I passi leggeri

di Vittorio Rifranti

Crisi sacra e redenzione profana nel nuovo lungometraggio di Vittorio Rifranti

I passi leggeri - recensione film Rifranti

Dopo dieci anni dal suo esordio con Tagliare le parti in grigio (Pardo per la Miglior Opera Prima Festival di Locarno 2007) il milanese Vittorio Rifranti torna sul grande schermo, firmando regia e sceneggiatura de I passi leggeri, prodotto dalla M Movie.

L'opera, interamente costruita sulla figura del sacerdote don Luca (Fabrizio Rizzolo) e sulla sua missione (non proprio im-peccabile) di amare il prossimo, come umile e silenzioso strumento di sollievo, recupera i temi dello smarrimento dell'austerità religiosa e l'insorgere di un umanesimo profano, pragmatico e quasi più aderente ai valori cristiani, che già furono cardini essenziali dell'ultimo Ermanno Olmi (Il villaggio di cartone e I cento chiodi) di cui Rifranti è stato allievo.

Il personaggio di don Luca è definito per sottrazione e contraddizione, senza pre-giudizio, senza costrizione, mosso solo da spirito di sacrificio e solidarietà, lascia trapelare molto poco il proprio tormento interiore, ovvero quello di sentire la parola di Dio ma di non riuscire a tradurla nei fatti come vorrebbe. Già rassegnato all'alienazione dei confessionali e dei rituali liturgici celebrati in chiesa, con abiti comuni cerca di dispensare misericordia per le strade e aiuti d'ogni genere ad anime perse e corpi sofferenti. Le sue intenzioni di remissione sbattono però letteralmente il muso contro l'imprevedibile arbitrio individuale (forse il primo e più importante dono divino) dinanzi al quale non può che abbassare lo sguardo: la ragazzina cui vuole donare la gioia degli insegnamenti del vangelo, seria ribatte con quanto le viene invece impartito in famiglia; la prostituta che vuol togliere dalla vita di strada, alla fine confessa di trovarci anche del bene; l'emissaria dei suoi usurai, finisce per commettere l'irreparabile, proprio quando accetta di aprirgli il suo cuore. L'interpretazione attoriale, sempre composta e pacata, non cede ad una lacrima, ma sempre abbozza un sorriso, pur con gli occhi velati di tristezza, anche sotto minacce e violenza, provocazioni e tentazioni.

Solo l'insonnia che lo tira fuori dal letto e la fatica, che volutamente si impone, di risalire a piedi il pendio innevato fino all'antica chiesa-rifugio, ormai disertata dai fedeli, manifestano l'insostenibile in-sofferenza all'incomunicabilità che lo attanaglia. L'uomo non vuole ammettere a se stesso che la sacralità di icone e gesti non ha più ragion d'essere, così come egli ancora la custodisce nel suo immaginario e soprattutto non vuole arrendersi al destino dei sacerdoti più anziani, ritiratisi in esilio.

Dunque si ostina, si trascina e affonda, tanto negli inferi della notte, tra barboni, tossicodipendenti, prostitute, quanto nel limbo candido della neve d'alta quota, parimenti senza rumore, senza nulla smuovere, con i passi leggeri dell'ombra di se stesso. Questo manto bianco e soffice, eppure impervio da scalare, è la metafora visiva che il regista mette in scena per raccontare la sorda implosione della crisi sacerdotale, in una inquadratura quasi sempre immobile, nel cui campo nega l'orizzonte. Anche le riprese in interni non hanno mai il respiro degli ambienti nella loro interezza, ma solo prospettive di angoli e arredi scarni e cupi, espressione della povertà emozionale che vi abita, senza nessuno slancio o spazio di fuga, ma solo condanna, quella di dileguarsi nella purezza (dell'animo e del paesaggio) ideale, tramutandola in afflizione, anziché redenzione.

 

Autore: Carmen Albergo
Pubblicato il 13/01/2020
Italia 2018
Durata: 100 min.

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