Quel treno per Yuma

di Matteo Marescalco
Quel treno per Yuma - Recensione Mangold

«Mi piacerebbe rimanere a casa. Ma tra sei mesi sarà tutto verde, le vacche ingrasseranno e un giorno vedremo il fumo del treno al di là della collina e ce l'avremo fatta».
È il 2007 e a riportare il genere western al cinema ci pensano Non è un paese per vecchi, L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford e Quel treno per Yuma. I primi due vengono incensati dalla critica e fruttano molteplici premi ai loro realizzatori; al terzo titolo, invece, non resta altro da fare che affidarsi alla galanteria di un tempo che, nell'ambito della filmografia di James Mangold, lo avrebbe trasformato in una pietra miliare. Più che nei film dei Fratelli Coen e di Andrew Dominik, è in Quel treno per Yuma che la nuova epopea western sembra essere in costruzione.

Il leggendario e spietato fuorilegge Ben Wade e la sua banda hanno appena derubato la diligenza che trasportava il libro paga della Southern Pacific Railroads. Dopo la rapina, Wade si separa dal gruppo e si sposta verso Bilbee, per incontrare una donna nel saloon della città. Dan Evans, invece, è un contadino in gravi difficoltà economiche. Ha una moglie e due figli ed è in viaggio verso Bilbee per chiarire alcune questioni relative alla sua terra, che le istituzioni gli vogliono espropriare per favorire l'avvento della ferrovia. Le vite di Wade ed Evans si incroceranno proprio nell'assolata cittadina.

L'assedio cui andranno incontro la diligenza guidata da Wade e le forze del male che gli si metteranno contro si svolge tutto tra le travi di legno e i pilastri appena abbozzati di una città che sta per essere costruita. Lungo tutta la pellicola, i personaggi non fanno altro che scontrarsi con villaggi sperduti, radure e accampamenti di minatori dall'aspetto fatiscente e che provano in tutti i modi ad entrare a far parte del campo visivo di Ben Wade, assoluto fulcro dello sguardo del film. Perché il personaggio incarnato da Russell Crowe è un oggetto desueto, un motore di racconti e di narrazioni che non può appartenere alla nostra contemporaneità e che, in quanto tale, si lega in maniera indissolubile alla forza mitopoietica e iconografica di un cinema senza tempo come quello di James Mangold.

La trasparenza del decoupage classico è al totale servizio di quest'epopea dal taglio intimistico in cui, attraverso il lungo viaggio notturno tra le gole e le insidie dei canyon, assume sempre più importanza il rapporto tra i tre uomini coinvolti, Ben, Dan e suo figlio - due adulti e un ragazzo-  a loro modo (super)eroi e apprendista che non possono integrarsi fino in fondo in questo mondo perché troppo puri e autentici, incontaminati come una narrazione che non è ancora stata intaccata dall'oralità. Ognuno di loro porta nel cuore un'illusione ed è emblema di un atto di resistenza classica alle derive di un'immagine filmica priva di referente (non è un caso che il vero villain del film sia un personaggio dallo sguardo robotico e senza passato). Attraverso il suo gesto eroico, Dan vorrebbe garantire un futuro alla sua famiglia e, più di ogni altra cosa, ottenere la redenzione agli occhi del figlio; il ragazzo è pericolosamente invaghito dalla figura leggendaria di Ben Wade e dalla mitologia di cui è ammantato ogni suo movimento; infine, il fuorilegge romantico ha relegato sé stesso negli angoli più estremi e remoti, trasformandosi in un mero nome privo di corpo.

Tesissimo e crepuscolare ma anche impassibile e speranzoso, Quel treno per Yuma vive nei silenzi dei suoi personaggi e nei punti di fuga di ogni sguardo. Fino allo slancio emotivo dell'assedio finale sospeso tra il sacrificio e la vittoria. Mai come in questo caso, il concetto di classico non indica il rifiuto luddista di una modernità destinata a venire quanto un perfetto bilanciamento tra pienezza e leggerezza e una totale fede nei confronti di storie e uomini, che possono essere sconfitti e perire ma che resteranno per sempre scolpiti nei cuori di noi spettatori, incantati davanti alla purezza di questo genere di personaggi.

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James Mangold Christian Bale Russell Crowe Ben Foster Logan Lerman Peter Fonda Vinessa Shaw Luke Wilson 117 minuti
USA 2007
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Quando l'amore brucia l'anima - Walk the Line

di Carlo Valeri
walk-the-line - recensione film mangold

Più che un film confezionato per l’Oscar – o per interpretazioni da Oscar (Reese Witherspoon Miglior attrice nel 2006), come alcuni addetti ai lavori lo classificarono frettolosamente al tempo della sua uscita in sala – Quando l'amore brucia l'anima - Walk the Line appare come un lucido concept laboratoriale di tutti i temi portanti della filmografia mangoldiana.

Primo punto. James Mangold è uno dei pochi cineasti che crede veramente nella coppia. Non tanto nell’amore, di quello la storia del cinema è evidentemente satura tra film e poetiche autoriali, ma nella coppia come figura concettuale e drammaturgica. Il suo è un cinema costantemente giocato sul doppio: due uomini (Le Mans ’66), due donne (Ragazze interrotte), un uomo e una donna (Kate & Leopold, ancora Le Mans ’66, appunto Walk the Line). Come fosse la versione country di un film di Lelouche, Walk the Line racconta due destini incrociati che attraversano il tempo e lo spazio. È effettivamente difficile capire quando si innamorano di preciso Johnny Cash (Joaquin Phoenix) e June Carter (Witherspoon). Lo sono già al loro primo incontro? Lo diventano alla fine, quando June risponde di sì alla dichiarazione di Johnny in pubblico? Non proprio. In verità i due si uniscono durante… nel corso del tempo (del) tour. In una dimensione astratta, on the road, che assumerà contorni sempre più ispirati nei successivi film diretti da Mangold. Del resto l’esperienza del tour è quella del movimento e della performance. Ecco allora che Walk the Line è un piccolo testo sulla velocità e sull’attraversamento dello spazio (Le Mans ’66), ma anche sul labile confine tra verità e finzione, nonché sulla prossemica dell’altro, sulla giustapposizione di un character (“personaggio”) con un altro.

Ecco appunto il doppio che dialoga tra sé, riproduce in scena se stesso attraverso il duo musicale. Walk the Line mette insieme due personaggi e li trasforma in una coppia dentro un processo interessante di avvicinamento e allontanamento che ha più a che fare con il percorso spirituale dei protagonisti – elemento distintivo di Mangold – che in quello fisico o sentimentale. Del resto Walk the Line non è film sul desiderio ma sulla forza della reciprocità. Grazie all’amore per June, Johnny riuscirà a superare le proprie fragilità e i conflitti con la figura paterna. Riuscirà a diventare un uomo e non un suo «surrogato», come a un certo punto gli rimprovera la prima moglie.

Ecco un altro punto: James Mangold fa un cinema per adulti, non per giovani. Se la nouvelle vague ha spesso raccontato l’euforia giovanile dell’innamoramento, Mangold preferisce concentrarsi sull’impegno dello stare insieme. Nella coppia di Mangold nessuno deve piacere all’altro, semmai “cristologicamente” ognuno deve salvare l’altro. Ecco la dimensione religiosa, evidente in Walk the Line come anche in Logan o in Cop Land. Se c’è amore in Mangold, c’è in quanto veicolo di salvezza. E comunque non c’è amore, se non c’è una coppia. Perché in Logan Wolverine muore? Perché non ha più la compagna che amava.

Sin dalla prima sequenza in cui Cash e Carter si incontrano sul palco, i due sono già... insieme. E in qualche modo lo saranno per tutto il film, al punto che la scelta di unirsi in matrimonio con cui termina il biopic è del tutto consequenziale a un processo performativo e psicologico già innestato. Molto inaspettatamente, nel modo di raccontare due amici che diventano amanti, il film finisce con il dialogare a distanza con l’altro grande film americano sul tema: Harry ti presento Sally. Come avviene anche nella commedia di Rob Reiner, l’unione finale tra i due cantanti non è allora necessaria per celebrare una coppia che è sempre esistita per lo spettatore e per i media, quanto per stabilire un legame determinante tra i sentimenti e la loro rappresentazione/rimozione.

Walk the Line è un film importante per Mangold anche perché rivela uno degli elementi fondamentali della sua poetica: l’annullamento delle distanze tra verità e finzione, performance e sentimento. «Devi cantare una cosa che senti davvero» dice il produttore alla prima audizione di Johnny Cash, che capisce subito e cambia repertorio. Una delle sotto-trame del film è l’ottenimento della sincerità: del musicista nei confronti del suo pubblico e dell’essere umano nei confronti dei suoi affetti. L’arte deve diventare vita. Deve essere vera. Johnny Cash non deve fingere di essere qualcun altro, ma essere Johnny Cash. E così, quasi inevitabilmente, lui e June Carter non devono fingere di essere una coppia sul palco, ma esserlo veramente.

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James Mangold Joaquin Phoenix Reese Witherspoon Robert Patrick Shelby Lynne 136 minuti
USA 2005
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Finché morte non ci separi

di Sara Mazzoni
Finchè morte non ci separi - ready or not recensione film

L’idea su cui si basa Finché morte non ci separi (Ready or Not) è semplice: c’è una famiglia ricchissima e un tradizionale “gioco” da farsi ogni volta che arriva un nuovo membro attraverso il matrimonio. Seguono fiumi di sangue. I registi sono Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett, già parte del collettivo Radio Silence che ha diretto, tra le varie cose, il potabile racconto cornice di Southbound e un meno rilevante episodio di V/H/S. La sceneggiatura è firmata dagli scrittori televisivi Guy Busick e R. Christopher Murphy, che se la cavano bene con battutacce, humor nero e tempi comici. L’equilibrio tra uno script intelligente e la lettura che ne danno i registi rende il film efficace. [Da qui in avanti seguiranno spoiler sui contenuti].

La protagonista Grace è interpretata da Samara Weaving, attrice australiana ormai icona horror grazie a film come The Babysitter e Mayhem. Nella sua prima notte di nozze, Grace si trova a partecipare a una variante del nascondino in cui i suoi nuovi parenti la inseguono armati di asce, pistole e balestre per sacrificarla alla divinità luciferina responsabile della loro fortuna. In Finché morte non ci separi, tutti i personaggi parlano del gioco rituale come di una tradizione senza scampo, a cui nessuno può sottrarsi pena indicibili sventure. È la stessa veemenza che definisce il realismo capitalista, quel sentimento per il quale al capitalismo non esiste alcuna alternativa: e infatti non è un caso che a portare avanti quella tradizione sia un gruppo di altoborghesi che danno la caccia a una ragazza del popolo.

Quello messo in scena da Finché morte non ci separi è un carnevale al contrario, coerente con l’America contemporanea e collocabile vicino ai film della saga di The Purge, pur distinguendosi nello stile. Storicamente, nei saturnalia e nel carnevale c’è un rovesciamento simbolico delle gerarchie sociali (lo sfogo occasionale per mantenere l’ordine durante il resto dell’anno), mentre in The Purge e Finché morte non ci separi a essere rovesciato è il mondo del diritto, lasciando ai più ricchi la libertà di usare i propri mezzi per versare il sangue dei poveri in veri e propri sacrifici umani.
Finché morte non ci separi ha i toni di una commedia nera consapevole di essere anche un film d’azione. L’ambientazione dentro alla pomposa villa di famiglia dei Le Domas riprende in ogni inquadratura i concetti alla base della storia, decorata con una scenografia che suggerisce l’antichità e la pesantezza delle tradizioni che hanno fornito ai suoi abitanti i privilegi di cui dispongono. Per quanto leggera e disimpegnata, alla fine dei conti è comunque un’opera sulla lotta di classe: quello che vediamo sullo schermo è lo scontro tra un popolo governato crudelmente e un’élite che costruisce la propria fortuna sul sangue degli sfruttati. In senso letterale.

In quanto carnevale, Finché morte non ci separi ha le sue maschere. Weaving è una giovane sposa in All Stars gialle e abito bianco, che durante l’avventura si fa intriso di un rosso sangue sempre più scuro. La figura che meglio incarna il ruolo di avversaria è la terrificante zia Helen, interpretata da Nicky Guadagni: piccola, austera, i capelli grigi sparati in aria mentre brandisce una scure con cui vuole decapitare la ragazza, in una rappresentazione non troppo velata della morte stessa. Del resto Finché morte non ci separi è un film violento e sanguinoso, che riesce però a non spettacolarizzare la vittimizzazione della sua protagonista. La violenza che ritrae è sardonica, grottesca, eccessiva, eppure non è mai molesta. Tornando alla saga di The Purge, si può osservare come essa sia una delle tante cose buone che la Blumhouse ha fatto per l’horror, perché quel franchise ha contribuito a spazzare via il filone meramente sadico originato da Saw negli anni 2000, sottraendone pochi trope e recuperando invece le istanze rivoluzionarie di un cinema horror precedente.

Se paragoniamo Finché morte non ci separi a Would You Rather del 2012, un film con cui ha vari punti in comune, possiamo vedere quanto certi canoni siano cambiati negli ultimi anni. Anche Would You Rather ha un titolo che rimanda a consuetudini ludiche senza tempo, come Ready or Not. E anche Would You Rather si svolge in una villa dai mobili in legno intarsiato, anch’esso parla di una società segreta di ricchi perversi e di una giovane povera che viene attirata con l’offerta di privilegi, senza sapere cosa dovrà subire in cambio. Ma Finché morte non ci separi dimostra come da questo cinema sia stato finalmente spazzato via il sadismo fine a sé stesso di Saw e dei suoi replicanti, in cui il massimo a cui le vittime potevano aspirare era diventare carnefici a loro volta, in una vera e propria guerra tra poveri. Infatti lo scopo di Grace non è quello di godere immensamente uccidendo i suoi persecutori ma di difendersi, costi quello che costi. Tant’è che pur menando forte lo fa in modo casuale, nella foga della corsa per la sopravvivenza, senza intenzioni davvero letali. Ma è questo il bello del cinema del presente: la riflessione – assolutamente popolare – su ricchezza e privilegio qui raggiunge comunque una catarsi violentissima con il suo finale grandguignolesco, che rende memorabile un film già di per sé piacevole.

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Tyler Gillett Matt Bettinelli-Olpin Samara Weaving Adam Brody Andie MacDowell Nicky Guadagni 95 minuti
USA 2019
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Kate & Leopold

di Laura Delle Vedove
Kate e Leopold - recensione film Mangold

Siamo a cavallo tra il Novecento e i primi Duemila, una manciata di anni che sono lì a suggellare gli ultimi, enfatici respiri (e sospiri) di un genere che sarebbe stato infelicemente, e ingiustamente, da lì a poco trascurato: la rom-com, la commedia romantica, il film sentimentale. Probabilmente più del periodo classico americano dei ‘40, quegli anni videro il praticare con entusiasmo la formula, un passaggio quasi tassativo che non escluse neppure i grandi Autori, mentre di solito si scomodano, e a ragione, i nomi di specialisti quali Nora Ephron, Garry Marshall, Richard Curtis, Nancy Meyers, insieme a registi più trasversali come Wayne Wang, Adam Shankman, Mark Waters, P. J. Hogan, ma la lista correrebbe all’infinito. A legger le loro filmografie si certifica quel passaggio, non del tutto indolore, dalla forma classica della commedia romantica alla commedia tout-court che più spesso è film comico (o magari musical, o magari ibrido). Già nel 2006 Nancy Meyers poggia la pietra tombale del genere con L'amore non va in vacanza, e tutto il resto vedrà progressivamente la perdita d’importanza, sia drammaturgica che concettuale, dell’intreccio sentimentale, e con esso un modo non equiparabile per evidenziare problematicità e divari dei rapporti tra i sessi. La commedia romantica è, soprattutto, una superlativa istantanea del tempo in cui viene prodotta; assorbe cioè al suo interno, con grossa evidenza, i leitmotiv, le criticità e, più semplicemente, le caratteristiche di un certo clima “psicologico” da cui assurge; allargando alla produzione in toto, risalendo dai Novanta fino alla metà dei primi Duemila, è un genere che risponde a determinate necessità che ora l’industria non sente più, sovraccarica com’è di universi transmediali, mentre da una prospettiva culturale è sintomatica di una capacità e tendenza ancora naif, pre- crisi economica, di credere ciecamente, per un’ora e mezza, allo sbocciare di un nuovo Amore. Cioè che un film intero potesse reggersi su questo assunto.

Ci credeva Peter Weir quando nel 1990 girava Green Card - Matrimonio di convenienza, Barbra Streisand nel 1996 con L’amore ha due facce, James Mangold nel 2001 con Kate & Leopold. Quel Mangold di cui, a ragione, si elogia frequentemente la capacità di passare con agio dal dramma al thriller, al biopic ante-litteram (con tanto di filiazione parodica a decretarne la fama di classico, ovvero Walk Hard: The Dewey Cox Story di Kasdan-Apatow), al western, all’action, a quel Wolverine che si reggeva perfettamente in piedi da solo: Mangold nella migliore tradizione dell’autore americano che, lavorando per gli studios, si fa trasparente nella poetica e nel montaggio, ergendo silenziosamente la propria architettura cinematografica in funzione, anzitutto, della narrazione.

Kate & Leopold rappresenta un esempio lampante di questo credo e, al contempo, di un modello frutto di  anni di raffinazione della partitura romantica, della rom-com fatta e finita. L’elemento fantastico che molto spesso innesca la commedia di quegli anni e che qui contraddistingue la vicenda di Kate (Meg Ryan) e Leopold (Hugh Jackman), i quali riescono ad incontrarsi grazie a quella che sembra un’apertura nel continuum spazio-temporale, viene qui prelevato dallo stesso filone della commedia sentimentale/metafisica dei Quaranta senza drastiche variazioni. Il genere è poi un terreno encomiabile per mettere in azione il sapere, mai troppo pletorico, della sceneggiatura perfetta, quella che sa di dover partire dal consolidamento dei caratteri sui quali modellare il loro arco.

Mangold non si esime dall’accreditarsi in questo senso: Kate & Leopold descrive la figura di donna che per eccellenza qualifica quegli anni (e sulla quale si potrebbero scrivere saggi); in carriera, disillusa d’amore, un po’ castigata, sferzante, ancora non del tutto emancipata professionalmente ma essenzialmente sola. Il vero detonatore metaforico (e fattuale) è però il corpo di Leopold, duca di Albany, che dal 1876 viene trasportato in una New York del presente di cui, suo malgrado, riesce a mettere in luce le stranezze e, al nocciolo, la decadenza, l’utilitarismo, l’imperturbabilità. I modi apparentemente così affettati di un nobiluomo d’Ottocento, che però credeva nel positivismo della scienza e della tecnica (ma, fuori dal suo tempo, non nella sistematicità del matrimonio combinato) fanno stridere, deflagrare la rozzezza e l’aridità dei costumi della modernità. Il passato “obsoleto” di Leopold è quello, nostalgicamente, di un mondo che costruiva per reggere al trascorrere del tempo, concetto di cui egli avrà la prova osservando intatto, secoli dopo, il ponte di Brooklyn in tutta la sua monumentalità. «È un miracolo», dice, allo spazzino, Leopold. «Quello? Quello è solo un ponte», ribatte il passante. Il passato “ampolloso” è quello in cui il corteggiamento passava, al di là delle formule fisse, attraverso la trasparenza, la dichiarazione degli intenti amorosi come dogma sociale, sì, ma per prima cosa come sigillo di correttezza e onestà d’intenzione; prassi di cui i “tempi moderni” hanno perso cognizione, tutt’improntati al raggiungimento dello scopo, della preda a tutti i costi, furtivamente e furbamente. Il paradosso, certo, di un’epoca in cui con i gesti si tendeva a portare gran rispetto a una “signora”, ma nei fatti la si riteneva subordinata a un mondo chiuso appannaggio degli uomini. Le avance sessuali che il capo di Kate le rivolge durante una cena “di lavoro” sono ritenute da Leopold inaccettabili: e com’è che per anni ad esse ci siamo abituati? Le diramazioni eventuali sul tema coglierebbero una protagonista femminile passivamente succube del meccanismo maschilista, mentre Leopold insorge, impetuosamente, a difendere il suo onore. Messe in scena di distanze d’epoca in una messa in scena d’epoca, si direbbe. Ma gli spunti di riflessione sono molteplici: la normalizzazione dell’abuso di potere viene, nuovamente, fatta esplodere dall’ospite inatteso. Persino la colta arte oratoria di Leopold sembra riempire un buco nella prassi pubblicitaria che, in tutti i modi, dimentica di quella “trasparenza”, cerca di ingannare il consumatore tramite le regole della persuasione. Tuttavia l’intelligenza di Mangold sta nel rivisitare alcuni di questi tratti storici desueti, rovesciarli nel presente e trarne un metro di paragone per la triste insensatezza che caratterizza il quotidiano: ciò che si è perso e che, riadattato alla consapevolezza della contemporaneità, fornirebbe il tassello mancante a una società veloce, vorace e rottamante. Non solo: potrebbe essere la cura per i cuori sgualciti.
C’è persino un po’ di differenza di classe nello scontro tra le due epoche: Leopold, aristocratico, non può accettare di prestare il suo servizio per uno scopo poco nobile come quello di sponsorizzare un prodotto dal gusto infimo; Kate, invece, «è tutta la vita che deve pagare le bollette», ed è per questo che, ormai agilmente, non ha più tempo per gli scrupoli della morale. Così a Leopold non dispiace, e neppure a Kate, di ritornare indietro nel tempo, al suo tempo, e di rimanerci, dopo esser stato libero di innamorarsi, oltre i doveri delle mosse calcolate della sua classe sociale. Proprio da quel ponte indistruttibile, segno di un’era grande, Kate si getterà per compiere il salto temporale. E allora Kate & Leopold diventa un’opera su ciò che resta, perché tutto resta, e di esso rechiamo gli invisibili segni, in un flusso unico indistruttibile, ma invisibile ai più. Una sola, allora, la costante ovvia tra i secoli: l’inventore, il creatore di nuovi significati, lo scienziato (Leopold nell’Ottocento inventa il prototipo dell’ascensore, Stuart vede i wormhole), relegato e incompreso. Come un cane, cieco ai colori, che vede un arcobaleno.

Un’intuizione narrativa, su tutte, per sottolineare la permanenza, la continuità del Tempo: la fotografia come strabiliante certificatrice di verità, come estensione mcluhaniana di sé, come oggetto in grado di travalicare lo spazio/tempo. In un certo senso, Kate & Leopold è anche un film che ne celebra l’assolutezza, il predominio tecnico, il suo essere punto zero per ogni possibile scoperta. Stuart fotografa un’altra epoca, con un mezzo così piccolo da esser quasi impercettibile, eppure viene visto, proprio da un “inventore” come lui. E su quelle stesse fotografie rimane impresso un corpo, quello che l’occhio umano non ha colto: Kate è già lì, nel futuro come nel passato, nella profondità abitata catturata dallo sguardo meccanico. Per dirla con Walter Benjamin, anche qui la fotografia spinge chi la guarda «verso un bisogno irresistibile di cercare nell’immagine quella scintilla magari minima di caso, di hic et nunc, con cui la realtà ha folgorato il carattere dell’immagine, il bisogno di cercare il luogo invisibile in cui, nell’essere in un certo modo di quell’attimo lontano, si annida ancora oggi il futuro».

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James Mangold Meg Ryan Hugh Jackman Liev Schreiber 113 minuti
USA 2001
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Zombieland - Doppio colpo

di Matteo Marescalco
Zombieland - Recensione Fleischer

Cosa farebbe un nerd se gli zombie prendessero il posto degli esseri umani sulla Terra? Secondo Ruben Fleischer in Benvenuti a Zombieland, stilerebbe un catalogo di 32 regole da seguire pedissequamente per raggiungere l'obiettivo della sopravvivenza. E, magari, andrebbe a rifugiarsi nella villa hollywoodiana di Bill Murray, uno che, in fin dei conti, è abbastanza abituato alla fine del mondo.

Zombie e WTF a profusione: erano queste le premesse di un film che, dieci anni fa, raggiungeva lo stato di cult dopo un percorso in sala non troppo brillante (in Italia, Benvenuti a Zombieland è stato destinato soltanto al mercato degli home-video). Da allora, la carriera di alcuni dei protagonisti è decollata, i Marvel Studios hanno dato il via al più esteso universo condiviso cinematografico di tutti i tempi e l'industria mediale è stata colpita da un terremoto che ne sta scuotendo le fondamenta. Eppure, Tallahassee, Columbus, Wichita e Little Rock sono continuati ad esistere off-screen e a portare avanti la loro strenua resistenza contro i non-morti, più agguerriti e violenti che mai. L'interrogativo fondamentale di questo Zombieland: Doppio colpo consiste nel modo in cui i quattro personaggi possono continuare ad esistere sullo schermo cinematografico nonostante l'apocalisse.

In questo nuovo episodio i quattro si separano, intraprendono un viaggio per ricompattare la loro famiglia sui-generis, affrontano i loro doppi e si scontrano con alcune icone dell'immaginario collettivo americano. Più che sullo sviluppo di un plot compatto e organico, il regista e il team degli sceneggiatori si concentrano sulla riuscita di situazioni estemporanee, edificate attorno al nucleo tematico dell'abbandono della propria casa e della ricerca di una strada da percorrere per giungere all'età adulta. Una volta che l'architrave della struttura è stata posta, è abbastanza semplice dispiegare la parodia e infarcire l'insieme di gag, riproponendo lo stesso meccanismo di Benvenuti a Zombieland.

Dotato di una buona capacità di sopravvivenza e di adattamento, il film di Fleischer torna a riflettere sulla rielaborazione dei codici di genere facendo affidamento sulla propria competenza nerd. Tuttavia, in modo molto similare a Venom - approdo di Fleischer nell'MCU - , anche questa commedia horror sembra giunta fino a noi da uno spazio-tempo differente e altero. I ritmi da commedia demenziale segnata da venature horror funzionano ma il film è talmente chiuso nel proprio mondo da risultare privo della capacità di dialogare con il presente e con tutto ciò che esiste fuori Zombieland. Lo stesso rapporto che si instaura tra Tallahassee e Nevada (interpretata dalla rediviva Rosario Dawson) sembra esemplificare le dinamiche di un film condannato a partire e a cercare la propria via autonoma per poi girare in tondo su sé stesso e muoversi soltanto nel recinto di casa.

Dopo dieci anni di distanza dal primo episodio, era lecito aspettarsi qualcosa in più di un contenitore di autocitazioni in cui le singole scene contano più della creazione di una storia compatta e coesa.

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Ruben Fleischer Woody Harrelson Jesse Eisenberg Emma Stone Abigail Breslin Rosario Dawson Luke Wilson Bill Murray 96 minuti
USA 2019
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Parasite

di Matteo Berardini
Parasite - recensione film Bong

Forte della sua Palma d’Oro, Parasite di Bong Joon-ho si appresta a diventare uno dei film di maggior successo di questo 2019, una vittoria al botteghino internazionale per un autore solido e importante, finalmente legittimato e scoperto dal “grande” pubblico (ovvero dallo spettatore mediamente interessato al cinema ma non per forza cinefilo e indagatore di filmografie lontane come quella sudcoreana). Parasite del resto è il film perfetto per questa scalata, forse non il migliore di Bong ma di certo quello in cui il regista di The Host e Memories of Murder mette meglio a fuoco la cifra intima del suo cinema, la capacità (affatto scontata) di coniugare riflessione autoriale e piacere ludico della visione, indagine del contemporaneo e gusto per il racconto. Parasite del resto è una storia che parla di desiderio, dignità, umiliazione e conflitto di classe attraverso elementi che pur essendo particolarmente significativi a livello locale (tutto il film è – anche – una manifestazione molto intima delle due Coree) risultano familiari al pubblico internazionale, grazie alla narrazione dinamica e ricca di colpi di scena che sorregge il discorso metaforico – chiaro ma mai didascalico – del film. Lasciarsi andare alla visione di Parasite significa allora affidarsi a Bong e al suo cinema pirotecnico, una folle corsa sulle montagne russe del racconto in cui si viene condotti per mano e sedotti da uno sguardo capace di alternare divertimento e tensione, grottesco e melodramma. Bong è assai vicino ad Hitchcock per come riesce a trasformare la visione del film in una casa degli specchi che gioca con le corde emotive e le aspettative canoniche dello spettatore, e c’è da scommettere che è proprio quest’alternanza rocambolesca e liberissima tra i generi il fattore chiave del successo del film, non certo il primo ad affrontare la condizione umana ai tempi del tardo capitalismo.

Uncontainable Desire. Così recita la (splendida) locandina internazionale di Parasite, un’illustrazione allucinata del soprammobile roccioso che all’inizio del film viene regalato alla famiglia Kim; un portafortuna per le famiglie in cerca di successo materiale, si dice, di certo un oggetto di scena «così metaforico», come viene definito dal figlio dei coniugi Kim, l’intraprendente Ki-woo. Nel cinema di Bong c’è spesso un personaggio o una battuta ricorrente che funge da mise en abyme e svela la natura allegorica del racconto; in Snowpiercer ad esempio uno dei protagonisti si riferisce alle vicende in corso come a un blockbuster esercitato dal potere per disinnescare le tensioni di classe. In Parasite questo ruolo viene affidato a Ki-woo, artefice dell’infestazione parassitaria esercitata dai Kim ai danni della famiglia alto borghese dei Park e primo dei Kim ad essere infettato dal desiderio incontenibile, una voglia di riscatto che si mescola senza soluzione di continuità all’invidia, al bisogno di affermazione e di possesso, all’orgoglio che cerca di superare l’umiliazione e trovare la propria strada. Sono almeno due i momenti in cui Ki-woo definisce quanto sta avvenendo «così metaforico» eppure, e qui sta uno dei tanti talenti di Bong, il film non diviene mai un asettico teorema sociologico calato dall’alto, incurante di narrazione e personaggi (capito Lanthimos?); nonostante le due famiglie e le loro case siano studiate al millimetro per rappresentare le differenze di classe e le conseguenti tensioni, Parasite è anzitutto il ritratto di una vicenda umana straziante, scomoda, beffardamente tragicomica, ed è proprio attraverso l’intersecarsi dei generi che Bong riesce a restituire tutta l’umanità e il peso delle emozioni in gioco, troppo vivide e multiformi per esser contenute da un solo sistema di riferimento.

C’è tuttavia un’etichetta che ci sentiamo di voler affiancare a Parasite e che forse permette di mettere in evidenza, da una prospettiva leggermente diversa, il cuore di questo film. Ed è il concetto di weird, quel particolare genere di perturbazione che pone al centro del racconto un’entità o un oggetto «talmente inusuale da generare la sensazione che non dovrebbe esistere, o perlomeno non dovrebbe essere qui; eppure, se l’entità oppure l’oggetto è effettivamente qui, allora le categorie utilizzate finora per dare senso al mondo non possono essere valide». Queste parole sono di Mark Fisher, grande scrittore e critico culturale, scomparso troppo presto, che nel suo ultimo libro – The Weird and the Eerie, lo strano e l’inquietante nel mondo del contemporaneo, edito da Minimum Fax – si concentra sull’idea di weird definendone i tratti attraverso varie manifestazioni culturali. In relazione a Parasite risultano folgorati alcuni passaggi in particolare, dove viene definita come capacità principale del weird il suo aprire passaggi tra questo mondo e altri, mostrando come «l’esterno può fare irruzione, attraverso spazio e tempo, in un’ambientazione fattualmente familiare; […] è l’irruzione in questo mondo di qualcosa che proviene dall’esterno a fare da marcatore del weird».
Cos’è Parasite, con la sua orchestrazione millimetrica di salite e discese, scale percorse su e giù tra piani sopraelevati e soffocanti sotterranei, se non il manifestarsi concreto della soglia tra i mondi, l’irrompere alieno di elementi appartenenti a un’altra dimensione (o classe sociale) che non solo si intrufolano gradualmente nella casa ma infestano via via l’ambiente con i loro odori di corpi stanchi e umidi e ammuffiti? La convivenza forzata tra i Kim e i Park mostrata da Bong non può che generare tensioni e conflitto perché quella che salta è la soglia tra mondi che per loro natura sono fatti e pensati per essere ben distanti, e che, soprattutto, prevedono sì interazioni ma che siano accuratamente formalizzate e descritte da protocolli preimpostati, riconoscibili, riassumibili sempre in un rapporto di lavoro verticale e attento al «limite» (la parola chiave del capofamiglia Park). Parasite allora è uno dei grandi film weird dei nostri tempi, un’opera che raccoglie il concetto di soglia (già tipicamente lynchiano) e lo sgretola per mostrare come il superamento del «limite» significhi raccontare l’intrinseca e ipocrita instabilità di un mondo mettendone in mostra la sua apertura incontrollata verso l’esterno, la sua intima vulnerabilità nei confronti dell’altro.

Che meraviglioso e schietto ritratto della società capitalistica è Parasite, mai freddo, mai cinico, ma anzi partecipe e commosso delle sorti dei suoi personaggi, grande cinema capace di impiegare al meglio le sue risorse di tempo e spazio per mettere in scena sia l’aberrazione del nostro sistema economico che l’umana imperfezione universale.

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Bong Joon-ho Song Kang-ho Park So-dam Lee Sun-kyun Choi Woo-shik 132 minuti
Corea del Sud 2019
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The Report

di Matteo Berardini
The Report - recensione film Amazon

Uno contro molti, la crociata di un Davide contro le ingerenze e le pressioni tentacolari di un Golia che giustifica e preserva sé stesso, a qualunque costo, in qualunque circostanza. Patria del cinema liberal impegnato e schierato contro il Potere e le sue devianze, Hollywood si è fatta storicamente rifugio di figure cristologiche impegnate in crociate personali, pericolose e spesso al confine con la paranoia, volte a redimere gli errori più abietti della Nazione dopo che i suoi organi hanno agito nel pieno disprezzo delle leggi e delle norme civili e morali. Da Mr. Smith va a Washington a questo The Report c’è una linea rossa che attraversa il Novecento americano mettendone in scena gli anfratti più oscuri, in un bisogno palingenetico di opporre sempre alle storture del reale la forza dell’immaginario. Sono le immagini la prima linea di difesa, lo strumento principe con cui riscattarsi cercando di restituire giustizia ai paladini delle tante battaglie legali e sociali, e il percorso si è fatto via via così coerente e fedele a sé stesso da poter essere definito un genere vero e proprio. Un canone, fatto di narrazioni urbane asciutte e solidamente retoriche, informative per quanto infiammate di sdegno e sempre incentrate su personaggi esemplari ed umanissimi in lotta con forze più grandi di loro. A questo filone The Report si accosta pedissequamente e con grazia, offrendo una ricostruzione robusta e rigorosa del calvario attraversato dal membro del Senato Daniel Jones, cui viene affidato il compito di svelare la storia del programma di detenzione e interrogatorio avviato dalla CIA dopo gli attentati dell’undici Settembre. Il risultato sarà un rapporto di quasi settecento pagine denso di nomi, circostanze, eventi, che dimostrano come il servizio segreto americano avesse adottato i metodi illegali e immorali della tortura per portare avanti una battaglia già persa in partenza, affossata dall’intrinseca e comprovata inutilità di quelle procedure. Ma un conto è raccogliere le informazioni, un altro è riuscire farle venire alla luce. Il rapporto diventerà mai pubblico?

È attorno a questo pericolo che Scott Z. Burns costruisce il suo secondo film da regista, al quale arriva dopo un decennio passato a lavorare accanto a Steven Soderbegh, per il quale scrive una sequenza di opere formidabili (The Informant!, Contagion, Effetti collaterali, Panama Papers). Non a caso The Report non solo è prodotto dallo stesso Soderbergh, ma del suo ultimo Panama Papers si rivela il controcampo ideale, il completamento più tradizionale nel quale possiamo ritrovare lo stesso afflato liberal, la stessa rabbia e necessità di intervento che nel film di Soderbergh aveva assunto forma postmoderna e metalinguistica.
Lontano dall’ironia eversiva del suo film gemello, The Report è concentrato e monocorde come il suo protagonista, ma questa linearità classica diviene punto di forza nel momento in cui si serve il duplice compito di portare alla luce una storia importante e di dare forma a un’ossessione lunga anni, un vero percorso cristologico di espiazione con tanto di tentazioni, momenti di defaillance e solitudine sotto il peso della croce. Certo, a volte quest’estrema focalizzazione non rende giustizia ai (pochi) personaggi coinvolti, ma Burns riesce comunque a raccontare le difficoltà di Daniel Jones, il suo isolamento e la sua determinazione, pur mantenendo ai minimi l’esplorazione psicologica (merito anche di un Adam Driver al solito bravissimo e in parte). Non a caso la parte migliore dell’opera è la seconda, quella in cui a venire chiamata in causa è la fedeltà di Jones alle sue stesse idee e valori, in cui il dilemma morale si complica e il racconto assume i ritmi più serrati del thriller politico, mentre la battaglia per la libera informazione e la giustizia si infiamma, tocca corde personali e pagine di giornali, fino ad approdare, finalmente, pubblicamente, tra i banchi del Senato, davanti alle telecamere nazionali e al paese intero.

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Scott Z. Burns Adam Driver Annette Bening Michael C. Hall Jon Hamm Corey Stoll Tim Blake Nelson Matthew Rhys 118 minuti
USA 2019
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Ragazze interrotte

di Veronica Vituzzi
Ragazze interrotte - Recensione film James Mangold

C’è una scena in Ragazze interrotte che spiega perfettamente sia il titolo che il senso del film: solo che è stata tagliata al montaggio finale (ma si può vedere su YouTube). La ragazza interrotta originale è quella di un quadro di Vermeer che la protagonista (Winona Ryder), vede con grande turbamento in un museo. La fanciulla si volge verso lo spettatore mentre suona, come distratta dall’arrivo di un visitatore inatteso, e si cristallizza in quel intermezzo che a Susanna pare eco del suo periodo di pazzia giovanile, «un momento reso immobile, per tutti gli altri momenti, qualsiasi cosa fossero o avrebbero potuto essere». Così scriveva la vera Susanna Keynes, nelle proprie memorie da cui nel 1999 James Mangold traeva il suo film erroneamente ricordato dai più solo per l’Oscar come Miglior Attrice non Protagonista ad Angelina Jolie. Eppure Ragazze interrotte è stata soprattutto un’opera capace, pur con i suoi difetti, di rendere la complessità della malattia mentale e della sua concezione entro una società “normale” esponendo una pluralità di punti di vista senza prediligerne nessuno.

Susanna appare inizialmente niente più che una persona confusa, forse viziata dalla vita troppo facile, una ragazza pigra che si diverte ad andare fuori di testa, come la definirà in un momento di rabbia l’infermiera Valery (Whoopi Goodberg). Pertanto i genitori non trovano altra soluzione se non spedirla in un ospedale psichiatrico dove incontrerà alcune ragazze, tutte in apparenza davvero folli, soprattutto la carismatica Lisa (Angelina Jolie), vero e proprio capogruppo del reparto, sociopatica con la battuta pronta sempre incline a reiterate fughe con annesso recupero e ulteriore ricovero coatto. Eppure, siamo nel 1968, in America il movimento underground, gli hippie e la ribellione giovanile concorrono a rimettere in discussione i vecchi principi morali, ciò che era giusto e normale una volta non lo è più; e allora perché non dovrebbe essere Susanna una vittima, in quanto punita per aver rifiutato il consueto percorso esistenziale università-matrimonio-figli che aveva contraddistinto la vita di donne come sua madre? Sarebbe facile pensarlo, credere che lei e le sue compagne di ospedale siano vittime, come è facile credere che siano abili manipolatrici, oppure che la normalità non esista o che effettivamente siano tutte pazze.

L’intelligenza di Mangold sta nel non dare una risposta precisa, ma nel riconoscere la medesima percentuale di follia nelle pazienti come nel mondo che le ammala – nel film c’è sempre, esplicito o sottaciuto, un rapporto conflittuale o spezzato con i genitori come con l’autorità in generale – perché ciò che gli sta a cuore non è imputare le colpe quanto trovare una metafora visiva efficace per rendere il disagio mentale e strutturare tutta la vicenda secondo questo concetto, che è quello della stanza chiusa. Susanna è vista la maggior parte del tempo entro una stanza, e d’altra parte la sua è una storia di reclusione che non è solo quella concreta dell’ospedale ma quella inconsapevole di una chiusura esistenziale a ciò che è fuori – il mondo, le relazioni, la responsabilità della propria vita. Il suo ricovero ospedaliero è solo la conseguenza finale di un chiudersi che è andare in un altro luogo, un’altra dimensione della mente. In alcuni contesti è un processo caro agli artisti (e difatti quando Susanna dirà al tassista di dover andare all’ospedale perché vede delle cose, la risposta sarà «allora dovrebbero rinchiudere anche John Lennon!») ma nel caso della protagonista diviene una scelta precisa per rifiutare tutto ciò che sta fuori. Questo vale per lei come gli altri personaggi: da Lisa che cerca di perpetuare la propria malattia mentale per poter sempre tornare dentro, a Daisy che esce fuori dall’ospedale solo per rintanarsi nella casetta acquistata dal padre stupratore; per non dimenticare poi il volto deturpato di Polly che le aliena ogni relazione amorosa, le bugie patologiche di Georgina o l’anoressia clinica di Janet che cerca letteralmente di scomparire dal mondo.

Mangold accompagna le sue protagoniste lungo questo cammino ininterrotto entro un dedalo di stanze, porte aperte e chiuse, ove ogni fuoriuscita all’aria aperta, per quanto speranzosa, finisce male (ci si addormenta, si litiga, si scappa via) in quanto priva di quel presupposto necessario per rendere l’entrata nel mondo un atto consapevole. Uscire fuori significa anche lasciar uscire fuori ciò che si è tenuti dentro, e così Susanna, non ancora pronta, rifiuta la fuga col proprio ragazzo venuto a prenderla (Jared Leto) e ritorna in ospedale dopo essere scappata con Lisa.  Solo quando accetta di parlare, di esprimersi nella terapia, può deliberare il proprio stare al mondo tramite il violento confronto finale con Lisa, demistificando tutte le sue argomentazioni orgogliose e violente sulla malattia e l’alienazione come uniche esperienze di verità. Il disturbo borderline che le viene diagnosticato rappresenta infatti questa linea di delimitazione tra la normalità e la follia, la realtà e l’universo parallelo della malattia, sul cui confine la protagonista ondeggia indecisa su dove orientarsi, che non è tanto la questione dell’essere noi e il mondo più o meno folli, quanto se stare al mondo o andarsene, metaforicamente (l’alienazione mentale) o nel concreto (il suicidio). Se è certo che veniamo fisicamente al mondo espulsi dal grembo materno, è anche evidente che a questo parto deve sempre accompagnarsi una nascita spirituale, come esseri indipendenti e autonomi, che spesso si concretizza (se si concretizza mai) molti anni dopo la nostra comparsa. Dopo la lunga e dolorosa gestazione mentale avvenuta entro il chiuso dell’ospedale, Susanna finalmente si partorisce e viene al mondo: ed è lì, con la fine del film di Mangold, che la sua vita inizia davvero.

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James Mangold Winona Ryder Angelina Jolie Jared Leto Brittany Murphy Elisabeth Moss 125 minuti
USA 1999
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Aniara

di Leonardo Strano
Aniara - recensione film kagerman lilja

Aniara nei suoi primi minuti sembra essere un racconto fantascientifico personalizzato, dedicato esclusivamente a un personaggio, alle sue reazioni psicoemotive e ai suoi spostamenti espressivi all’interno del contesto complesso che lo accoglie. Le inquadrature iniziali del film di Pella Kågerman e Hugo Lilja (tratto dall’omonimo romanzo di Harry Martinson) raccontano del semplice accesso a un mondo ambiente - sconosciuto per lo spettatore posizionato fuori dal testo - mediante la descrizione prossemica, il pedinamento dell’individuo presente nel testo e quindi del semplice percorso conoscitivo del singolo nella collettività, nel tutto nuovo, nel costrutto sociale ignoto. Come narrazione bilanciata sull’asse dell’individuo e quindi sulla prospettiva del singolo sui molti, il film percorre i primi slalom narrativi trattenendo la propria storia a una misura giornaliera, giocata sulla percezione dell’unità minima psicologica, sociale e temporale: responsabile della gestione di un programma simulativo in grado di immergere i viaggiatori della crociera spaziale in rigogliosi ricordi passati, noto come Mima, la donna protagonista cerca di comprendere la propria posizione in quel nuovo microcosmo che dovrà abitare per due settimane prima dell’arrivo su Marte.

Aniara è infatti una nave di viaggio, partita dalla Terra – ormai non più abitabile per la desertificazione (accennata solo da implicite battute e da un esplicito campo lunghissimo) – diretta verso il pianeta rosso. Un incidente inatteso tuttavia costringe la nave a una deviazione drastica. Questo evento narrativo sposta l’equilibrio organizzato nei minuti iniziali, quello della narrazione personalizzata e misurata, a un nuovo equilibrio strutturale, depersonalizzato e collettivo, senza precisa riduzione personale e dedicato allo scorrere del tempo. In breve il film ridimensiona le sue premesse e da racconto individuale (centrifugo) sulle reazioni spettatoriali a un nuovo contesto si traduce a racconto sociale (centripeto), imperniato sull’analisi fredda e distante – si potrebbe dire cartesiana, per la natura meramente bidimensionale della documentazione visiva – degli eventi lasciati allo scorrere del tempo. La scatola significante – la nave – diventa gabbia per esaminare la reazione della collettività all’evento sconvolgente: quella della protagonista è solo una risposta indistinguibile (assimilabile) tra le tante – dall’incompetenza bugiarda delle istituzioni al ritorno a un tribalismo religioso - rilevate grazie al guadagno del punto di vista del tempo.

Abbandonando il cinema narrativo e abbracciando quello di osservazione – in un contesto fantascientifico funzionale solo a stressare con l’immaginazione le tematiche fino al parossismo più orrorifico – Aniara ottiene un punto di vista umanista scevro di ingenuità sul decorso culturale della storia umana e sulle prospettive future che ci attendono. La sua analisi della reazione della collettività a una tragedia inspiegabile – a un’urgenza umanitaria - è messa in scena puntuale di proiezioni sociologiche pessimiste e allo stesso tempo riflessione sulle ragioni del decadimento, del fallimento culturale e umano. Alla deriva nello spazio, gli abitanti della nave non attivano le loro coscienze per formulare soluzioni per la sostenibilità sociale: attendono un aiuto esterno e intanto scelgono di occupare il proprio tempo e la propria speranza in prolungate sessioni al simulatore. Ai confini del futuro, spinto verso nuovi mondi e costretto a inventare nuove soluzioni per sostenere la vita, l’uomo fallisce perché non è più capace di immaginare un futuro. Preferisce l’involuzione dell’immagine di un eden irraggiungibile fisicamente, ma virtualmente percettibile, il lento ammorbidirsi della morte sul proprio occhio, la riduzione del pensiero a archiviazione di momenti migliori. L’attesa che qualcosa succeda anche alla fine del tempo.

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Pella Kågerman Hugo Lilja Emelie Jonsson Bianca Cruzeiro Arvin Kananian Annelli Martini 106
Svezia-Danimarca
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Light of my life

di Domenico Saracino
 Light of my life - recensione film Casey Affleck

Si apre con un lungo racconto di un padre a una figlia Light of My Life, primo film di finzione di Casey Affeck, di ritorno dietro la macchina da presa dopo l’interessante esperimento del 2010 rappresentato da Joaquin Phoenix - Io sono qui!, mockumentary sul grande attore americano, a quel tempo cognato di Affleck. Ben undici minuti di runtime espressamente consacrati alla dettagliata enunciazione di una favola, inventata all’impronta dalla figura paterna ricorrendo liberamente al topos biblico del diluvio universale e dell’arca di Noè, una “variazione sul tema” i cui riferimenti non sfuggono affatto all’intelligente e curiosa ragazzina.
Un padre e una figlia dunque, soli, in una tenda immersa nell’oscurità dei boschi rischiarata dalla luce calda di un lume, si estraniano dal mondo, si avvolgono tra le dolci coperte della fantasia, dell’invenzione creativa. Che lì fuori ci sia un mondo distopico in cui le donne sono quasi tutte morte a causa di un misterioso virus, come vuole la trama del film, o che invece possa esserci la vita sbilenca che tutti conosciamo, coi suoi mali forse un filo meno apocalittici (almeno su scala globale, ma forse neanche, se si pensa alla follia dell’inquinamento e del cambiamento climatico), poco cambia: immoralità, ingiustizia, crudeltà, violenza, dolore, malattia, sono volti dell’orrore che la civiltà umana evoca, esorcizza, subisce e sperimenta da sempre. Nel tramonto della civiltà, allora, così come alla sua alba, sembra dirci questa prima emblematica sequenza iniziale, favola e favella possono offrire una via di fuga dalla tagliola della realtà e delle sue possibili ma indicibili brutture. A maggior ragione se a raccontare, a farsi rapsodo, è un padre il cui unico scopo nella vita è salvaguardare l’amatissima figlia.

Un modo per connettersi: questo sono le storie nelle parole stesse usate dal papà (il personaggio di cui non si conosce il vero nome interpretato da Casey Affleck) per spiegare alla piccola Rag (l’incredibile Anna Pniowsky), diminutivo di Raggedy Ann – il cui nome è lo stesso d’una bambola di pezza protagonista di vecchi libri illustrati per ragazzi – il senso più profondo del raccontare.  E quando lei gli chiede cosa succederà se lui muore, lui si inventa che anche se fosse legato, pugnalato, tramortito, messo in un blocco di ghiaccio e scaricato sul fondo dell’oceano, ne verrebbe fuori per andare a cercarla. «Anche se a te sembra impossibile, mi dispiace ma è vero», è la rassicurazione paterna. La forza dei sentimenti, dell’amore, viene fuori in tutta la sua potenza immaginifica, epica, romantica, proprio nell’eroica e stoica negazione della realtà, riplasmata taumaturgicamente dalla parola: è la resistenza di questi affetti, al cui centro c’è il rapporto padre-figlia, il tema principale del film.

A scorrere sotterraneamente in Light of My Life, sotto le parole sussurrate e il pragmatismo del padre, è la disperata paura di morire prima che un figlio sia diventato adulto e abbia imparato a fronteggiare le crudeltà del mondo, il terrore di abbandonare la propria creatura al suo destino in una landa ancora più avvelenata, devastata, violenta e tossica di quella ricevuta in eredità. E questo valeva tanto per il Cormac McCarthy di La strada (riadattato per il cinema nel 2009 da John Hillcoat) quanto per il Casey Affleck di Light of My Life.

Da questo punto di vista il film può dirsi riuscito: la scelta metalinguistica di assegnare alla narrazione un valore salvifico, liberatorio, per quanto già ampiamente abusata nella storia della letteratura e del cinema, contribuisce a restituire al mondo distopico una poetica e commovente – nella sua oggettiva incapacità di incidere materialmente sul miglioramento delle condizioni di vita – possibilità di obiezione. Un’obiezione, una resistenza, di natura spirituale, dunque sottile, universale ed eterna. Non si può non provare qualche brivido nel vedere papà Affleck impegnarsi in questo disperato tentativo di sottrarre la figlia alla mostruosità dell’abbrutimento umano (la violenza omicida, la totale scomparsa della fiducia e della solidarietà sociale, la legge del più forte) per mezzo della fantasia o di mani pronte a chiuderle gli occhi nei momenti di massima atrocità. E le ottime performance attoriali, così come la buona scrittura dei dialoghi (anch’essi opera di Affleck) danno ulteriore forza a questo aspetto del film. Ma ciò non basta a farne un’opera del tutto riuscita, convincente.

L’impianto visivo e quello narrativo non brillano certo per originalità e scontano una certa prevedibilità che non può non influire sul piacere della visione e sul giudizio a posteriori. L’impressione è che non ci sia poi così tanto da aggiungere, né per quanto concerne i meccanismi, i motivi ricorrenti e gli stilemi del genere del disaster movie, né per quanto riguarda il pur ben orchestrato rapporto genitore-figlio, a ciò che è già stato scritto e girato finora, The Road in primis.

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Casey Affleck Casey Affleck Anna Pniowsky Tom Bower Elisabeth Moss 119 minuti
USA 2019
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