Mister Wonderland

di Donato Guida
Mister Wonderland di Valerio Ciriaci

Storie di migranti di fine ottocento: dal cinema al teatro, fino alla letteratura, l’arte tutta è piena di racconti dedicati alle loro vicende, spesso singolari e avventurose. Personaggi fuggiti dalla povertà più nera da ogni parte d’Europa, che hanno dolorosamente abbandonato famiglia e comunità, a volte rinnegando le proprie radici, per rincorrere la possibilità di una vita migliore, spesso sull'onda del sogno americano. Di queste migliaia di storie, molte sono andate irrimediabilmente perdute ma tante altre sono, fortunatamente, rimaste nella memoria e raccontano di artisti, imprenditori, musicisti e scienziati che hanno infine raggiunto il successo tanto desiderato. A volte capita tuttavia anche di imbattersi nella storia di un successo dimenticato, che vale la pena recuperare e raccontare.

È il caso della vicenda di Silvestro Zeffirino Poli, emigrato negli Stati Uniti da un piccolo paese del lucchese verso la fine dell'ottocento. Giovane appassionato e perseverante, a soli tredici anni parte per Parigi per approfondire al meglio l’arte del “figurinaio”: la sua capacità di creare e modellare figure in gesso lo porta in breve tempo a far parte dell’Eden Musée, all’interno del quale, oltre che affinare le proprie capacità, intuisce le grandi potenzialità economiche del settore dell’intrattenimento. È negli Stati Uniti però che il piccolo artigiano (ora ribattezzatosi Sylvester Z. Poli), comprende appieno le possibilità offerte dal mondo dello spettacolo. 

In un periodo in cui le fabbriche obbligano gli operai a turni massacranti di dodici o quattordici ore al giorno, il teatro e la nascente arte cinematografica possono offrire uno svago a un pubblico ampio e senza distinzioni di classi sociali. Dopo essersi messo in proprio, Poli apre il suo primo teatro, a New Heaven, nel Connecticut. La sala, con più di tremila posti a sedere, non è solo un luogo d’incontro e d’intrattenimento, ma è una vera e propria opera d'arte, curata nei minimi particolari. Statue, antichi e imponenti lampadari, decorazioni che richiamano gli antichi affreschi di Pompei: il tutto per un biglietto di pochi cents, che permette anche all’operaio distrutto dalla fatica di sentirsi nobile per una sera.

Dal vaudeville al cinema muto, fino ad arrivare ai primi grandi film romanzati e al sonoro: in breve tempo Poli realizza un vero e proprio impero, arrivando non solo a creare più di una trentina di teatri disseminati negli stati americani dell’est, ma anche ad attirare l’attenzione dei grandi divi dell’epoca, come Mea West, Buffalo Bill, Houdini e perfino Charlie Chaplin. Il piccolo artigiano partito dalle montagne lucchesi, diventa così uno dei più grandi imprenditori statunitensi, tanto da ricevere, nel giorno del suo cinquantesimo anniversario di matrimonio, una lettera di auguri e di complimenti dal Presidente Roosevelt in persona.

Presentato alla 60a edizione del Festival dei Popoli (e vincitore del premio “Il Cinemino”) Mister Wonderland offre diversi spunti interessanti. Valerio Ciriaci, pur raccontando il periodo della nascita del cinema, sceglie di non soffermarsi su questo e preferisce invece concentrare tutta l’attenzione sul personaggio. 

Il suo è un racconto diretto, che omaggia la vita, davvero strabiliante, di un uomo ingiustamente dimenticato; un pioniere dell’imprenditoria teatrale capace di concretizzare il suo personale sogno americano. Attraverso i racconti dei pronipoti (americani e italiani), il regista ci accompagna alla scoperta di Poli, e lo fa in modo agile e al contempo appassionato. Dalle foto d’epoca ai lavori firmati dall’artista lucchese, dal paese natio ai ai teatri americani, fino a Villa Rosa (dimora dei suoi ultimi anni di vita), Ciriaci porta alla ribalta quello che forse può essere definito il più grande impresario teatrale degli anni venti del ‘900.

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Valerio Ciriaci 53 minuti
Italia, 2019
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The Witcher

di Alessandro Gaudiano
The Witcher - recensione serie TV Netflix Schmidt Hissrich

Scrivere di una serie come The Witcher è un curioso esercizio di autoanalisi critica. La trasposizione, firmata Netflix, dell'universo immaginativo dello scrittore polacco Andrzej Sapkowski pone una serie di sfide che già complica quelle insite nello scrivere di un prodotto seriale, con la sua longue durée, i suoi castelli produttivi e la responsabilità artistica distribuita. A chi è rivolta, questa serie, e quali solo i parametri per giudicarla come un prodotto e un oggetto artistico a sé stante?

The Witcher è composta da otto episodi che seguono le gesta di Geralt di Rivia (Henry Cavill), un "witcher" o cacciatore di mostri dotato di poteri e capacità sovrumane, e di altri due personaggi a lui legati dal destino: la strega Yennefer e la principessa Cirilla. L'intreccio tra le tre storie, che si svolgono a distanza di molti anni l'una dall'altra, costituisce un piccolo puzzle narrativo che si ricongiunge nel finale di stagione. L'altro elemento che caratterizza la narrazione è il suo formato quasi antologico: ogni episodio tende a coincidere con uno specifico racconto di Sapkowski, con la caccia a un mostro o un altro nodo fondamentale. Un andamento quasi fiabesco che sembra fare appello, oltre che a chi ha letto Sapkowski, anche alla struttura a quest tipica del fantasy e famigliare a chi proviene dalla trilogia videoludica di CD Projekt RED, da cui sospettiamo provenga la maggior parte degli spettatori già preparati a un incontro con la serie.

The Witcher è una serie pensata e costruita per i fan del franchise, ma che non rinuncia, naturalmente, a lasciare una breccia per spettatori appassionati di fantasy od orfani di Game of Thrones: non stupisce che una produzione dagli obiettivi ambivalenti e, in parte, contraddittori abbia creato una certa confusione tra i critici, il che spiega la mole non indifferente di valutazioni negative. Non ci sono dubbi sul fatto che la serie soffra di alcuni problemi: la struttura narrativa vagamente alla Westworld è probabilmente non necessaria e acuisce alcuni dei problemi inevitabili per la prima stagione di un progetto pluriennale, i cui primi otto episodi sono di natura dichiaratamente introduttiva. Alcuni limiti di budget appaiono evidenti, soprattutto nella computer grafica e in diverse ambientazioni che appaiono decisamente blande. I combattimenti, ispirati in modo chiaro alle movenze del Geralt dei videogiochi, sono ben coreografati e messi in scena, ma il grosso del minutaggio è dedicato a situazioni ben più prosaiche ed economiche a livello produttivo. A difesa della serie, i limiti di budget (comunque non indifferente: pare si aggiri intorno ai dieci milioni di dollari per episodio) erano ovvi anche nelle prime stagioni di GoT, prima che fosse chiara la portata della serie.
In ogni caso, il pubblico ha dimostrato di amare la serie con tutti i suoi limiti e, in alcuni casi, proprio a causa di essi: i dialoghi di qualità altalenante, i meme dedicati alla recitazione di Cavill e alle canzoni del menestrello Jaskier, la messa in scena in modo fin troppo fedele di alcuni dei racconti più celebri della saga. The Witcher è, prima di ogni altra cosa, una sorta di gigantesco fan service: un prodotto pensato per soddisfare chi desidera tornare nel Continente e seguire le avventure di eroi poco convenzionali. Non si preoccupa di spiegare chi sia Geralt, il suo passato o i suoi inspiegabili poteri magici. Della geopoltica dei Regni settentrionali uno spettatore casuale capirebbe poco o nulla, e gli indizi per capire le distanze cronologiche tra le vicende dei personaggi principali, per quanto presenti, risultano insufficienti per molti abbonati Netflix: per compensare a queste incomprensioni, Netflix ha rilasciato una timeline interattiva e altri paratesti come vademecum per lo spettatore.

Probabilmente, è necessario trovare un equilibrio tra i due poli di questo discorso. Perché i "bracconieri testuali", i fan ed esploratori di questi mondi finzionali di cui scriveva Henry Jenkins, hanno molto da dire. Un discorso diverso e complementare senza il quale è fin troppo facile fraintendere The Witcher e tutte le altre serie che non cercano di essere "tv di prestigio", ma riescono pienamente nell'obiettivo di costruire qualcosa per i fan e, forse, con i fan stessi.
E di motivi di interesse ce ne sono molti: al di là del generico richiamo al fantasy, The Witcher non potrebbe essere più diverso, ad esempio, dalla serie ammiraglia di HBO. La prima gioca continuamente tra un registro drammatico e uno quasi comico, leggero e giocoso che ricorda alla lontana le serie di Hercules e Xena degli anni Novanta, mentre Game of Thrones mette in scena un fantasy che si prende decisamente sul serio, spesso con tonalità tragiche. E se quest'ultima serie costruiva pazientemente il proprio mondo a uso dello spettatore, la prima segue una strategia opposta di cui sarà interessante seguire gli sviluppi. La prima ragion d'essere di The Witcher sta nel suo continuo dialogo con il genere a cui appartiene, i libri, i videogiochi, le trasposizioni televisive precedenti... una pietra di un enorme castello trans-mediale che, come altre opere della stessa estensione, necessita di sguardi e strumenti ancora tutti da costruire.

Tornando alla serie, è positivo che Netflix abbia voluto rischiare con un prodotto così fuori dagli schemi, certamente diverso da ciò che (quasi) tutti si aspettavano. Un passo indietro dell'algoritmo e uno in avanti per il pubblico, forse; un gambetto che la showrunner Lauren Schmidt Hissrich ha giocato dichiaratamente e che riteniamo, al netto di qualche inciampo, riuscito. Si tratta, è chiaro, dell'apertura di una partita ad ampio raggio che si giocherà nello spazio di diverse stagioni. Una partita da seguire con attenzione, al di là di tutti i problemi e le asperità del caso.

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Henry Cavill Anya Chalotra Joey Batey: Freya Allan 1 stagione da 8 episodi
Polonia, USA 2019
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Sorry We Missed You

di Riccardo Bellini
Sorry we missed you - recensione film Ken Loach

Il meccanismo della gig economy sta consolidando modalità di sfruttamento del lavoro tanto più efficaci e pervasive quanto sorrette da un’illusione di fondo. In sostanza, far credere ai freelance, presi tra le maglie di un impiego a chiamata, di essere padroni del proprio tempo e della “propria attività”. Trattarli da imprenditori di sé stessi per avere a disposizione manovalanza dalle tutele ridotte. L’effetto è un precariato che si cristallizza in forme aggiornate di vessazione del lavoratore, costretto per disperazione a un’occupazione solo apparentemente autonoma e in realtà schiava dei ritmi insostenibili del mercato digitale, dove un barcode scanner può decidere “della vita e della morte” di un fattorino. «Non lavori per noi, ma lavori con noi. Non vieni assunto, ma vieni integrato» spiega infatti con raffinato gusto per la strumentalizzazione lo spietato Gavin Maloney al fattorino Ricky Turner (Kris Hitchen) in Sorry We Missed You di Ken Loach.   

Rick vive con la moglie Abbie (Debbie Honeywood) e i due figli a Newcastle, felici per quanto in ristrettezze economiche. Quando però la famiglia capisce che non avrà mai una casa di proprietà, Abbie vende l’automobile per permettere al marito di comprare un furgone e diventare un trasportatore. Inizia dunque il calvario dell’uomo in un sistema logorante che sotto l’egida del profitto a ogni costo e della presunta autonomia del lavoratore costringe Rick a orari massacranti, corse forsennate e a dover risarcire la società «con cui» lavora solo per aver chiesto un giorno di permesso. Tutto ciò con ripercussioni all’interno della famiglia, compromessa inoltre dal lavoro di Abbie, infermiera a domicilio pagata a visite. Una delle conquiste del neoliberismo più intransigente non sta solo nello svalutare il tempo libero dell’individuo, misurandolo in termini economici, ma nel farci credere che questo sia normale. Loach lo ha capito bene e non ci sono dubbi sull’importanza della causa condotta in Sorry We Missed You, con l’asciuttezza linguistica e la tenacia ideologica del suo cinema, qui ridotto a una elementarità espressiva come forse mai prima d’ora. Ed è del resto perfettamente comprensibile la tensione alla formula del comizio politico, il ricorso a una frontalità settaria, soprattutto intorno a un tema così urgente e in parte ignorato anche perché manifestazione di un sottofenomeno recente e ancora in via di trasformazione.

I problemi insorgono piuttosto quando Loach e il fedele Paul Laverty affrontano gli effetti prodotti sul nucleo famigliare dalla situazione di precarietà di Rick ed Abbie. Sacrificate da una scrittura affrettata, incapace di prendersi il tempo necessario per esplorare con progressione i nessi di causa ed effetto, le dinamiche familiari – in particolare il rapporto padre/figlio – rischiano l’effetto bozzettistico. Lo sguardo gettato sulle relazioni interne tra genitori e figli sembra correre troppo velocemente verso quelle conclusioni stabilite programmaticamente, come preso dalla stessa frenesia del corriere protagonista, senza dare del tutto consistenza al dramma della disgregazione familiare. Purtroppo, anche il parossismo con cui Loach e Laverty affastellano una sequela di disavventure dagli esiti via via più disastrosi ai danni di Rick lede al realismo che, al contrario, l’approccio adottato vorrebbe perseguire. Manca insomma l’equilibrio del precedente Io, Daniel Blake.

Loach ci consegna con trasporto una vicenda umana terribile, resa ancora più tale proprio in assenza di un vero evento tragico. Perché è nella corruzione del quotidiano a beneficio delle logiche di consumo, nell’accettazione remissiva di ciò che invece dovrebbe essere inaccettabile che risiede il cuore del film ed lì che implode il suo dramma. Se il finale di Sorry We Missed You non ha la forza di salvare in toto un film claudicante, certo ha quantomeno il vigore, con quella troncatura traumatica, di metterci di fronte senza filtri a ciò in cui la nostra società ci sta trasformando. Di costringerci a riflettere su quello a cui molte persone stanno accettando di rinunciare.

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Ken Loach Kris Hitchen Debbie Honeywood 101 minuti
UK, Francia, Belgio 2019
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Richard Jewell

di Saverio Felici
Richard Jewell - recensione film Clint Eastwood

Il trend che la filmografia di Clint Eastwood ha seguito negli ultimi anni è troppo marcato, troppo caratterizzato per non pensare che con Richard Jewell si arrivi al culmine di un discorso voluto. A quasi novant'anni, western e polizieschi appartengono a un'altra era, così come la stagione dei melodrammi, dei war-movie e dei grandi biopic. Oggi, Eastwood ha trovato una nuova dimensione come ultimo paladino del cinema civile. Un cinema civile che non è ovviamente quello di Francesco Rosi, ma che finisce quasi per avvicinarlo (paradosso che disgusterebbe lui per primo) a un opposto geometrico come Ken Loach.

Come l'altro grande vecchio, Eastwood ha raccontato negli ultimi film le lotte di moderni eroi per mantenere la propria dignità umana in un contesto mediatico e istituzionale assetato di sangue. I protagonisti del suo cinema recente (e in questo si, è veramente unico) sono però quanto di più lontano da ogni logica commerciale del cinema americano moderno. Dopo decenni a cavallo del fantastico e del mito, Clint ha ora scoperto di avere a cuore la temuta, bistrattata working class americana: bianca, trumpiana, odiata dal mondo intero. Da ultimo grande vecchio reazionario in un'America in cambiamento, che neanche lo nomina più agli Oscar e in cui incassa sempre meno, Eastwood sembra essere rimasto l'unico ad avere ancora a cuore, con un attaccamento che ha del commovente, quelle fasce di popolazione che la Hollywood “buona” e liberal sembra oggi concepire esclusivamente come villain, come mostruosità da nascondere sotto al tappeto. Il film è l'elegia appassionata di un vecchio repubblicano per “la sua gente”, e per quanto di buono è ancora convinto che ci sia in essa.

Richard Jewell, come American Sniper, come 15:17 to Paris, ma sopratutto come Sully (del quale è pressoché un progetto gemello), racconta dunque di un moderno, fallace eroe, e della sua battaglia personale contro le stesse istituzioni che è votato a difendere. Nel 1996, l'addetto alla sicurezza del titolo (Paul Walter Hauser, indimenticabile) è impegnato a chiamata con le Olimpiadi di Atlanta. È uno dei centinaia di steward a lavoro per portare l'acqua e farsi insultare dagli ubriachi. Scoprirà per caso la bomba del terrorista Eric Rudolph, facendo evacuare la zona e sventando un potenziale massacro. Ma ai federali, ai giornali e al pubblico serve un colpevole: e proprio Richard si troverà accerchiato, costretto a provare la propria estraneità al crimine da lui stesso sventato

Consapevole del potenziale retorico e lacrimoso della vicenda, Eastwood affronta di petto l'ambiguità del suo eroe. Il lato patetico di Richard Jewell, della sua famiglia e della sua vita è presentato in bilico tra il comico e il rispettoso. Richard è quello che è: bianco, obeso, semi-disoccupato, fallito in tutti i suoi sogni di servire in polizia, dei quali conserva tuttavia una rigida, grottesca fiducia nell'ordine e nel legalismo. E' anche sessualmente represso, collezionista compulsivo di armi, divoratore di junk-food, appassionato di videogiochi. Non ha nessuno. Esattamente il tipo di soggetto che, nella percezione popolare, oggi imbraccerebbe un fucile Remington per fare strage in una sala di Joker; e che in un 1996 orrendamente attuale subisce un processo a priori concettualmente simile. Come sempre è stato nella sua vita (il film non è biografico, ma la magistrale sceneggiatura di Billy Ray rivela un mondo intero dietro il protagonista), Jewell si ritrova accerchiato dall'America bella, dei sex symbol (John Hamm e l'incredibile Olivia Wilde), sorridenti e predatorie maschere del Potere. Vogliono farne il mostro da sbattere in prima pagina, perché Jewell è già un mostro, una negazione incarnata del culto del successo e dell'affermazione economica. La sua guerra, sostenuta esclusivamente dalla madre (Kathy Bates) e dall'unico amico (Sam Rockwell), diventa una questione di riconoscimento individuale: “vi farò pure schifo, ma esisto. Non dimenticatemi”.

Ma Richard Jewell è maestoso anche perché, alla critica spietata della volatile opinione pubblica (cancel culture ante litteram? L'associazione è troppo palese per non essere cercata), Eastwood associa un percorso di presa di coscienza che ricorda da vicino il J'accuse polanskiano. Come nel capolavoro con Jean Dujardin, il film di Eastwood è prima di tutto la storia di un risveglio, e di un dolorosissimo disincanto; quello dello “sbirro”, della pedina fiduciosa e inserita, costretto dagli eventi a riconoscere il marcio di quelle istituzioni che hanno guidato la sua vita. E, riconoscendo la distinzione esistente tra il Paese e i suoi apparati giudiziari («loro non sono l'America»), a rimettere in discussione un'intera vita al servizio (o nell'adorazione passiva e ideologica) delle forze dell'ordine.
Richard Jewell è cinema civile per questo: a una critica dei mass media forse facile e già vista, a un legal thriller magari semplicista e tirato via, sposa il percorso privato di un protagonista straordinario. Come Dreyfus per la Francia, Jewell rappresenta secondo Eastwood tutto ciò che l'America potente disprezza. Ed è proprio scoprire  questo disprezzo nei suoi confronti (personale, classista, sessuale) a costituire la vera tragedia di un eroe, e di un regista, che in quella bandiera sembra credere sempre di meno.

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Clint Eastwood Paul Walter Hauser Kathy Bates Sam Rockwell John Hamm Olivia Wilde 129 minuti
USA 2019
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I passi leggeri

di Carmen Albergo
I passi leggeri - recensione film Rifranti

Dopo dieci anni dal suo esordio con Tagliare le parti in grigio (Pardo per la Miglior Opera Prima Festival di Locarno 2007) il milanese Vittorio Rifranti torna sul grande schermo, firmando regia e sceneggiatura de I passi leggeri, prodotto dalla M Movie.

L'opera, interamente costruita sulla figura del sacerdote don Luca (Fabrizio Rizzolo) e sulla sua missione (non proprio im-peccabile) di amare il prossimo, come umile e silenzioso strumento di sollievo, recupera i temi dello smarrimento dell'austerità religiosa e l'insorgere di un umanesimo profano, pragmatico e quasi più aderente ai valori cristiani, che già furono cardini essenziali dell'ultimo Ermanno Olmi (Il villaggio di cartone e I cento chiodi) di cui Rifranti è stato allievo.

Il personaggio di don Luca è definito per sottrazione e contraddizione, senza pre-giudizio, senza costrizione, mosso solo da spirito di sacrificio e solidarietà, lascia trapelare molto poco il proprio tormento interiore, ovvero quello di sentire la parola di Dio ma di non riuscire a tradurla nei fatti come vorrebbe. Già rassegnato all'alienazione dei confessionali e dei rituali liturgici celebrati in chiesa, con abiti comuni cerca di dispensare misericordia per le strade e aiuti d'ogni genere ad anime perse e corpi sofferenti. Le sue intenzioni di remissione sbattono però letteralmente il muso contro l'imprevedibile arbitrio individuale (forse il primo e più importante dono divino) dinanzi al quale non può che abbassare lo sguardo: la ragazzina cui vuole donare la gioia degli insegnamenti del vangelo, seria ribatte con quanto le viene invece impartito in famiglia; la prostituta che vuol togliere dalla vita di strada, alla fine confessa di trovarci anche del bene; l'emissaria dei suoi usurai, finisce per commettere l'irreparabile, proprio quando accetta di aprirgli il suo cuore. L'interpretazione attoriale, sempre composta e pacata, non cede ad una lacrima, ma sempre abbozza un sorriso, pur con gli occhi velati di tristezza, anche sotto minacce e violenza, provocazioni e tentazioni.

Solo l'insonnia che lo tira fuori dal letto e la fatica, che volutamente si impone, di risalire a piedi il pendio innevato fino all'antica chiesa-rifugio, ormai disertata dai fedeli, manifestano l'insostenibile in-sofferenza all'incomunicabilità che lo attanaglia. L'uomo non vuole ammettere a se stesso che la sacralità di icone e gesti non ha più ragion d'essere, così come egli ancora la custodisce nel suo immaginario e soprattutto non vuole arrendersi al destino dei sacerdoti più anziani, ritiratisi in esilio.

Dunque si ostina, si trascina e affonda, tanto negli inferi della notte, tra barboni, tossicodipendenti, prostitute, quanto nel limbo candido della neve d'alta quota, parimenti senza rumore, senza nulla smuovere, con i passi leggeri dell'ombra di se stesso. Questo manto bianco e soffice, eppure impervio da scalare, è la metafora visiva che il regista mette in scena per raccontare la sorda implosione della crisi sacerdotale, in una inquadratura quasi sempre immobile, nel cui campo nega l'orizzonte. Anche le riprese in interni non hanno mai il respiro degli ambienti nella loro interezza, ma solo prospettive di angoli e arredi scarni e cupi, espressione della povertà emozionale che vi abita, senza nessuno slancio o spazio di fuga, ma solo condanna, quella di dileguarsi nella purezza (dell'animo e del paesaggio) ideale, tramutandola in afflizione, anziché redenzione.

 

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Vittorio Rifranti Fabrizio Rizzolo Chiara Causa Ksenija Martinovic 100 min.
Italia 2018
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Don't F**k with Cats: Hunting an Internet Killer

di Sergio Sozzo
don't fuck with cats - recensione serie tv netflix

«Da tutto questo possiamo trarre un principio assoluto: è meglio fare qualcosa che non fare nulla. Anche quelle cretinate dei lolcat, che sovrappongono delle frasi sgrammaticate alla foto di un tenero gatto, sono un invito alla partecipazione. Il messaggio di un lolcat è semplice: “Anche tu puoi giocare, basta avere delle font sul computer»
Clay Shirky, Milioni di cervelli all’opera

La vicenda di Luka Magnotta è uno di quegli abissi in grado di restituirci in maniera spietata ma cristallina il livello raggiunto dalle acque dell’oceano della nostra vita iperconnessa. La storia del killer 30enne canadese che affina le sue abilità omicida sui gattini per poi passare all’efferato assassinio dello studente Jun Lin, ucciso, smembrato e spedito in vari pezzi all’indirizzo di diversi uffici pubblici di Vancouver nel 2012, attraversa le istanze mutevoli del contemporaneo per farsi racconto emblematico delle armi letali della post-verità. Le modalità con cui lo stesso Magnotta costruisce la propria identità sul web, con la creazione in prima persona di una settantina di pagine e profili social di fan, e di circa venti siti dedicati, tutto per accrescere la notorietà e la credibilità della sua natura di star della rete, sono quelle che oggi conosciamo bene a differenti livelli della comunicazione “tossica” politica e dell’entertainment internazionale e nostrano, dalla “Bestia” a Pamela Prati. Don’t f**k with cats, la mini docu-serie Netflix (3 puntate da circa 60 minuti ciascuna) dedicata a questa escalation di malefatte, non arriva però da subito al metodo-Magnotta escogitato per apparire come un giovane influencer a spasso per i grattacieli del pianeta: il punto di partenza sono, come suggerisce il titolo, le assolute e incontrastate divinità del web – i gattini. L’allora sconosciuto serial killer di cuccioli di gatto si guadagna da subito le attenzioni delle comunità online proprio riprendendo e poi postando i video ad efferatezza progressiva di fantasiose esecuzioni di animaletti: ma se internet è il luogo dove qualunque oscenità e violenza oltre ogni livello di shock è a portata di clic, toccare i gattini non può invece restare impunito. E così il meccanismo del peer network che regola il 2.0 nell’accezione di Steven Johnson si mette in moto e, in una vicenda non meno esemplare del celebre caso dello stolen phone caro a Clay Shirky (si veda il suo cruciale volume Uno per uno, tutti per tutti), gli smanettoni sono in grado di tracciare la provenienza dei video criminali, riconoscere la location e gli elementi della messinscena, infine risalire a Magnotta. È il rovescio della sorveglianza, bellezza, e se è vero che le piattaforme ci spiano, allora è vero anche che là fuori è pieno di dati e informazioni che aspettano solo di essere decifrati. Ovviamente, Luka attende da tutta una vita questo tipo di attenzione, ed è pronto ad alzare la posta, con il suo personale, sanguinoso omaggio al film che è da sempre la sua ossessione, Basic Instinct – ancora una volta, l’immaginario del nostro inconscio popolare universale tracima nella realtà, e non è più possibile realizzare cosa abbia influenzato chi e per primo, se Sharon Stone sia specchio o ispirazione della madre di Magnotta.

In questa maniera, il veterano Mark Lewis (una carriera dedicata a documentari sul rapporto tra uomini, natura, società e animali) traccia con Don’t f**k with cats il ponte forse definitivo tra alcune correnti che reggono la sterminata produzione non-fiction di Netfix, e su cui è facile scommettere si potrà basare l’unicità della piattaforma nell’imminente guerra di proposte e cataloghi tra portali concorrenti e relative abbonamentizzazioni del nostro consumo quotidiano. Ovvero, la passione di Netflix per il genere morboso, da cable TV vecchia scuola, del true crime (delitti più o meno celebri, cold case ancora irrisolti, archivio catodico di arresti, processi, tribunali ecc.), sempre più spesso veicolato attraverso l’intuizione del documentario seriale, assemblato e frammentato cioè con modalità narrative da serialità “adulta”, e il linguaggio spurio e schizofrenico della bassa frequenza user generated, narrazione che insegue l’evanescenza frenetica dei pixel, delle bacheche, delle storie digitalizzate che si muovono dentro i server. Tra interviste ai leader della task force di nerd che incastra Luka Magnotta, brevi flash dei video snuff del killer e l’abituale selva di screenshots che oramai riconosciamo in prodotti di questo tipo, Don’t f**k with cats si prende anche la licenza di farsi in chiusura riflessione spudorata su quanto di questa storia sia stato causato dalla nostra perversa curiosità di spettatori insaziabili di immagini oltre il limite, a partire da chi ha iniziato a seguire da subito le clip dell’esecutore di micetti, fino a noi bingewatcher di questa miniserie.

L’aspetto ancora più inquietante del lotto è però l’accenno all’ennesima teoria cospirazionista che storie come questa si portano puntualmente addosso, qui legata al fantomatico Manny Lopez, complice, mandante e oppressore psichico di Magnotta, mente nascosta dietro tutta la vicenda. Per i giudici che hanno condannato Luka all’ergastolo, Manny è solo una voce nella testa del ragazzo, anch’essa figlia di una distorsione della sinossi di Basic Instinct. Ma il complotto che vuole la responsabilità degli atti dei singoli sempre demandata a élite misteriose o sconosciuti traviatori psichici di cui ci è ignoto il reale obiettivo, è un’altra delle distorsioni a cui la rappresentazione del mondo ospitata dalla rete ci ha abituati (qualcuno ricorderà dalle nostre parti il caso Gemma del Sud…), e che su scala più vasta sappiamo nutrire le macchine mostruose del consenso populista.

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Mark Lewis Miniserie da 3 episodi
USA 2019
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Hammamet

di Emanuele Di Nicola
Hammamet di Gianni Amelio

Per affrontare un film come Hammamet bisogna partire da una premessa fondamentale: non c’è giudizio nell’opera di Gianni Amelio. Gli ultimi giorni di Craxi, incarnato mimeticamente in Pierfrancesco Favino, non passano sui carboni ardenti dell’assoluzione né della condanna, quindi non è opportuno cercare l’una o l’altra, e tantomeno condannare il film per un presunto cerchiobottismo che è nella testa di chi guarda. Come sempre l’errore che può avvenire nel confronto con l’opera è non vedere ciò che sta sullo schermo, ma piuttosto riferirsi alle proprie aspettative personali che vivono in un terreno extracinematografico. È poi normale che un film su Bettino Craxi riaccenda il dibattito sulla sua figura controversa, ma proprio per questo occorre sondare con attenzione il famoso “specifico filmico”, senza farsi distrarre dal rumore di fondo.

Quello che inscena il regista calabrese, prima di tutto, non è un film su Craxi ma sulla sua fine, sull’ultimo frammento della vita: non a caso si chiama Hammamet, titolo-luogo del periodo esiziale che diventerà anche la sua tomba. Il politico in azione si vede solo nella prima sequenza, peraltro magistrale, nel congresso vinto del Partito socialista dove già affiorano i germi della caduta: qui per l’unica volta troviamo un Craxi arrogante, che silenzia il confronto con Vincenzo (Giuseppe Cederna), carattere in cui si riconosce l’ex ministro Vincenzo Balzamo, socialista pentito frustrato dal leader che gli oppone l’evidenza del denaro («Non ti piace la vita comoda?»). È questa la sola occasione in cui Craxi assomiglia ai personaggi de Il Regno di Rodrigo Sorogoyen, politici corrotti che trattano tra loro in un gioco di pesi e contrappesi, intenti a negare l’ovvio, salvarsi o trascinare giù tutti insieme. Poi inizia un altro un film.

Craxi, chiamato solo il presidente (ma sia lui che gli altri sono facilmente riconoscibili), è già in Tunisia. Introdotti dal piano sequenza dei bambini africani che corrono, arriviamo alla sua villa: è bella ma non sfarzosa, come gli fanno notare, perché contiene un elemento decadente, qualcosa che non torna, una luce fioca o una spiaggia sporca. Si tratta di un luogo che prelude al dissolvimento. È qui che si apre la Totentanz di Bettino Craxi, la danza del socialista con la morte: al contrario di Mitterand ne Le passeggiate al campo di Marte di Robert Guédiguian, un altro socialista alla fine, Bettino è però tormentato. Se entrambi i presidenti si trovano a scrutare il mistero della dipartita “con piccoli occhi mortali”, l’italiano deve fare i conti con una materia complessa e non riconciliata. Viene circondato dalla figlia Anita (Livia Rossi), nella realtà Stefania ma qui omonima della figlia di Garibaldi, che come Bettino “fu ferito ad una gamba”; dalla moglie senza nome (Silvia Cohen), che guarda vecchi film e cerca di alleviare la sofferenza del marito evocando il passato; soprattutto da Fausto (Luca Filippi), figlio di Vincenzo che è venuto a portare un messaggio post-mortem a Bettino e con lui instaura il rapporto più stretto, posizionandosi in veste di alter ego registico che filma il videoracconto del protagonista. Sono sporadiche le comparse del figlio (Alberto Paradossi), dell’ex rivale di partito (Renato Carpentieri) e dell’amante (Claudia Gerini) che interviene nello spazio di un addio. Il padre si mostra in sogno, nell’ultimo struggente ruolo di Omero Antonutti.

Craxi malato vive e ricorda: mangia cibo vietato, scherza col nipote, fa i conti con se stesso e il mondo intorno. A tratti prova ancora a comandare, a dirigere le vite degli altri: quanti figli fare, come trattare un bambino. Ma la partita si gioca soprattutto nella sua testa: non a caso il racconto si apre con una visione o un ricordo, un bimbo che spacca il vetro con la fionda. È il “primo errore” del giovane Bettino, piccolo irrequieto che scaglia la prima pietra perché non è senza peccato, presagio dei massi rotolati nell’età adulta. Hammamet è un film mentale: si svolge nella psiche del protagonista e la dispiega nel confronto con sé e gli altri, che a vari livelli sono sue emanazioni, dalla figlia orgogliosa e tenace al nipote fragile, passando per la figura di Fausto che da Craxi è profondamente segnata e per questo vuole ucciderlo. Bettino fa autoscrittura: definisce se stesso, si difende, dà la sua versione. A tradirlo è l’immagine mentale che gli appare, come nel fondamentale risveglio dal sogno: l’uomo ha sognato di trovarsi ancora in Parlamento ma, dopo il discorso inquisitore di un giudice, è finalmente riuscito a spiegarsi e tutti gli danno ragione. Mentre lo racconta alla figlia si commuove: così getta la maschera, e quelle lacrime diventano immediatamente significative di un desiderio inconscio che attesta la voglia di tornare, di essere compresi ma è anche un’implicita ammissione di responsabilità. Il sogno ha tradito l’apologia di Craxi. Ecco perché il film a cui Hammamet sembra più avvicinarsi è Providence di Alain Resnais: nel capolavoro del 1977 lo scrittore malato Claude Langham aspettava i figli nel suo castello, in attesa della morte. Nel frattempo scriveva il suo racconto mentale, un romanzo psichico in cui ha ragione sempre lui, e torto gli altri, tranne poi venire smentito all’ultima sequenza. Senza paragoni con il magistero del francese, così è anche per il Craxi di Amelio, costretto in un luogo finale: Hammamet è la sua Providence, il terreno ultimo in cui immaginare una storia. Una versione parziale e non definitiva.

Nella sceneggiatura scritta con Alberto Taraglio, poi, la complessità craxiana viene ulteriormente sfaccettata dalla resa del suo pensiero politico, stratificato e profondo: l’ex leader riflette sulla trasformazione linguistica del popolo che diventa gente, prefigurando un’epoca post-ideologica che conduce direttamente all’oggi, alla fine dei partiti e l’inizio dei populismi; respinge “la lealtà degli stupidi”, mettendo in dubbio il presente nutrito di esecutori e yes men, rivendicando un tempo in cui il pensiero critico era il presupposto e il confronto con l’altro la prassi da coltivare con cura. Nell’intricata tela narrativa non tutto è in quadro, alcuni stralci suonano pleonastici, il personaggio interpretato da Luca Filippi non convince fino in fondo. Così come discutibile è la coda finale sul “segreto di Craxi”, che nel racconto già era stato ampiamente restituito: d’altronde Amelio ci aveva regalato la notevole ripresa sulla spiaggia davanti al carro armato, in cui Bettino espone “la verità” ma noi non la sentiamo. La prova che la verità è inconoscibile.

Hammamet si offre quindi come un racconto aperto, ed è proprio questa la sua forza: non chiudere la questione ma anzi riproporla, pensarla, metterla sul tavolo davanti agli occhi. In tal senso contiene una lezione di complessità contro la semplificazione del presente e della Storia. Non è un film impeccabile, ma conferma Gianni Amelio come un regista importante del nostro cinema: uno che preferisce la tormentata domanda alla facile risposta.

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Gianni Amelio Pierfrancesco Favino Luca Filippi Livia Rossi Claudia Gerini Renato Carpentieri Omero Antonutti 126 minuti
Italia
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Piccole Donne

di Veronica Vituzzi
Piccole donne - recensione film Greta Gerwig

Jo, Meg, Amy, Beth. Bastano questi quattro nomi a evocare tutto un mondo narrativo, costellato dai desideri e dalle personalità delle quattro sorelle March, che vivono la loro adolescenza all’ombra della Guerra di secessione americana in attesa del padre partito per il fronte. Quattro caratteri usciti dalla penna di Louise May Alcott, cosi noti nell’immaginario culturale che è facile descriverli per stereotipi: Meg è la ragazza bella e a modo, Amy la bimbetta capricciosa e petulante che vuol diventare artista, Beth la sorella amorevole, sensibile e timida, e Jo, il didietro della gonna bruciato, le dita sporche d’inchiostro per il continuo scrivere, i modi bruschi e i sogni di gloria è semplicemente Jo, affamata di vita, la ribelle che si taglia i capelli corti per non chiedere soldi alla zia ricca e antipatica, che rifiuta il matrimonio vantaggioso con l’amico di infanzia Laurie, che sogna un’esistenza libera e indipendente.

Nel 1994 usciva per la regia di Gillian Amstrong una delle migliori trasposizioni di Piccole donne (e Piccole donne crescono, il secondo volume della serie, che termina col matrimonio di Jo), corredata da un cast strepitoso (Winona Ryder, Christiane Bale, Claire Danes, Kirsten Dunst, Susan Sarandon tra gli altri) per un adattamento fedele e sensibile del romanzo della Alcott: scrupoloso nel descrivere tutti gli episodi salienti della saga, benché centrato sull’evoluzione spirituale di Jo, il film rimane ancora oggi l’adattamento perfetto per godersi sullo schermo la storia delle quattro sorelle. Come una sorta di evoluzione dal passato, la medesima produttrice della pellicola del 1994, Denise Di Novi, torna al testo per produrre la versione di Greta Gerwig, ma è subito chiaro che ci troviamo di fronte a qualcosa di radicalmente diverso. E d’altra parte, che senso avrebbe avuto oggi fare un altro Piccole donne, col rischio di ripetersi e di proporre per il grande schermo una copia di un film già ben diretto 25 anni fa? Pertanto diremmo subito che il film di Gerwig non racconta la storia di Piccole Donne: piuttosto ci ragiona su, decostruendolo in una riflessione sull’autorialità che parte da Jo per arrivare a Louise May Alcott, finché non è chiaro che la regista sta parlando anche di sé stessa.

Per prima cosa Gerwig struttura la narrazione entro una serie di flashback, poi decide di aumentare il margine di attenzione sui personaggi di Meg ed Amy, solitamente messi in ombra dall’imponente personalità di Jo: la prima viene seguita nella sua vita matrimoniale da adulta col buono e povero John Brooke, mentre la seconda diviene una sorta di deuteragonista del racconto, a suo modo tanto desiderosa di successo e vita quanto la ribelle sorella maggiore, con cui intrattiene un affettuoso ed eppur complesso antagonismo fraterno. Jo vuole scrivere e ci riuscirà, mentre Amy vorrebbe dipingere ma rinuncia perché priva di talento; Jo vuole andare in Europa, Amy ci andrà; Jo è il primo amore di Laurie, ma è Amy che finirà per sposarlo.

Dare maggiore spazio ai singoli personaggi significa aumentare i dettagli, ed è importante perché il racconto della Alcott nasconde dietro la patina di storia di formazione moralistica e di buoni sentimenti un non detto che tracima dai dialoghi e dagli episodi apparentemente innocenti che essa racconta. Questo non detto può essere tradotto con una sola parola: rinuncia. La crescita morale delle quattro sorelle, a parole improntata sui valori della bontà, della pazienza, e del perdono, è di fatto un’educazione alla rassegnazione che è sia invisibile sia assai concreta, ed è basata su un continuo compromesso fra ciò che si desidera e ciò che la società permette loro come donne. In Piccole donne il raggiungimento reale delle proprie aspirazioni si rivela un ripiego ben più modesto: Meg deve accettare una vita faticosa e carica di privazioni; Amy abbandona i propri sogni di artista; Jo pubblica un solo libro per poi sposarsi e metter su famiglia. Tutte vivono la gioia di accasarsi con l’uomo giusto, ma per il resto abbandonano i sogni della giovinezza. Perfino Beth, che in fondo voleva solo stare a casa con la propria famiglia, finisce per morire e diventare nel ricordo un piccolo santino amorevole.

Tutto riguarda il grande tabù del denaro, in mancanza del quale bisogna adattarsi affidandosi alle cure degli uomini. «Natale non sarà Natale senza qualche regalo» dice Jo all’inizio del romanzo, e così è la vita senza soldi propri, soldi guadagnati per se stesse e la propria famiglia: l’unica soluzione è trovare un buon partito (perché solo le donne ricche, come la bisbetica zia March, possono permettersi di morire zitelle), tutto il resto è assai disdicevole perché a voler una vita migliore, a sognare esperienze e cose che necessitano di una minima sicurezza economica si va contro un’etica che propugna la povertà e la privazione, nascoste sotto le spoglie della temperanza e dell’umiltà, come filosofie dell'essere persone perbene. Greta Gerwig propone in quest’ottica alcuni episodi dei libri facilmente travisabili come lezioni morali, per cui Meg deve imparare a essere meno capricciosa e non spendere soldi per sé, Amy deve capire che perde tempo a dipingere, e Jo, che scrive sotto pseudonimo racconti d’avventura per soldi, deve vergognarsene e retrocedere prima verso racconti più educativi e dopo, come tutte, sposarsi. Basterebbe una sola dolcissima scena a spiegare questo filo conduttore della loro giovinezza e vita adulta, ovvero quando Jo piange, nascosta in un angolo, non per i motivi “giusti” (il padre ferito al fronte), ma per qualcosa di apparentemente frivolo la cui privazione è sembrata cosi giusta che ora sembra stupido lamentarsene: i propri capelli, tagliati e venduti per aiutare la madre a raggiungere il marito in ospedale.

Non è un caso che di fronte una vita adulta così implicitamente amara venga voglia di rinchiudersi entro la famiglia e il candido mondo dell’infanzia, cosicché nel momento di massima disperazione, morta la sorella, a Jo non resta che tributarle un omaggio tornando alla memoria di un tempo che non si sapeva, malgrado la guerra, sereno e protettivo. Dietro Josephine March c’è Louise May Alcott, che aveva quattro sorelle, di cui una morta in gioventù, e che perse tutti i capelli a causa di una febbre tiroidea mentre prestava servizio come infermiera durante la guerra: ma Louise non poteva raccontare direttamente la propria storia, così l’adattò ai gusti dell’epoca, in modo però da far trasparire in ogni pagina edificante questa sottintesa verità di tutte le rinunce che ogni donna doveva alla società dell’epoca. Agli insegnamenti morali non mancò di accompagnare gli istintivi impulsi vitali dei suoi personaggi, di volta in volta colte da desideri egoistici, capricci viziati, rancori furiosi, enormi sogni frustrati e infiniti sensi di colpa per i propri pensieri, nonché continui propositi di diventar migliori per aiutare gli altri e accettare il peso dell’esistenza senza lamenti.

Greta Gerwig racconta con grazia e sentimento tutto ciò, lasciando emergere in superficie la dolorosa constatazione della rinuncia come stile di vita femminile, ma con un atto rischiosissimo mette in scena il finale di Piccole donne e allo stesso tempo lo riscrive, permettendo a Jo/Louise di entrare in scena e ammettere gli obblighi morali cui fu sottoposta nella scrittura: Jo si sposa col bravo e povero professor Bhaer, ma Louise, che non sì sposò e che non smise mai di scrivere, accetta di far sposare la propria eroina, fino ad allora riottosa al matrimonio, per poter pubblicare il proprio romanzo e diventare finalmente una scrittrice famosa. Alla fine infatti la vera storia raccontata fra le righe di Piccole donne e riportata in primo piano nel film è proprio quella di Louise, che riesce a inseguire il proprio sogno e non si piega al dovere di una vita già decisa in partenza; ed è anche quella di Greta Gerwig, che lotta per affermarsi a Hollywood come regista e artista in un mondo che le lascerebbe volentieri maggiore spazio come musa.

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Greta Gerwig Saoirse Ronan 135 minuti
USA 2019
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La ragazza d’autunno

di Arianna Pagliara
La ragazza d'autunno di Kantemir Balagov

Classe 1991, il russo Kantemir Balagov con due soli lungometraggi si è già aggiudicato due premi FIPRESCI, rispettivamente a Cannes 2017 con l’esordio Tesnota e a Cannes 2019 con La ragazza d’autunno, premiato qui anche per la Miglior Regia - sezione Un Certain Regard e poi accolto con entusiasmo al Torino Film Festival 2019 (Premio Migliore attrice a entrambe le protagoniste Viktorija Mirošničenko e Vasilisa Perelygina).

Il lavoro di Balagov si presenta, fin qui, come indagine lucidissima fortemente e sapientemente ancorata alla storia e al presente, sviluppata all’interno di quadri socio-politici nitidamente delineati. Nel primo film la grande Storia – i conflitti etnici del Caucaso Settentrionale – filtra attraverso le vicende del singolo, con il racconto del rapimento di una giovane coppia ebrea a Nal'čik (città d’origine del regista). Nel secondo, ambientato negli anni Cinquanta a Leningrado, Balagov restituisce due ritratti femminili vividi e complessi, che si fanno efficacemente emblema di una realtà più ampia soprattutto nel momento in cui vengono messe in evidenza le difficoltà e gli svantaggi, angosciosi e drammatici, peculiari della condizione femminile in un panorama già desolante e devastato come quello della Russia post-bellica.

La protagonista Ija è una giovane donna psicologicamente sofferente per i traumi vissuti in guerra; lavora in un ospedale, dove si prende cura degli ex-combattenti. Il piccolo Pashka, che ama come un figlio, è la sua gioia, il motivo per guardare avanti oltre il grigiore e la freddezza di una quotidianità sconfortante. Ma Ija lo perderà proprio quando la sua amica  Maša, madre del bambino, tornerà dal fronte a reclamarlo. A quel punto Maša, segnata come e più di Ija dalle ferite della guerra, nello spirito e soprattutto nel corpo, pretenderà dalla sua amica il figlio che lei non è più in grado di avere.

Nel delineare questo rapporto d’amicizia dai risvolti ambigui, dove a una certa rancorosa volontà di prevaricazione si intreccia, dall’altra parte, un bisogno d’amore che sfiora l’autoimmolazione, Balagov ha una sicurezza da maestro insolita per la sua giovane età. Mai didascalico, mai prevedibile, il regista fa passare attraverso piccoli dettagli – un gesto, un’azione ripetuta ossessivamente, l’espressione di un viso – tutta una serie di nevrosi, desideri inconfessati e sentimenti inespressi.

Notevole è poi il lavoro sul corpo della protagonista Ija (Viktoria Miroshnichenko): silenziosa, vulnerabile, capace solo di amore, è inadeguata al presente squallido e violento che la opprime, e questa sua inadeguatezza, questa sua non assimilabilità, si fa segno fisico di diversità attraverso quell’altezza spropositata (già nel titolo originale, “spilungona”) che rende la sua bellezza bizzarra agli occhi degli altri. Pallida, quasi esangue, Ija sembra voler rifiutare la femminilità - che tuttavia il suo corpo possiede – per proteggere se stessa, camuffandola in una gestualità insicura, che arriva fin quasi, a tratti, a una chiusura che è autistico ripiegamento nel sé, a una pietrificazione di sensi e sguardo generata, forse, dall’orrore del mondo.

Soprattutto, però, Balagov – che si è formato presso la scuola di cinema di Alexander Sokurov – è un artista del colore, qui all’opera con una tavolozza di verdi profondi e pastosi e di gialli luminescenti e trasparenti, per dare a ogni primo piano tridimensionalità e a ogni interno matericità e atmosfera, per far sentire l’odore della solitudine che satura le stanze e il freddo delle strade innevate. Penombre e colori debordanti, quasi acidi, sono insomma la Russia malandata e stremata di Ija e Maša; solo in un passaggio del film - che segna la momentanea uscita al di fuori del mondo ristretto delle protagoniste - nell’immensa, elegante villa del ricco Saša, la luce perde le sue note oro e giallastre per ripulirsi in un candore più latteo, quasi a cercare un segno cromatico per significare un’alterità (economica, sociale) che per le due donne è, in fondo, inarrivabile.

Designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani SNCCI, La ragazza d’autunno è un film profondo, intimo e assieme politico: una pagina di Storia e assieme una storia di disperazione e amore, dove il raffinato lavoro sulla forma restituisce corpo e peso alla sostanza del discorso.

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Kantemir Balagov Viktoria Miroshnichenko Vasilisa Perelygina Andrey Bykov Igor Shirokov Konstantin Balakirev 130 minuti
Russia, 2019
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The Lighthouse

di Giorgio Sedona
Lighthouse di Robert Eggers

"Should pale death with treble dread, Make the ocean caves our bed, God who hear'st the surges roll, Deign to save our suppliant soul."

Lì dove allo sguardo è proibito di vedere c’è il cinema di Robert Eggers. L’opera seconda del regista è il naturale prolungamento di un percorso cinematografico iniziato con il precedente The Witch. Location e storie di folklore adiacenti sia geograficamente, dai boschi del New England ai marosi della Nuova Scozia, il passo è breve; sia tematicamente, storie di un territorio in espansione che nascono dai margini della fede, dalle streghe di terra alle streghe di mare: le sirene. Storie oscure quelle di Eggers che con The Lighthouse si affidano alla certezza della mitologia. Se nel primo film la storia di folklore manteneva dei richiami religiosi e popolari, culturalmente bassi, qui la mitologia classica legata alla figura di Promoteo diventa la base sulla quale si tiene tutta l’architettura narrativa. Il lento ed inersorabile declivio verso la follia, dal sonno della ragione alla brama di visione nella luce, e il lavoro di Eggers d’impedimento, e creazione della suspense nascente dalla negazione della vista, ammalia le atmosfere di aspettative inquietanti. Il guardiano del faro, ultima luce nelle tenebre, fuoco della ragione sul confine della follia, come Prometeo incatenato e vinto è pasto di fegato per i gabbiani. Un finale già scritto nelle spirali del fato e nel marmo del canone classico.

Padrone dell’accumulo visivo a sostegno del tipico finale ascensionale, Eggers, dimostra una capacità di pulizia geometrica dell’inquadratura e controllo della messa in scena di maniacale virtù. Due figure, statuarie e tragiche, due guardiani, il vecchio e il nuovo, la divinità e l'iniziato, Willem Dafoe e Robert Pattinson, e il loro lento esaurimento delle capacità razionali scosse dalla follia esterna del mare, dal richiamo del selvaggio, dallo scontro verbale tra due generazioni. Un futuro costretto dalla volontà di conoscenza a un obbligo di visione, pedina inconsapevole del proprio tragico destino. Un passato che conserva la fede irrazionale verso il mondo in sé e che perdendo spalanca l’abisso verso il mondo senza di noi (E.Thacker, Tra le ceneri di questo pianeta), architrave culturale a sostegno e difesa della sottrazione dell’umano dal mondo.

L’oscurità, il selvaggio, il sortilegio, il mare, la malia, definizioni di processi dell’irrazionale che tentano di sovvertire il sistema razionale, illuminante e illuministico, del mondo occidentale; scaglie di buio assimilabili dall’architettura razionale dell’immagine di Eggers. Ed è proprio in questa dialettica tra la sulfurea nube esterna dell’irrazionale e la geometria adamantina dell’immagine di Eggers (ulteriormente corazzata dal formato 4:3) che si mostra il punctum di tutta la capacità ammaliante del suo cinema. Un cinema che stuzzica la visione mostrando sbirciate di una rivelazione (un evento celato, un finale emozionale) recisa dallo sguardo, estromessa dalla visione, un’immagine-tabù illuminante, faro e luce per il salto nell’abisso della sottrazione dell’umano, un cinema che si aggrappa al penultimo frame prima della soglia tra la ragione e l'abisso.

Boredom makes men to villains”… è la noia che rende gli uomini cattivi, come nell’incompiuto racconto di Poe, e di cui The Lighthouse mantiene le stesse premesse nel film, è la calma piatta ad anticipare la tragica fine di ogni uomo di mare. La bonaccia, il demone più crudele del mare, rivive nella narrativa di Conrad, di Golding, di Hodgson come noia, puntello affilato, che bagna di alcol i discorsi dei due guardiani mentre all’esterno il mare urla sputando ondate di sale e rimorsi. Il senso di colpa dell'omicidio rimosso, e coincidente con la fuga sul faro di Ephraim Winslow, crea un legame con il peccato originale nella definizione della figura del giovane rinnegato al cospetto della visione della luce, il perdente al cospetto della voluttà della conoscenza. Un sovvertitore che cede all’abbaglio del proprio destino in una fine tanto tragica quanto mitica. Continuità con The Witch manifestata anche dal fondale interpretativo dato ai 4 quattro elementi, se la terra e l’aria erano le caratteristiche delle streghe del New England, l’acqua e il fuoco fanno da guida alla narrazione degli eventi del faro. Elementi che catalizzanno le forze irrazionali divampando in visioni metafisiche. Visioni di sirene, di bare, di tronchi, sabbatiche visioni da dentro la luce del faro riprese con la lente anamorfica dell’irrazionale, focale di congiunzione tra i punti focali del New England e di Cape Forchu. Ambientazioni, che in una tipologia di cinema tanto fedele al dettaglio scenografico e attento a qualsiasi squilibro di messa in scena, risultano essere di fondamentale rilevanza.

La difficoltà è nel ripetersi e Eggers supera a pieni voti la prova dell’opera seconda. Ulteriore conferma di un cinema di genere horror americano in piena salute, dimostrando, nelle personalità autoriali dei suoi tre portabandiera, Eggers, Aster e Peele una crescita autoriale replicata e pienamente consapevole del mezzo espressivo.

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Robert Eggers Willem Dafoe Robert Pattinson 110 minuti
Stati Uniti
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