Madre

di Emanuele Di Nicola
Madre - Rodrigo Sorogoyen recensione film

Un bambino si perde su una spiaggia. Una madre smarrisce un figlio. Dieci anni dopo, sulla stessa spiaggia, crede di rivederlo. Una sorpresa del Festival di Venezia arriva dalla sezione Orizzonti: come sempre chiamiamo “sorpresa” ciò che non ci aspettiamo, perché il regista di Madre, lo spagnolo Rodrigo Sorogoyen, riprende il suo corto dallo stesso titolo e lo reinventa cambiandone in maniera inaspettata il registro. Lo spiega lui stesso: «Mi sono allontanato dagli aspetti da thriller del cortometraggio che lo ha preceduto per esplorare la storia intima di una madre anni dopo che ha perso il figlio».

Ecco allora Elena (una magnifica Marta Nieto) che nell'incipit perde la prole: il bambino si trova sulla spiaggia da solo, per negligenza paterna, mentre il cellulare si scarica viene avvicinato da un uomo. È l'ultima notizia conosciuta: vittima di un pedofilo? Non lo sappiamo, ma questo basta per portare Elena alla separazione. L’ellissi ci conduce a lei oggi, barista sulla spiaggia, che “rivede” il figlio perduto nell'adolescente Jean (Jules Porier, non inferiore alla protagonista) e quindi inizia a seguirlo.
È davvero suo figlio? Su questo nodo si sviluppa il racconto. Sorogoyen manovra il film su più confini: Francia e Spagna, con le pedine che si portano dall'una all'altra e il dialogo costantemente bilingue; ragione e follia, perché l'intimo di Elena si muove sempre su una linea sottile e pericolosa; soprattutto amore tra madre-figlio contro rapporto tra amanti. La natura del legame tra Elena e Jean è infatti perennemente ambiguo: a metà tra sentimento e carnalità, tra affinità mentale e contatto fisico.
Ma Madre è anche, soprattutto, un film sulla spiaggia. Ricordate Charlotte Rampling che cerca il marito in Sotto la sabbia di Ozon? È ancora sotto la sabbia che si annida un mistero: qui ciò che è scomparso può tornare sotto altra forma, ciò che abbiamo perso si può forse ritrovare. Basta volerlo vedere: tra le spiagge di Rohmer (Elena, di fatto, vive “á la plage”) e le estati di Kechiche, si dispiega il balletto tra i protagonisti che in un caso diventa perfino letterale, sulle note de L’estate sta finendo.

Affresco di una madre (da titolo: letterale), percorso dal buio verso la luce, thriller mentale e perfino etico, all’ombra del possibile incesto, Madre semina dubbi e sospetti, doppi e ritorni, perdite e risarcimenti (la telefonata finale che “rimborsa” quella iniziale). Peccato solo che voglia smaccatamente chiudere il cerchio, e dunque la fine porta all’esplicito superamento del trauma che si poteva tacere; ma anche così resta un ottimo risultato, un film dall’odore ozoniano.

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Rodrigo Sorogoyen Marta Nieto Julies Porer Anne Consigny Alex Brendemühl Frédéric Pierrot 128 minuti
Francia, Spagna 2019
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Panama Papers

di Matteo Berardini
Panama papers the laundromant recensione film soderbergh netflix

Cosa implica una transazione diretta tra merci o tra beni mediati dal denaro? Oscillazione di potere, dispiego di forza lavoro, interazione umana. In ogni sua forma il denaro è l’esercizio di relazioni sociali, e se nel mondo post-umano di oggi sempre più elementi di linguaggio e di espressione sociale precipitano nel virtuale, nella dialettica dicotomica di 0 e 1 che proietta nell’orizzonte digitale azioni e comunicazioni, perché lo stesso non dovrebbe accadere al denaro? Ecco così che dallo scambio di «mucche e banane» passiamo, stacco di montaggio tra la clava d’osso e l’astronave, all’immaterialità di bond, futures, derivati, ricchezze finanziarie che viaggiano, si moltiplicano e nascondono nelle infinite reti sotterranee dell’economia globalizzata. Sono significati in fuga dai loro significanti, ricchezze virtuali che necessitano per vivere di scatole cinesi altrettanto immateriali che si ripetono come frattali, attraverso le macro e micro economie di tutto il mondo. Partendo dall’inchiesta giornalistica Secrecy World di Jake Bernstein, Steven Soderbergh si getta nella nuova economia virtuale e prende di petto il caso dei Panama Papers, scandalo internazionale ricostruito da questo The Laundromat (Panama Papers), il secondo fenomenale film del regista per quelli di Netflix. Del resto, come spesso accade in Soderbergh e in particolare in quest’ultima straordinaria fase della sua carriera, le forme del racconto non si esauriscono mai in loro stesse ma si aprono a riflessioni, indagini e giochi brillanti sulle cifre più intime del mondo contemporaneo.

The Informant!, Contagion, Effetti collaterali. Sono questi i tre film che lo sceneggiatore di The Laundromat, Scott Z. Burns, ha già scritto per Soderbergh, tre opere vertiginose che dialogano apertamente in questo quarto lavoro dove si fondono cospirazione internazionale, economia infettiva e disfacimento del reale. Soderbergh e Burns si impegnano a ricostruire e illustrare allo spettatore la vasta organizzazione messa in piedi dallo studio legale panamense Mossack Fonseca, al centro dello scandalo giornalistico permesso da una gola profonda nel 2016. Ma questo lavoro d’inchiesta passa attraverso i più limati strumenti del cinema popolare hollywoodiano, similmente a quanto fatto da Adam McKay con La grande scommessa, dove la tradizione del cinema politico americano veniva riletta attraverso la lente comica della frat pack. Rispetto a McKay però Soderbergh non si accontenta di un solo genere di riferimento, e per la sua rivisitazione decide di attraversarne molti mettendo in piedi una giostra metacinematografica capace di unire in modo esilarante riflessione teorica e ricostruzione giornalistica.

Panama Papers è assieme thriller economico e commedia grottesca, pamphlet politico e indagine giornalistica, è cinema eversivo dall’irresistibile carica morale, il tutto attraverso un impianto metalinguistico che sfonda la quarta parete, chiama in causa cast, crew e spettatori, e svela la messinscena cinematografica per interrogarsi sul potere espressivo dell’immagine oggi. Sulla sua capacità di questionare e disvelare il reale dall’interno di un contesto socioculturale sempre più astratto e in costante, frenetico movimento. Perché per quanto si complichi la nostra vita contemporanea, per quanto contraddittorie e schizofreniche e artificiose siano le sue moltiplicazioni, non possiamo sottrarci alla dimensione etica del vivere comune, all’importanza di conservare una bussola morale che passa anzitutto attraverso la scesa in campo del racconto con tutti i suoi elementi. Per questo, per quanto divertente e divertito sia Panama Papers (e lo è davvero molto), esso resta comunque un film di feroce determinazione, che si fa strada nella giungla tassonomica sempre più autoreferenziale dei codici linguistici di oggi (postmoderno, e post-postmoderno, e post-post-moderno, e post-verità e via dicendo) e ne taglia il nodo gordiano senza ulteriori fronzoli e disseminazioni teoriche. La tradizione dell’inchiesta liberal americana di stampo anni ’70  deflagra in un gesto tanto anarchico quanto consapevole, esercitato da un regista che oggi è davvero il più grande insurrezionalista dell’immagine hollywoodiana, il cavallo di Troia che sfregia il volto perfetto dell’industria culturale insinuandosi dentro i codici e le logiche del più rodato spettacolo popolare. Panama Papers è solo l’ultimo esempio (ma uno dei più riusciti) di quanto sia importante questo modo così eversivo e politico e morale di fare cinema. Viviamo nell’era della consapevolezza, sembra dirci Soderbergh; ebbene, usiamola.

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Steven Soderbergh Meryl Streep Antonio Banderas Gary Oldman Jeffrey Wright Robert Patrick Sharon Stone 96 minuti
USA 2019
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Rare Beasts

di Riccardo Bellini
rare beasts - recensione film piper

Mandy, madre single sull’orlo di una crisi di nervi, ha una vita e una famiglia tutt’altro che perfette. Esito di una società ossessionata da una competitività asfissiante, schiacciata tra l’ansia di uniformarsi a un indefinito ideale di successo e la disgregazione dell’unità familiare, il mondo che circonda la donna si compone di una galleria di personaggi bizzarri, fallimentari, costretti a farsi largo nella vita a suon di risibili mantra motivazionali e a confrontarsi con un parentado disfunzionale. In questo caos assurto a grottesco quotidiano, tra derive di un femminismo superficiale e reazionario e infantile misoginia, Mandy si dimena per affermare la propria unicità, unica vera ancora di sopravvivenza. Non è dunque un caso che, fin dai primi spiazzanti dialoghi di Rare Beasts, lungometraggio d’esordio della camaleontica e talentuosa Billie Piper presentato a Venezia alla Settimana Internazionale della Critica, l’attrice, nei panni della protagonista, doni se stessa e il proprio (bellissimo) corpo a una mappatura di tutti quei difetti e peculiarità fisiche che ne determinano la singolarità. 

Freak e profondamente umano, dolce e squisitamente crudele, lucido e deformante Rare Beasts è esattamente come quel corpo che, consapevole di sé, non assomiglia e non vuole assomigliare a nessun altro. Giocando con i registri della commedia romantica per smontarli e rileggerli in chiave personale, il film di Billie Piper è una fiera rivendicazione della propria individualità in una società liquida e nebulosa difficilmente collocabile nel panorama cui ci ha abituato la commedia americana. A partire dai primi minuti, l’umorismo caustico della Piper trasforma l’appuntamento galante tra Mandy e un uomo appena conosciuto in un duello senza esclusione di colpi, in cui entrambi non perdono occasione per insultare l’altro. Uno scambio intriso di vivace cinismo ma magicamente venato da una dolente dolcezza che ci prepara a quanto vedremo da lì in poi. Non dobbiamo confondere questo botta e risposta con il conciliante cliché per cui i due amanti celano il reciproco amore dietro la scorza della conflittualità. Piper gioca su questo modulo ma calca molto di più la mano. Con salace onestà e spirito provocatorio fa dire all’uomo, fervente religioso, che il suo intento è quello di trovare una donna per procreare. Una dichiarazione di intenti per un film che non idealizza l’amore ma ce ne presenta le complesse, spesso assurde, traversie ai giorni nostri, svincolandosi in chiusura dal ricatto del lieto fine.

Imprevedibile come la carriera della regista, ex popstar e poi attrice cinematografica e televisiva, Rare Beasts, colpisce anche per la varietà di toni, per la capacità di mescolare elementi che non si risolvono in un gioco di contrapposizioni ma arrivano spesso a un’efficace compenetrazione, tanto dal punto di vista drammaturgico che da quello visivo. È memorabile a questo proposito la sequenza onirica in cui Mandy rielabora il rapporto problematico con i genitori e l’infanzia segnata da una carenza di attenzioni (il padre, eccentrico donnaiolo alcolizzato, è interpretato da un David Thewlis come al solito impeccabile). Un passato che inevitabilmente lascia solchi indelebili nell’animo di una donna che non ha paura di affermare, in pieno fervore femminista, che lei sì ha bisogno di un uomo, perché fondamentalmente non ne ha mai avuto uno accanto, perché la vera libertà si manifesta anche nella necessità di doversi legare a qualcuno, nell’accettazione dei propri bisogni, nel coraggio di potersi dire individui e non più solo donne o uomini. Nell’avere la forza di essere, nonostante tutto e tutti, bestie rare.

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Billie Piper Billie Piper David Thewlis 87 minuti
Uk 2019
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All This Victory

di Domenico Saracino
all this victory recensione film

Lo si scorge soprattutto nello sguardo, il terrore provato dai cinque protagonisti di All This Victory, film in competizione alla 34esima edizione della Settimana Internazionale della Critica, nell’ambito di Venezia76.
Negli occhi ipnotizzati dalla paura, imbambolati sul vuoto dell’abisso, svuotati di speranza e di luce. A provocarlo sono le bombe e i proiettili che Hezbollah e Israele si scambiano durante la seconda guerra israelo-libanese del 2006, uno dei tanti conflitti che dalla seconda metà degli anni ’70 dilania questa regione del Vicino Oriente.

Approfittando di una breve tregua, Marwan si sposta in un villaggio a sud del Paese, nella speranza di portar via con sé suo padre, ex combattente che continua a vivere ostinatamente in una zona minacciata dalla guerra. Ma le ostilità si riaccendono, le bombe riprendono a cadere e il giovane uomo si ritrova costretto a rifugiarsi in una casa con due anziani amici paterni e una coppia in attesa di un figlio. Nel frattempo la situazione si aggraverà con l’irruzione di un gruppo di soldati israeliani che attireranno il fuoco della controparte araba. Il gruppo è bloccato dietro quattro mura, ridotto alla fame, alla sete e al silenzio, atterrito dagli spari e dalla possibilità di essere scoperto dal nemico o colpito dal fuoco amico. Così non gli resta che rimanere rinchiuso finché all’esterno la situazione non tornerà alla normalità. 

Attraverso un lavoro molto attento al sonoro e a un uso sapiente del fuoricampo, Ahmad Ghossein, alla sua prima regia di un lungometraggio, riesce a trasmettere con grande intensità i pericoli che attanagliano gli innocenti malcapitati. Non ha alcun bisogno di mostrare gli strumenti della distruzione: gli basta far risuonare il rumore sordo delle bombe, riprodurre gli scricchiolii e le vibrazioni provocate dalle detonazioni, dar voce al tamburellare metallico dei fucili d’assalto e delle mitragliatrici. Dei soldati sono sufficienti le ombre, i passi, il silenzio disorientante.
A Ghossein non interessa fare un discorso politico, attribuire colpe o ricostruire i motivi del conflitto. In All This Victory le spiegazioni latitano e domina il silenzio, interrotto da brevi dialoghi e dal frastuono delle armi. Non si vedono divise né schieramenti, e il pericolo è rappresentato allo stesso modo sia dallo straniero (gli israeliani) che dal conterraneo (i guerriglieri di Hezbollah che, inconsapevoli della presenza di altri arabi, attaccano l’area). Per gran parte del runtime il regista rimane ancorato ai volti degli intrappolati – soprattutto a quello di Marwan – affidando al taglio stretto dei primi piani il racconto del terrore provocato dalla guerra, come a voler sottolineare che l’unico modo possibile (o giusto) di raccontarla è attraverso la percezione delle vittime più incolpevoli, ovvero i civili.

Pochi sono i momenti in cui non sono inquadrati, occupati significativamente da immagini brulicanti di vita: brandelli di cielo, una lucertola nell’atto di respirare, il sorgere del sole. Una vitalità quasi elementare, essenziale, che non può certo cancellare la distruzione causata dalla stupidità umana. Cessato finalmente il fuoco, Marwan può sì uscire nuovamente allo scoperto, ma con gli occhi ridotti a pietre madide d’orrore, accecati dal trauma, vagando catatonicamente tra le macerie come qualcuno assorto nel ricordo d’un brutto sogno. Che potrebbe tornare ancora, e ancora.

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Ahmad Ghossein Flavia Bechara Issam Bou Khaled Adel Chahine 93 minuti
Libano, Francia 2019
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Joker

di Matteo Marescalco
Joker - Recensione Point Blank

A presentare il personaggio di Arthur Fleck, prima ancora del suo volto, è la sua risata. Una lancinante nenia che nasconde un disturbo patologico che lo fa scoppiare in risate isteriche quando è sottoposto a stress emotivi rilevanti. E, nel Joker di Todd Phillips, i motivi per essere stressati sono tantissimi e trovano terreno fertile in una Gotham City brutta, sporca e cattiva, che pesca a piene mani dall’immaginario newyorkese della New Hollywood anni ’70.

Come Travis Bickle, anche Arthur Fleck è un isolato sociale. La smaterializzazione e la costruzione simbolica della sua identità passano attraverso una trasmissione televisiva condotta dal celebre stand-up comedian Murray Franklin, interpretato da Robert De Niro. A differenza degli antieroi dei cinecomics di Burton e di Nolan, l’Arthur Fleck di Joaquin Phoenix si perde in voli pindarici immaginari e sogna di abbandonare le luride tenebre che lo circondano. L’uomo lavora come pagliaccio e vive prendendosi cura della madre. Quando si chiude in stanza, improvvisa dei balletti, desiderio e contemporanea negazione delle luci della ribalta. Dopo essere stato denigrato in modo particolarmente aspro, Fleck si macchia di un crimine. Da quel momento in poi, le sue condizioni mentali si faranno sempre peggiori.

Della demenzialità della trilogia di Una notte da leoni rimane ben poco, a parte quella risata che dà avvio al film. Gli squarci sulla metropoli e sulla strada sono frammenti che restituiscono un contesto urbano degradato, preda di saccheggi e di emarginazione. Il popolo non ne può più di un Sistema guidati da miliardari come Thomas Wayne, il ricco padre del piccolo Bruce, e finisce per indossare quella maschera di Joker che, in fin dei conti, Joaquin Phoenix evita di mettersi addosso. Perché l’attore americano vive nei panni del Joker, trasformandosi in una versione ancora più disperata e solitaria di Freddie Quell e raggiungendo, nel finale del film, lo statuto cristologico di martire.

È il momento della rivolta a scatenare qualcosa di ben più grande dello stesso Joker e a trasformare un disagio (e un antieroe) privato in uno collettivo, come se fosse una proiezione delle dinamiche mentali malate di un’intera società. Phillips segue la deflagrazione della follia, facendo aderire la macchina da presa al corpo dell’attore e lasciandola libera di galoppare, aggrappandosi alla sua difformità fisica. In universo mediale contemporaneo, però, caratterizzato da una profusione di storie sui supereroi ed antieroi e sulle loro origini, è lecito chiedersi quanto sia autentica una singolare operazione come questa, definita dal suo regista come qualcosa di assolutamente unico. Negli USA, il film è stato vietato ai minori di 18 anni, sintomo della presenza di una buona dose di coraggio nella sua realizzazione. A non convincere, tuttavia, è la paradossale pulizia ed asseticità che caratterizza questo Joker. Perché se gli accessi di violenza non mancano, ad essere totalmente assente è la capacità di creare inquietudine reale e ansia sociale. Lo scoppio delle rivolte cittadine, l’isolamento di Arthur, i tagli ai sussidi riservati alle associazioni ospedaliere che si prendono cura di chi soffre di patologie mentali, la diffusione virale della follia non satura mai lo schermo ma esiste come un timido fantasma che ondeggia lungo la superficie del film.

Pure la tendenza di Phoenix a sconfinare nel sopra le righe è partecipe di un processo che rende artefatta la sua interpretazione, studiata a tavolino e imbellettata e, proprio per questo, colpevole di depotenziare il suo strabordante potenziale iniziale. Infine, a destare qualche dubbio è anche l’allontanamento dal materiale di partenza perseguito durante la prima parte del film ed il successivo riavvicinamento, rappresentato dall’ennesima trasposizione sullo schermo di una scena madre nella storia dei rapporti tra Joker e Batman. Perché fare delle promesse per poi disattenderle nel corso di una sequenza che avrebbe potuto fare a meno di un tale riciclo immaginario? Ad aver condannato Joker, questa volta, è stata proprio la sua singolarità.

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Todd Phillips Joaquin Phoenix Robert De Niro Zazie Beetz 122 minuti
USA 2019
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Ema

di Giulio Casadei
Recensione Ema di Pablo Larrain

Era stato annunciato come uno dei titoli più eccentrici del concorso e dobbiamo ammettere che le promesse sono state ampiamente mantenute. Ema di Pablo Larrain è un film inclassificabile che suscita sconcerto nella sua velleitaria opera di decostruzione narrativa. Siamo nella città portuale di Valparaiso, oggi. Una giovane coppia formata da una ballerina ed un coreografo entra in crisi dopo aver rinunciato all’affidamento del figlio adottivo, colpevole di aver sfregiato volontariamente la zia. Ma non è che una flebile traccia di cui il regista si serve per comporre un’opera quanto mai frammentata e sgangherata. Più che lo scandaglio psicologico dei personaggi, Larrain sembra interessato a filmare il ritmo febbrile dei corpi, (in particolare quello della magnetica Mariana di Girolamo), la loro carica erotica e vitale, la scandalosa e irrefrenabile energia della giovinezza, colta in un eterno presente dionisiaco diviso tra danza e sesso. Quasi un film-performance animato dal fuoco della distruzione, letterale e metaforico, che cerca di riscrivere le geografie del desiderio e della famiglia. Peccato solo che il regista non abbia avuto il coraggio di portare fino alle estreme conseguenze questo proposito, liberandosi completamente del tracciato narrativo. Ci prova, soprattutto nella sezione centrale, ma senza una reale convinzione, come se la paura di perdere davvero il controllo fosse stata maggiore rispetto al desiderio di farlo. Ecco allora che nella parte finale tutti gli enigmatici frammenti del puzzle si ricompongono, assumendo un senso. Anche i momenti più apparentemente irrazionali o istintuali, con il duplice effetto di addomesticare un’opera che si voleva selvaggia e fuori controllo, e allo stesso tempo di restringere il perimetro del film dentro un orizzonte abbastanza preciso. Ovvero quello di una specie di Teorema contemporaneo, dove al disfacimento della famiglia borghese si aggiunge la costituzione di un nuovo modello familiare aperto e pansessuale. Ema è in definitiva un’opera schizofrenica che sogna una libertà che non conosce e che non sa darsi. Vorrebbe decostruire, sovvertire, aprire ma non può fare a meno di spiegare, razionalizzare, chiudere. Risultando alla fine fallimentare da qualunque parte lo si guardi: nei suoi passaggi narrativi, che sfociano in più di un’occasione nel ridicolo involontario. Nel suo impeto anarchico, a conti fatti sterile e innocuo. Nella sua messa in scena solo superficialmente "contemporanea", a metà strada tra videoclip e instagram. E soprattutto nel suo tentativo di rompere le rigide costrizioni estetiche, narrative e teoriche del cinema del proprio autore. Larrain ha provato a misurarsi con le contraddizioni ed il caos del presente, smarrendosi. Ed è forse l'unico aspetto davvero interessante dell'operazione. 

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Pablo Larraín Mariana Di Girolamo Gael García Bernal 102 minuti
Cile
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Seberg

di Matteo Marescalco
Seberg - Recensione Point Blank

Le prime immagini del nuovo film diretto da Benedict Andrews e passato Fuori Concorso alla 76esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia sono un manifesto programmatico di tutto ciò che Seberg avrebbe dovuto essere ma che non è stato. Kristen Stewart presta il suo volto androgino all’icona della Nouvelle Vague, a partire dalle fiamme di Santa Giovanna, film diretto nel 1957 da Otto Preminger. Di fronte ad un avvio del genere, ci si aspetterebbe, quanto meno, un biopic che avvolga il suo personaggio principale tra le calde fiamme degli anni ’60, fino alla morte per apparante suicidio datata 1979.

Eppure, ciò che più manca a questa ricostruzione storica sono proprio la passione ed un afflato vitale che avrebbero consentito al film di abbandonare la scialba formula della mediocre e superflua vicenda romanzata neppure capace di inglobare nel proprio tessuto visivo materiali di repertorio da piegare ad un progetto di costruzione narrativa. Tra la ferita del 1957 e la morte provocata dalla passione sociale, Jean Seberg ha avuto una vita parecchio travagliata: tre matrimoni, una figlia deceduta due giorni dopo essere nata e nove tentativi di suicidio.

Dopo Una, Benedict Andrews concentra nuovamente la sua attenzione sul dramma dell’abbandono e si focalizza sulle ripercussioni che la vita privata della Seberg ha avuto relativamente agli aspetti pubblici della sua esistenza. E così, la fase meno nota dell’esistenza dell’attrice sarebbe dovuta diventare un pretesto per indagare la solitudine ed il vuoto esistenziale che hanno caratterizzato gran parte dei suoi anni ’60. Tornata a Los Angeles per prendere parte a nuovi film, l’attrice finì nel mirino di sorveglianza illegale dell’FBI. Il suo coinvolgimento politico e sentimentale con l’attivista per i diritti civili Hakim Jamal la trasformò in un obiettivo dei tentativi spietati del Bureau of Investigation di screditare lei e denunciare il Black Panther Party.

L’operazione portata in scena da questo Seberg non è riuscita perché, nonostante la solita fantasmatica presenza di Kristen Stewart, musa di Olivier Assayas in Sils Maria e Personal Shopper, il film non riesce mai a restituire la sensazione di riunione di spettri che attanaglia ed opprime il corpo della Seberg. A parte il fisico desiderante dell’attrice americana, ogni aspetto della messa in scena è volto alla semplificazione e all’obiettivo di una ricostruzione che tende ad eliminare il materiale potenzialmente pruriginoso per scegliere la via che conduce alla linearizzazione più totale. Il film di Andrews è un contenitore sformato, un ammasso di spezzoni dal manierismo superfluo, in cui i personaggi non hanno motivazioni e non vivono un adeguato arco narrativo. È un vero peccato che il solo elemento denso di un soffio vitale sia proprio quella Kristen Stewart che, nei film di Assayas, si poneva come medium in grado di sondare le profondità oscure della vita, un corpo liquido in movimento in un mondo impossibile da decifrare.

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Benedict Andrews Kristen Stewart Jack O'Connell Anthony Mackie Zazie Beetz Vince Vaughn 102 minuti
Regno Unito, USA 2019
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El principe (The Prince)

di Samuele Sestieri
El Principe

Sullo sfondo della società cilena degli anni settanta, El Principe (The Prince) concepisce il microcosmo carcerario come un mondo a se stante, con le sue leggi del desiderio, i suoi codici morali e le sue pulsioni di morte.

Sebastián Muñoz, all’opera prima, adatta l’omonimo romanzo di Mario Cruz dando vita all’universo affettivo del giovane Jaime, finito in carcere per aver ucciso il ragazzo di cui era innamorato. Il suo passato è messo in scena come una rêverie selvaggia dove riscoprire i primi turbamenti sessuali. D’altronde El Principe è la storia dell’occhio di Jaime, il suo fisico, tangibile racconto di formazione. Dal pudore delicato dello sguardo innocente alla conquista del corpo come strumento di potere e piacere. Perché se da libero Jaime è anzitutto il voyeur che desidera la carne proibita in onanistica, muta contemplazione, la prigione è l’Eden libidinoso del piacere omoerotico, luogo maledetto dove dare sfogo alle proprie fantasie più recondite, regno fallocentrico in cui tutto è concesso, al di là del bene e del male.

El Principe fonde la forza sacra, estatica dell’orgasmo agli abissi putridi, claustrofobici della prigionia, tra escrementi e lerciume liquido, tra piacere e dolore. La carne in fermento è alla ricerca di nuove voragini da penetrare col fallo o con la lama. Il giovane Jaime diventa il Principe, protetto dal rispettato stallone El Potro (uno straordinario Alfredo Castro) che lo inizierà al suo amore. Nel rapporto tra i due, Muñoz scopre la tenerezza inaudita, la lealtà e la gentilezza, l’umanità di due amanti che sono anche un padre e un figlio, un maestro e un allievo.

Purissimo cinema del desiderio che concepisce l’erotismo nella fusione batailliana di amore e dolore, di principio di piacere e pulsione di morte, nella solitudine della notte, nella carezza che segue la violenza, nel sesso che si fa potere: El Principe è una ronde libera e vitale capace di bramare corpi fassbinderiani alla ricerca del loro canto d’amore (ed è subito Genet!). Quando il film si fa finalmente musical ritorna l’incanto di un cinema che guarda allo spazio come al luogo di distanza fra corpi che agognano un’unità impossibile: d'altronde tutto il film è estremamente musicale, quasi come se la tensione erotica fosse una coreografia emotiva, una questione di posizioni. La legge dominante – non poteva essere altrimenti - è quella del desiderio: in questa bramosia di sguardi, El Principe è un film dove ogni primo piano crea e modella l’educazione sentimental-sessuale di Jaime. E tra queste ossessioni genitali che scatenano vendette e gelosie, scoppiano gli scontri fisici degli altri amanti carcerati, vere e proprie contese di dominazione sessuale.

El Principe segna dunque l’esordio di un nuovo autore libero e irriverente. La sua irruenza dall’afflato così vitalistico, così passionale, rompe le barriere del film carcerario o del racconto di formazione per dare vita al dolore della perdita, all’ebrezza del coito che rilancia subito lo spettro della morte. Spettro che alberga ogni inquadratura del film, sciogliendo i colori, ribaltando i ruoli gerarchici verso un nuovo principe, verso un nuovo ordine delle cose.

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Sebastián Muñoz Juan Carlos Maldonado Alfredo Castro Cesare Serra 96 minuti
Cile, Argentina, Belgio, 2019
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Storia di un matrimonio

di Matteo Berardini
Marriage Story - recensione film baumbach netflix

Se è vero che ogni storia d’amore è una storia di fantasmi, è anche perché di quei momenti, emozioni e speranze restano ritagli e brandelli scomposti, ombre spettrali e sfilacciate di anni vissuti per durare che collimano in nuove verità e narrazioni contraddittorie, punti di vista dirompenti, ricostruzioni soggettive che mutano in modi inaspettati davanti a noi, dentro di noi. È dai frammenti del discorso amoroso che parte Storia di un matrimonio (Marriage Story), da due lettere scritte alla persona che amavamo, cercando di ricordare perché e cosa e come. Rievocare, come una seduta spiritica, lo spettro dell’amore passato, per conservare comunque, a discapito di tutto ciò che è cambiato e finito. Iniziare da qui perché a questi racconti dovranno poi seguirne altri, altre narrazioni che saranno via via più affilate, parziali, combattive, ricostruzioni vendicative e strumentali di una guerra processuale combattuta anzitutto sul fronte del racconto, su come presentare l’immagine residua di quella vita costruita assieme. È così che cambiano le versioni e i discorsi, ogni dettaglio confessato, sbaglio ammesso, dimenticanza o leggerezza diventa una nuova arma da brandire per dare corpo al proprio fantasma e negare quello dell’altro, nel campo di battaglia di un tribunale dove ci si litiga alimenti, cessioni economiche, figli. Raccontare  l’intimità di un matrimonio attraverso la sua fine è la sfida di Noah Baumbach, una contraddizione solo apparente perché i tempi del conflitto e della separazione sono ancora parti integrali di un rapporto coniugale, prosecuzioni di un sentimento combattute con altri mezzi.

Già nel 2005, con Il calamaro e la balena, Baumbach affrontava il tema del divorzio in maniera autobiografica, ma se allora la prospettiva era quella del figlio che assiste al logorarsi dell’amore tra i genitori, in Storia di un matrimonio al centro dell’indagine sentimentale sono Nicole e Charlie, moglie e marito, lei attrice losangelina che arriva a New York e passa dal cinema al teatro, lui regista teatrale trapiantato a New York e diventato presto più newyorkese di chi v’è nato e cresciuto. Lei solare, socievole, aperta al confronto, lui più introverso ma paziente, disponibile, di certo controllante; sono due emisferi sicuramente artefatti, organizzati in fase di scrittura, ma nonostante la dicotomia tra Los Angeles e New York diventi (nell’ottica della vita dopo il matrimonio e della crescita del figlio Henry) il pomo della discordia e l’epicentro del conflitto processuale, nel corso del racconto Nicole e Charlie vengono mostrati sempre più come persone reali, sfaccettate, vicine a noi in quei bisogni e debolezze che Baumbach riesce a raccontare così bene attraverso lo spettro completo dell’emozione umana, dal momento slapstick all’esplosione di dolore rabbiosa e distruttiva, dalla fitta nostalgica al terrore del vuoto e del futuro. È difficile trattenere l’emozione in questo film così vivo e sincero, autopsia di un amore finito che raccoglie dentro di sé tanti e troppi momenti che in modi e tempi diversi abbiamo tutti attraversato e vissuto. Grazie a questa capacità di universalizzare il discorso senza approdare nel didascalico né perdere in autenticità, Baumbach evita di imbastire il manualetto sentimentale che classifica esperienze prefabbricate e anzi firma il suo film più bello ed emozionante, scene di vita finalmente lontane dalla pretestuosa artificiosità mumblecore e ben più significative, intense, dolorosamente reali. Storia di un matrimonio, secondo film Netflix del regista newyorkese, prosegue infatti sulla scia del già splendido The Meyerowitz Stories e ne rilancia il perfetto equilibrio tra commedia e tragedia, autobiografia e costruzione drammatica. Sorretto da un cast in grandissima forma – Ray Liotta e soprattutto Laura Dern nei panni di due straordinari avvocati divorzisti, Scarlett Johansson e Adam Driver al centro del conflitto e mai così bravi – il film conferma così Baumbach tra i grandi narratori dell’intimismo americano di oggi, cinema indie sicuramente delimitato da confini formali e narrativi ampiamente collaudati ma comunque capace di toccare corde profonde.

Di un film destinato probabilmente a crescere e restare sopravvivono tanti momenti memorabili; ce ne piace ricordare due: la scheggia musical nel locale, in cui Charlie inizia il suo processo di guarigione, e la scena del conflitto in salone, il lungo confronto a due in cui il dolore diventa incontenibile e il peggio inquina, irrompe, si riversa sull’altro, fino all’abbraccio finale, al crollo. È la scena migliore che Baumbach abbia mai girato, di quelle che valgono una carriera.

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Noah Baumbach Scarlett Johansson Adam Driver Laura Dern Ray Liotta 136 minuti
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Irréversible - Inversion Intégrale

di Emanuele Di Nicola
Irréversible - Inversion Intégrale di Gaspar Noé

Gaspar Noé rende Irréversible reversibile. Il nuovo montaggio del film del 2002, presentato a Venezia fuori concorso, non si limita infatti a riproporre la parabola di Marcus e Alex (Vincent Cassel e Monica Bellucci) né la continua, fulgida e terribile ricerca visiva alla base del suo cinema.  No, perché qui si tratta di prendere una pellicola originariamente montata all’incontrario e ricomporla ora in ordine cronologico, in modo lineare, eseguendo appunto una “inversione integrale”. La storia di Marcus e Alex qui parte dall'inizio: Alex sul prato legge An Experiment with Time di J. W. Dunne, sulle note della settima sinfonia di Beethoven. Poi i due si svegliano nudi, scherzano a letto insieme, lei pronuncia la sua battuta preveggente (“Ho sognato un tunnel rosso”), ma soprattutto scopre subito di essere incinta. Questo, se possibile, rende ancora più inevitabile e crudele lo sviluppo: l’uscita notturna, la festa, lo stupro e la vendetta. È sempre nell’incipit che Monica in ascensore sostiene che il futuro sia già scritto: postulato ancora prima della curva tragica, l’assunto ricopre i fatti con un alone di sovradeterminazione.

Nella “inversione” Irréversible si presenta allora come una discesa all’inferno, lineare eppure implacabile. I quadri composti dal regista sono spietatamente simmetrici: prima di scherza sul sesso, dopo viene estorto con la forza. Prima vediamo la festa “chiara”, con la Bellucci che danza sensuale nel suo vestito latteo e Cassel che si droga gaudente, dopo la festa “oscura”, quella nel locale gay dove si consuma la folle vendetta.

La linearità sottrae allo spettatore il disvelamento graduale, ovvero l’onere di rimettere insieme i pezzi per ottenere solo alla fine-inizio la cornice completa: senza questa “attesa di sapere”, visto nella corretta cronologia, Irréversible costringe chi guarda a concentrarsi su di esso e sulle proprie immagini, che diventano così ancora più potenti e disturbanti. Svanito l’ingombro della trama da ricostruire, in 86 minuti sono tante le scene memorabili: il magnifico risveglio degli amanti, con la più grande Bellucci di sempre; il tripudio di segni e sogni premonitori; l’ingresso in metropolitana come prima “discesa” figurata nel sottosuolo, che anticipa le seconde più tragiche e carnali; la nota scena dello stupro che ne rende tangibile l’orrore e il dolore, forse la più grande sequenza di violenza carnale mai vista sullo schermo; la spiazzante chiosa del macellaio di Seul contre tous, aforisma vivente del nichilismo di Noé, a ricordarci che “il tempo distrugge tutto”.

Diciassette anni dopo l’uscita in sala, Irréversible resta un tour de force visivo senza tregua: Gaspar Noé martella l’udito e strema lo sguardo, lo immerge prima nell’elettronica e poi nella luce rossa del club Rectum in vertiginoso piano sequenza. La cinepresa che ruota vorticosamente su se stessa decreta un modo di fare cinema e anticipa un’intera filmografia, compreso l'ultimo Climax. L’“inversione” serve anche a risarcire il film, stroncato nel 2002 e rivalutato oggi che esiste un culto del regista: quel titolo allora non si era imposto per un generico gusto della provocazione, né avevano senso le polemiche risibili a proposito di sesso e violenza, bensì stavamo assistendo alla genesi di uno stile. Inversion Intégrale è anche una dimostrazione: il cinema di pura visione si può guardare da ogni punto di vista. Anche quello lineare: perché ti porta a fare i conti con la sua vera essenza, la costruzione dell’immagine e la bufera dei sensi che ne deriva. Gaspar Noé inverte il film ma dice sempre la stessa cosa: guardate qui, a occhi spalancati.

Categoria
Gaspar Noé Monica Bellucci Vincent Cassel Albert Dupontel Jo Prestia Philippe Nahon 86 minuti
Francia, 2019
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