Cop Land

di James Mangold

Gli attori, il classicismo, il racconto americano: nel secondo film di James Mangold si affina la poetica del regista, con uno dei più bei noir degli anni '90.

Cop Land - Recensione film Mangold

Pochi film sono capaci di riecheggiare il proprio periodo di realizzazione come Cop Land. Erano gli anni di Tarantino, del neo-noir, e dell'improvviso interesse dell'industria americana nei confronti dei giovani geni o presunti tali del cinema indipendente.
Dai circuiti dei festival USA degli anni 90 sarebbero stati lanciati nel giro di poco tempo decine dei futuri campioni del mainstream, forgiatisi alla corte del Sundance di Redford e presto corteggiati dalle innamoratissime major.
Con l'Europa (Cannes in particolare) era una gara continua alla scoperta della next big thing, del wonder boy, degli eredi dell'ormai stanca e omologata generazione della New Hollywood. In un simile contesto, il giovane James Mangold si era giocato alla grande la sua carta d'esordio con Dolly's Restaturant, praticamente un compendio di tutto quell'immaginario creativo: tra Soderbergh, Van Sant, Coen bros e tanto noir, il film del 1995 aprì al trentaduenne regista le porte degli studios, ansiosissimi di investire su un nuovo possibile fenomeno. A prenderlo a bordo fu ovviamente la Miramax di Harvey Weinstein, mecenate e guru produttivo di un'intera generazione di registi ancora oggi in comprensibile difficoltà al momento di ricordarne l'apporto.

Lo sviluppo di Cop Land seguì al millimetro il copione del periodo: regista giovane del circuito indie, crime low-budget, voglia di guardare ai “generi” degli anni '70 con rinnovato sguardo autoriale. Per partire, mancava solo il grande attore in parziale declino, magari con la voglia di rimettersi in gioco con un personaggio in antitesi alle sue corde. A prendersi il ruolo di Henry Heflin non furono però John Travolta o Dennis Hopper, ma Sylvester Stallone.
Mentre il pubblico USA riscopriva la figura dell'Autore da festival, il campione dell'immaginario eighties non poteva che passarsela male. Toppati film fino a cinque anni prima infallibili (Dredd, Daylight, persino l'Assassins di Richard Donner), intrappolato in una fase personale a metà tra la fine del gradimento popolare e la riscoperta critica che sarebbe arrivata nel decennio successivo, Stallone si scoprì per la prima volta in vena di sperimentalismi. Nacque da qui il personaggio forse più alieno della sua carriera.
La presenza di Sly nel ruolo del protagonista è il colpo del campione di Cop Land. Mangold costruisce saggiamente l'intero film sulla distruzione del simbolo-Stallone: non solo grasso ma stupido, lento, persino mezzo sordo e maltrattato senza ritegno dalla pur sentimentalissima sceneggiatura dello stesso regista. Il suo Heflin (Heflin come Dan, protagonista di quel Treno per Yuma che l'eclettico autore già allora non vedeva l'ora di rifare) è Sly, nel più tipico esempio di “sovrapposizione” di cui è storicamente capace l'attore newyorkese. A disagio tra i poliziotti “bravi” (ma ambigui e malvagi) della city, lui, cretino del New Jersey con la pancia e il lavoro d'archivio nella suburbia, sarà costretto ad affrontare la propria codardia per denunciare una rete di colleghi corrotti.

La soggezione mista a voglia di rivalsa e forse anche ad un po' di rancore che Heflin prova nei confronti dell'NYPD, non era forse molto diversa da quella di Stallone stesso per quegli Dei dello schermo che lo circondano sul set di Cop Land. Eroi della critica e dell'Academy, sempre premiati, sempre arrivati davanti a lui nella vita e nella carriera, e con i quali Mangold lo spinge ora per la prima volta a confrontarsi. Per una sorta di congiunzione astrale, Cop Land si ritrova infatti ad avere forse il cast più clamoroso di quella stagione. Robert De Niro (il De Niro anni '90, quando con Al Pacino e Jack Nicholson ogni film era una gara di overcacting a distanza), Ray Liotta e ovviamente Harvey Keitel, simbolo e patrono di quella nuova scuola indie-noir e molto probabilmente l'attore americano più decisivo del decennio. Non solo: Peter Berg (a proposito di futuri campioni del mainstream), Robert Patrick, mezzo cast dei Sopranos. Letteralmente un dream team. Tutti al servizio di Sylvester Stallone, eroico e patetico protagonista working class, con la gobba e senza muscoli.

Rivisto oggi, oltre che un dramma impeccabile al quale il tempo ha meritatamente fatto giustizia (a parte quell'idea di scioglimento finale risolto a cannonate), Cop Land è quindi la foto ricordo di una stagione. Dallo script all'estetica, dai dialoghi al malinconico mood, il secondo film di Mangold è testimone di quella particolare stagione di divismo crime, quando gangster e sbirri con i baffi erano al centro delle urgenze creative: un'ondata (ri)partita con Scorsese e cavalcata da un'intera generazione di esordienti, che proprio con Cop Land avrebbe regalato gli ultimi fuochi al poliziesco classico prima di vederlo risprofondare nel sottobosco del dtv. Un palco stellare per le ultime grandi interpretazioni di metà del cast coinvolto, alle ultime chiamate prima dei fatidici sessant'anni e il diradarsi dei ruoli da protagonisti. James Mangold, con la luce negli occhi di chi è al secondo film e può finalmente fare ciò che vuole, guarda alle pellicole che amava da bambino, spiana la strada ad una carriera divisa tra il racconto popolare americano (il western, l'hard-boiled) e il veicolo per divi, fa un film nato vecchio e per questo bellissimo ancora oggi.

Autore: Saverio Felici
Pubblicato il 05/11/2019

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