcacting a distanza), Ray Liotta e ovviamente Harvey Keitel, simbolo e patrono di quella nuova scuola indie-noir e molto probabilmente l'attore americano più decisivo del decennio. Non solo: Peter Berg (a proposito di futuri campioni del mainstream), Robert Patrick, mezzo cast dei Sopranos. Letteralmente un dream team. Tutti al servizio di Sylvester Stallone, eroico e patetico protagonista working class, con la gobba e senza muscoli.

Rivisto oggi, oltre che un dramma impeccabile al quale il tempo ha meritatamente fatto giustizia (a parte quell'idea di scioglimento finale risolto a cannonate), Cop Land è quindi la foto ricordo di una stagione. Dallo script all'estetica, dai dialoghi al malinconico mood, il secondo film di Mangold è testimone di quella particolare stagione di divismo crime, quando gangster e sbirri con i baffi erano al centro delle urgenze creative: un'ondata (ri)partita con Scorsese e cavalcata da un'intera generazione di esordienti, che proprio con Cop Land avrebbe regalato gli ultimi fuochi al poliziesco classico prima di vederlo risprofondare nel sottobosco del dtv. Un palco stellare per le ultime grandi interpretazioni di metà del cast coinvolto, alle ultime chiamate prima dei fatidici sessant'anni e il diradarsi dei ruoli da protagonisti. James Mangold, con la luce negli occhi di chi è al secondo film e può finalmente fare ciò che vuole, guarda alle pellicole che amava da bambino, spiana la strada ad una carriera divisa tra il racconto popolare americano (il western, l'hard-boiled) e il veicolo per divi, fa un film nato vecchio e per questo bellissimo ancora oggi.

Categoria
James Mangold Sylvester Stallone Robert De Niro Harvey Keitel Ray Liotta Peter Berg Annabella Sciorra 104 minuti
USA 1997
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima
Iscriviti a