Dracula (BBC- Netflix)

di Jacopo Bonanni
Dracula - serie netflix bbc moffat gattis

Nell’ambiente culturale dell’Inghilterra vittoriana gli incontri tra celebri scrittori non erano una rarità. Non c’è nulla di strano, dunque, nel fatto che Bram Stoker e Arthur Conan Doyle si conoscessero e si frequentassero. Quello che però risulta interessante constatare sono le analogie dicotomiche che intercorrono tra le loro due creazioni più celebri: da un lato Sherlock Holmes, l’infallibile detective che agisce alla luce della razionalità; dall’altra Dracula, il vampiro immortale che si muove all’ombra della superstizione. Due nasi aquilini, due pallori spettrali, due sguardi penetranti ma soprattutto due solitudini esasperate messe a confronto (Dracula isolato nel suo castello/labirinto, Holmes rintanato nel suo studio/laboratorio) che hanno lasciato un’impronta indelebile nell’immaginario collettivo, riscuotendo consensi da una generazione all’altra di appassionati.
Il gioco di intrecci e di rimandi letterari e cinematografici che vede protagonisti i due personaggi è sterminato. Nella letteratura popolare non sono mancati incontri ufficiali tra i due, come quello suggerito da Laureen D. Eastman nel suo romanzo pastiche Sherlock Holmes vs Dracula (1978), o quello proposto da Fred Saberhagen  in Dossier Holmes-Dracula (1981). Tuttavia spetta  al cinema il merito di aver rafforzato il rapporto di parentela tra Dracula e Holmes. Entrambi rappresentano la quintessenza del cinema stesso perché entrambi non temono l’usura del tempo, guadagnandosi il titolo di icone più longeve ed apprezzate dal pubblico e dai registi – tanto da essere state rappresentate, citate, imitate, omaggiate e parodiate dagli inizi del Novecento fino ai giorni nostri. A tal proposito è curioso notare come alcuni attori abbiano impersonato entrambi i ruoli sullo schermo nel corso della loro carriera. È emblematico il caso di Christopher Lee – il Dracula per antonomasia delle produzioni Hammer – chiamato in seguito dal regista Terence Fisher a interpretare Sherlock Holmes nel film La valle del terrore del 1962. Volendo restare in “famiglia”, lo stesso Peter Cushing, dopo il ruolo di Van Helsing, indosserà i panni del detective in una fortunata serie di telefilm e in due pellicole di successo.
Tutto questo per sottolineare il filo rosso che lega storicamente Holmes e Dracula, sia nella realtà che nella finzione, come se fossero due facce della stessa medaglia. Non si può evocare l’uno senza finire per coinvolgere l’altro. Un destino cui non sono riusciti a sottrarsi neanche i due autori di punta della BBC: Steven Moffat e Mark Gattis, che dopo essersi cimentati in un’audace trasposizione dell’opera di Doyle, hanno applicato lo stesso schema al nuovo adattamento di quella di Stoker. Infatti la coppia di sceneggiatori, sull’onda dell’ottimismo suscitato dal successo di Sherlock – considerata una delle migliori serie inglesi attualmente in circolazione – non ha perso tempo per traslocare da Baker Street in Transilvania, mantenendo fede allo spirito che li ha sempre contraddistinti: la provocazione.

Concepita quasi per  scherzo, dopo uno scambio di battute sul look tenebroso di Benedict Cumberbatch, la serie dedicata alle gesta di Dracula è un salto continuo tra passato e presente, un coito ininterrotto tra tradizione e innovazione, uno sfarzoso luna-park vampiresco che mira a sovvertire, sconvolgere fino a sabotare tutto quello che siamo stati abituati a conoscere sul “Principe delle Tenebre”. Infatti se la maggior parte delle pellicole precedenti, comprese le più dissacranti, cercava, per quanto possibile, di giocare secondo le regole stabilite dal corpus narrativo di Stoker, questa versione le aggira, le corrompe, reinventandole senza dimenticare di omaggiare chi le ha ispirate. Il canovaccio originale è usato solo come pretesto per creare un elseworld, parallelo a quello canonico, che si abbevera alle fonti del culto per fornire al pubblico nuove risposte a vecchie domande.  Per renderlo possibile Moffat e Gattis giocano sporco fin da principio, barando apertamente, come in una partita a scacchi dove, se ti distrai per un attimo, le pedine vengono scambiate sulla scacchiera. Nel corso di questa seconda trasposizione televisiva targata BBC e dedicata al vampiro (la prima risale al 1977), gli autori si divertono a spiazzare continuamente lo spettatore mutando in corso d’opera sia l’ambientazione – dall’incipit gotico al finale contemporaneo – sia i toni – un mix di horror, commedia e poliziesco – sia i connotati dei personaggi, a partire dal protagonista  principale.

Dimenticate il Dracula di Coppola, l’antieroe shakespeariano dall’indole tormentata e romantica con il volto di Gary Oldman, perché quello interpretato superbamente da Claes Bang (The Square), nonostante le apparenze, non potrebbe essere più distante da quanto visto finora. Questo Dracula targato 2020 è un “mostro” moderno e pragmatico, non teme gli specchi, la luce del sole o i paletti di frassino, semmai ne è perversamente affascinato come è altrettanto incuriosito da tutti gli orpelli che la civiltà cerca di utilizzare contro di lui ma che lui riesce a sfruttare a proprio vantaggio. La sua natura narcisista lo spinge ad agire subdolamente, sotto le spoglie del mito, per stabilire con le sue vittime una relazione dai bordi ambigui e sfumati tra simbiosi e parassitismo. Non c’è nulla di nobile nelle motivazioni che lo spingono a raggirare, sedurre e uccidere, soltanto l’esigenza di “vampirizzare” chiunque si infatui di lui, non conta che si tratti di un uomo o di una donna, l’importante è poterne assorbire l’essenza pur di continuare ad alimentare un solipsismo esistenziale che ha ben poco di leggendario. Né sono la prova le tragiche vicende raccontante nei tre macro-episodi che compongono la serie, ognuno dedicato ai malcapitati protagonisti che incrociano Dracula lungo il suo cammino; da Jonathan Harcker (John Heffernan), qui relegato al ruolo di mera comparsa, all’equipaggio inerme del Demeter, fino ad arrivare a Lucy Westenra (Lydia West), la ragazza sedotta e abbandonata dal Conte, dopo essere stata resa sua schiava.
In questo viaggio tra le pieghe del tempo e dello spazio – degno del Doctor Who, altra leggenda inglese reinventata da Moffat – nulla sembra intaccare il “sangue freddo” del vampiro, neanche l’anonimato, al punto da osservarlo nel finale di stagione mentre si aggira indisturbato nella metropoli londinese del ventunesimo secolo, perfettamente a suo agio nei panni del predatore urbano alla prese con speed dating e social network. L’unica minaccia alla sua leggendaria incolumità, fisica e mentale, è rappresentata dalla giovane Agatha Van Helsing (Dolly Wells). È lei il personaggio chiave della storia, il richiamo più esplicito a Sherlock: una suora/detective cinica e irriverente che grazie a una logica ferrea, che la rende parzialmente immune al fascino secolare della figura del vampiro, mette puntualmente in dubbio ogni atavica certezza del protagonista, mostrando alla luce del sole tutta la sua vulnerabilità.

Nel bene e nel male purché se ne parli. È questo il motto dei due autori inglesi con licenza di re-inventare i classici, un atteggiamento dissacrante che è riuscito ad attirare su di sé le ire funeste dei puristi del genere, defraudati da un adattamento schizofrenico che nell’ossessiva ricerca di stupire senza compiacere delude il grande pubblico. A differenza di quanto visto in Sherlock, stavolta Moffatt e Gatis peccano di hybris, soprattutto nella parte conclusiva della storia, dove il clima di tensione iniziale viene incrinato da una gamma di plot-twist di dubbio gusto, sfociando in un finale caotico e sbrigativo che purtroppo non rende giustizia al lavoro svolto dal comparto attoriale. Tuttavia, al netto dei difetti e delle critiche, è ingiusto stroncare in toto un’operazione che per quanto pretenziosa possa sembrare, rimane uno dei tentativi più coraggiosi e inediti di “trasfusione” del mito di Dracula con il suo scomodo bagaglio di sadismo e perversione nella contemporaneità. È vero, si tratta di un antidoto imperfetto ma che cerca pur sempre di correggere l’attitudine malsana del cinema hollywoodiano a rassicurare gli spettatori, banalizzando la letteratura e riducendo le sue icone a formule stereotipate insostenibilmente kitsch e in questo senso il buon sangue (inglese) non mente.

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Claes Bang Dolly Wells Morfydd Clark miniserie da tre episodi
UK 2020
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The Lodge

di Mattia Caruso
The Lodge - recensione film franz e fiala

Una casa isolata, due fratelli vendicativi, una giovane donna instabile e dal passato oscuro. A elencare così immagini e personaggi presenti in The Lodge parrebbe quasi che i registi austriaci Veronika Franz e Severin Fiala non abbiano fatto altro che riadattare, in occasione della trasferta statunitense, il loro precedente lavoro, Goodnight Mommy, apportando variazioni minime per renderlo più adatto alle logiche produttive d'Oltreoceano. D'altronde, in questa storia che parte (ancora una volta) dal trauma e dal lutto per addentrarsi nei territori della follia e dell'orrore, pare innegabile che i temi portanti del precedente film prodotto da Ulrich Seidl (zio di Fiala e marito della Franz) e applaudito nei festival di mezzo mondo siano ancora tutti lì, così come innegabile è il senso di ambiguità perenne che pervade anche questa nuova vicenda.

Ma se Goodnight Mommy era soprattutto un dramma disturbante, una tragedia innestata a forza nelle dinamiche dell'horror, dove la violenza esplodeva in maniera tanto sorprendente quanto destabilizzante, qui, nella cronaca allucinata della convivenza forzata tra due ragazzini e la loro matrigna in una sperduta casa di montagna, i registi sembrano voler diluire in parte la loro vena autoriale abbracciando più compiutamente il genere puro. Ecco che allora le suggestioni, appena suggerite nel film precedente, diventano qui più immediate ed esplicite, dalla storia di fantasmi e case infestate, con annessi echi e rimandi a film recenti come Hereditary di Ari Aster (la casa delle bambole, le dinamiche famigliari), alla collisione di differenti piani di realtà, il tutto a delineare un mondo dove la verità è più che mai incerta, confusa inestricabilmente con l'allucinazione e (forse) con il soprannaturale, in un vortice paranoico dove non si può che dubitare di tutto e tutti.
È proprio attraverso questi continui ribaltamenti di prospettiva, false piste che si perdono in spazi gelidi e paesaggi (interiori?) in bilico tra dimensioni purgatoriali alla The Others e disagio psichico, che lo spettatore viene chiamato in causa, messo al centro di un conflitto in cui non sa più da che parte stare, incapace come i personaggi di distinguere, tra quelle immagini da incubo, ciò che è vero da ciò che non lo è. Nel mezzo di questa indeterminatezza, una casa che è un mondo a parte, uno spazio scandagliato lentamente ma inesorabilmente dai movimenti rigorosi e geometrici della macchina da presa, specchio di una storia cinica e glaciale intrisa di un nichilismo senza speranza.

The Lodge si dimostra così essere un contenitore perfetto per gli incubi ricorrenti dei suoi autori, dal trauma del rimosso alla fascinazione dell'infanzia per il Male, passando per l'assenza assordante di figure paterne. Un impianto magistrale che però resta in bilico tra le esigenze più immediate dell'horror e una visione autoriale non del tutto capace di scendere a compromessi proprio con quel genere cui vorrebbe pienamente aderire.

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Veronika Franz Severin Fiala Riley Keough Jaeden Martell Lia McHugh Alicia Silverstone Richard Armitage 100 minuti
Gran Bretagna, USA 2019
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Padrone dove sei

di Giorgio Sedona
Padrone dove sei di Carlo Michele Schirinzi

“...and every step I take, takes me further from heaven...” Roxy Music, In Every Dream Home a Heartache

Lontano dal paradiso, io ciò che resta del paradiso. In un cielo decadente, in disfacimenti della memoria tattile tra luminose evanescenze di carne. Luoghi di perduti ricordi sessuali, carne, sperma e memoria. Trascinati dai desideri perduti, schiaffeggiati dal padrone più sadico, indifferente e prepotente: il sesso ricordato, immaginato, rimpianto e il suo desiderio inconsumabile, suo più spietato aguzzino. In naufragi e nubrifagi di parole scabrose, (in)difesi sotto tettoie di enunciati troppo strette per le immagini, gabbie di faraday che portano nomi importanti come Bataille, Derrida, Klossowski. Lo sguardo sempre in procinto di sfaldare la pelle per entrare nella carne, per diventare esso stesso carne, godimento, disfacimento. Voyeurismo dell’impulso sessuale scopico, pulsione irrefrenabile che Schirinzi frammenta in immagini ingrandite di frammenti visivi che schizzano tra un taglio e l’altro, fuoriuscendo da ogni fessura del découpage in ingrandimenti di pulsioni erotiche. E se la Madeleine proustiana non fosse solamente un pasticcino commestibile? E se riuscisse comunque a mantenerne la sua funzione, il suo tramite olfattivo, tattile, acustico, continuando a esercitare la sua funzione di soglia cristallizzandosi in immagine-memoria visiva, fulminante, del sesso perduto? E se l’occhio di Bataille prima di diventare uovo fosse stata l’immagine dell’ingallamento?

In un perpetuo ristabilirsi di desideri rimossi, fuggiti, scabrosi (rinconsa a ritroso di quell’interscambiabilità barthesiana definita nella sua Metafora dell’occhio) fino all’inizio primordiale, basica ossessione verso il sesso tra gli intrecci del desiderio masturbatorio, epifanico sguardo disfacente e mortifero: cinema, nella sua più primaria accezione di meccanismo scopico di resistenza alla morte, all’oblio, alla schiavitù sessuale dell’Eros. Referenziale, scabroso, deviato, tattile e tangibile quanto la resistenza dei polpastrelli sui grumi fotografici di un’opera del Bernini. I tre anti-protagonisti di Schirinzi sono fantasmi che vivono di ricordi perduti, corpi persi nelle location abbandonate, scie di carne luminescente che nell’immagine (e nell’immaginazione) sessuale trovano l’unico appiglio di restistenza alla loro traslucida esistenza. Sono fasci di luce in sofferenza, delay di una struggente ballata rock in procinto di perdersi nei propri riverberi, pronti a svanire se incapaci di trovare densità nella loro sessualità condensata, in quell’erotismo che s’incrosta dando loro superficie epidermica (fotografica, audiovisiva) sulla quale (re)esistere.

Sarebbe ben immaginabile leggere nelle pagine de La sinagoga degli iconoclasti di Wilcock il nome di Carlo Michele Schirinzi, posizionato lì tra Carlo Olgiati e Armando Aprile, tra il matabolismo olgiatiano e la fantasmatica esistenza dell’effimero utopista. Il soffio iconoclasta di un solitario, pronto a sgretolare i territori (del suo Sud), la sacralità dell’immaginario iconico e le pagane geografie del corpo desiderante. Padrone dove sei? Dov’è il vettore del moto? Il motore del corpo negli ingranaggi della libido? Un film che rimane negli occhi, un film di tutti e per pochi, che denuda lo sguardo lasciadoci indifesi, nudi e prostrati alla nostra più grande ossessione ed estasi.

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Carlo Michele Schirinzi 82 minuti
Italia, 2019
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Jojo Rabbit

di Matteo Marescalco
Jojo Rabbit - Recensione film Waititi

L'ultima parentesi dal tono indipendente di Taika Waititi, prima della nuova immersione tra i roboanti tuoni Marvel, è, innanzitutto, un film di fantasmi. I vivi e i morti popolano Jojo Rabbit, a partire dalla figura del padre del piccolo protagonista, al fronte senza che giungano sue notizie da tempo, e di Elsa, una ragazzina ebrea che ama il disegno, le poesie di Rilke e il fidanzato partigiano spostatosi a Parigi. La giovane è nascosta in un anfratto del suo appartamento da Rosie, la dolce madre di Jojo e unico essere umano dotato di amore, compassione e senso della vita, quasi come fosse una presenza umbratile anche lei. E, infine, c'è quell'Adolf Hitler partorito dalla mente allineata di Jojo -coniglio, definito dai suoi superiori-, un favoleggiato mostro nell'armadio che rende il sentire del bambino schiavo di definizioni da adulti e opacizza il suo sguardo.

Dopo essere entrato a far parte della Hitlerjugend, Jojo resta coinvolto in un incidente che ne deturpa il volto e lo estromette da compiti impegnativi. Dopo l'incipit frenetico che mette alla berlina l'idiozia e l'ottusità del Gleichschaltung, il film focalizza la sua attenzione sulla figura del giovane protagonista, la cui purezza, nonostante numerose storie mitologiche ed etnografiche sulla mostruosità degli ebrei, rimane pressochè intatta. Nel grigio delle città impoverite e devastate, Waititi porta in scena uno scontro tra i colori brillanti di una menzogna e della speranza, in lotta tra loro per prevalere l'una sull'altra. Da un lato, gli occhi di Jojo e di Yorki, suo unico amico, sono spalancati sul mondo con l'obiettivo di coglierne le tracce reali e di sentirsi coinvolti nel cammino della Storia; dall'altro, il patetismo delle storie che vengono loro raccontate ne obnubilano i pensieri e collocano i bambini in un mondo di mezzo, una sorta di Oz in bilico tra la fiaba e la tragicità ineliminabile della guerra. E, a risultare ancor più potenti di mitologie e narrazioni, questa volta, sono i legami umani, tracce che, se riconosciute e coltivate, possono essere sopite ma mai soffocate.

Le scarpe allacciate, gli occhiolini affettuosi, i gesti colmi d'amore e la singolare relazione stabilitasi tra Jojo e la ragazzina ebrea, ma anche il rapporto con il nemico, consentono al bambino di trovare uno spazio nel mondo che non somigli a una superficiale forma di galleggiamento ma che gli permetta di allontanarsi dal volere collettivo per abbracciare una volontà individuale e più sincera, perché vicina a un afflato autenticamente umano. Attraverso la forma narrativa del coming-of-age, Jojo riconosce le proprie fragilità e insicurezze e impara a fare i conti con i suoi sentimenti repressi, abbracciando forme di esistenza alternative e lontane dal sentire comune. La satira sul fanatismo, quindi, non si limita a decostruire e a mettere alla berlina ma suggerisce anche la possibilità di immaginare un altro futuro, a pochi passi dalla nostra porta(ta).

Quanto detto finora è sufficiente per considerare Jojo Rabbit un'operazione sincera e pienamente riuscita? Non del tutto. Questa scommessa vinta a metà, infatti, cerca di compiacere un po' tutti, anestetizzando la verve dissacrante dei primi 20 minuti attraverso la necessaria irruzione di una lezione morale ed etica che faccia maturare il giovane protagonista. Accontentandosi di lanciare poche stoccate nei momenti di maggiore drammaticità e nella ricerca della non omologazione, il film di Waititi si attesta su binari già ampiamente percorsi e si accontenta della convenzionalità - a partire da una messa in scena che aderisce ai più svogliati canoni da film indipendente. Jojo Rabbit è un gioco scoperto e meccanico che sceglie di abbattere il mostro attraverso la programmaticità di fondo delle dinamiche infantili. Nonostante questi limiti, una parentesi del genere può comunque ritenersi complessivamente riuscita.

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Taika Waititi Scarlett Johansson Taika Waititi Sam Rockwell Roman Griffin Davis Rebel Wilson 108 minuti
Nuova Zelanda, Repubblica Ceca, USA 2019
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Mister Wonderland

di Donato Guida
Mister Wonderland di Valerio Ciriaci

Storie di migranti di fine ottocento: dal cinema al teatro, fino alla letteratura, l’arte tutta è piena di racconti dedicati alle loro vicende, spesso singolari e avventurose. Personaggi fuggiti dalla povertà più nera da ogni parte d’Europa, che hanno dolorosamente abbandonato famiglia e comunità, a volte rinnegando le proprie radici, per rincorrere la possibilità di una vita migliore, spesso sull'onda del sogno americano. Di queste migliaia di storie, molte sono andate irrimediabilmente perdute ma tante altre sono, fortunatamente, rimaste nella memoria e raccontano di artisti, imprenditori, musicisti e scienziati che hanno infine raggiunto il successo tanto desiderato. A volte capita tuttavia anche di imbattersi nella storia di un successo dimenticato, che vale la pena recuperare e raccontare.

È il caso della vicenda di Silvestro Zeffirino Poli, emigrato negli Stati Uniti da un piccolo paese del lucchese verso la fine dell'ottocento. Giovane appassionato e perseverante, a soli tredici anni parte per Parigi per approfondire al meglio l’arte del “figurinaio”: la sua capacità di creare e modellare figure in gesso lo porta in breve tempo a far parte dell’Eden Musée, all’interno del quale, oltre che affinare le proprie capacità, intuisce le grandi potenzialità economiche del settore dell’intrattenimento. È negli Stati Uniti però che il piccolo artigiano (ora ribattezzatosi Sylvester Z. Poli), comprende appieno le possibilità offerte dal mondo dello spettacolo. 

In un periodo in cui le fabbriche obbligano gli operai a turni massacranti di dodici o quattordici ore al giorno, il teatro e la nascente arte cinematografica possono offrire uno svago a un pubblico ampio e senza distinzioni di classi sociali. Dopo essersi messo in proprio, Poli apre il suo primo teatro, a New Heaven, nel Connecticut. La sala, con più di tremila posti a sedere, non è solo un luogo d’incontro e d’intrattenimento, ma è una vera e propria opera d'arte, curata nei minimi particolari. Statue, antichi e imponenti lampadari, decorazioni che richiamano gli antichi affreschi di Pompei: il tutto per un biglietto di pochi cents, che permette anche all’operaio distrutto dalla fatica di sentirsi nobile per una sera.

Dal vaudeville al cinema muto, fino ad arrivare ai primi grandi film romanzati e al sonoro: in breve tempo Poli realizza un vero e proprio impero, arrivando non solo a creare più di una trentina di teatri disseminati negli stati americani dell’est, ma anche ad attirare l’attenzione dei grandi divi dell’epoca, come Mea West, Buffalo Bill, Houdini e perfino Charlie Chaplin. Il piccolo artigiano partito dalle montagne lucchesi, diventa così uno dei più grandi imprenditori statunitensi, tanto da ricevere, nel giorno del suo cinquantesimo anniversario di matrimonio, una lettera di auguri e di complimenti dal Presidente Roosevelt in persona.

Presentato alla 60a edizione del Festival dei Popoli (e vincitore del premio “Il Cinemino”) Mister Wonderland offre diversi spunti interessanti. Valerio Ciriaci, pur raccontando il periodo della nascita del cinema, sceglie di non soffermarsi su questo e preferisce invece concentrare tutta l’attenzione sul personaggio. 

Il suo è un racconto diretto, che omaggia la vita, davvero strabiliante, di un uomo ingiustamente dimenticato; un pioniere dell’imprenditoria teatrale capace di concretizzare il suo personale sogno americano. Attraverso i racconti dei pronipoti (americani e italiani), il regista ci accompagna alla scoperta di Poli, e lo fa in modo agile e al contempo appassionato. Dalle foto d’epoca ai lavori firmati dall’artista lucchese, dal paese natio ai ai teatri americani, fino a Villa Rosa (dimora dei suoi ultimi anni di vita), Ciriaci porta alla ribalta quello che forse può essere definito il più grande impresario teatrale degli anni venti del ‘900.

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Valerio Ciriaci 53 minuti
Italia, 2019
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The Witcher

di Alessandro Gaudiano
The Witcher - recensione serie TV Netflix Schmidt Hissrich

Scrivere di una serie come The Witcher è un curioso esercizio di autoanalisi critica. La trasposizione, firmata Netflix, dell'universo immaginativo dello scrittore polacco Andrzej Sapkowski pone una serie di sfide che già complica quelle insite nello scrivere di un prodotto seriale, con la sua longue durée, i suoi castelli produttivi e la responsabilità artistica distribuita. A chi è rivolta, questa serie, e quali solo i parametri per giudicarla come un prodotto e un oggetto artistico a sé stante?

The Witcher è composta da otto episodi che seguono le gesta di Geralt di Rivia (Henry Cavill), un "witcher" o cacciatore di mostri dotato di poteri e capacità sovrumane, e di altri due personaggi a lui legati dal destino: la strega Yennefer e la principessa Cirilla. L'intreccio tra le tre storie, che si svolgono a distanza di molti anni l'una dall'altra, costituisce un piccolo puzzle narrativo che si ricongiunge nel finale di stagione. L'altro elemento che caratterizza la narrazione è il suo formato quasi antologico: ogni episodio tende a coincidere con uno specifico racconto di Sapkowski, con la caccia a un mostro o un altro nodo fondamentale. Un andamento quasi fiabesco che sembra fare appello, oltre che a chi ha letto Sapkowski, anche alla struttura a quest tipica del fantasy e famigliare a chi proviene dalla trilogia videoludica di CD Projekt RED, da cui sospettiamo provenga la maggior parte degli spettatori già preparati a un incontro con la serie.

The Witcher è una serie pensata e costruita per i fan del franchise, ma che non rinuncia, naturalmente, a lasciare una breccia per spettatori appassionati di fantasy od orfani di Game of Thrones: non stupisce che una produzione dagli obiettivi ambivalenti e, in parte, contraddittori abbia creato una certa confusione tra i critici, il che spiega la mole non indifferente di valutazioni negative. Non ci sono dubbi sul fatto che la serie soffra di alcuni problemi: la struttura narrativa vagamente alla Westworld è probabilmente non necessaria e acuisce alcuni dei problemi inevitabili per la prima stagione di un progetto pluriennale, i cui primi otto episodi sono di natura dichiaratamente introduttiva. Alcuni limiti di budget appaiono evidenti, soprattutto nella computer grafica e in diverse ambientazioni che appaiono decisamente blande. I combattimenti, ispirati in modo chiaro alle movenze del Geralt dei videogiochi, sono ben coreografati e messi in scena, ma il grosso del minutaggio è dedicato a situazioni ben più prosaiche ed economiche a livello produttivo. A difesa della serie, i limiti di budget (comunque non indifferente: pare si aggiri intorno ai dieci milioni di dollari per episodio) erano ovvi anche nelle prime stagioni di GoT, prima che fosse chiara la portata della serie.
In ogni caso, il pubblico ha dimostrato di amare la serie con tutti i suoi limiti e, in alcuni casi, proprio a causa di essi: i dialoghi di qualità altalenante, i meme dedicati alla recitazione di Cavill e alle canzoni del menestrello Jaskier, la messa in scena in modo fin troppo fedele di alcuni dei racconti più celebri della saga. The Witcher è, prima di ogni altra cosa, una sorta di gigantesco fan service: un prodotto pensato per soddisfare chi desidera tornare nel Continente e seguire le avventure di eroi poco convenzionali. Non si preoccupa di spiegare chi sia Geralt, il suo passato o i suoi inspiegabili poteri magici. Della geopoltica dei Regni settentrionali uno spettatore casuale capirebbe poco o nulla, e gli indizi per capire le distanze cronologiche tra le vicende dei personaggi principali, per quanto presenti, risultano insufficienti per molti abbonati Netflix: per compensare a queste incomprensioni, Netflix ha rilasciato una timeline interattiva e altri paratesti come vademecum per lo spettatore.

Probabilmente, è necessario trovare un equilibrio tra i due poli di questo discorso. Perché i "bracconieri testuali", i fan ed esploratori di questi mondi finzionali di cui scriveva Henry Jenkins, hanno molto da dire. Un discorso diverso e complementare senza il quale è fin troppo facile fraintendere The Witcher e tutte le altre serie che non cercano di essere "tv di prestigio", ma riescono pienamente nell'obiettivo di costruire qualcosa per i fan e, forse, con i fan stessi.
E di motivi di interesse ce ne sono molti: al di là del generico richiamo al fantasy, The Witcher non potrebbe essere più diverso, ad esempio, dalla serie ammiraglia di HBO. La prima gioca continuamente tra un registro drammatico e uno quasi comico, leggero e giocoso che ricorda alla lontana le serie di Hercules e Xena degli anni Novanta, mentre Game of Thrones mette in scena un fantasy che si prende decisamente sul serio, spesso con tonalità tragiche. E se quest'ultima serie costruiva pazientemente il proprio mondo a uso dello spettatore, la prima segue una strategia opposta di cui sarà interessante seguire gli sviluppi. La prima ragion d'essere di The Witcher sta nel suo continuo dialogo con il genere a cui appartiene, i libri, i videogiochi, le trasposizioni televisive precedenti... una pietra di un enorme castello trans-mediale che, come altre opere della stessa estensione, necessita di sguardi e strumenti ancora tutti da costruire.

Tornando alla serie, è positivo che Netflix abbia voluto rischiare con un prodotto così fuori dagli schemi, certamente diverso da ciò che (quasi) tutti si aspettavano. Un passo indietro dell'algoritmo e uno in avanti per il pubblico, forse; un gambetto che la showrunner Lauren Schmidt Hissrich ha giocato dichiaratamente e che riteniamo, al netto di qualche inciampo, riuscito. Si tratta, è chiaro, dell'apertura di una partita ad ampio raggio che si giocherà nello spazio di diverse stagioni. Una partita da seguire con attenzione, al di là di tutti i problemi e le asperità del caso.

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Henry Cavill Anya Chalotra Joey Batey: Freya Allan 1 stagione da 8 episodi
Polonia, USA 2019
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Sorry We Missed You

di Riccardo Bellini
Sorry we missed you - recensione film Ken Loach

Il meccanismo della gig economy sta consolidando modalità di sfruttamento del lavoro tanto più efficaci e pervasive quanto sorrette da un’illusione di fondo. In sostanza, far credere ai freelance, presi tra le maglie di un impiego a chiamata, di essere padroni del proprio tempo e della “propria attività”. Trattarli da imprenditori di sé stessi per avere a disposizione manovalanza dalle tutele ridotte. L’effetto è un precariato che si cristallizza in forme aggiornate di vessazione del lavoratore, costretto per disperazione a un’occupazione solo apparentemente autonoma e in realtà schiava dei ritmi insostenibili del mercato digitale, dove un barcode scanner può decidere “della vita e della morte” di un fattorino. «Non lavori per noi, ma lavori con noi. Non vieni assunto, ma vieni integrato» spiega infatti con raffinato gusto per la strumentalizzazione lo spietato Gavin Maloney al fattorino Ricky Turner (Kris Hitchen) in Sorry We Missed You di Ken Loach.   

Rick vive con la moglie Abbie (Debbie Honeywood) e i due figli a Newcastle, felici per quanto in ristrettezze economiche. Quando però la famiglia capisce che non avrà mai una casa di proprietà, Abbie vende l’automobile per permettere al marito di comprare un furgone e diventare un trasportatore. Inizia dunque il calvario dell’uomo in un sistema logorante che sotto l’egida del profitto a ogni costo e della presunta autonomia del lavoratore costringe Rick a orari massacranti, corse forsennate e a dover risarcire la società «con cui» lavora solo per aver chiesto un giorno di permesso. Tutto ciò con ripercussioni all’interno della famiglia, compromessa inoltre dal lavoro di Abbie, infermiera a domicilio pagata a visite. Una delle conquiste del neoliberismo più intransigente non sta solo nello svalutare il tempo libero dell’individuo, misurandolo in termini economici, ma nel farci credere che questo sia normale. Loach lo ha capito bene e non ci sono dubbi sull’importanza della causa condotta in Sorry We Missed You, con l’asciuttezza linguistica e la tenacia ideologica del suo cinema, qui ridotto a una elementarità espressiva come forse mai prima d’ora. Ed è del resto perfettamente comprensibile la tensione alla formula del comizio politico, il ricorso a una frontalità settaria, soprattutto intorno a un tema così urgente e in parte ignorato anche perché manifestazione di un sottofenomeno recente e ancora in via di trasformazione.

I problemi insorgono piuttosto quando Loach e il fedele Paul Laverty affrontano gli effetti prodotti sul nucleo famigliare dalla situazione di precarietà di Rick ed Abbie. Sacrificate da una scrittura affrettata, incapace di prendersi il tempo necessario per esplorare con progressione i nessi di causa ed effetto, le dinamiche familiari – in particolare il rapporto padre/figlio – rischiano l’effetto bozzettistico. Lo sguardo gettato sulle relazioni interne tra genitori e figli sembra correre troppo velocemente verso quelle conclusioni stabilite programmaticamente, come preso dalla stessa frenesia del corriere protagonista, senza dare del tutto consistenza al dramma della disgregazione familiare. Purtroppo, anche il parossismo con cui Loach e Laverty affastellano una sequela di disavventure dagli esiti via via più disastrosi ai danni di Rick lede al realismo che, al contrario, l’approccio adottato vorrebbe perseguire. Manca insomma l’equilibrio del precedente Io, Daniel Blake.

Loach ci consegna con trasporto una vicenda umana terribile, resa ancora più tale proprio in assenza di un vero evento tragico. Perché è nella corruzione del quotidiano a beneficio delle logiche di consumo, nell’accettazione remissiva di ciò che invece dovrebbe essere inaccettabile che risiede il cuore del film ed lì che implode il suo dramma. Se il finale di Sorry We Missed You non ha la forza di salvare in toto un film claudicante, certo ha quantomeno il vigore, con quella troncatura traumatica, di metterci di fronte senza filtri a ciò in cui la nostra società ci sta trasformando. Di costringerci a riflettere su quello a cui molte persone stanno accettando di rinunciare.

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Ken Loach Kris Hitchen Debbie Honeywood 101 minuti
UK, Francia, Belgio 2019
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Richard Jewell

di Saverio Felici
Richard Jewell - recensione film Clint Eastwood

Il trend che la filmografia di Clint Eastwood ha seguito negli ultimi anni è troppo marcato, troppo caratterizzato per non pensare che con Richard Jewell si arrivi al culmine di un discorso voluto. A quasi novant'anni, western e polizieschi appartengono a un'altra era, così come la stagione dei melodrammi, dei war-movie e dei grandi biopic. Oggi, Eastwood ha trovato una nuova dimensione come ultimo paladino del cinema civile. Un cinema civile che non è ovviamente quello di Francesco Rosi, ma che finisce quasi per avvicinarlo (paradosso che disgusterebbe lui per primo) a un opposto geometrico come Ken Loach.

Come l'altro grande vecchio, Eastwood ha raccontato negli ultimi film le lotte di moderni eroi per mantenere la propria dignità umana in un contesto mediatico e istituzionale assetato di sangue. I protagonisti del suo cinema recente (e in questo si, è veramente unico) sono però quanto di più lontano da ogni logica commerciale del cinema americano moderno. Dopo decenni a cavallo del fantastico e del mito, Clint ha ora scoperto di avere a cuore la temuta, bistrattata working class americana: bianca, trumpiana, odiata dal mondo intero. Da ultimo grande vecchio reazionario in un'America in cambiamento, che neanche lo nomina più agli Oscar e in cui incassa sempre meno, Eastwood sembra essere rimasto l'unico ad avere ancora a cuore, con un attaccamento che ha del commovente, quelle fasce di popolazione che la Hollywood “buona” e liberal sembra oggi concepire esclusivamente come villain, come mostruosità da nascondere sotto al tappeto. Il film è l'elegia appassionata di un vecchio repubblicano per “la sua gente”, e per quanto di buono è ancora convinto che ci sia in essa.

Richard Jewell, come American Sniper, come 15:17 to Paris, ma sopratutto come Sully (del quale è pressoché un progetto gemello), racconta dunque di un moderno, fallace eroe, e della sua battaglia personale contro le stesse istituzioni che è votato a difendere. Nel 1996, l'addetto alla sicurezza del titolo (Paul Walter Hauser, indimenticabile) è impegnato a chiamata con le Olimpiadi di Atlanta. È uno dei centinaia di steward a lavoro per portare l'acqua e farsi insultare dagli ubriachi. Scoprirà per caso la bomba del terrorista Eric Rudolph, facendo evacuare la zona e sventando un potenziale massacro. Ma ai federali, ai giornali e al pubblico serve un colpevole: e proprio Richard si troverà accerchiato, costretto a provare la propria estraneità al crimine da lui stesso sventato

Consapevole del potenziale retorico e lacrimoso della vicenda, Eastwood affronta di petto l'ambiguità del suo eroe. Il lato patetico di Richard Jewell, della sua famiglia e della sua vita è presentato in bilico tra il comico e il rispettoso. Richard è quello che è: bianco, obeso, semi-disoccupato, fallito in tutti i suoi sogni di servire in polizia, dei quali conserva tuttavia una rigida, grottesca fiducia nell'ordine e nel legalismo. E' anche sessualmente represso, collezionista compulsivo di armi, divoratore di junk-food, appassionato di videogiochi. Non ha nessuno. Esattamente il tipo di soggetto che, nella percezione popolare, oggi imbraccerebbe un fucile Remington per fare strage in una sala di Joker; e che in un 1996 orrendamente attuale subisce un processo a priori concettualmente simile. Come sempre è stato nella sua vita (il film non è biografico, ma la magistrale sceneggiatura di Billy Ray rivela un mondo intero dietro il protagonista), Jewell si ritrova accerchiato dall'America bella, dei sex symbol (John Hamm e l'incredibile Olivia Wilde), sorridenti e predatorie maschere del Potere. Vogliono farne il mostro da sbattere in prima pagina, perché Jewell è già un mostro, una negazione incarnata del culto del successo e dell'affermazione economica. La sua guerra, sostenuta esclusivamente dalla madre (Kathy Bates) e dall'unico amico (Sam Rockwell), diventa una questione di riconoscimento individuale: “vi farò pure schifo, ma esisto. Non dimenticatemi”.

Ma Richard Jewell è maestoso anche perché, alla critica spietata della volatile opinione pubblica (cancel culture ante litteram? L'associazione è troppo palese per non essere cercata), Eastwood associa un percorso di presa di coscienza che ricorda da vicino il J'accuse polanskiano. Come nel capolavoro con Jean Dujardin, il film di Eastwood è prima di tutto la storia di un risveglio, e di un dolorosissimo disincanto; quello dello “sbirro”, della pedina fiduciosa e inserita, costretto dagli eventi a riconoscere il marcio di quelle istituzioni che hanno guidato la sua vita. E, riconoscendo la distinzione esistente tra il Paese e i suoi apparati giudiziari («loro non sono l'America»), a rimettere in discussione un'intera vita al servizio (o nell'adorazione passiva e ideologica) delle forze dell'ordine.
Richard Jewell è cinema civile per questo: a una critica dei mass media forse facile e già vista, a un legal thriller magari semplicista e tirato via, sposa il percorso privato di un protagonista straordinario. Come Dreyfus per la Francia, Jewell rappresenta secondo Eastwood tutto ciò che l'America potente disprezza. Ed è proprio scoprire  questo disprezzo nei suoi confronti (personale, classista, sessuale) a costituire la vera tragedia di un eroe, e di un regista, che in quella bandiera sembra credere sempre di meno.

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Clint Eastwood Paul Walter Hauser Kathy Bates Sam Rockwell John Hamm Olivia Wilde 129 minuti
USA 2019
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I passi leggeri

di Carmen Albergo
I passi leggeri - recensione film Rifranti

Dopo dieci anni dal suo esordio con Tagliare le parti in grigio (Pardo per la Miglior Opera Prima Festival di Locarno 2007) il milanese Vittorio Rifranti torna sul grande schermo, firmando regia e sceneggiatura de I passi leggeri, prodotto dalla M Movie.

L'opera, interamente costruita sulla figura del sacerdote don Luca (Fabrizio Rizzolo) e sulla sua missione (non proprio im-peccabile) di amare il prossimo, come umile e silenzioso strumento di sollievo, recupera i temi dello smarrimento dell'austerità religiosa e l'insorgere di un umanesimo profano, pragmatico e quasi più aderente ai valori cristiani, che già furono cardini essenziali dell'ultimo Ermanno Olmi (Il villaggio di cartone e I cento chiodi) di cui Rifranti è stato allievo.

Il personaggio di don Luca è definito per sottrazione e contraddizione, senza pre-giudizio, senza costrizione, mosso solo da spirito di sacrificio e solidarietà, lascia trapelare molto poco il proprio tormento interiore, ovvero quello di sentire la parola di Dio ma di non riuscire a tradurla nei fatti come vorrebbe. Già rassegnato all'alienazione dei confessionali e dei rituali liturgici celebrati in chiesa, con abiti comuni cerca di dispensare misericordia per le strade e aiuti d'ogni genere ad anime perse e corpi sofferenti. Le sue intenzioni di remissione sbattono però letteralmente il muso contro l'imprevedibile arbitrio individuale (forse il primo e più importante dono divino) dinanzi al quale non può che abbassare lo sguardo: la ragazzina cui vuole donare la gioia degli insegnamenti del vangelo, seria ribatte con quanto le viene invece impartito in famiglia; la prostituta che vuol togliere dalla vita di strada, alla fine confessa di trovarci anche del bene; l'emissaria dei suoi usurai, finisce per commettere l'irreparabile, proprio quando accetta di aprirgli il suo cuore. L'interpretazione attoriale, sempre composta e pacata, non cede ad una lacrima, ma sempre abbozza un sorriso, pur con gli occhi velati di tristezza, anche sotto minacce e violenza, provocazioni e tentazioni.

Solo l'insonnia che lo tira fuori dal letto e la fatica, che volutamente si impone, di risalire a piedi il pendio innevato fino all'antica chiesa-rifugio, ormai disertata dai fedeli, manifestano l'insostenibile in-sofferenza all'incomunicabilità che lo attanaglia. L'uomo non vuole ammettere a se stesso che la sacralità di icone e gesti non ha più ragion d'essere, così come egli ancora la custodisce nel suo immaginario e soprattutto non vuole arrendersi al destino dei sacerdoti più anziani, ritiratisi in esilio.

Dunque si ostina, si trascina e affonda, tanto negli inferi della notte, tra barboni, tossicodipendenti, prostitute, quanto nel limbo candido della neve d'alta quota, parimenti senza rumore, senza nulla smuovere, con i passi leggeri dell'ombra di se stesso. Questo manto bianco e soffice, eppure impervio da scalare, è la metafora visiva che il regista mette in scena per raccontare la sorda implosione della crisi sacerdotale, in una inquadratura quasi sempre immobile, nel cui campo nega l'orizzonte. Anche le riprese in interni non hanno mai il respiro degli ambienti nella loro interezza, ma solo prospettive di angoli e arredi scarni e cupi, espressione della povertà emozionale che vi abita, senza nessuno slancio o spazio di fuga, ma solo condanna, quella di dileguarsi nella purezza (dell'animo e del paesaggio) ideale, tramutandola in afflizione, anziché redenzione.

 

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Vittorio Rifranti Fabrizio Rizzolo Chiara Causa Ksenija Martinovic 100 min.
Italia 2018
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Don't F**k with Cats: Hunting an Internet Killer

di Sergio Sozzo
don't fuck with cats - recensione serie tv netflix

«Da tutto questo possiamo trarre un principio assoluto: è meglio fare qualcosa che non fare nulla. Anche quelle cretinate dei lolcat, che sovrappongono delle frasi sgrammaticate alla foto di un tenero gatto, sono un invito alla partecipazione. Il messaggio di un lolcat è semplice: “Anche tu puoi giocare, basta avere delle font sul computer»
Clay Shirky, Milioni di cervelli all’opera

La vicenda di Luka Magnotta è uno di quegli abissi in grado di restituirci in maniera spietata ma cristallina il livello raggiunto dalle acque dell’oceano della nostra vita iperconnessa. La storia del killer 30enne canadese che affina le sue abilità omicida sui gattini per poi passare all’efferato assassinio dello studente Jun Lin, ucciso, smembrato e spedito in vari pezzi all’indirizzo di diversi uffici pubblici di Vancouver nel 2012, attraversa le istanze mutevoli del contemporaneo per farsi racconto emblematico delle armi letali della post-verità. Le modalità con cui lo stesso Magnotta costruisce la propria identità sul web, con la creazione in prima persona di una settantina di pagine e profili social di fan, e di circa venti siti dedicati, tutto per accrescere la notorietà e la credibilità della sua natura di star della rete, sono quelle che oggi conosciamo bene a differenti livelli della comunicazione “tossica” politica e dell’entertainment internazionale e nostrano, dalla “Bestia” a Pamela Prati. Don’t f**k with cats, la mini docu-serie Netflix (3 puntate da circa 60 minuti ciascuna) dedicata a questa escalation di malefatte, non arriva però da subito al metodo-Magnotta escogitato per apparire come un giovane influencer a spasso per i grattacieli del pianeta: il punto di partenza sono, come suggerisce il titolo, le assolute e incontrastate divinità del web – i gattini. L’allora sconosciuto serial killer di cuccioli di gatto si guadagna da subito le attenzioni delle comunità online proprio riprendendo e poi postando i video ad efferatezza progressiva di fantasiose esecuzioni di animaletti: ma se internet è il luogo dove qualunque oscenità e violenza oltre ogni livello di shock è a portata di clic, toccare i gattini non può invece restare impunito. E così il meccanismo del peer network che regola il 2.0 nell’accezione di Steven Johnson si mette in moto e, in una vicenda non meno esemplare del celebre caso dello stolen phone caro a Clay Shirky (si veda il suo cruciale volume Uno per uno, tutti per tutti), gli smanettoni sono in grado di tracciare la provenienza dei video criminali, riconoscere la location e gli elementi della messinscena, infine risalire a Magnotta. È il rovescio della sorveglianza, bellezza, e se è vero che le piattaforme ci spiano, allora è vero anche che là fuori è pieno di dati e informazioni che aspettano solo di essere decifrati. Ovviamente, Luka attende da tutta una vita questo tipo di attenzione, ed è pronto ad alzare la posta, con il suo personale, sanguinoso omaggio al film che è da sempre la sua ossessione, Basic Instinct – ancora una volta, l’immaginario del nostro inconscio popolare universale tracima nella realtà, e non è più possibile realizzare cosa abbia influenzato chi e per primo, se Sharon Stone sia specchio o ispirazione della madre di Magnotta.

In questa maniera, il veterano Mark Lewis (una carriera dedicata a documentari sul rapporto tra uomini, natura, società e animali) traccia con Don’t f**k with cats il ponte forse definitivo tra alcune correnti che reggono la sterminata produzione non-fiction di Netfix, e su cui è facile scommettere si potrà basare l’unicità della piattaforma nell’imminente guerra di proposte e cataloghi tra portali concorrenti e relative abbonamentizzazioni del nostro consumo quotidiano. Ovvero, la passione di Netflix per il genere morboso, da cable TV vecchia scuola, del true crime (delitti più o meno celebri, cold case ancora irrisolti, archivio catodico di arresti, processi, tribunali ecc.), sempre più spesso veicolato attraverso l’intuizione del documentario seriale, assemblato e frammentato cioè con modalità narrative da serialità “adulta”, e il linguaggio spurio e schizofrenico della bassa frequenza user generated, narrazione che insegue l’evanescenza frenetica dei pixel, delle bacheche, delle storie digitalizzate che si muovono dentro i server. Tra interviste ai leader della task force di nerd che incastra Luka Magnotta, brevi flash dei video snuff del killer e l’abituale selva di screenshots che oramai riconosciamo in prodotti di questo tipo, Don’t f**k with cats si prende anche la licenza di farsi in chiusura riflessione spudorata su quanto di questa storia sia stato causato dalla nostra perversa curiosità di spettatori insaziabili di immagini oltre il limite, a partire da chi ha iniziato a seguire da subito le clip dell’esecutore di micetti, fino a noi bingewatcher di questa miniserie.

L’aspetto ancora più inquietante del lotto è però l’accenno all’ennesima teoria cospirazionista che storie come questa si portano puntualmente addosso, qui legata al fantomatico Manny Lopez, complice, mandante e oppressore psichico di Magnotta, mente nascosta dietro tutta la vicenda. Per i giudici che hanno condannato Luka all’ergastolo, Manny è solo una voce nella testa del ragazzo, anch’essa figlia di una distorsione della sinossi di Basic Instinct. Ma il complotto che vuole la responsabilità degli atti dei singoli sempre demandata a élite misteriose o sconosciuti traviatori psichici di cui ci è ignoto il reale obiettivo, è un’altra delle distorsioni a cui la rappresentazione del mondo ospitata dalla rete ci ha abituati (qualcuno ricorderà dalle nostre parti il caso Gemma del Sud…), e che su scala più vasta sappiamo nutrire le macchine mostruose del consenso populista.

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Mark Lewis Miniserie da 3 episodi
USA 2019
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