Gloria mundi

di Matteo Berardini
Gloria mundi - recensione film

Dividi et impera. Come un virus ad alto rendimento il capitalismo si diffonde infettando, permea negli organismi con cui entra in contatto e da dentro disgrega, crea conflitto, disumanizza. Si moltiplica riproducendo l’immagine di sé, che impone come unica possibilità di organizzazione sociale. Come restare umani, all’interno di un realismo capitalista che sembra ormai fuori controllo? A otto anni da Le nevi del Kilimangiaro, Robert Guédiguian torna a raccontare il tessuto sociale di Marsiglia nel pieno dei suoi conflitti umani e delle tensioni generate dalle storture tardocapitaliste. Torna alla città che ama, la sua città, che da sempre è regina del suo cinema e ispirazione costante di uno sguardo politico che fa il paio, da una parte e l’altra della Manica, con il cinema di sociale di Ken Loach. Come per il regista inglese, anche per Guédiguian il cinema è anzitutto strumento per affrontare le contraddizioni e i traumi suscitati dal capitalismo; Gloria mundi, in particolare, porta questo discorso all’interno di una famiglia di cui racconta la crisi, il perdersi, quando la forza dei legali affettivi si sfalda e tutti i valori di riferimento iniziano a essere dettati da logiche di mercato e aspirazioni neoliberiste.

Sylvie e Richard sono due coniugi piccoloborghesi con due figlie: la prima, Mathilda, è nata dal precedente matrimonio di Sylvie e vive oggi in profonde difficoltà economiche; la seconda, Aurore, è sposata con il rampante Bruno, e assieme portano avanti un monte dei pegni in forte espansione. Mathilda ha appena dato alla luce la piccola Gloria, ma nella situazione di crisi in cui vive avrebbe bisogno di un forte appoggio dalla famiglia. Peccato che gli unici che possano veramente essere d’aiuto, Aurore e Bruno, preferiscano pensare al loro tornaconto piuttosto che rendersi disponibili.

Il taglio che divide la vecchia e nuova generazione di questo racconto famigliare è netto, chirurgico. Se i padri e le madri sono ancora in grado di alimentare sentimenti di solidarietà, empatia e affetto, e vivono pronti a caricarsi sulle spalle le responsabilità e i doveri che quei sentimenti vanno a comportare, i giovani raccontati da Guédiguian sembrano invece persi tra ingenuità estrema (Mathilda) o egoistico cinismo (Aurore e Bruno). Gloria mundi cerca in parte di riflettere la complessità del reale, ma per le poche volte che vi riesce (come nel tema dello sciopero che riguarda Sylvie) altrettante e più volte opta invece per un approccio manicheo, schietto, sicuramente militante e sentito ma anche ingenuo per come divide il mondo in due cercando soluzioni rappresentative semplice a problemi invece ben più articolati.
Per Guédiguian questa nuova generazione francese sembra davvero non avere scampo se non sperare nell’intervento salvifico dei padri, persa com’è tra edonismo, superficialità, distacco e sistematico egoismo. Piuttosto che riunirsi e fortificarsi attorno alla nuova nata, la famiglia di Gloria mundi si sfalda sotto il peso delle sfide economiche dei tempi, a cui non riesce a far fronte e che anzi fanno da innesco agli istinti più bassi della natura umana. Non è un caso che Guédiguian metta in bocca allo squallido personaggio di Bruno, darwinista sociale dalla morale spicciola, il nome di Macron come modello di impegno personale per la riuscita individuale. Guédiguian è evidentemente disgustato dalle derive politiche del suo paese, e preoccupato per la tenuta umana delle relazioni e dei legami che dovrebbero fare da rete in caso di avversità. Peccato però che per mettere in scena questo discorso di denuncia il regista francese faccia suo un approccio così schematico e semplicistico, macchinoso nello scioglimento narrativo e per di più messo in scena con un’enfasi a volte davvero fuori controllo (su tutte, la terribile scena del pre-finale). Peccato, perché quando invece il film si adagia sui corpi e volti che meglio conosce, sui personaggi della vecchia guardia incarnati da Jean-Pierre Darroussin, Gérard Meylan e Arian Ascaride (vincitrice qui della Colpa Volpi), trova una cifra intima e sospesa che tanto riesce a dire del semplice affetto e della dignità umana.

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Robert Guédiguian Arian Ascaride Jean-Pierre Darroussin Gérard Meylan Anaïs Demoustier Robinson Stévenin 107 minuti
Francia, Italia 2019
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The End? L'inferno fuori

di Giorgio Sedona
The End? L'inferno fuori di Daniele Misischia

Nella difficoltà di trovarsi negli scomodi panni dell’inventore di storie nuove (d'altronde già nel ‘300 Petrarca sosteneva che tutto fosse già stato scritto e pensato e per rifarlo – con originalità - bastava cambiarne il metodo di rappresentazione) Daniele Misischia (regista e sceneggiatore), insieme ai fratelli Manetti nei panni di produttori, in The End? L'inferno fuori adotta uno stratagemma molto contemporaneo: il cut & paste di soluzioni cinematografiche già viste, conosciute ed amate, ridefinite e ricomposte poi attraverso una miscela pop vincente. Con un inizio algido alla Schumacher (come in Un giorno di ordinaria follia) e proseguendo unendo le unità drammatiche di tempo e luogo (come in Zombie), la scrittura, per budget e/o per necessità di massimizzare un’idea basata sull’economia delle risorse, ristringe ancora di più le possibilità dinamiche dei protagonisti all’interno di un ascensore bloccato tra due piani di un grande ufficio (Devil e Piano 17 degli stessi Manetti Bros), e dopo aver esteso il concetto di fuori campo drammatico tramite l’utilizzo della voce over (esempi: Berberian Sound Studio e, in particolare, Pontypool) tende verso un finale mathesoniano (o boyleriano, tipo 28 giorno dopo); Misischia, quindi, riesce nell’operazione cine-sartoriale tagliando e cucendo un mash-up che, tra una suggestione cinematografica e l’altra, trova il suo spessore d’originalità e di divertimento su di un abito interpretativo disegnato su misura per il suo protagonista. Alessandro Roja, svestiti i panni del dandy criminale, è un lucido e sadico uomo d’affari, disposto a tutto pur di calpestare chiunque lo ostacoli. In prossimità della chiusura di un importante affare, resta bloccato nell’ascensore del suo ufficio, da lì inizia un incubo zombie che si consuma dentro a mura di vetro in una Roma glaciale come l’animo dei suoi abitanti.

Misischia si cimenta in un film che per l’80% della sua durata è contenuto dentro un unico spazio ristretto. La capacità del regista di creare estesioni spaziali, attraverso un sapiente uso della mdp, concede al film la giusta frenesia della narrazione scavalcando le sabbie mobili della stagnazione ritmica narrativa; inoltre, la capacità di dilatarne lo spazio gli consente di non restare ingabbiato nella sua limitata ampiezza scenica. La voce over del telefono\interfono, meccanismo che consente di fuoriuscire dalla ristrettezza del cabinato attraverso la possibilità dell’accadimento fuori campo, è il giusto veicolo per far evolvere la narrazione zombiesca lasciando su di Roja l’onere della centralità attoriale. La Roma di Misischia è una città livida, senza alcun compromesso, spietata quanto la fame di successo affaristico rappresentato e che non si consuma nell’opposizione tra i vivi e i morti. Anzi, all’archetipo sociale zombiesco il regista oppone una scalata verso i vertici dell’azienda, una scalata orizzontale, in una strage di colletti bianchi, di colleghi letteralmente calpestati, il tutto in una quotidianità lavorativa che si tinge di morsi e sangue. L’atmosfera orrorifica è insaporita dal dialetto romanesco che stempera in commedia le sequenze, non risultando mai stucchevole ma concedendo, come spesso accade con generi annoverati nella postmodernità cinematografica, un sapore grottesco figlio di una rilettura comedy di un genere orrorifico già ampiamente trattato.

Attraverso il Manetti Touch Misischia fa rendere al meglio un genere geneticamente importante, delicato ed continuamente riproposto (ma ancora riproponibile) come lo zombie-movie dando nuova energia ad una narrazione di per sé prevedibile, liberandola dalla trappola dell’eccessivo budget produttivo e dell’integrale ripetività tematica ed espressiva.

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Daniele Misischia Alessandro Roja Euridice Axen Claudio Camilli Carolina Crescentini Benedetta Cimatti Roberto Scotto Pagliara Giada Caruso Daniele Misischia 100 minuti
Italia, 2018
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Green Fish

di Saverio Felici
green fish - recensione film lee chang dong

Un soldato passeggia silenzioso per i vagoni di un treno civile. È solo, con pochi bagagli appresso. Qualunque cosa significhi quella divisa militare, è ormai lontana dal presente del ragazzo. Il soldato in congedo si sporge dal finestrino, e respira con il vento in faccia mentre il treno attraversa lentamente un oceano di alberi e luce.


L'aria che respira Mak-dong, il giovane protagonista di Green Fish (Chorok Mulgogi, 1997) non è esprimibile per parole o immagini. È qualcosa di inafferrabile, che permea lo spazio impalpabile tra le inquadrature. Quel non-filmato inclassificabile che costituisce il proverbiale surplus delle parti sommate. È la stessa aria che permea i primissimi film di Kim Ki-duk, di Park Chan-wook, di Bong Joon-ho, e ovviamente più forte che mai il primo lungometraggio di Lee Chang-dong. Erano loro i quattro Evangelisti di quel nuovo cinema sudcoreano, che a partire dalla seconda metà degli anni '90 e attraverso tutto il decennio successivo avrebbe attraversato come una scossa elettrica il midollo intorpidito del cinema indipendente mondiale.
E l'aria dei loro primi film è quella chiara e luminosa dello sguardo che si riapre, il piacere fisico della visione che si allarga in campo lungo abbracciando la totalità di un Paese fino ad allora sbirciato con paura da dietro una finestra chiusa. La gioia trattenuta ma incontenibile di una generazione di artisti al risveglio da un incubo durato quarant'anni; quella di scendere per la prima volta in strada con una cinepresa, e riprendere il mondo intero.

Un clima culturale non diverso da quello dell'Italia neorealista del dopoguerra, doveva respirarsi in Corea del Sud all'inizio degli anni '90. Per la prima volta da Yalta, il popolo coreano si era ritrovato improvvisamente padrone del proprio destino, dopo quattro decenni trascorsi schiavo delle sanguinarie dittature anti-comuniste imposte dal Blocco Occidentale a seguito della scissione dal Nord rosso. Una vittoria senza gioia, una liberazione con il sapore della convalescenza da una malattia mortale: per arrivare alle elezioni democratiche del 1988, che portarono il Presidente eletto Roh Tae-woo ad avviare il processo di democratizzazione del Paese, la nazione aveva dovuto attraversare un calvario lungo quasi mezzo secolo. Massacri di Stato, abolizione dei diritti, manifestazioni e rivolte studentesche represse nel sangue. Un inferno che aveva marchiato a fuoco l'inconscio collettivo di un popolo intero. Contemporaneamente, la brutale trasformazione economica compiuta a cavallo degli anni '70 e '80 aveva stravolto il volto e i costumi di un Paese contadino, avviando una mutazione antropologica e industriale verso una nuova società del benessere di stampo occidentale (altro paragone storico familiare).


Negli anni della Perestrojka, il regime stragista di Chun Doo-huan aveva portato la Corea del Sud sull'orlo della guerra civile: ma lo spauracchio comunista era ormai sconfitto, e con le storiche elezioni democratiche dell'88 si chiuse definitivamente l'era del terrore. A metà del decennio successivo, un popolo cresciuto nell'incubo della dittatura militare e delle esecuzioni di massa si era improvvisamente risvegliato democratico, consumista e americanizzato. Ed è qui che la scuola di Lee e compagni si riscoprì per la prima volta libera di uscire di casa, guardare in faccia la Storia, raccontare i traumi dei loro padri e lo spaesamento della propria generazione.
Un soldato in congedo che si affaccia dal treno che lo sta riportando a casa, e si perde pensieroso tra le montagne che gli bloccano lo sguardo. Chi lo sa cosa c'è nel suo passato. Chi lo sa cosa lo aspetta adesso.

Ogni giovane artista con qualunque tipo di aspirazione sogna di esordire con l'Opera Definitiva, e Lee Chan-dong (in realtà quarantenne, con una solida carriera di scrittore alle spalle) non fa certo eccezione: a cavallo del Millennio, il Grande Romanzo Coreano diventa l'ossessione di questa generazione di film-makers, e Green Fish si ascrive appieno a questo tipo di tendenza. Il giovane soldato in congedo in viaggio verso casa è dunque il ventiseienne Mak-dong (Han Suk-kyu). Esentato dal servizio dopo diversi anni, si prepara a tornare dall'amata famiglia, nella provincia agreste di Seul. Ma molto è cambiato nei pochi anni di leva.
La città della sua infanzia è ora una metropoli; boschi e risaie sono spariti, spazzata via dalle nuove palazzine residenziali e dai quartieri gentrificati di una nuova élite. Il nucleo familiare, un tempo unito, è andato in pezzi: la madre e i quattro fratelli quasi non si frequentano più, impegnati come sono a mantenersi con lavori infernali. Mak-dong rimpiange un'idealizzata gioventù di vita contadina che nella Seul industriale degli anni '90 non esiste più.
Gli unici che sembrano passarsela bene sono una nuova categoria di ricchi, spuntati dal nulla e improvvisamente diventati padroni di questa nuova Corea: sono i gangster capitanati da Bae Tae-gon (Moon Sung-keon), l'uomo che ha guidato e controllato lo sviluppo economico della città, e della di lui donna Mi-ae (Shim Hye-jin). Di questa coppia il protagonista si innamorerà, perso nel sogno di ritrovare l'unità familiare e sociale andata perduta. Fino ad un allegorico sacrificio dal sapore rituale.

Come gli altri Grandi Romanzi dei suoi compatrioti, il Green Fish di Lee vuole intrecciare il privato di un racconto poliziesco con il collettivo di una nazione intera. Dietro le sensuali ombreggiature hard-boiled dei night club, tra le righe roman noir del tragico protagonista, il regista riavvolge i fili di un trauma generazionale: quello dell'avvento della società dei consumi sul substrato sociale preesistente. Un trauma questo, talmente impresso nella psiche di un popolo da riecheggiare prepotente nelle principali filmografie dei futuri Maestri nazionali: dalle bestie umane degli slums di Kim Ki-duk alle famiglie di losers di Bong Joon-ho, il cinema coreano moderno è la storia dei rimasti indietro, dei detriti, dei cadaveri incastrati nelle impalcature di una superpotenza liberista costruita sul sangue.


Significativo in tal senso come Lee basi il proprio film sull'associazione classica "gangster"-"imprenditore", incarnata dal personaggio di Bae Tae-gon, e sul suo percorso di arricchimento alle spalle di una working class impoverita e sconfitta dalla Storia. Si tratta della metafora più rappresentativa del crime, a sua volta il più americano dei sottogeneri narrativi. Il rifarsi ad una tradizione così fortemente occidentale è rivelatoria: non bisogna dimenticare il ruolo che ebbero gli USA nel comprare con il piombo lo sviluppo in chiave capitalista del Paese, attraverso l'appoggio militare ai regimi di Park Chung-hee e di altri mostri del Secolo Breve. Da Gatsby in poi, l'eroe romantico americano è l'uomo che vende l'anima al diavolo per il successo economico: per Lee, quest'uomo è Tae-gon, è Mak-dong stesso, è Seul e la Corea intera.

Green Fish è ancora il film di uno scrittore prima che di un regista. Rispetto al controllo formale che Lee svilupperà a partire dai lungometraggi successivi, per approdare ai trionfi contemporanei di Poetry e Burning, permangono le classiche ingenuità da debuttante. Le armi non sono affilatissime, e l'economia visiva alla base dell'arte cinematografica è spesso tradita in favore dell'accumulo propriamente letterario: ciò si risolve in un'opera prima bulimica, che ammassa mille spunti tutto sommato fine a se stessi senza avere sempre la forza di lasciarli confluire in un insieme unitario (le turbe sessuali del protagonista sono suggerite senza che ciò si rifletta nel suo sviluppo, così come le varie divagazioni dedicate alle vite private di personaggi marginali). Ma a sprigionarsi contagiosa è la gioia e la vitalità di un artista che ha finalmente trovato il mezzo espressivo dei suoi sogni. E la fame di corpi e immagini di un regista che ha aspettato tutta la vita per parlare, e non vuole attendere più.

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Lee Chang-dong Han Suk-kyu Shim Hye-jin Moon Sung-keon 111 minuti
Corea del Sud 1997
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McBetter

di Mattia Caruso
McBetter - recensione film de pascali

È un oggetto curioso sin dal titolo, McBetter, sorta di ibrido tra quei due estremi che ne delimitano e definiscono l'universo tematico: Macbeth e McDonald's. Parte proprio dall'opera di Shakespeare infatti questo piccolo horror indipendente prodotto, scritto e diretto dall'esordiente Mattia De Pascali, un riferimento che resta ben saldo anche quando il film, aggiornando il dramma e trasportandolo nel presente (dove il regno da conquistare, questa volta, non è la Scozia ma una catena di fast food), si immerge a capofitto nel grottesco e nell'assurdo, dando vita a un prodotto infarcito di riferimenti pop ma forte di una genuina originalità di fondo.

È forse proprio questa capacità di ridefinire un classico con coraggio mantenendo intatto il proprio sguardo dissacrante, il maggior pregio di una pellicola in grado di volgere persino la ristrettezza di mezzi (un budget di appena 10mila euro) a proprio favore, mettendo abilmente in scena una tragedia che condensa su di sé toni e suggestioni differenti, dalla commedia, al grottesco, dal dramma allo splatter, senza mai cadere in quel gusto per il citazionismo fine a se stesso troppo spesso abusato in esordi di questo tipo.

Servendosi del dramma shakespeariano per delineare rapporti e motivazioni dei suoi personaggi (con trovate a tratti geniali: come la figura delle tre streghe condensata in quella di una maga di una tv locale), De Pascali da così vita a una lotta per il potere – quella tra il vecchio imprenditore McBetter (Nik Manzi) e il giovane e ambizioso Malcolm (Andrea Cananiello) – che è, prima di tutto, scontro generazionale, una satira cinica e amara che non risparmia nessuno, tra padri dispotici che non retrocedono di un passo e figli immeritevoli pronti a tutto pur di inseguire illusorie promesse di gloria. A fare il resto, venendo spesso in aiuto di interpreti non sempre all'altezza, ci pensa una regia sicura e abile nel costruire la tensione e nel mantenere in equilibro i vari registri, sorretta dalla fotografia di Islam Mohamed (funzionali i rimandi a Suspiria e a Refn) e dall'apporto di David Bracci agli effetti speciali, con trovate gore mai scontate e trucchi decisamente respingenti.

Il risultato è un film capace di non prendersi mai veramente sul serio, neppure quando al grottesco si sostituisce il più classico degli home invasion, e il dramma precipita in un incubo alla Shining. Una farsa beffarda e pessimista sulle ambizioni mancate, che si stempera solo nei minuti finali, quando l'orrore quotidiano di un mattatoio irrompe nella finzione e la tragedia si rispecchia ancora una volta nella logica famelica del fast food.

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Mattia De Pascali Andrea Cananiello Nik Manzi Donatella Reverchon Serena Toma 75 minuti
Italia 2018
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Rambo: Last Blood

di Saverio Felici
rambo last blood recensione film Grunberg.png

Rambo: Last Blood arriva in scia a Creed come prosecuzione di quel percorso elegiaco da anni portato avanti sulla filmografia di Sylvester Stallone.
Un percorso che a modo suo ha segnato l'ultimo decennio dell'autore. A seguito del calo critico degli anni '90 e 2000, Sly ha infatti scoperto forse per la prima volta il vissuto dietro l'individualismo trionfante di cui per trent'anni era stato poeta e portavoce; come una nostalgica Gloria Swanson dell'action, a partire da Rocky Balboa Stallone ha (ri)cominciato a portare il proprio pubblico dietro il sipario, in una serie di film a cuore aperto capaci di ridurre a zero la già labile linea di separazione tra artista e personaggio.
Dall'autobiografia libera dei Rocky/Creed all'autoironia decostruzionista e post-tutto degli Expendables, il re del cinema escapista (che davvero escapista non è stato mai) si è riscoperto autore generazionale. Da parodia è tornato idolo, con tanto di agognata "legittimazione critica" da parte dello star system.
L'ultimo sangue, in tutto ciò, pare però un oggetto fuori posto. Il cerchio di John Rambo, in fondo, era già stato chiuso nel 2008 dal film omonimo. Quello che il 2019 fa è piuttosto riaprirlo, con una rabbia insospettabile e la mano fuori controllo del low-budget più truce.

Al termine del film del 2008, la dannazione esistenziale del militarismo USA incarnato sembrava finalmente espiata. Il primo campione e prima vittima del sistema che rappresentava (cos'è fondamentalmente Rambo se non la versione militare e americana, più che di Rocky, dell'Ivan Drago nel magnifico Creed II?) era dunque tornato a casa. Dopo una vita a rifuggire e corteggiare i fantasmi della guerra, in Vietnam, in Afghanistan e in Birmania, l'eroe tornò dove tutto era cominciato: nella vecchia e diroccata tenuta di campagna che da Skyfall in poi sembra essere diventata l'utero figurativo di tutti i vecchi eroi del Novecento in dismissione.
Dunque, cerchio chiuso. Quello che Last Blood fa appare come un controsenso: anziché mettere il punto, rilancia, con un corollario che più che di epilogo sa di reboot. Ed ecco che la figlia putativa di John, giovane latinoamericana cresciuta nella fattoria e ora adolescente, decide di partire per il Messico alla ricerca del padre fuggitivo. Tempo venti minuti in un generico oltrefrontiera che neanche Gotham City, finirà rapita, drogata e coinvolta in una tratta delle bianche gestita da un aspirante càrtel di brutti ceffi locali. E' il trigger: un Rambo settantenne emergerà dalla magione di ricordi e fucili e canzoni dei Doors (un macabro mausoleo del 1969 più vicino alla Casa dei Mille Corpi di Zombie o a quella di Hooper che alla base di un eroe), e romperà il suo esilio per spazzare via una nuova indisciplinata minaccia etnica.

Rambo: Last Blood arranca lentissimo, claudicante, con l'andamento atrofizzato del suo ottuagenario protagonista, attraverso un'ora di infinita premessa poliziesca, atta a fornire a Rambo un motivo valido per tornare in scena e giustificare così la fondamentale mezzora conclusiva. In vista di ciò, Sly-scrittore si appoggia al consueto corteo di archetipi e stereotipi offensivi, buoni come leva di sceneggiatura per scatenare il grottesco killing spree finale di un eroe ormai definitivamente mutatosi in creatura horror.
E' questa forse la chiave di lettura più forte di Last Blood, ed è un peccato che né Sly né il regista-marionetta Adrian Grunberg sembrino rendersene conto. Questo Rambo, cronologicamente e fisicamente lontano dall'inferno del suo mondo, è oggi un oscuro energumeno che affila machete in una catapecchia dell'Arizona: un immagine più vicina a Leatherface che ad un'ex icona dell'eroismo militare USA. Quando John vince la propria ritrosia e abbraccia "il cuore nero del mondo", è difficile credere che ciò avvenga con dolore e rimorso: il moscissimo film decolla quando decolla la violenza, ed esplode con un gusto per lo splatter che mal si coniuga con il travaglio interiore del protagonista. A maciullare i cattivi, Rambo sembra divertirsi un mondo. E di sicuro ci divertiamo noi: è forse questo il controsenso atavico iscritto nel DNA di questa saga e di questo personaggio, un folle traumatizzato che racconta gli orrori della guerra mentre sfonda crani per il tripudio della sala. Ma Sly e compagni amano troppo John per affrontare una lettura del genere (capiamo qui quanto fu importante lo sguardo giovane e combattivo di Ryan Coogler in Creed) e continuano così a venerare ed esaltare un protagonista, che ora più che mai, assume i contorni del mostro.

Rispetto all'ovvio paragone di Rocky, il problema di Rambo: Last Blood è che il suo eroe mal si presta a questa narrazione elegiaca. Da un punto di vista figurativo come cinematografico, Rambo non vive all'infuori della giungla, della guerriglia, delle esplosioni. Il veterano del Vietnam e di tutte le guerre USA non può reincarnarsi in una banale fantasia poliziesca: riportare Rambo ad un contesto "realistico" ne riduce la maschera a generico epigono di un Taken qualunque. Troppo tardi e troppo poco per un'icona di importanza storica incalcolabilmente superiore.
A differenza di quelle opere recenti dell'autore che sembravano espandere i propri universi verso nuove cerchie di pubblico, Last Blood si rivela dunque un film per fan. Il Rambo 2019 è un b-movie che guarda agli appassionati, i quali aspettano e si aspettano riferimenti precisi e inquadrature calcolate per il loro idolo. Lo sa anche Sly, ed è su questo feticismo (di un arco, di una cicatrice, di una canzone) che incentra il suo film. Quella di Last Blood è una piccola storia per un piccolo prodotto. Un ritorno fuori tempo e fuori dal tempo, riemerso dal sottosuolo per compiacere un vecchio pubblico, e scandalizzare il nuovo millennio.

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Adrian Grunberg Sylvester Stallone Yvette Monreal Paz Vega Adriana Barraza Sergio Peris-Mencheta 89 minuti
USA 2019
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Burning - L'amore brucia

di Matteo Berardini
burning recensione film lee chang dong d

«L'unica cosa di cui ci si può sentire in colpa è cedere terreno riguardo al proprio desiderio»
Lacan

Tutto brucia.
Desiderio, appetito, sogno, ossessione. Spettri. Siamo tutti ossessionati da spettri, dai fantasmi di ciò che siamo stati e abbiamo vissuto in passato, dai fantasmi di ciò che inseguiamo e bramiamo per il futuro. Posseduti da forme virtuali che non sono qui, nel tessuto fisico del presente, ma agiscono e generano conseguenze come se fossero reali. Per il pensatore Jacques Derrida questa “presenza dell’assenza” prende il nome di hauntologia, in un gioco di parole che fonde il termine ontologia (studio dell’essere in quanto tale e delle sue caratteristiche essenziali) con il verbo inglese to haunt (infestare, ossessionare). Il neologismo compare nell’opera Spettri di Marx e serve a sottolineare come ogni entità esista sulla base delle assenze che la precedono e la seguono; le nostre vite quotidiane con tutte le loro pulsioni e insoddisfazioni, desideri e angosce, sono circondate da fantasmi, un’infestazione che agisce sul qui e ora dalle due direzioni tracciate da ciò che non è più (e il cui effetto permane posticipato come esperienza, trauma, rimorso) e da ciò che ancora non è (il precipitare sull’oggi di aspettative, desideri, sogni). Tratto da un racconto breve di Haruki Murakami (a sua volta elaborazione di una storia di Faulkner, entrambi mantenuti come modelli), Burning – L’amore brucia è uno dei film che meglio racconta la cifra contemporanea di questa “causalità spettrale”, mettendo in scena un triangolo di personaggi scissi tra alienazione quotidiana e fame di vita, intenti a cercare un posto nel mondo nonostante il loro orizzonte sia infestato da assenze e fantasmi, passati e futuri.

Arma potente l’immaginazione. Può creare e disfare, alterare il reale e mistificare il vuoto. Gesti e sguardi se ben controllati trasformano l’aria in qualcos’altro, creano mandarini, gatti, omicidi. Ce lo insegna il personaggio di Hae-mi, ragazza insoddisfatta dal proprio lavoro che viaggia appena può e intanto studia pantomima, l’arte di fingere che vi sia ciò che non c’è. «Il trucco è dimenticare che i mandarini non ci sono», dice al suo ex compagno di scuola Jong-soo, aspirante scrittore che la derideva da bambino e la desidera da adulto, e che vive come in una bolla nella casa di campagna del padre, ora in carcere per un’accusa di aggressione. I due giovani si ritrovano, riprendono a conoscersi e vanno a letto assieme, ma dopo un viaggio di lei compare un terzo elemento a ricalibrare il quadro, il ricco e fascinoso Ben, serafico uomo d’affari che sembra il figlio prediletto della nuova economia coreana. Pezzo grosso dell’import-export si definisce lui, è un Gatsby dalle ricchezze misteriose per lo sguardo letterario di Jong-soo. Da qui, tra i tre personaggi viene a crearsi un rapporto ambiguo, in cui desideri, pulsioni e paure crescono come fiumi carsici e invisibili, emotività che assediano ogni gesto senza esplodere (quasi) mai.
Tra il thriller e il melodramma, Burning costruisce un racconto rarefatto che come le superfici più glaciali non può essere sfiorato senza che ci si resti in qualche modo attaccati. In questo senso il sesto film di Lee Chang-dong compie il miracolo di asciugare e congelare la sua materia, narrativa e stilistica, arrivando a un cuore selvaggio che brucia e lascia segni nel cuore e nella mente. Un risultato che il regista coreano – già autore di film straordinari come Poetry – raggiunge attraverso una sceneggiatura che bilancia magistralmente il dentro e il fuori campo, e grazie a un controllo stilistico che ha dell’incredibile. Tra i tanti momenti memorabili è impossibile non citare la lunga scena al crepuscolo nella casa di campagna di Jong-soo, un confronto che evolve in una danza tribale accompagnata dalle ultime luci del giorno, momento lynchiano da cui traspare tutta l’evanescenza del mondo e di questi personaggi, ai cui piedi sembra quasi di veder aprirsi una piccola scatoletta blu, da cui emergono i toni della paranoia e del thrilling che da quel momento domineranno sempre più il racconto.

burning recensione film lee chang dong

Nel suo Spettri della mia vita, Mark Fisher recupera il concetto derridiano di hauntologia e lo mette in relazione alla lenta cancellazione del futuro, che nelle sue riflessioni si lega alla retromania della nostalgia postmoderna e diventa uno dei caratteri perspicui del vivere contemporaneo. Burning non è un film apertamente politico o teorico, se ne tiene ben lontano, eppure la sensibilità registica di Lee Chang-dong permette a questo triangolo di personaggi di diventare cartina tornasole di un momento storico in cui l’individuo è assediato da quelle condizioni di liquidità e alienazione che ben conosciamo, e che sono tipiche di quella che è stata definita logica culturale del tardo-capitalismo. L’insoddisfazione e l’angoscia sono palpabili ma per gran parte del racconto senza forma, come virtuale resta la tensione conflittuale tra Jong-soo e Ben, o la pulsione distruttiva e riequilibrante di quest’ultimo. Quel che si crea in questo rapporto a tre è un grumo invisibile eppure concretissimo, che si nutre di disparità classiste, compulsioni libidiche e bisogno disperato di trovare il proprio posto nel mondo, soprattutto se quel mondo è una landa post-ideologica priva di strutture sociali, economiche o di pensiero che possano fare da supporto e humus alla costruzione di un senso di sé. È il furto del futuro e il dominio dell’assenza, di ciò che è stato e che un tempo poteva essere, a rendere Burning un film impalpabile e assieme estremamente contemporaneo, urgente, capace di raccontare attraverso l’assenza di forme retoriche evidenti tutto il disagio e la non-realizzazione di questi tempi fuor di sesto.

«Non c’è giusto o sbagliato ma solo la moralità della natura» dice Ben a Jong-soo nel momento in cui confessa al ragazzo la sua passione piromane – o quello che, metaforicamente, rappresenta. Ben è l’unico dei tre protagonisti in grado di sfuggire all’assedio del virtuale e di afferrare il presente ricavandone certezze. Jong-soo dal canto suo deve accontentarsi invece dei riflessi di luce che una volta al giorno arrivano nella stanza di Hae-mi, spiragli di un mondo che si estende oltre le vetrate a specchio di una torre e che resta irraggiungibile. Per lui forse solo l’arma dell’immaginazione può funzionare a scardinare questa condizione di causalità spettrale, affinché il fantasma delle cose assenti venga esorcizzato dal reale e il lutto di ciò che è stato, genesi creativa del nuovo che verrà, possa finalmente compiersi. Nel finale il suo gesto è simile a quello di Ben, altrettanto radicale, per quanto forse solo immaginato. Ma del resto realtà e finzione danzano e si scambiano di posto, e nel loro fondersi si spezza finalmente la stretta asfissiante del fantasma, la presenza dell’assenza. E cosa  purifica e azzera meglio del fuoco?
Tutto brucia.

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Lee Chang-dong Jong-seo Jun Yoo Ah-In Steven Yeun 148 minuti
Corea del Sud 2019
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Il colpo del cane

di Matteo Berardini
il colpo del cane recensione film risuleo

A Roma, sulle colline del Trullo, nel mezzo di quel pratone che si estende tra la Magliana e la Cristoforo Colombo, svetta un edificio dal fascino particolare; è la Torre Righetti, casino di caccia in stile neoclassico costruito nel 1825 e ormai abbandonato. Da lì oggi si gode di una vista non comune, un panorama che include le palazzine futuriste dell’Eur e San Paolo per arrivare fino a San Giovanni e Santa Maria Maggiore. Cinquant’anni fa, in quei prati di pascoli e sterpaglia, Pasolini lasciava vagare Totò e Ninetto Davoli nel suo Uccellacci e uccellini; oggi tocca a un giovane regista romano – diplomato del CSC e neanche trentenne – riscoprire quella vista e quelle mura, perché è lì che Fulvio Risuleo cala il suo Il colpo del cane, storia a incastro il cui triangolo di protagonisti – un trio di giovani precari ed emarginati sociali – si muove attorno alla Torre e attraverso i campi abbandonati che la circondano.

Già Guarda in alto, l’esordio al lungo di Risuleo dopo i due corti selezionati e premiati a Cannes (Lievito madre e Varicella), nasceva dalla necessità di guardare Roma da una prospettiva altra, un punto di vista inedito che permettesse alla narrazione di assumere atmosfere oniriche e allo spazio urbano di rinnovarsi facendosi contenitore attivo di storie. Lì erano i tetti e le mura della città a svolgere questo ruolo creativo, qui sono gli spazi western di Roma Sud, scorci dimenticati che Risuleo dissotterra e sfrutta per ridisegnare ancora una volta l’identità cinematografica di Roma. Guarda in alto lavorava in tal senso sul registro onirico del Gondry più fiabesco e lussureggiante, Il colpo del cane invece guarda agli elementi del cinema criminale di periferia – personaggi border, disagio sociale, un colpo da portare a compimento – ma popola la sua storia e i suoi spazi di personaggi fumettistici e stilizzati ricavandone un gesto eversivo, tra l’amaro e l’ironico. Viene in mente, guardando Il colpo del cane, il lavoro che il giovane regista romano, diplomato del Centro Sperimentale, ha dedicato ai quartieri più weird e nascosti di Parigi, quel Reportage Bizarre che  - nomen omen – svelava già un rapporto non usuale con lo spazio e le sue possibilità di racconto.

Nella cultura classica romana il futuro si prevedeva, tra le altre cose, con un lancio di tre dadi. La combinazione più sfortunata era quella formata da un triplo 1, e che veniva detta il colpo del cane; per la serie, se qualcosa può andare male fidati, andrà peggio. E in effetti Rana, Marti e Orazio non sono proprio personaggi che ispirano fortuna, per quanto a gravare su di loro sia più che altro quel meccanismo di emarginazione sociale e vaga depressione quotidiana che sembra precludere ogni alternativa all’arrabattarsi o alla delinquenza. In quest’orizzonte privo di possibilità la regola sembra essere quella, si perdoni il gioco di parole, del cane mangia cane, guerra tra poveri in cui ci si inganna e deruba a vicenda. Ma Il colpo del cane non vuole essere l’ennesimo spaccato di periferia urbana, e così alla creazione di nuovi spazi cinematografici segue anche lo svelamento di una struttura a ingranaggi in cui la storia parte, si ferma a metà strada e poi torna su sé stessa forte di un nuovo punto di vista, che andrà ad arricchire il lato umano e narrativo di quanto visto. Un gioco a incastri che sicuramente tradisce una certa difficoltà del regista a gestire la forma del lungometraggio – e la maggior impalcatura di scrittura che questa comporta – essendo di fatto il film l’incontro di due cortometraggi imparentati, ma che comunque rivela la volontà di attirare lo spettatore nelle maglie della commedia per poi condurlo altrove, spiazzarlo, offrendo nuove soluzioni che non si limitano a essere gioco ipertestuale ma tentativi di sparigliare le carte in quell’orizzonte altrimenti così asfittico e granitico qual è quello della commedia popolare italiana.

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Fulvio Risuleo Edoardo Pesce Daphne Scoccia Silvia d'Amico 93 minuti
Italia 2019
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Marghe e Giulia, crescere in diretta

di Arianna Pagliara
Marghe e Giulia crescere in diretta di Alberto Gottardo e Francesca Sironi

Margherita e Giulia sono due bambine di dodici e nove anni e vivono a Giugliano, in provincia di Napoli. La loro quotidianità sembra essere la stessa di molte coetanee: la scuola, i compiti a casa, una passeggiata, una gita al lago, un po’ di relax sul divano. Se non fosse che tutto ciò che fanno – andare al centro commerciale, mangiare una pizza, scartare un regalo – viene filmato e poi condiviso su youtube, dove le ragazzine hanno un canale (gestito dai genitori) che vanta più di trecentomila follower. Video che arrivano fino a due milioni di visualizzazioni, girati spesso dal papà che ha trasformato la cameretta delle figlie in un set cinematografico; fan che commentano a tutte le ore a volte con entusiasmo e a volte – invece – con astio e disapprovazione; e ancora fan che fermano le due bambine per strada sperando in una foto o in un autografo, come fossero piccole dive su un red carpet.

Prodotto da Somewhere studio e Sky Atlantic, Marghe e Giulia, crescere in diretta è stato realizzato da Alberto Gottardo e Francesca Sironi, registi che si avvicinano al cinema con alle spalle percorsi che riguardano, rispettivamente, la fotografia e il giornalismo. Di fronte a un soggetto come quello scelto dai due autori ci si sente inevitabilmente in difficoltà, quasi intimiditi. Da un lato è impossibile, a ben guardare, non porre in atto una (ulteriore) concreta invasione di quell’ambiente intimo e familiare che, sebbene volontariamente, si sottopone già a una continua sovraesposizione scopica. Dall’altro si comprende appieno l’urgenza di raccontare e approfondire un caso che trascende la sua singolarità per farsi segno e sintesi di fenomeni dalla portata molto più ampia e di estrema stringente attualità.

Tuttavia Gottardo e Sironi riescono a trovare, con naturalezza e agilità, l’unica chiave espressiva possibile per sviluppare questo non facile progetto: scelgono la più assoluta e attenta sospensione del giudizio, scelta che peraltro rende meno problematica la necessità di doversi muovere, inevitabilmente, dentro alla realtà rappresentata, in virtù della fiducia accordata ai registi dai “non attori” protagonisti, ovvero le due piccole youtuber e i loro genitori Luigi e Maria. È lo spettatore, dunque, che viene chiamato a vagliare con cautela e soppesare con cura questa resa fenomenologica di un reale che, pur se restituito semplicemente nudo e crudo a livello linguistico, resta tuttavia densissimo di implicazione sociologiche, se non psicologiche e – ovviamente -  etiche.

Del resto era il 1967 quando Jacques Tati, in Playtime, rinchiudeva il suo spaesato Monsieur Hulot in un appartamento-vetrina, ipotizzando uno sguardo spettatoriale che fosse teoricamente esterno ma praticamente interno, in nome di una totale, destabilizzante cancellazione del privato ormai all’ordine del giorno in una fredda e respingente Parigi futuristica. Se a questo si somma la capillare pervasività delle tecnologie contemporanee, dove, per forza di cose, come insegna McLuhan “il medium è il messaggio”, si arriva a un inevitabile cortocircuito. Il desiderio di migliaia di persone (è possibile non definirlo voyeristico?) di guardare una ragazzina che “piange a dirotto per 5 minuti” – questo il titolo del video più cliccato – stravolta dalla felicità per aver ricevuto in regalo un preziosissimo iPhone, si sposa perfettamente al desiderio (è possibile non definirlo narcisistico?)  che il “mondo” assista, certifichi e in un certo senso  renda questa felicità pubblicamente esibita più vera del vero.

Non vogliamo qui di entrare nel merito delle scelte genitoriali operate dai protagonisti del documentario – rispetto alle quali si aprirebbe un discorso infinitamente ampio, giustamente complesso - ma piuttosto di rimarcare il potenziale del cinema (documentario e non) come spazio essenziale di riflessione sul reale, poiché di fatto sa esserne insostituibile luogo di condensazione di segnali che rivelano cruciali mutamenti del sentire e anticipazioni dell’agire sociale.

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Alberto Gottardo Francesca Sironi 64 minuti
Italia, 2019
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Submergence

di Leonardo Gregorio
Submergence - recensione film wenders

C’è qualcosa, del cinema di Wim Wenders, che continua a stupire, perfino a commuovere, una misteriosa trasparenza  fuori tempo di questo cinema, una fede nel racconto del mondo, anche se il mondo sembra aver smarrito ogni senso plausibile, possibile, determinato. Quasi più nessuno crede in Wenders, ormai. Da molto. Wenders come «guru vieppiù convinto del proprio ruolo». «Un cinema che compiace, un cinema che fa sembrare intelligente e sensibile un pubblico di mediocri e colti benestanti, un cinema che è insieme scaltro e riduttivo e quasi sempre kitsch». Ecco, Fofi almeno, anni fa, la metteva in questi termini.  Oggi, spesso, il regista tedesco ha la volatilità di un post, è una battuta rapida, un’irrisione social (dunque brillante). Eppure, è difficile trovare qualcosa che assomigli alla verità che questo autore, ancora, anche nella sue involuzioni, nelle intuizioni e negli approdi meno esaltanti, continua a coltivare: una verità che può non coincidere con la credibilità, né ha pretese assolute o tantomeno assolutorie, piuttosto è una verità ideale, una verità in progress, sensibile, imperfetta, desiderabile. Submergence (era al Festival di Toronto 2017 e in pochi si sono accorti del suo passaggio nelle sale in Italia ad agosto di quest’anno) da tale punto di vista è emblematico. 

Tratto dall’omonimo romanzo di J.M. Ledgard, il film fa dei suoi due protagonisti i vettori di questa ricerca, affida tutto – anche quello che allo spettatore non è dato sapere –  al loro amore che circola nel tempo e nello spazio e al ricordo che pulsa costante, che consente loro di non capitolare. Una biomatematica ossessionata dai fondali oceanici, dalla vita senza luce, lei; lui, uomo dell’intelligence britannica. In Normandia, sulla spiaggia, si innamorano in un niente. Lui poi parte per la Somalia, lei per un’importante operazione sottomarina. James verrà catturato dai fondamentalisti islamici; Danielle arriverà in profondità. 

Un film insieme freddo e caldo, diviso tra una parte e l’altra, tra un prima e un dopo, unione e separazione tra lei e lui, tra la profondità e le superficie, l’acqua e la terra, il buio e la luce, lo spazio profondo e un’Africa tremenda, tra Alicia Vikander e James McAvoy. Un film che si alimenta di mélo e thriller sul filo perenne del pensiero, del ricordo che ricama il dettaglio, la parola, gli sguardi, la vicinanza e la perdita. Opera produttivamente pensata per il grande mercato, mentre l’occhio e la memoria ritornano per alcuni istanti a Jean Vigo;  film che si potrebbe vedere anche a ritroso, dalla fine all’inizio; che attraverso l’amore non terminato chiede al mondo di sottrarsi alla catastrofe. È un film che è fragile e stucchevole insieme, tanto collocabile, identificabile, quanto ingenuamente “scoperto”, rinchiuso in un “illusione” che si affida ai suoi personaggi senza bleffare mai, in un “come se” continuo, fluido: come se i personaggi potessero in ogni inquadratura auto-descriversi pienamente, attribuirsi sempre senso, colmare lacune, occupare il tempo, lo spazio, il sentimento, il loro, quello del mondo, quello del film.  Come se il cinema potesse bastare, sempre, anche quando in sommersione, in submergence appunto, portandosi dietro, dentro, al fondo, ogni traiettoria, ogni percezione, ogni gioco di riflessi, di scrittura, di montaggio, di porzione del mondo. Ecco, Submergence è l’evidente verità ideale, oggi, di Wenders, e ci dice che il cinema, anche quando “non funziona”, anche quando sbaglia, forse ha visto qualcosa che non abbiamo visto noi.

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Wim Wenders James McAvoy Alicia Vikander 112 minuti
Germania, Francia, Spagna, USA 2017
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The Boys

di Alessandro Gaudiano
The Boys – recensione serie tv Amazon Video

I supereroi sono ovunque. Al cinema, in edicola, tra gli scaffali dei giocattoli, nelle confezioni dei cereali. Li troviamo in casa nostra, alla TV, o come forme poligonali delle nostre fantasie digitali. Una mitologia pop pervasiva, anche troppo, che da tempo ha sviluppato i propri anticorpi in una ricca serie di parodie, critiche e decostruzioni. A corrodere la maschera di vigilanti in costume e superuomini disumani ci hanno già pensato Alan Moore, Frank Miller e molti altri; tra questi, troviamo anche il britannico Garth Ennis, che ha scritto il fumetto Preacher e, appunto, The Boys.

Dopo Preacher, anche The Boys gode di un adattamento web televisivo, distribuito ancora una volta da Amazon Prime Video. I Boys sono una squadra sgangherata che si occupa di lottare in segreto contro i supereroi e unita da un desiderio di giustizia o, più spesso, di vendetta. I supereroi tendono, in questo universo immaginativo, a militare tra le file dei cattivi. Molti di loro sono corrotti dall'eccesso di potere e di celebrità, mentre la loro immagine pubblica è attentamente costruita e controllata da dipartimenti di marketing e social media manager. I più famosi tra essi sono i Sette, eroi di interi generazioni e salvatori della patria con molti scheletri nell'armadio. Le vittime dei "danni collaterali" o delle brutalità dei supereroi sono costrette al silenzio o ai margini della visibilità pubblica. Hugh (Jack Quaid) è uno di questi: la propria ragazza gli esplode letteralmente tra le mani. "Hughie" viene reclutato da Billy Butcher (Karl Urban) per vendicarsi del torto subito; Billy è convinto che tutti i supereroi siano pericolosi e che vadano eliminati, ma la questione si complica quando Hugh si innamora di Starlight (Erin Moriarty), ragazza giovane e idealista che è appena entrata a far parte dei Sette.

The Boys, al netto di qualche difetto di scrittura, funziona. Funziona, prima di tutto, perché è ben confezionata e si attesta su una qualità visiva e un livello produttivo elevati. La scelta degli attori è tra le migliori che si potessero concepire; in particolare, Karl Urban e Antony Starr (nei panni dell'inquietante Homelander) danno alla serie un valore aggiunto inestimabile con le loro interpretazioni. La decostruzione dell'epica del supereroe non è, invece, nulla di nuovo, né lo sono l'umorismo nero o gli eccessi di violenza che contraddistinguono la serie (e che sono comunque temperati rispetto ai parossismi del fumetto). Se si trattasse solo di questo, potremmo definirla come una serie innocua e tornare all'azione sanguinosa di Preacher, alla comicità sguaiata di The Tick oppure ai film di Watchmen, Hancock o Kick-Ass.

Piuttosto, The Boys punta ad aggiornare questo discorso a dinamiche a noi più vicine, adattando il fumetto di oltre dieci anni fa ad un racconto televisivo adeguatamente ripensato per il nuovo formato e le dinamiche dei social network dei tardi anni Dieci. Non è un caso, per esempio, che la tetra multinazionale che sponsorizza i Sette ricordi molto da vicino la Walt Disney Company che, ricordiamo, ha assorbito Marvel nel 2009. Nè sorprende che i Sette siano così simili a personaggi che ben conosciamo, come Superman, Capitan America, Daredevil o Aquaman. Buona parte della trama ruota attorno a indici di gradimento, engagement sui social media, lobbismo a livello politico e militare, manipolazione dell'opinione pubblica. Ad esempio, quando Starlight prova a salvare una ragazza da una violenza sessuale, viene punita perché nessuno ha filmato l'evento in modo da garantirle un ritorno d'immagine. Un'altra eroina, Queen Maeve (Dominique McElligott), le confessa che non si ricorda nemmeno più l'ultima volta in cui ha davvero salvato la vita di qualcuno. L'eroismo, qui, è una questione pubblicitaria.

Questo è il mondo di The Boys: un mondo dominato dal denaro, cinico, pragmatico. I supereroi sono solo degli uomini con passioni e difetti molto umani, con un potere enorme a loro disposizione. Del mito, qui, resta solo l'asimmetria di potere tra chi sta in cima all'Olimpo e le masse brulicanti alle sue pendici. Forse, il punto più alto toccato dalla serie arriva nel momento in cui fa convergere la retorica teocon americana con la vocazione messianica dei supereroi, uomini toccati dalla "grazia" di un potere apparentemente inspiegabile. Esaltati da preghiere e scenografie religiose, i supereroi diventano i santoni e predicatori di un'America confusa e adorante. Ma la serie tocca da vicino molti altri temi difficili, dal movimento #MeToo alla politica estera statunitense in Medio Oriente, con esiti non sempre impeccabili ma mai banali.

Più in generale, la serie sorprende e dà il suo meglio quando mette in scena, e demolisce, la società che ha prodotto e che sembra avere sempre più bisogno di eroi, super o tradizionali. Non tutti i temi e i protagonisti riescono ad essere adeguatamente sviluppati nel corso delle prime otto puntate, ma è molto chiaro che i produttori hanno deciso di puntare da subito su una seconda stagione, già confermata, per sviluppare un arco narrativo ben più ampio. Va letta in questo senso la natura puramente funzionale di un finale di stagione che, in realtà, serve solo a porre ulteriori domande e stimolare la curiosità per ciò che verrà in futuro: in questo senso, The Boys ottiene il risultato sperato.

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Karl Urban Jack Quaid Antony Starr Erin Moriarty 1 stagione da 8 episodi
USA, 2019
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