The Deuce - La via del porno

di Diego Del Pozzo
The Deuce - simon pelecanos hbo recensione serie tv

La spettrale versione di Blondie della traditional song di fine Ottocento The Sidewalks of New York, che fa da straziante commento musicale alla passeggiata in flash-forward, lungo la Deuce del maggio 2019, di un Vincent Martino invecchiato e appesantito dallo scorrere del tempo, funge da epilogo perfetto per quella magnifica tragedia in tre atti che è The Deuce – La via del porno (The Deuce, 2017-2019, HBO), con la quale David Simon e George Pelecanos tornano a raccontare da par loro l’inarrestabile dominio del Capitale sui corpi e sui luoghi della contemporaneità.

Prima dell’epilogo ambientato nel 2019, sorta di Spoon River del terzo millennio col personaggio interpretato da James Franco che ritrova uno dopo l’altro tutti coloro che il tempo gli ha portato via, le tre stagioni della serie coprono un arco temporale che inizia nel 1971, prosegue nel 1978 e culmina nel 1985 della splendida annata conclusiva. I due scrittori e showrunners utilizzano la lente interpretativa del sesso e della pornografia per costruire, attraverso questo quindicennio decisivo, un agghiacciante apologo sulle trasformazioni economico-urbanistiche e socio-culturali di una tra le aree urbane più fortemente simboliche dell’intera civiltà occidentale: la Deuce appunto, cioè quel tratto della 42esima strada nei pressi di Times Square, nel cuore di Manhattan, un autentico boulevard of broken dreams oggi affollatissimo luogo-chiave del neo-turismo di massa globalizzato dopo che, fino a metà anni Ottanta del Novecento, aveva invece definito la propria malfamata ma vitalissima identità intorno a una brulicante umanità fatta di prostitute e protettori, baristi e artisti, poliziotti più o meno corrotti e mafiosi non sempre di primo livello, punk e filosofi, sottoproletari alla ricerca di un sogno americano sfuggente per definizione.

La stagione inaugurale della serie porta lo spettatore direttamente in strada, sui marciapiedi della Deuce d’inizio anni Settanta dominata dai papponi afroamericani e piena di ragazze che, per sopravvivere o tentare una svolta, provano a lasciare i marciapiedi per avvicinarsi alla nascente e ancora artigianale industria del porno. Nel 1978 della seconda annata, invece, il cinema per adulti vive il suo boom, si trasforma in fenomeno economico e di costume e anche tra le ragazze della Deuce c’è chi diventa una star, come la fragile e tormentata Lori Madison interpretata dalla bravissima Emily Meade, oppure la ben più matura e sicura di sé Candy-Eileen (Maggie Gyllenhaal, forse al ruolo della vita), che da attrice scopre una vocazione per la regia sempre più totalizzante.

La stagione finale, quindi, si apre a Capodanno del 1985, con Vincent e la sua compagna, la volitiva Abby Parker di Margarita Levieva (terzo vertice del triangolo di protagoniste femminili Candy-Abby-Lori), ormai diventati punti di riferimento sempre più centrali per l’intera comunità della Deuce, sia nel loro storico bar, l’Hi-Hat, sia negli altri locali gestiti per conto della mafia, con la quale fa affari anche il gemello di Vincent, lo scapestrato e immaturo Frankie Martino, anch’egli interpretato da un virtuosistico James Franco, cimentatosi con buoni esiti anche alla regia in quattro episodi. Intorno a loro ruota una micro-comunità viva e credibile, che si muove coerentemente con quella che è la visione corale della serialità di David Simon, capace peraltro, anche in quest’occasione come già nelle opere passate (dall’epocale The Wire fino alla springsteeniana Show Me a Hero), d’immergersi con efficacia nei gangli delle istituzioni statunitensi per raccontarne dal di dentro il funzionamento e svelarne cinismo e ipocrisia, incarnati in The Deuce dal personaggio di Gene Goldman (l’ottimo Luke Kirby), il funzionario comunale che per conto del sindaco Ed Koch si occupa della riqualificazione della 42nd Street.

È la gentrificazione, bellezza! E tu non ci puoi far niente! Sì, perché The Deuce – soprattutto nella sua stagione conclusiva – dice la parola forse definitiva sul mondo (in questo caso, il cuore e l’anima di New York) trasformato in Mega-Disneyland globale e globalizzata, costi quel che costi, anche calpestando corpi umani sempre più ridotti a merce e marchiati a fuoco con le lettere sgargianti e terribili delle insegne pubblicitarie, capaci di annullare la poesia oscura della notte in un eterno giorno illuminato al neon; e, addirittura, giocando talmente sporco da utilizzare strumentalmente l’alibi della presunta emergenza sanitaria legata all’insorgere dell’Aids per riconvertire a metà anni Ottanta la Deuce e Times Square all’edilizia commerciale di lusso, con l’obiettivo di trasformarle in una sorta di parco divertimenti per turisti compulsivi.

La consueta raffinatezza della scrittura audiovisiva di Simon e Pelecanos (e di Richard Price, Megan Abbott, Lisa Lutz e dei tanti altri narratori di rango coinvolti nello story department; ma anche di registi dotati ed empatici come Alex Hall, Roxann Dawson, Michelle MacLaren, Tanya Hamilton, Susanna White) sa rendere indimenticabili i tanti personaggi che attraversano le tre stagioni della serie, soprattutto – va evidenziato – quelli femminili, ai quali spesso è affidato il punto di vista di un racconto che, come in poche altre occasioni nella serialità contemporanea, riesce a bilanciare tra loro l’approfondimento psicologico dei caratteri, l’intreccio tra micro-storie intime e quotidiane, l’evoluzione del macro-contesto storico-sociale e la contaminazione tra generi narrativi “forti” come il crime-noir, il melò, il dramma d’impegno civile e la ricostruzione d’epoca.
Al tempo stesso, come sempre nelle serie di Simon, The Deuce può essere letta come uno straordinario viaggio nella popular music a stelle e strisce, compiutamente inserita nei meccanismi della narrazione e utilizzata per accompagnare i personaggi e sottolineare i mutamenti del mondo nel quale essi agiscono. Così, fin dai titoli di testa, l’itinerario d’autore procede da Curtis Mayfield (prima stagione) a Elvis Costello (la seconda) fino all’inevitabile Blondie di Dreaming, opening song della terza stagione, amaramente collegata al requiem finale di The Sidewalks of New York non a caso reinterpretata per l’occasione proprio da Debbie Harry e, sui titoli di coda, alla sontuosa Assume the Position di Lafayette Gilchrist, costante sonora delle tre stagioni capace di rimandare direttamente a The Wire e di caricare, ancora una volta, l’America di Simon e Pelecanos di un mood inquietante e minaccioso.

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David Simon George Pelecanos Maggie Gyllenhaal James Franco Gbenga Akinnagbe Margarita Levieva Emily Meade Lawrence Gilliard Jr. 3 stagioni e 25 episodi
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I Trapped The Devil

di Mattia Caruso
I Trapped The Devil - recensione film lobo

Il Diavolo, certamente. O perlomeno questo racconta al fratello Matt (A.J. Bowen) l'instabile e problematico Steve (Scott Poythress) a proposito dell'identità del suo misterioso prigioniero, chiuso dietro una miriade di croci e lucchetti nello scantinato di casa.
Parte da un'intuizione semplicissima I Trapped The Devil, un'idea essenziale quanto risaputa cui l'esordiente Josh Lobo riesce però a dare una forma inedita, costruendovi tutt'attorno un piccolo horror dall'atmosfera e dai ritmi ben calibrati, che gioca con l'ambiguità e la paranoia e fa dell'esiguità di mezzi il suo principale punto di forza.

Perché se è vero che l'idea del Male imprigionato, magari nello scantinato di una vecchia casa di famiglia, non è certo cosa nuova nel nostro immaginario seriale e cinematografico, da Ai confini della realtà (l'episodio Ululati nella notte) fino a Castle Rock, passando per La Casa, è interessante come tale spunto venga declinato e plasmato da Lobo in un prodotto perfettamente in sintonia con il gusto di certo cinema horror indipendente contemporaneo. È così che un'intuizione a misura di serie antologica viene dilatata dal regista esponenzialmente, mettendo in scena, assieme a immancabili trovate espressive tipicamente indie, un senso di attesa e di inquietudine opprimenti e mantenendo fino all'ultimo un'ambiguità di fondo fondamentale per la riuscita dell'operazione.

In linea con la tendenza di prodotti simili, impegnati a suggerire l'orrore piuttosto che a mostrarlo, I Trapped The Devil si affida così quasi interamente alle sue atmosfere cupe (intervallate dalle immancabili luci di qualche addobbo natalizio), a interpreti in parte (su cui spicca l'ossessivo Steve di Poythress) e a quel senso di angoscia costruito inquadratura dopo inquadratura, capace di delineare, con pochi tratti e suggestioni, un male senza contorni ne confini.
E se la risoluzione finale arriva repentina e forse in modo troppo grossolano, togliendo in parte forza a quell'attesa costruita a regola d'arte nei minuti precedenti, resta innegabile la cura formale e il tocco di un regista capace di imbastire una vicenda di ossessione, senso di colpa e morte partendo da poco più di un pretesto, da poco più di un'immagine iconica e terribile impressa nel nostro immaginario, e da quella sottile ambiguità tra paranoia e orrore che da sempre sottende.

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Josh Lobo A. J. Bowen Scott Poythress Susan Burke Jocelin Donahue 82 minuti
USA 2019
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Le Mans '66 - La grande sfida

di Matteo Marescalco
Le Mans '66 - Recensione Film Mangold

A pensarci bene, la prima resa dei conti in Le Mans '66 – La grande sfida non poteva che avvenire durante una notte bagnata da una pioggia torrenziale e illuminata dalla sfrigolante elettricità di lampi e fulmini. Dentro la sua Ford GT40, Ken Miles si appresta a raggiungere la sua rivincita e a sognare un'altra vita, alla ricerca di quel momento in cui la macchina diventa senza peso e tutto svanisce.

Lo spettro di Michael Mann si aggira al di là delle soglie del visibile e lo sguardo del regista di Heat – La sfida e di Blackhat è condensato nelle opposte metodologie che caratterizzano i modi di agire di Enzo Ferrari e di Henry Ford II. Il primo è un artigiano che crede negli uomini e, di conseguenza, nell'umanizzazione delle macchine; per il secondo, invece, dev'essere l'umano a raggiungere il grado di perfezione e di infallibilità delle costruzioni macchiniche. Tra loro, si collocano Carroll Shelby e Ken Miles che, proprio per Ford, proveranno a dar vita ad un'auto (e ad uno sguardo) che riesca ad abbattere il controllo e le regole disumanizzanti dell'ingegneria meccanica, ponendo al centro del loro progetto la libertà della carne e del corpo umano.

Il cuore di quest'ultimo film di James Mangold consiste in uno spiccato interesse per il confronto umano, alla cui base c'è un costante rispecchiamento tra opposti. Da un lato, come già detto, Enzo Ferrari e, dall'altro, Henry Ford II. D'altronde, il film mette anche a confronto due icone del cinema quali Christian Bale e Matt Damon, il mago del trasformismo per eccellenza, in grado di dar vita a performance fisiche puntualmente diverse tra loro, e il ragazzo della porta accanto, sempre uguale a sé. Al di là del semplice gioco di corteggiamenti tra opposti, si ha la sensazione che il tessuto classico del film si strappi e riveli sé stesso come base di partenza per una struttura a cerchi concentrici in grado di riverberare influenze sempre più ampie. Nello scontro tra le due coppie di uomini, che incarnano diverse concezioni della vita, si riassume tutto l'universo e la forza mitopoietica di un cinema in grado di riflettere sulla propria leggendaria iconografia.

In Le Mans '66, infatti, la tradizione del decoupage classico e di una struttura narrativa in tre atti convive con la costruzione moderna di personaggi irrisolti, le cui traiettorie elettriche vitali sono continuamente minacciate da pericolosi virus. Dopo aver vinto la 24 Ore di Le Mans, Shelby è all'apice del successo ma il suo trionfo è immediatamente seguito da una notizia devastante: i medici comunicano all'intrepido texano che, a causa di una grave patologia cardiaca, non potrà mai più prendere parte a corse automobilistiche. Così, l'uomo dalle risorse illimitate si reinventa un lavoro come progettista e venditore di automobili in un magazzino di Venice Beach, insieme ad un team di ingegneri e meccanici di cui fa parte l'irascibile collaudatore Ken Miles, asso del volante ma brusco nei modi, arrogante e poco incline al compromesso. Lo scontro tra i due è tutto giocato sul confronto tra la fisicità dell'azione - di cui è depositario il corpo di Miles - e l'invasiva presenza delle parole, che, invece, sono l'asso nella manica di Shelby. Un percorso parallelo a quello compiuto da Ford e Ferrari e che si sviluppa lungo le stesse direttive: il primo assiste alle gare soltanto di rado, non parla con i piloti, si serve sempre della mediazione di una gerarchia esecutiva e rappresenta l'idea di un cinema che nega le peculiarità del singolo; il corpo del secondo, invece, non disdegna la fabbrica né tanto meno i circuiti automobilistici e incarna un atto di resistenza classica.

Con lo sviluppo del racconto, il film inizia a liberarsi dagli stretti legami delle parole e a lasciar parlare le semplici immagini. È il montaggio a farsi carico del compito di inseguire gli scattanti flussi lasciati dalle vetture, come fossero lampi elettrici troppo veloci per essere colti dall'occhio umano. Proprio in questo contesto di velocità impossibile da seguire, lo sguardo di Miles sopravvive più a lungo del solito su un ultimo tramonto, come a voler rivelare la consapevolezza della caducità dell'esistenza. Il prezzo da pagare per il raggiungimento della libertà è altissimo e la fuga è impossibile da agguantare. Ciò che resta, allora, è soltanto uno sguardo di lancinante sofferenza che relega i corpi romantici negli angoli più estremi e remoti, dissolvendoli nel fuori campo dell'altrove.

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James Mangold Christian Bale Matt Damon Jon Bernthal Caitriona Balfe Tracy Letts Remo Girone 152 minuti
USA 2019
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Innocenti Bugie

di Saverio Felici
Innocenti Bugie - recensione film Mangold

Nella seconda metà degli anni 2000, James Mangold è ormai avviato a ricollocare definitivamente il proprio ruolo professionale all'interno dell'industria. L'ex giovane autore dei circuiti Sundance, regista di Cop Land e Dolly's Restaurant, è oggi un implacabile regista su commissione, orgogliosamente al servizio di major e star, amministratore diligente di budget che, a inizio carriera, gli sarebbero probabilmente bastati per girare quindici film. L'ultimo Quel Treno Per Yuma, progetto personale cullato per almeno un decennio, non è andato bene; il western del 2007 rappresenta a oggi forse l'ultimo lavoro pienamente autoriale per il regista, chiamato da allora a “scontare il debito” mettendo il proprio talento con gli attori a disposizione dei grandi studios. Il successivo Innocenti bugie è dunque il classico spec-script da vecchia Hollywood; quel tipo di sceneggiature “acquistate” a scatola chiusa dalle major presso autori freelance, e messe da parte a maturare in attesa che si palesi il cast artistico opportuno per entrare in produzione. Il copione originale è da tempo a prendere polvere sulle scrivanie Sony, e dopo anni di development hell e decine di riscritture, firme, adattamenti e correzioni, trova finalmente in Mangold il regista designato. Con l'arruolamento di Tom Cruise (la presenza del quale è sufficiente a trasformare una produzione a budget medio in potenziale blockbuster estivo), Knight and Day assume la sua forma definitiva: da rom-com per signore, a kolossal d'azione per un pubblico trasversale e distribuzione imponente.

Come Mangold, Cruise è un altro grande nome bloccato in una sorta di guado di metà carriera. Nei quattro anni precedenti le sue uniche uscite si sono rivelate il pesantissimo flop di Leoni per agnelli, e l'altrettanto sottostimato Operazione Valchiria di Singer. Crisi d'identità a parte, Cruise è ancora un nome in grado di spostare milioni; l'intento del progetto Innocenti bugie è quello di riportarlo alle origini, quando era il fidanzatino action d'America, prima di Scientology e dei divorzi. Il puzzle si completa dunque con Cameron Diaz, e il film parte con il folle budget di 125 milioni di dollari e un deciso cambio di rotta in direzione Mission Impossible in rosa. I precedenti illustri si sprecano: da True Lies a Guardia del corpo, da All'inseguimento della pietra verde fino a mezza filmografia di Harrison Ford. Praticamente, è un tipo di film che si gira da sé.

Giocare con l'immagine pubblica del proprio attore in relazione al protagonista interpretato è sempre stato il trucco scoperto nel cinema di Mangold. Con Innocenti bugie, il regista si trova per le mani una potenziale bomba inesplosa: la più grande star del pianeta, al minimo storico di gradimento e stabilità mentale. Il film del 2010 affronta a viso aperto questo non detto: il suo eroe è dunque una sorta di versione inquietante di Ethan Hunt - schizzato, mezzo psicolabile, ben poco rassicurante. Pressoché la maniera in cui era visto Cruise stesso, nel periodo della disgraziata ospitata tossica da Oprah Winfrey, dei deliri misticheggianti, delle feroci parodie di South Park e Scary Movie vari. Seppur raccontata attraverso gli occhi di June/Diaz, la storia della ragazza della porta accanto precipitata al centro di un intrigo internazionale da un agente rogue mezzo pazzo viene declinata allora secondo le maschilissime dinamiche del maschilissimo cinema di Mangold. Knight and Day è tutto, al cento per cento un film di Tom Cruise. Brilla finché c'è lui a cannibalizzarlo (la prima parte), e cala come ne diminuiscono le scene (il debole terzo atto).

Rispetto agli importanti modelli produttivi citati, Innocenti bugie soffre giusto uno script visibilmente riscritto all'infinito, prevedibile in ogni svolta e battuta, sospeso tra mille spunti senza nessuna direzione particolare (a fine film non si è capito molto dei personaggi, delle loro interazioni né del loro percorso personale). E pur non brillando neanche nell'azione su larga scala (mai stato il pane di Mangold), nel complesso vince comunque. La meccanica “pazzo scocciato + ragazza acqua e sapone” è indovinata, e la chimica tra i due protagonisti fa il resto. Tom è una bomba, Diaz regge il suo ruolo tipico con l'aria di divertirsi il giusto, Mangold scompare tra le righe: tiene il volante della screwball comedy con esplosioni, e conduce la nave in porto a occhi chiusi.
Il film con il budget più alto e probabilmente meno personale nella carriera del regista segnerà dunque un lieto fine per tutti i partecipanti in gioco. Lanciato in pieno periodo estivo, Knight and Day è un trionfo: Cruise sarà riabilitato, e riprenderà in mano con successo l'amatissima saga di Mission Impossibie; Diaz infilerà una piccola sequenza di ruoli e successi clamorosi, fino all'altrettanto clamoroso ritiro del 2014. James Mangold erediterà il franchise di Wolverine, più nelle sue corde, destinato a rappresentarne lo spartiacque decisivo nell'ultima fase di carriera.

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James Mangold Tom Cruise Cameron Diaz Viola Davis Paul Dano Peter Sarsgaard 110 minuti
USA 2010
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I giorni e le opere

di Arianna Pagliara
I giorni e le opere, Francesco Dongiovanni

Il padre stesso degli dei

volle che non fosse facile la via della coltivazione, e per primo mosse

con arte i campi, aguzzando la mente degli uomini con le preoccupazioni

e non permise che il suo regno giacesse in un pesante torpore.

 

Allora si affermarono il ferro rigido e la lama della stridula sega

E sorsero le varie Arti. La dura fatica

e il bisogno assillante delle difficoltà vinsero ogni cosa.

(Virgilio – Georgiche)

 

Tra le parole di Virgilio in apertura, che suonano quasi come un monito, e il riferimento al poema di Esiodo suggerito dal titolo, in questo spazio chiaramente definito non tanto in senso argomentativo quanto per una determinata prospettiva di sguardo, sta la vita di Peppino Maiullari, stanno i suoi (lunghi) giorni e le sue (tante) opere: nella campagna tra Altamura e Matera, paesaggio ampio e brullo di cui l’ultimo film di Francesco Dongiovanni restituisce la quiete, i colori e i suoni assieme allo spirito profondo.

Una stalla scalcinata, qualche ulivo, un muretto di pietre bianche costruito a secco, e quel silenzio dolce e confortante della campagna fatto di tanti piccoli rumori, vicini e lontani: un cane che abbia fuori campo (a chi, a cosa?), il muggito di una mucca, lo stridere di un cancello di ferro che si chiude. Peppino, che per tutto il film non dirà una parola e non guarderà mai in macchina, quasi a negare la presenza dell’occhio registico che capta ogni suo movimento, è sempre, perennemente, all’opera: il suo tempo è quello dei suoi animali (mucche, pecore, asini, cavalli, maiali), appartiene, in un certo senso, a loro.

Campi lunghi, fissi come quadri, come se la macchina da presa sostasse in ascolto di un qualche respiro segreto della terra. Un cane riposa all’ombra di un trattore, un cavallo mastica il suo fieno senza fretta, Peppino trascina la carriola sul terreno pietroso e le nuvole si addensano nel cielo.

I giorni e le opere è probabilmente il lavoro più minimalista e asciutto del regista pugliese, registrazione nuda e cruda di uno stato di cose che esistono, potremmo dire, quasi al confine tra una dimensione e un'altra, un prima e un dopo; la vita solitaria (ma la solitudine non è isolamento) di Peppino è una resistenza del passato nel presente, spartana, dignitosa, composta, in un certo senso incorrotta, non rispetto a una ipotetica modernità da rigettare, ma piuttosto rispetto a una certa etica del lavoro che si traduce, infine, in un approccio peculiare del sentire, del pensare, del vivere. E il ritmo della sua quotidianità, apparentemente placido ma di fatto rigoroso, coincide con quello del racconto, con lo sguardo di Dongiovanni sulla materia filmica, qui assolutamente coerente con i suoi precedenti documentari: l’esordio Densamente spopolata è la felicità (2011), forse il più affine, come orizzonte, a I giorni e le opere; ma anche Elegie dall’inizio del mondo – uomini e alberi, dal taglio quasi etnografico, Giano (2014) e Anapeson (2015) riflessioni evocative e nostalgiche che fanno dialogare misteriosamente luoghi e memorie, tempo e spazio.

Guardare un film come questo, che in nome di una purezza estetica e linguistica rifiuta ogni possibile compromesso, significa rieducare lo sguardo attraverso il tempo, laddove i movimenti di macchina impongono soste che implicano alla visione di scendere in profondità, per raccogliere i dettagli, per ripensare non solo il senso delle immagini ma quello dell’atto stesso del guardare. Se tutto questo fosse un mero esercizio stilistico – e non lo è, perché la bellezza di quello che vediamo è sempre così realisticamente sporca, dimessa, imperfetta – il discorso esaurirebbe il suo senso sul piano, pure importantissimo, della ricerca formale; ma la presenza viva del protagonista ricongiunge, mirabilmente, il piano astratto con quello concreto, per ribadire che il sentire è il vivere.

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Francesco Dongiovanni 72 minuti
Italia, 2019
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1992, 1993, 1994 – Incontro con gli autori

di Rosario Gallone
Sky 1994 serie tv

Saremmo disonesti se non riconoscessimo che la serialità italiana ha cominciato ad adeguarsi a standard internazionali nel momento in cui Sky ha deciso di investire nel genere. Da Romanzo criminale a Gomorra passando per Il miracolo, la rete satellitare ha indicato una via per percorrere la quale anche le reti generaliste hanno dovuto invertire la rotta (si pensi a Non uccidere, che con la trilogia formata da 1992, 1993 e 1994 condivide il regista Giuseppe Gagliardi, o a Rocco Schiavone e La mafia uccide solo d’estate). In questo panorama, 1992 nel 2015 si affacciò sugli schermi piuttosto in sordina (ponendosi sulla scia del clamore suscitato dal Gomorra di Sollima), rimbalzando nei social più per lo sbeffeggiante hashtag #daunideadistefanoaccorsi che per le sue qualità narrative. Che già c’erano, confermate nella seconda stagione ed esplose in una terza di grande eco mediatica e critica. Gli autori di questo exploit sono Alessandro Fabbri, Ludovica Rampoldi e Stefano Sardo che lavorano in perfetta armonia da La doppia ora di Giuseppe Capotondi (e oltre a 1992/1994 hanno scritto Il ragazzo invisibile e Il ragazzo invisibile – Seconda generazione di Gabriele Salvatores). Abbiamo intervistato Stefano Sardo (sarà indicato con le iniziali St. S., perché S.S. non fa un grande effetto) e Alessandro Fabbri (A.F.).

Dalla prima alla terza stagione, il destino di questa serie sembra aver seguito quello del credit “da un’idea di Stefano Accorsi”, da meme hashtag ironico che accompagnava 1992 alla considerazione “ah però questo Stefano Accorsi” di 1994. Avete avuto anche voi questa sensazione? E come siete stati coinvolti nel progetto? Vi ha contattati Stefano Accorsi dopo aver avuto l’idea?

St.S. – La sensazione è che la gente abbia avuto bisogno di tempo per capire il valore di questa operazione. 1992 era troppo ambiziosamente fuori dagli schemi per il panorama tv nazionale e ha diviso, prevedibilmente, ma poi il pubblico ha familiarizzato con la formula e in 1994 sono arrivati grandi elogi. Accorsi andò da Wildside nel 2011 dicendo che bisognava raccontare il ventennio 1990-2000 dalla parte di chi aveva vinto, “la peggio gioventù”. Era un’idea ancora piuttosto astratta, un’intenzione editoriale. Quando lui e Lorenzo Mieli, il produttore, ci chiesero di provare a svilupparla noi inventammo tutti i personaggi e soprattutto decidemmo di focalizzarci su un passo da serie invece che da mini-serie, come implicitamente suggeriva l’intenzione di Stefano. Decidemmo di dedicare ogni stagione a un anno solamente, invece che farne una sul ventennio. Insomma, senza nulla togliere alla spinta di Stefano, l’invenzione creativa è stata sulle nostre spalle. Lui è stato una sponda ideale nel processo ma dopo tutto il lavoro fatto devo ammettere che tutta quell’enfasi sul “da un’idea di” qualche volta ci ha fatto un po’ arricciare il naso.
A.F – Vero quello che dici: sebbene i risultati siano stati buoni fin da 1992 in termini di ascolti e di diffusione all’estero – la serie è stata venduta in circa 100 Paesi fin dalla prima stagione – anche noi abbiamo sentito che la percezione del pubblico e della critica (italiana, tengo a sottolineare) è cambiata anno dopo anno, arrivando a un più alto apprezzamento nella terza e ultima stagione. Credo che i motivi siano due: da una parte il pubblico ha “digerito” il concept, il nostro raccontare la storia d’Italia in un modo mai sperimentato prima; dall’altra, in 1994 abbiamo osato di più in termini di stile e struttura e questa scelta è stata premiata. È stato un bel finale per un viaggio iniziato nel 2011, quando ad Accorsi venne l’idea di raccontare gli ultimi vent’anni di storia del nostro Paese dal punto di vista dei vincenti, di chi aveva dominato l’Italia, ovvero il Centro-Destra. Si trattava di un’intenzione editoriale molto eccitante che Stefano ci propose insieme a Lorenzo Mieli, il produttore. A quel punto la palla passò a noi. E ci venne l’idea-chiave: non raccontare un intero ventennio, ma comprimere il tempo in un racconto anno per anno, nel triennio di rivoluzione che segnò il passaggio da Prima a Seconda Repubblica. Il sogno era riuscire a scrivere l’intera trilogia e se ci siamo riusciti è anche grazie alla fiducia che Wildside e Sky ci hanno dato.

La libertà creativa che traspare da 1994 rappresenta una novità sia rispetto al panorama della fiction italiana, sia alle precedenti due stagioni più vincolate alle vicende dei personaggi, con la Storia a fare da sfondo. In 1994, invece, la Storia si riprende il posto che le spetta e i personaggi diventano pedine. L’approccio alla materia è stato diverso dalla prima all’ultima stagione?

A.F. – L’approccio alla materia è stato lo stesso, inizialmente: solo che, in corso d’opera, abbiamo messo un altro vestito addosso allo stesso corpo, per così dire (e si tratta di un vestito parecchio diverso). C’era il desiderio comune, condiviso da noi, dalla produzione e dal network, di alzare l’asticella, rinnovando la forma del racconto per sorprendere il pubblico e continuare a divertirci senza adagiarci su schemi già rodati. Ci abbiamo provato e 1994 è il risultato. Ma in quest’ultima stagione non mi sembra che i personaggi diventino pedine, anzi sono ancora di più al centro del racconto rispetto a prima, la formula a “episodi verticali” ci ha permesso di andare più a fondo nell’esplorazione della loro psicologia e del loro destino. Forse gli eventi storici risaltano di più perché questa formula li valorizza maggiormente, così come i personaggi.
St.S. – Non sono d’accordo che la Storia sia stata rimessa davanti ai personaggi. Anzi la formula a mono-personaggio di 1994 ci ha permesso forse di raccontare più a fondo i nostri eroi di finzione, approfondendo le loro storie in episodi dedicati. Questa volta abbiamo scelto pochi momenti per raccontare un anno cruciale, ricchissimo di fatti importanti, e questo ha dato risalto ai singoli momenti scelti, è vero, ma sempre attraverso il punto di vista dei nostri personaggi. Forse ci ha avvantaggiato il fatto che senza Bibi e Pastore si è ridotto col tempo il parco personaggi. Sulla libertà è stata decisiva la spinta dell’editoriale di Sky e di Wildside, sono stati loro i primi a dirci di osare qualcosa di nuovo.

In generale l’Italia ha sempre fatto fatica a fare i conti con la propria Storia, nella finzione come nella realtà. Voi, con la chiusura/cesura di 1994, avete avuto il coraggio di rivelare che la Storia attuale è figlia di quella di 25 anni fa, giusto?

St.S. Nel Paese più vecchio del mondo c’è un senso di immobilità inesorabile, in cui passato e presente a volte si confondono. Ci ha sorpreso a volte, mentre scrivevamo, vedere come la Storia si ripresentasse identica, trasformata in farsa, magari. A volte l’intenzione di citare il presente in filigrana era voluta, a volte l’effetto si è creato da sé, involontariamente. Quello che possiamo dire è che ci siamo presi delle libertà, nel trattare la Storia romanzandola, molto inusuali per le consuetudini del nostro audiovisivo.
A.F. – Credo che i semi del presente siano sempre nel passato. E questo, a livello di politica, è più vero che mai in Italia. L’Italia non fa i conti col passato: forse perché ne ha troppo alle spalle, un boccone talmente denso e pesante che ha rinunciato a digerirlo. Si tratta di uno dei temi entrati naturalmente nella serie, perché nasce dalla realtà delle cose. La storia continua a riproporsi, le risonanze tra l’oggi e quello che è accaduto 25 anni fa sono indubitabili. In questo, come narratori, l’Italia ci ha aiutato (come cittadini è un altro discorso…): immaginando la storia, abbiamo sempre sentito di toccare materia ancora viva e attuale.

L’apporto di tre nomi importanti del giornalismo, Aldo Cazzullo, Marco Damilano e Filippo Facci, è stato sicuramente importante. Come funzionava il rapporto con loro? Li consultavate a sceneggiatura completata o prima?

A.F. – Con loro, a dire il vero, non ci sono stati numerosi incontri, ma il loro apporto è stato prezioso per inquadrare alcuni eventi e illuminare momenti storici a livello di politica e di cronaca giudiziaria, soprattutto quando stavamo ideando la storia cercando, come sempre, di far collimare linee personali dei personaggi con fatti storici: la fase del soggetto di serie.
St.S. – Facci l’abbiamo incontrato una volta per 1993 ed è stato utile, per 1994 devo ammettere non l’abbiamo mai veramente sentito. Cazzullo non l’abbiamo mai incontrato, ricordo che ci mandò una mail di commenti. Marco Damilano è stato quello più partecipe, ma in tutta onestà parlando in generale si può dire che sono stati poco presenti tutti e tre, e dicendolo non credo che nessuno di loro sentirebbe sminuito il suo apporto. Erano dei numi tutelari, dei depositari del racconto dei fatti che potevamo consultare, un’opportunità a cui ricorrere. Se non l’abbiamo fatto di più forse è perché ormai conoscevamo la materia molto a fondo.

Le ispirazioni sono alte: dal walk&talk di matrice sorkiniana del primo episodio all’ormai celebre quinto episodio, un vero e proprio film a parte, l’equivalente dell’episodio musical ricorrente nella serialità americana. Prima che autori sarete spettatori, fan. Quali sono le vostre serie preferite, del passato e del presente?

St.S. – Io parlo per me. Fra le serie USA che mi hanno appassionato di più metto Mad Men numero uno, poi Breaking Bad, The Shield, Lost. Tra le recenti mi piacciono Euphoria, Billions, Halt & Catch Fire, Bojack Horseman e Fleabag.
A.F. – Le serie del passato più o meno recente che resteranno sempre nel mio cuore sono Mad Men, Breaking Bad, Boss (misconosciuta, ingiustamente!), The Shield, Twin Peaks: al di là del genere in cui si collocano e della quantità d’ispirazione che mi hanno dato, queste gemme dimostrano quanto coraggiose, innovative ed esaltanti possano essere le narrazioni seriali; diciamo che mi hanno convinto che, se vuoi essere un narratore oggi e vuoi raggiungere un vasto pubblico, le serie sono la forma principale con cui misurarsi. Tra le più recenti, sono impazzito per Mindhunter. E poi Succession. E The Crown.

Una curiosità: in nessuna stagione compare Gianfranco Fini e/o Alleanza Nazionale. È stata una scelta narrativa dettata da ragioni legali o un sofisticato escamotage per sancirne, a conti fatti, l’irrilevanza storica?

A.F. – No, nessun escamotage, abbiamo sentito fin dall’inizio che i personaggi che volevamo raccontare erano legati ai mondi di Forza Italia e della Lega, e siamo andati avanti così. Non c’è mai stato un motore di giudizio politico a innescare le nostre scelte.
St.S. – Quando scegli quale storia raccontare fai una scelta precisa, arbitraria e autoriale. La nostra scelta ci ha portato a non avere lo spazio per raccontare gli ex fascisti, ma non perché irrilevanti. Anzi, erano un territorio di racconto umano e politico molto interessante. Solo che avevamo ormai un’altra direzione e siamo rimasti fedeli a quella.

Come lavorate in gruppo? C’è un headwriter tra voi o un totale equilibrio nei ruoli?

St.S. – Totale equilibrio. Discutiamo tantissimo, poi ci dividiamo a scrivere, poi ci ritroviamo insieme a rileggere e correggere. Per questa stagione ci siamo divisi i personaggi e le puntate, pur firmando tutti assieme come nelle altre. Ma non ti dirò chi ha scritto cosa.
A.F. – Confermo. La fase centrale del lavoro è proprio quando siamo fisicamente insieme nella stessa stanza: tutto nasce dal nostro parlare insieme. Per settimane, mesi. Poi ci dividiamo i compiti di scrittura. E rileggiamo di nuovo tutti insieme.

E il rapporto coi registi? Siete stati chiamati a intervenire anche nel corso delle riprese?

A.F. – Sì, siamo stati sul set fin dalla prima stagione, in veste di produttori creativi oltre che di sceneggiatori. E sul set il nostro lavoro è andato in connubio con quello dei registi: Giuseppe Gagliardi che ha fatto un lavoro di grande personalità, secondo me, fin dalla prima stagione, determinando con intuito e precisione la “bibbia visiva” della serie; Gianluca Jodice che ha fatto la seconda regia in 1992, mettendo in scena molto bene pezzi di racconto importanti; e la new entry di 1994, Claudio Noce, che ha arricchito la serie col suo stile, in quest’ultima annata dove rinnovare e variare erano, come detto, i primi diktat artistici. Il nostro ruolo, sul set, era tutelare il senso del racconto e la coerenza dello sviluppo dei personaggi, in un confronto diretto e continuo sia coi registi che con gli attori, con cui, spesso, si è lavorato fino all’ultimo minuto sulla scrittura di scena. E’ stato intenso e meraviglioso perché c’era sempre la sensazione che tutti ce la stessero mettendo tutta. E perché, live, tre mestieri diversi ma necessari l’uno all’altro convivevano e si contaminavano a vicenda.
St.S. – Giuseppe, avendo fatto tutte e tre le stagioni, è quello che ci conosce meglio, con lui abbiamo un metodo di lavoro molto fluido e rispettoso. Coi tempi di ripresa serratissimi della tv, gli autori sul set servono a controllare che il racconto non perda dei pezzi importanti, e che i personaggi vivano al di fuori della pagina scritta. Per questo abbiamo sviluppato un dialogo importante con tutti i nostri meravigliosi attori.

Le scelte musicali sofisticatissime, a parte quelle diegetiche, appartengono a voi (visto che uno di voi è anche un noto musicista: Stefano Sardo, leader dei Mambassa n.d.r.) o sono dei registi Giuseppe Gagliardi e Claudio Noce?

St.S. – La maggior parte delle canzoni erano in sceneggiatura. In effetti forse conta il fatto che ero un musicista ma anche che essendo il più vecchio dei tre ero un compratore di dischi assiduo in quegli anni là: per questo ho fatto un po’ da consulente musicale non accreditato della serie. Preparavo una playlist spotify per ogni stagione, buttando dentro tutti i pezzi più belli dell’anno, poi man mano che scrivevamo andavamo a scegliere il brano giusto per ogni sequenza importante da quelle playlist. Ogni tanto Ludo suggeriva un pezzo, altre idee sono arrivate da Giogiò Franchini (Sunrise di Lanegan è un’idea sua) o da Claudio Noce, per le loro puntate. Giuseppe Gagliardi mi ha convinto a fare l’unica eccezione alla regola ferrea della serie (solo canzoni uscite nell’anno del titolo): in 1994 c’è The Universal dei Blur che è del ’95, ma stava troppo bene in quella scena. Ci sono anche rimpianti: canzoni che abbiamo a lungo inseguito senza successo, tipo quelle degli Oasis.

E ora l’equivalente per un’intervista di un finale telefonato: a cosa state lavorando?

A.F. – Noi tre abbiamo un progetto comune che dovremmo iniziare a sviluppare presto, un thriller intitolato Nemesi pieno di colpi di scena che ci piace moltissimo, prodotto da Indigo. Poi ognuno di noi ha i suoi bei progetti solisti. Io ho creato un’altra serie, un legal intitolato Il Processo diretto da Stefano Lodovichi, con Vittoria Puccini e Francesco Scianna, che sta per andare in onda su Mediaset. Sono al lavoro una serie per Sky tratta da un romanzo di grande successo (non posso ancora dire quale:) e sto per iniziare lo sviluppo di una serie internazionale per Amazon.
St.S. – Io da tempo sto lavorando a una serie period-horror italo-tedesca, che si chiama WOLFSBURG, un progetto a cui tengo tantissimo.

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Quel treno per Yuma

di Matteo Marescalco
Quel treno per Yuma - Recensione Mangold

«Mi piacerebbe rimanere a casa. Ma tra sei mesi sarà tutto verde, le vacche ingrasseranno e un giorno vedremo il fumo del treno al di là della collina e ce l'avremo fatta».
È il 2007 e a riportare il genere western al cinema ci pensano Non è un paese per vecchi, L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford e Quel treno per Yuma. I primi due vengono incensati dalla critica e fruttano molteplici premi ai loro realizzatori; al terzo titolo, invece, non resta altro da fare che affidarsi alla galanteria di un tempo che, nell'ambito della filmografia di James Mangold, lo avrebbe trasformato in una pietra miliare. Più che nei film dei Fratelli Coen e di Andrew Dominik, è in Quel treno per Yuma che la nuova epopea western sembra essere in costruzione.

Il leggendario e spietato fuorilegge Ben Wade e la sua banda hanno appena derubato la diligenza che trasportava il libro paga della Southern Pacific Railroads. Dopo la rapina, Wade si separa dal gruppo e si sposta verso Bilbee, per incontrare una donna nel saloon della città. Dan Evans, invece, è un contadino in gravi difficoltà economiche. Ha una moglie e due figli ed è in viaggio verso Bilbee per chiarire alcune questioni relative alla sua terra, che le istituzioni gli vogliono espropriare per favorire l'avvento della ferrovia. Le vite di Wade ed Evans si incroceranno proprio nell'assolata cittadina.

L'assedio cui andranno incontro la diligenza guidata da Wade e le forze del male che gli si metteranno contro si svolge tutto tra le travi di legno e i pilastri appena abbozzati di una città che sta per essere costruita. Lungo tutta la pellicola, i personaggi non fanno altro che scontrarsi con villaggi sperduti, radure e accampamenti di minatori dall'aspetto fatiscente e che provano in tutti i modi ad entrare a far parte del campo visivo di Ben Wade, assoluto fulcro dello sguardo del film. Perché il personaggio incarnato da Russell Crowe è un oggetto desueto, un motore di racconti e di narrazioni che non può appartenere alla nostra contemporaneità e che, in quanto tale, si lega in maniera indissolubile alla forza mitopoietica e iconografica di un cinema senza tempo come quello di James Mangold.

La trasparenza del decoupage classico è al totale servizio di quest'epopea dal taglio intimistico in cui, attraverso il lungo viaggio notturno tra le gole e le insidie dei canyon, assume sempre più importanza il rapporto tra i tre uomini coinvolti, Ben, Dan e suo figlio - due adulti e un ragazzo-  a loro modo (super)eroi e apprendista che non possono integrarsi fino in fondo in questo mondo perché troppo puri e autentici, incontaminati come una narrazione che non è ancora stata intaccata dall'oralità. Ognuno di loro porta nel cuore un'illusione ed è emblema di un atto di resistenza classica alle derive di un'immagine filmica priva di referente (non è un caso che il vero villain del film sia un personaggio dallo sguardo robotico e senza passato). Attraverso il suo gesto eroico, Dan vorrebbe garantire un futuro alla sua famiglia e, più di ogni altra cosa, ottenere la redenzione agli occhi del figlio; il ragazzo è pericolosamente invaghito dalla figura leggendaria di Ben Wade e dalla mitologia di cui è ammantato ogni suo movimento; infine, il fuorilegge romantico ha relegato sé stesso negli angoli più estremi e remoti, trasformandosi in un mero nome privo di corpo.

Tesissimo e crepuscolare ma anche impassibile e speranzoso, Quel treno per Yuma vive nei silenzi dei suoi personaggi e nei punti di fuga di ogni sguardo. Fino allo slancio emotivo dell'assedio finale sospeso tra il sacrificio e la vittoria. Mai come in questo caso, il concetto di classico non indica il rifiuto luddista di una modernità destinata a venire quanto un perfetto bilanciamento tra pienezza e leggerezza e una totale fede nei confronti di storie e uomini, che possono essere sconfitti e perire ma che resteranno per sempre scolpiti nei cuori di noi spettatori, incantati davanti alla purezza di questo genere di personaggi.

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James Mangold Christian Bale Russell Crowe Ben Foster Logan Lerman Peter Fonda Vinessa Shaw Luke Wilson 117 minuti
USA 2007
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Quando l'amore brucia l'anima - Walk the Line

di Carlo Valeri
walk-the-line - recensione film mangold

Più che un film confezionato per l’Oscar – o per interpretazioni da Oscar (Reese Witherspoon Miglior attrice nel 2006), come alcuni addetti ai lavori lo classificarono frettolosamente al tempo della sua uscita in sala – Quando l'amore brucia l'anima - Walk the Line appare come un lucido concept laboratoriale di tutti i temi portanti della filmografia mangoldiana.

Primo punto. James Mangold è uno dei pochi cineasti che crede veramente nella coppia. Non tanto nell’amore, di quello la storia del cinema è evidentemente satura tra film e poetiche autoriali, ma nella coppia come figura concettuale e drammaturgica. Il suo è un cinema costantemente giocato sul doppio: due uomini (Le Mans ’66), due donne (Ragazze interrotte), un uomo e una donna (Kate & Leopold, ancora Le Mans ’66, appunto Walk the Line). Come fosse la versione country di un film di Lelouche, Walk the Line racconta due destini incrociati che attraversano il tempo e lo spazio. È effettivamente difficile capire quando si innamorano di preciso Johnny Cash (Joaquin Phoenix) e June Carter (Witherspoon). Lo sono già al loro primo incontro? Lo diventano alla fine, quando June risponde di sì alla dichiarazione di Johnny in pubblico? Non proprio. In verità i due si uniscono durante… nel corso del tempo (del) tour. In una dimensione astratta, on the road, che assumerà contorni sempre più ispirati nei successivi film diretti da Mangold. Del resto l’esperienza del tour è quella del movimento e della performance. Ecco allora che Walk the Line è un piccolo testo sulla velocità e sull’attraversamento dello spazio (Le Mans ’66), ma anche sul labile confine tra verità e finzione, nonché sulla prossemica dell’altro, sulla giustapposizione di un character (“personaggio”) con un altro.

Ecco appunto il doppio che dialoga tra sé, riproduce in scena se stesso attraverso il duo musicale. Walk the Line mette insieme due personaggi e li trasforma in una coppia dentro un processo interessante di avvicinamento e allontanamento che ha più a che fare con il percorso spirituale dei protagonisti – elemento distintivo di Mangold – che in quello fisico o sentimentale. Del resto Walk the Line non è film sul desiderio ma sulla forza della reciprocità. Grazie all’amore per June, Johnny riuscirà a superare le proprie fragilità e i conflitti con la figura paterna. Riuscirà a diventare un uomo e non un suo «surrogato», come a un certo punto gli rimprovera la prima moglie.

Ecco un altro punto: James Mangold fa un cinema per adulti, non per giovani. Se la nouvelle vague ha spesso raccontato l’euforia giovanile dell’innamoramento, Mangold preferisce concentrarsi sull’impegno dello stare insieme. Nella coppia di Mangold nessuno deve piacere all’altro, semmai “cristologicamente” ognuno deve salvare l’altro. Ecco la dimensione religiosa, evidente in Walk the Line come anche in Logan o in Cop Land. Se c’è amore in Mangold, c’è in quanto veicolo di salvezza. E comunque non c’è amore, se non c’è una coppia. Perché in Logan Wolverine muore? Perché non ha più la compagna che amava.

Sin dalla prima sequenza in cui Cash e Carter si incontrano sul palco, i due sono già... insieme. E in qualche modo lo saranno per tutto il film, al punto che la scelta di unirsi in matrimonio con cui termina il biopic è del tutto consequenziale a un processo performativo e psicologico già innestato. Molto inaspettatamente, nel modo di raccontare due amici che diventano amanti, il film finisce con il dialogare a distanza con l’altro grande film americano sul tema: Harry ti presento Sally. Come avviene anche nella commedia di Rob Reiner, l’unione finale tra i due cantanti non è allora necessaria per celebrare una coppia che è sempre esistita per lo spettatore e per i media, quanto per stabilire un legame determinante tra i sentimenti e la loro rappresentazione/rimozione.

Walk the Line è un film importante per Mangold anche perché rivela uno degli elementi fondamentali della sua poetica: l’annullamento delle distanze tra verità e finzione, performance e sentimento. «Devi cantare una cosa che senti davvero» dice il produttore alla prima audizione di Johnny Cash, che capisce subito e cambia repertorio. Una delle sotto-trame del film è l’ottenimento della sincerità: del musicista nei confronti del suo pubblico e dell’essere umano nei confronti dei suoi affetti. L’arte deve diventare vita. Deve essere vera. Johnny Cash non deve fingere di essere qualcun altro, ma essere Johnny Cash. E così, quasi inevitabilmente, lui e June Carter non devono fingere di essere una coppia sul palco, ma esserlo veramente.

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James Mangold Joaquin Phoenix Reese Witherspoon Robert Patrick Shelby Lynne 136 minuti
USA 2005
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Finché morte non ci separi

di Sara Mazzoni
Finchè morte non ci separi - ready or not recensione film

L’idea su cui si basa Finché morte non ci separi (Ready or Not) è semplice: c’è una famiglia ricchissima e un tradizionale “gioco” da farsi ogni volta che arriva un nuovo membro attraverso il matrimonio. Seguono fiumi di sangue. I registi sono Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett, già parte del collettivo Radio Silence che ha diretto, tra le varie cose, il potabile racconto cornice di Southbound e un meno rilevante episodio di V/H/S. La sceneggiatura è firmata dagli scrittori televisivi Guy Busick e R. Christopher Murphy, che se la cavano bene con battutacce, humor nero e tempi comici. L’equilibrio tra uno script intelligente e la lettura che ne danno i registi rende il film efficace. [Da qui in avanti seguiranno spoiler sui contenuti].

La protagonista Grace è interpretata da Samara Weaving, attrice australiana ormai icona horror grazie a film come The Babysitter e Mayhem. Nella sua prima notte di nozze, Grace si trova a partecipare a una variante del nascondino in cui i suoi nuovi parenti la inseguono armati di asce, pistole e balestre per sacrificarla alla divinità luciferina responsabile della loro fortuna. In Finché morte non ci separi, tutti i personaggi parlano del gioco rituale come di una tradizione senza scampo, a cui nessuno può sottrarsi pena indicibili sventure. È la stessa veemenza che definisce il realismo capitalista, quel sentimento per il quale al capitalismo non esiste alcuna alternativa: e infatti non è un caso che a portare avanti quella tradizione sia un gruppo di altoborghesi che danno la caccia a una ragazza del popolo.

Quello messo in scena da Finché morte non ci separi è un carnevale al contrario, coerente con l’America contemporanea e collocabile vicino ai film della saga di The Purge, pur distinguendosi nello stile. Storicamente, nei saturnalia e nel carnevale c’è un rovesciamento simbolico delle gerarchie sociali (lo sfogo occasionale per mantenere l’ordine durante il resto dell’anno), mentre in The Purge e Finché morte non ci separi a essere rovesciato è il mondo del diritto, lasciando ai più ricchi la libertà di usare i propri mezzi per versare il sangue dei poveri in veri e propri sacrifici umani.
Finché morte non ci separi ha i toni di una commedia nera consapevole di essere anche un film d’azione. L’ambientazione dentro alla pomposa villa di famiglia dei Le Domas riprende in ogni inquadratura i concetti alla base della storia, decorata con una scenografia che suggerisce l’antichità e la pesantezza delle tradizioni che hanno fornito ai suoi abitanti i privilegi di cui dispongono. Per quanto leggera e disimpegnata, alla fine dei conti è comunque un’opera sulla lotta di classe: quello che vediamo sullo schermo è lo scontro tra un popolo governato crudelmente e un’élite che costruisce la propria fortuna sul sangue degli sfruttati. In senso letterale.

In quanto carnevale, Finché morte non ci separi ha le sue maschere. Weaving è una giovane sposa in All Stars gialle e abito bianco, che durante l’avventura si fa intriso di un rosso sangue sempre più scuro. La figura che meglio incarna il ruolo di avversaria è la terrificante zia Helen, interpretata da Nicky Guadagni: piccola, austera, i capelli grigi sparati in aria mentre brandisce una scure con cui vuole decapitare la ragazza, in una rappresentazione non troppo velata della morte stessa. Del resto Finché morte non ci separi è un film violento e sanguinoso, che riesce però a non spettacolarizzare la vittimizzazione della sua protagonista. La violenza che ritrae è sardonica, grottesca, eccessiva, eppure non è mai molesta. Tornando alla saga di The Purge, si può osservare come essa sia una delle tante cose buone che la Blumhouse ha fatto per l’horror, perché quel franchise ha contribuito a spazzare via il filone meramente sadico originato da Saw negli anni 2000, sottraendone pochi trope e recuperando invece le istanze rivoluzionarie di un cinema horror precedente.

Se paragoniamo Finché morte non ci separi a Would You Rather del 2012, un film con cui ha vari punti in comune, possiamo vedere quanto certi canoni siano cambiati negli ultimi anni. Anche Would You Rather ha un titolo che rimanda a consuetudini ludiche senza tempo, come Ready or Not. E anche Would You Rather si svolge in una villa dai mobili in legno intarsiato, anch’esso parla di una società segreta di ricchi perversi e di una giovane povera che viene attirata con l’offerta di privilegi, senza sapere cosa dovrà subire in cambio. Ma Finché morte non ci separi dimostra come da questo cinema sia stato finalmente spazzato via il sadismo fine a sé stesso di Saw e dei suoi replicanti, in cui il massimo a cui le vittime potevano aspirare era diventare carnefici a loro volta, in una vera e propria guerra tra poveri. Infatti lo scopo di Grace non è quello di godere immensamente uccidendo i suoi persecutori ma di difendersi, costi quello che costi. Tant’è che pur menando forte lo fa in modo casuale, nella foga della corsa per la sopravvivenza, senza intenzioni davvero letali. Ma è questo il bello del cinema del presente: la riflessione – assolutamente popolare – su ricchezza e privilegio qui raggiunge comunque una catarsi violentissima con il suo finale grandguignolesco, che rende memorabile un film già di per sé piacevole.

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Tyler Gillett Matt Bettinelli-Olpin Samara Weaving Adam Brody Andie MacDowell Nicky Guadagni 95 minuti
USA 2019
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Kate & Leopold

di Laura Delle Vedove
Kate e Leopold - recensione film Mangold

Siamo a cavallo tra il Novecento e i primi Duemila, una manciata di anni che sono lì a suggellare gli ultimi, enfatici respiri (e sospiri) di un genere che sarebbe stato infelicemente, e ingiustamente, da lì a poco trascurato: la rom-com, la commedia romantica, il film sentimentale. Probabilmente più del periodo classico americano dei ‘40, quegli anni videro il praticare con entusiasmo la formula, un passaggio quasi tassativo che non escluse neppure i grandi Autori, mentre di solito si scomodano, e a ragione, i nomi di specialisti quali Nora Ephron, Garry Marshall, Richard Curtis, Nancy Meyers, insieme a registi più trasversali come Wayne Wang, Adam Shankman, Mark Waters, P. J. Hogan, ma la lista correrebbe all’infinito. A legger le loro filmografie si certifica quel passaggio, non del tutto indolore, dalla forma classica della commedia romantica alla commedia tout-court che più spesso è film comico (o magari musical, o magari ibrido). Già nel 2006 Nancy Meyers poggia la pietra tombale del genere con L'amore non va in vacanza, e tutto il resto vedrà progressivamente la perdita d’importanza, sia drammaturgica che concettuale, dell’intreccio sentimentale, e con esso un modo non equiparabile per evidenziare problematicità e divari dei rapporti tra i sessi. La commedia romantica è, soprattutto, una superlativa istantanea del tempo in cui viene prodotta; assorbe cioè al suo interno, con grossa evidenza, i leitmotiv, le criticità e, più semplicemente, le caratteristiche di un certo clima “psicologico” da cui assurge; allargando alla produzione in toto, risalendo dai Novanta fino alla metà dei primi Duemila, è un genere che risponde a determinate necessità che ora l’industria non sente più, sovraccarica com’è di universi transmediali, mentre da una prospettiva culturale è sintomatica di una capacità e tendenza ancora naif, pre- crisi economica, di credere ciecamente, per un’ora e mezza, allo sbocciare di un nuovo Amore. Cioè che un film intero potesse reggersi su questo assunto.

Ci credeva Peter Weir quando nel 1990 girava Green Card - Matrimonio di convenienza, Barbra Streisand nel 1996 con L’amore ha due facce, James Mangold nel 2001 con Kate & Leopold. Quel Mangold di cui, a ragione, si elogia frequentemente la capacità di passare con agio dal dramma al thriller, al biopic ante-litteram (con tanto di filiazione parodica a decretarne la fama di classico, ovvero Walk Hard: The Dewey Cox Story di Kasdan-Apatow), al western, all’action, a quel Wolverine che si reggeva perfettamente in piedi da solo: Mangold nella migliore tradizione dell’autore americano che, lavorando per gli studios, si fa trasparente nella poetica e nel montaggio, ergendo silenziosamente la propria architettura cinematografica in funzione, anzitutto, della narrazione.

Kate & Leopold rappresenta un esempio lampante di questo credo e, al contempo, di un modello frutto di  anni di raffinazione della partitura romantica, della rom-com fatta e finita. L’elemento fantastico che molto spesso innesca la commedia di quegli anni e che qui contraddistingue la vicenda di Kate (Meg Ryan) e Leopold (Hugh Jackman), i quali riescono ad incontrarsi grazie a quella che sembra un’apertura nel continuum spazio-temporale, viene qui prelevato dallo stesso filone della commedia sentimentale/metafisica dei Quaranta senza drastiche variazioni. Il genere è poi un terreno encomiabile per mettere in azione il sapere, mai troppo pletorico, della sceneggiatura perfetta, quella che sa di dover partire dal consolidamento dei caratteri sui quali modellare il loro arco.

Mangold non si esime dall’accreditarsi in questo senso: Kate & Leopold descrive la figura di donna che per eccellenza qualifica quegli anni (e sulla quale si potrebbero scrivere saggi); in carriera, disillusa d’amore, un po’ castigata, sferzante, ancora non del tutto emancipata professionalmente ma essenzialmente sola. Il vero detonatore metaforico (e fattuale) è però il corpo di Leopold, duca di Albany, che dal 1876 viene trasportato in una New York del presente di cui, suo malgrado, riesce a mettere in luce le stranezze e, al nocciolo, la decadenza, l’utilitarismo, l’imperturbabilità. I modi apparentemente così affettati di un nobiluomo d’Ottocento, che però credeva nel positivismo della scienza e della tecnica (ma, fuori dal suo tempo, non nella sistematicità del matrimonio combinato) fanno stridere, deflagrare la rozzezza e l’aridità dei costumi della modernità. Il passato “obsoleto” di Leopold è quello, nostalgicamente, di un mondo che costruiva per reggere al trascorrere del tempo, concetto di cui egli avrà la prova osservando intatto, secoli dopo, il ponte di Brooklyn in tutta la sua monumentalità. «È un miracolo», dice, allo spazzino, Leopold. «Quello? Quello è solo un ponte», ribatte il passante. Il passato “ampolloso” è quello in cui il corteggiamento passava, al di là delle formule fisse, attraverso la trasparenza, la dichiarazione degli intenti amorosi come dogma sociale, sì, ma per prima cosa come sigillo di correttezza e onestà d’intenzione; prassi di cui i “tempi moderni” hanno perso cognizione, tutt’improntati al raggiungimento dello scopo, della preda a tutti i costi, furtivamente e furbamente. Il paradosso, certo, di un’epoca in cui con i gesti si tendeva a portare gran rispetto a una “signora”, ma nei fatti la si riteneva subordinata a un mondo chiuso appannaggio degli uomini. Le avance sessuali che il capo di Kate le rivolge durante una cena “di lavoro” sono ritenute da Leopold inaccettabili: e com’è che per anni ad esse ci siamo abituati? Le diramazioni eventuali sul tema coglierebbero una protagonista femminile passivamente succube del meccanismo maschilista, mentre Leopold insorge, impetuosamente, a difendere il suo onore. Messe in scena di distanze d’epoca in una messa in scena d’epoca, si direbbe. Ma gli spunti di riflessione sono molteplici: la normalizzazione dell’abuso di potere viene, nuovamente, fatta esplodere dall’ospite inatteso. Persino la colta arte oratoria di Leopold sembra riempire un buco nella prassi pubblicitaria che, in tutti i modi, dimentica di quella “trasparenza”, cerca di ingannare il consumatore tramite le regole della persuasione. Tuttavia l’intelligenza di Mangold sta nel rivisitare alcuni di questi tratti storici desueti, rovesciarli nel presente e trarne un metro di paragone per la triste insensatezza che caratterizza il quotidiano: ciò che si è perso e che, riadattato alla consapevolezza della contemporaneità, fornirebbe il tassello mancante a una società veloce, vorace e rottamante. Non solo: potrebbe essere la cura per i cuori sgualciti.
C’è persino un po’ di differenza di classe nello scontro tra le due epoche: Leopold, aristocratico, non può accettare di prestare il suo servizio per uno scopo poco nobile come quello di sponsorizzare un prodotto dal gusto infimo; Kate, invece, «è tutta la vita che deve pagare le bollette», ed è per questo che, ormai agilmente, non ha più tempo per gli scrupoli della morale. Così a Leopold non dispiace, e neppure a Kate, di ritornare indietro nel tempo, al suo tempo, e di rimanerci, dopo esser stato libero di innamorarsi, oltre i doveri delle mosse calcolate della sua classe sociale. Proprio da quel ponte indistruttibile, segno di un’era grande, Kate si getterà per compiere il salto temporale. E allora Kate & Leopold diventa un’opera su ciò che resta, perché tutto resta, e di esso rechiamo gli invisibili segni, in un flusso unico indistruttibile, ma invisibile ai più. Una sola, allora, la costante ovvia tra i secoli: l’inventore, il creatore di nuovi significati, lo scienziato (Leopold nell’Ottocento inventa il prototipo dell’ascensore, Stuart vede i wormhole), relegato e incompreso. Come un cane, cieco ai colori, che vede un arcobaleno.

Un’intuizione narrativa, su tutte, per sottolineare la permanenza, la continuità del Tempo: la fotografia come strabiliante certificatrice di verità, come estensione mcluhaniana di sé, come oggetto in grado di travalicare lo spazio/tempo. In un certo senso, Kate & Leopold è anche un film che ne celebra l’assolutezza, il predominio tecnico, il suo essere punto zero per ogni possibile scoperta. Stuart fotografa un’altra epoca, con un mezzo così piccolo da esser quasi impercettibile, eppure viene visto, proprio da un “inventore” come lui. E su quelle stesse fotografie rimane impresso un corpo, quello che l’occhio umano non ha colto: Kate è già lì, nel futuro come nel passato, nella profondità abitata catturata dallo sguardo meccanico. Per dirla con Walter Benjamin, anche qui la fotografia spinge chi la guarda «verso un bisogno irresistibile di cercare nell’immagine quella scintilla magari minima di caso, di hic et nunc, con cui la realtà ha folgorato il carattere dell’immagine, il bisogno di cercare il luogo invisibile in cui, nell’essere in un certo modo di quell’attimo lontano, si annida ancora oggi il futuro».

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James Mangold Meg Ryan Hugh Jackman Liev Schreiber 113 minuti
USA 2001
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