Ore 15:17 – Attacco al treno

di Clint Eastwood

Sul perché, oggi più che mai, abbiamo bisogno di Clint Eastwood.

A discapito di quanti smaniano per etichettarlo a ogni costo, Clint Eastwood, 87 anni, è una furia anarchica e imprevedibile. Rimane sempre il vecchio cowboy con la macchina da presa, l’uomo d’altri tempi che non si adagia su nessuna forma precostituita, capace di reinventare se stesso e il suo cinema, senza fermarsi mai: Clint si muove nel mondo, realizza il suo personale viaggio in Europa, allestisce una mitologia ai tempi dei selfie e di Instagram. Non siede mai in cattedra, evita di adagiarsi sul classicismo imbalsamato dei maestri, ma insegue i nostri tempi con lucidità, coraggio e sfrontatezza. Combatte la sua battaglia solitaria consegnando quello che è il più sperimentale dei suoi film: Ore 15:17 – Attacco al treno.

La retorica dell’uomo comune che assurge a eroe (American Sniper), del sogno cristiano-americano dove il perdente finisce sul trono, del fattore umano che segna per un momento, decisivo e fatale, intere vite (Sully) approda qui alla sua essenza. È un’opera spoglia, fragile, quasi ascetica, Ore 15:17 perché a un certo punto del film capiamo come Clint, finalmente, abdichi: rinuncia all’ingombrante apparato cinematografico, lascia perdere gli orpelli formali e qualsiasi inutile, compiaciuto ornamento. Si fa cineasta radicale e rosselliniano che rifiuta le star, iperrealizza il suo cinema a partire da un viaggio on the road: camera alla mano come un regista esordiente che filma il suo viaggio con l’irresistibile naïveté di un cine-esploratore.

Giovane, sfrontato Clint!

I tre eroi che sventarono l’attentato sul treno Amsterdam-Parigi nel 2015 sono gli stessi interpreti del film: rivisitano i medesimi luoghi del loro tour, rivivono le loro vite, si specchiano nelle loro azioni. A partire da questo, Clint porta a compimento quella che è un’operazione complicatissima: arrivare all’essenza di una storia media dove il cinema è inseparabile dal reale. Gli ultimi della classe sono gli eroi con cui rileggere la mitologia del sogno americano. Come Brian De Palma nell’imprescindibile Redacted, come Paul Schrader che avanza sull’High Line di New York con quattro macchine fotografiche puntate addosso, Clint realizza il suo film sulle immagini sintetiche, sulla memoria digitale (la grande casa, l’Europa, di cui rimangono solo cartoline e ombre stereotipate), sulla smania di filmare tutto e su quella voce interiore che ricorda che c’è qualcosa di piùqualcos’altro. A ben vedere, tutto il film ruota intorno a questo qualcos’altro che agisce come il grande magnete da cui ogni immagine sembra essere attratta. L’azione sul treno è l’attimo decisivo che apre a infinite digressioni, il centro che ha bisogno di visuali periferiche per potersi affermare come tale. È la calamita che necessita di altre esperienze, di altre vite, di altre storie.

Proprio nella leggerezza della visione, Clint intuisce che l’unico cine-romanzo possibile oggi è quello che ibrida generi e umori, che sa ricostruire un intero immaginario a partire da brandelli, frammenti del reale: si parte dalle scie del cinema classico, dal romanzo di formazione che ritrova (come in American Sniper) nell’infanzia la genesi del proprio immaginario. Qui i bambini giocano alla guerra per rifugiarsi da un reale che li vede come eterni sconfitti: la guerra per loro è atto desiderante, possibilità di unione, evento straordinario che demolisce il mondo ordinario, ipotesi di un cameratismo che salva dalla solitudine.

Poi, all’improvviso, veniamo catapultati dentro l’affiche di Full Metal Jacket appesa in cameretta: eppure questo mondo militaresco pare una sorta di universo dello specchio, squallido e piano, di ciò che il cinema americano ci ha sempre propinato. Nessun eroismo, nessuna grande virtù, ma la sublime banalità del quotidiano, la noia provata durante una conversazione su skype, gli smacchi della burocrazia, lo zaino perduto nel momento più inopportuno. Sembra che quel mondo abbia perso tutto l’eros e lo smalto, tutta la fascinazione e il sense of wonder di una volta: il protagonista è costantemente fuori posto, ancora una volta escluso dal resto, alla stregua di un vero e proprio outsider che soffre per la propria non-aderenza. Non conserva l’inquieto, disperato sapore della follia di Palla di lardo: qualsiasi gesto eclatante qui è un ricordo lontano, appassito da tempi medi e privi di desiderio. La giustizia, le istituzioni, la stessa industria bellica sono viste continuamente – come sempre in Clint - dal punto di vista dell’individuo, lasciando che il fattore umano superi qualsiasi ideologia, qualsiasi giudizio.

Ecco perché il film slitta senza preavviso, implodendo nel tour europeo di tre ragazzoni americani che fotografano tutto e zompettano da una città all’altra: Clint entra nelle discoteche, riprende il Colosseo e le notti da Leoni, lascia che la narrazione si trasformi in un filmino delle vacanze, in un teen-movie molto americano che ha perso le coordinate e rigira ipnoticamente su se stesso: nessuna evoluzione, nessun conflitto, eppure…eppure qualcosa permane. La sensazione di essere destinati a qualcosa di grande, qualcosa di decisivo. Ed è proprio in questa digressione che Clint trova il cuore del film: costruisce una, due, infinite narrazioni rigorosamente tra parentesi, ricordando che l’euforia del momento, il sentimento stesso del viaggio, ci costituiscono, ci preparano, ci aprono a un intero campo di possibilità: Ore 15:17 è allora la libera, inattesa flânerie europea di Clint, il desiderio di vagare e, finalmente, ritrovarsi.

La parte finale del film, l’attentato sventato, la coraggiosa azione dei tre protagonisti non può che rappresentare un ritorno al cinema. La dimensione adrenalinica del thriller, l’immaginario del treno che riaccende antichi impeti fordiani, è il risveglio di una coscienza assopita. Il grande ritorno in un mondo che ha bisogno più che mai del cinema: il cowboy si è ridestato, il mito, attraversata un’Europa virtuale (quanti resti!), è rinato dalle sue stesse ceneri.

Si arriva così all’immancabile finale documentaristico, lo stesso di Sully o American Sniper: eppure qui il documentario entra in cortocircuito perché il reale ha assorbito l’intera visione. Ore 15:17 – Attacco al treno può dunque rispecchiarsi nel b-side del racconto eroico: il suo fuoricampo, l’attesa infinita di qualcosa che vive dentro i protagonisti. E mentre imperversano in rete le accuse di sempre, Clint arriva alla sfida più grande: dimenticare il cinema per rifondarlo tra le pieghe stesse del reale.

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 13/02/2018

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