Seberg

di Matteo Marescalco
Seberg - Recensione Point Blank

Le prime immagini del nuovo film diretto da Benedict Andrews e passato Fuori Concorso alla 76esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia sono un manifesto programmatico di tutto ciò che Seberg avrebbe dovuto essere ma che non è stato. Kristen Stewart presta il suo volto androgino all’icona della Nouvelle Vague, a partire dalle fiamme di Santa Giovanna, film diretto nel 1957 da Otto Preminger. Di fronte ad un avvio del genere, ci si aspetterebbe, quanto meno, un biopic che avvolga il suo personaggio principale tra le calde fiamme degli anni ’60, fino alla morte per apparante suicidio datata 1979.

Eppure, ciò che più manca a questa ricostruzione storica sono proprio la passione ed un afflato vitale che avrebbero consentito al film di abbandonare la scialba formula della mediocre e superflua vicenda romanzata neppure capace di inglobare nel proprio tessuto visivo materiali di repertorio da piegare ad un progetto di costruzione narrativa. Tra la ferita del 1957 e la morte provocata dalla passione sociale, Jean Seberg ha avuto una vita parecchio travagliata: tre matrimoni, una figlia deceduta due giorni dopo essere nata e nove tentativi di suicidio.

Dopo Una, Benedict Andrews concentra nuovamente la sua attenzione sul dramma dell’abbandono e si focalizza sulle ripercussioni che la vita privata della Seberg ha avuto relativamente agli aspetti pubblici della sua esistenza. E così, la fase meno nota dell’esistenza dell’attrice sarebbe dovuta diventare un pretesto per indagare la solitudine ed il vuoto esistenziale che hanno caratterizzato gran parte dei suoi anni ’60. Tornata a Los Angeles per prendere parte a nuovi film, l’attrice finì nel mirino di sorveglianza illegale dell’FBI. Il suo coinvolgimento politico e sentimentale con l’attivista per i diritti civili Hakim Jamal la trasformò in un obiettivo dei tentativi spietati del Bureau of Investigation di screditare lei e denunciare il Black Panther Party.

L’operazione portata in scena da questo Seberg non è riuscita perché, nonostante la solita fantasmatica presenza di Kristen Stewart, musa di Olivier Assayas in Sils Maria e Personal Shopper, il film non riesce mai a restituire la sensazione di riunione di spettri che attanaglia ed opprime il corpo della Seberg. A parte il fisico desiderante dell’attrice americana, ogni aspetto della messa in scena è volto alla semplificazione e all’obiettivo di una ricostruzione che tende ad eliminare il materiale potenzialmente pruriginoso per scegliere la via che conduce alla linearizzazione più totale. Il film di Andrews è un contenitore sformato, un ammasso di spezzoni dal manierismo superfluo, in cui i personaggi non hanno motivazioni e non vivono un adeguato arco narrativo. È un vero peccato che il solo elemento denso di un soffio vitale sia proprio quella Kristen Stewart che, nei film di Assayas, si poneva come medium in grado di sondare le profondità oscure della vita, un corpo liquido in movimento in un mondo impossibile da decifrare.

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Benedict Andrews Kristen Stewart Jack O'Connell Anthony Mackie Zazie Beetz Vince Vaughn 102 minuti
Regno Unito, USA 2019
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El principe (The Prince)

di Samuele Sestieri
El Principe

Sullo sfondo della società cilena degli anni settanta, El Principe (The Prince) concepisce il microcosmo carcerario come un mondo a se stante, con le sue leggi del desiderio, i suoi codici morali e le sue pulsioni di morte.

Sebastián Muñoz, all’opera prima, adatta l’omonimo romanzo di Mario Cruz dando vita all’universo affettivo del giovane Jaime, finito in carcere per aver ucciso il ragazzo di cui era innamorato. Il suo passato è messo in scena come una rêverie selvaggia dove riscoprire i primi turbamenti sessuali. D’altronde El Principe è la storia dell’occhio di Jaime, il suo fisico, tangibile racconto di formazione. Dal pudore delicato dello sguardo innocente alla conquista del corpo come strumento di potere e piacere. Perché se da libero Jaime è anzitutto il voyeur che desidera la carne proibita in onanistica, muta contemplazione, la prigione è l’Eden libidinoso del piacere omoerotico, luogo maledetto dove dare sfogo alle proprie fantasie più recondite, regno fallocentrico in cui tutto è concesso, al di là del bene e del male.

El Principe fonde la forza sacra, estatica dell’orgasmo agli abissi putridi, claustrofobici della prigionia, tra escrementi e lerciume liquido, tra piacere e dolore. La carne in fermento è alla ricerca di nuove voragini da penetrare col fallo o con la lama. Il giovane Jaime diventa il Principe, protetto dal rispettato stallone El Potro (uno straordinario Alfredo Castro) che lo inizierà al suo amore. Nel rapporto tra i due, Muñoz scopre la tenerezza inaudita, la lealtà e la gentilezza, l’umanità di due amanti che sono anche un padre e un figlio, un maestro e un allievo.

Purissimo cinema del desiderio che concepisce l’erotismo nella fusione batailliana di amore e dolore, di principio di piacere e pulsione di morte, nella solitudine della notte, nella carezza che segue la violenza, nel sesso che si fa potere: El Principe è una ronde libera e vitale capace di bramare corpi fassbinderiani alla ricerca del loro canto d’amore (ed è subito Genet!). Quando il film si fa finalmente musical ritorna l’incanto di un cinema che guarda allo spazio come al luogo di distanza fra corpi che agognano un’unità impossibile: d'altronde tutto il film è estremamente musicale, quasi come se la tensione erotica fosse una coreografia emotiva, una questione di posizioni. La legge dominante – non poteva essere altrimenti - è quella del desiderio: in questa bramosia di sguardi, El Principe è un film dove ogni primo piano crea e modella l’educazione sentimental-sessuale di Jaime. E tra queste ossessioni genitali che scatenano vendette e gelosie, scoppiano gli scontri fisici degli altri amanti carcerati, vere e proprie contese di dominazione sessuale.

El Principe segna dunque l’esordio di un nuovo autore libero e irriverente. La sua irruenza dall’afflato così vitalistico, così passionale, rompe le barriere del film carcerario o del racconto di formazione per dare vita al dolore della perdita, all’ebrezza del coito che rilancia subito lo spettro della morte. Spettro che alberga ogni inquadratura del film, sciogliendo i colori, ribaltando i ruoli gerarchici verso un nuovo principe, verso un nuovo ordine delle cose.

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Sebastián Muñoz Juan Carlos Maldonado Alfredo Castro Cesare Serra 96 minuti
Cile, Argentina, Belgio, 2019
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Storia di un matrimonio

di Matteo Berardini
Marriage Story - recensione film baumbach netflix

Se è vero che ogni storia d’amore è una storia di fantasmi, è anche perché di quei momenti, emozioni e speranze restano ritagli e brandelli scomposti, ombre spettrali e sfilacciate di anni vissuti per durare che collimano in nuove verità e narrazioni contraddittorie, punti di vista dirompenti, ricostruzioni soggettive che mutano in modi inaspettati davanti a noi, dentro di noi. È dai frammenti del discorso amoroso che parte Storia di un matrimonio (Marriage Story), da due lettere scritte alla persona che amavamo, cercando di ricordare perché e cosa e come. Rievocare, come una seduta spiritica, lo spettro dell’amore passato, per conservare comunque, a discapito di tutto ciò che è cambiato e finito. Iniziare da qui perché a questi racconti dovranno poi seguirne altri, altre narrazioni che saranno via via più affilate, parziali, combattive, ricostruzioni vendicative e strumentali di una guerra processuale combattuta anzitutto sul fronte del racconto, su come presentare l’immagine residua di quella vita costruita assieme. È così che cambiano le versioni e i discorsi, ogni dettaglio confessato, sbaglio ammesso, dimenticanza o leggerezza diventa una nuova arma da brandire per dare corpo al proprio fantasma e negare quello dell’altro, nel campo di battaglia di un tribunale dove ci si litiga alimenti, cessioni economiche, figli. Raccontare  l’intimità di un matrimonio attraverso la sua fine è la sfida di Noah Baumbach, una contraddizione solo apparente perché i tempi del conflitto e della separazione sono ancora parti integrali di un rapporto coniugale, prosecuzioni di un sentimento combattute con altri mezzi.

Già nel 2005, con Il calamaro e la balena, Baumbach affrontava il tema del divorzio in maniera autobiografica, ma se allora la prospettiva era quella del figlio che assiste al logorarsi dell’amore tra i genitori, in Storia di un matrimonio al centro dell’indagine sentimentale sono Nicole e Charlie, moglie e marito, lei attrice losangelina che arriva a New York e passa dal cinema al teatro, lui regista teatrale trapiantato a New York e diventato presto più newyorkese di chi v’è nato e cresciuto. Lei solare, socievole, aperta al confronto, lui più introverso ma paziente, disponibile, di certo controllante; sono due emisferi sicuramente artefatti, organizzati in fase di scrittura, ma nonostante la dicotomia tra Los Angeles e New York diventi (nell’ottica della vita dopo il matrimonio e della crescita del figlio Henry) il pomo della discordia e l’epicentro del conflitto processuale, nel corso del racconto Nicole e Charlie vengono mostrati sempre più come persone reali, sfaccettate, vicine a noi in quei bisogni e debolezze che Baumbach riesce a raccontare così bene attraverso lo spettro completo dell’emozione umana, dal momento slapstick all’esplosione di dolore rabbiosa e distruttiva, dalla fitta nostalgica al terrore del vuoto e del futuro. È difficile trattenere l’emozione in questo film così vivo e sincero, autopsia di un amore finito che raccoglie dentro di sé tanti e troppi momenti che in modi e tempi diversi abbiamo tutti attraversato e vissuto. Grazie a questa capacità di universalizzare il discorso senza approdare nel didascalico né perdere in autenticità, Baumbach evita di imbastire il manualetto sentimentale che classifica esperienze prefabbricate e anzi firma il suo film più bello ed emozionante, scene di vita finalmente lontane dalla pretestuosa artificiosità mumblecore e ben più significative, intense, dolorosamente reali. Storia di un matrimonio, secondo film Netflix del regista newyorkese, prosegue infatti sulla scia del già splendido The Meyerowitz Stories e ne rilancia il perfetto equilibrio tra commedia e tragedia, autobiografia e costruzione drammatica. Sorretto da un cast in grandissima forma – Ray Liotta e soprattutto Laura Dern nei panni di due straordinari avvocati divorzisti, Scarlett Johansson e Adam Driver al centro del conflitto e mai così bravi – il film conferma così Baumbach tra i grandi narratori dell’intimismo americano di oggi, cinema indie sicuramente delimitato da confini formali e narrativi ampiamente collaudati ma comunque capace di toccare corde profonde.

Di un film destinato probabilmente a crescere e restare sopravvivono tanti momenti memorabili; ce ne piace ricordare due: la scheggia musical nel locale, in cui Charlie inizia il suo processo di guarigione, e la scena del conflitto in salone, il lungo confronto a due in cui il dolore diventa incontenibile e il peggio inquina, irrompe, si riversa sull’altro, fino all’abbraccio finale, al crollo. È la scena migliore che Baumbach abbia mai girato, di quelle che valgono una carriera.

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Noah Baumbach Scarlett Johansson Adam Driver Laura Dern Ray Liotta 136 minuti
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Irréversible - Inversion Intégrale

di Emanuele Di Nicola
Irréversible - Inversion Intégrale di Gaspar Noé

Gaspar Noé rende Irréversible reversibile. Il nuovo montaggio del film del 2002, presentato a Venezia fuori concorso, non si limita infatti a riproporre la parabola di Marcus e Alex (Vincent Cassel e Monica Bellucci) né la continua, fulgida e terribile ricerca visiva alla base del suo cinema.  No, perché qui si tratta di prendere una pellicola originariamente montata all’incontrario e ricomporla ora in ordine cronologico, in modo lineare, eseguendo appunto una “inversione integrale”. La storia di Marcus e Alex qui parte dall'inizio: Alex sul prato legge An Experiment with Time di J. W. Dunne, sulle note della settima sinfonia di Beethoven. Poi i due si svegliano nudi, scherzano a letto insieme, lei pronuncia la sua battuta preveggente (“Ho sognato un tunnel rosso”), ma soprattutto scopre subito di essere incinta. Questo, se possibile, rende ancora più inevitabile e crudele lo sviluppo: l’uscita notturna, la festa, lo stupro e la vendetta. È sempre nell’incipit che Monica in ascensore sostiene che il futuro sia già scritto: postulato ancora prima della curva tragica, l’assunto ricopre i fatti con un alone di sovradeterminazione.

Nella “inversione” Irréversible si presenta allora come una discesa all’inferno, lineare eppure implacabile. I quadri composti dal regista sono spietatamente simmetrici: prima di scherza sul sesso, dopo viene estorto con la forza. Prima vediamo la festa “chiara”, con la Bellucci che danza sensuale nel suo vestito latteo e Cassel che si droga gaudente, dopo la festa “oscura”, quella nel locale gay dove si consuma la folle vendetta.

La linearità sottrae allo spettatore il disvelamento graduale, ovvero l’onere di rimettere insieme i pezzi per ottenere solo alla fine-inizio la cornice completa: senza questa “attesa di sapere”, visto nella corretta cronologia, Irréversible costringe chi guarda a concentrarsi su di esso e sulle proprie immagini, che diventano così ancora più potenti e disturbanti. Svanito l’ingombro della trama da ricostruire, in 86 minuti sono tante le scene memorabili: il magnifico risveglio degli amanti, con la più grande Bellucci di sempre; il tripudio di segni e sogni premonitori; l’ingresso in metropolitana come prima “discesa” figurata nel sottosuolo, che anticipa le seconde più tragiche e carnali; la nota scena dello stupro che ne rende tangibile l’orrore e il dolore, forse la più grande sequenza di violenza carnale mai vista sullo schermo; la spiazzante chiosa del macellaio di Seul contre tous, aforisma vivente del nichilismo di Noé, a ricordarci che “il tempo distrugge tutto”.

Diciassette anni dopo l’uscita in sala, Irréversible resta un tour de force visivo senza tregua: Gaspar Noé martella l’udito e strema lo sguardo, lo immerge prima nell’elettronica e poi nella luce rossa del club Rectum in vertiginoso piano sequenza. La cinepresa che ruota vorticosamente su se stessa decreta un modo di fare cinema e anticipa un’intera filmografia, compreso l'ultimo Climax. L’“inversione” serve anche a risarcire il film, stroncato nel 2002 e rivalutato oggi che esiste un culto del regista: quel titolo allora non si era imposto per un generico gusto della provocazione, né avevano senso le polemiche risibili a proposito di sesso e violenza, bensì stavamo assistendo alla genesi di uno stile. Inversion Intégrale è anche una dimostrazione: il cinema di pura visione si può guardare da ogni punto di vista. Anche quello lineare: perché ti porta a fare i conti con la sua vera essenza, la costruzione dell’immagine e la bufera dei sensi che ne deriva. Gaspar Noé inverte il film ma dice sempre la stessa cosa: guardate qui, a occhi spalancati.

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Gaspar Noé Monica Bellucci Vincent Cassel Albert Dupontel Jo Prestia Philippe Nahon 86 minuti
Francia, 2019
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L'ufficiale e la spia

di Samuele Sestieri
J'Accuse

Erano anni che Roman Polanski voleva realizzare un film sul caso Dreyfus, la celebre vicenda fine ottocentesca del giovane capitano francese accusato di essere un informatore dei tedeschi. Inseguito, atteso, di nuovo posticipato, L'ufficiale e la spia (J'accuse) ha fatto rima, per un lungo periodo, col destino stesso del regista. In questo faccia a faccia con la Storia ha preso corpo l’idea di un doppio, un doloroso autoritratto iscritto nel cuore del tempo.

L'ufficiale e la spia è il processo a un intero mondo di valori. Tenacemente privo di climax o retorica, è un oggetto cinematografico che sfugge ed avvolge nel suo andamento ipnotico. Come un quadro impressionista cui viene negato l’elisir dell’istante perfetto, L'ufficiale e la spia si muove tra lasciti dreyeriani e cul de sac di proporzioni storiche. Scatena un urlo muto, strozzato, che parte dal 1895 e risuona oggi più forte che mai. Il passato è la terribile ossessione che ha alimentato l’intera filmografia del regista e torna puntuale a manifestarsi.
D’altronde il caso Dreyfus, alla vigilia del Novecento, fu presagio oscuro ed esemplare di ciò che sarebbe venuto: il germe dell’odio che coltiva i mostri, l’antisemitismo e la caccia alle streghe quale rito sociale. Per Polanski L'ufficiale e la spia diviene l'atto di rivolta definitivo. L'autore sottrae, rallenta, frena, scivola continuamente dal centro mettendo ai margini il protagonista della storia, Dreyfus. Elegge invece tutta l’umanità, tutta l’empatia, nella figura di Georges Picquart (un Dujardin mai stato così grande): l’ufficiale francese nominato a capo della sezione antispionaggio è l’uomo onesto che illumina i falsi della Storia, ultimo detentore di una morale dimenticata. Proprio lui, alla fine, dovrà arrendersi al tempo...il film, beffardo, ci dice che anche Picquart appartiene al mondo dei vincitori mentre Dreyfus perde tutto, sempre, comunque. Anche nella vittoria.

In perfetta continuità con le tendenze kammerspiel del cinema polanskiano, il film sembra tutto chiuso in interni. Polanski lavora su quest’acuta, asfissiante compressione di spazi, costruisce poli di tensione che non esplodono mai. Imprime sempre più a fondo, sapendo che la vera ferita è quella che non sanguina. Una spina nella carne: si pensi all’incredibile lavoro di sottotoni della prima parte, alla centralità schiacciante del potere orale, all’amore proibito degli amanti –  ai margini, quasi fuoricampo. Del resto il film è completamente teso in questa contrazione (c’è perfino uno zoom che amplia quest’idea di soffocamento) e anche quando si incendia non esplode mai veramente: si bruciano i libri di Zola, la rabbia diviene insopportabile, eppure si inscena sempre la stessa commedia in piena, prodigiosa Belle Époque.

 Il cielo è plumbeo, il tribunale sembra un teatro (quasi come nell'ultimo Bellocchio lasciando da parte il suo lirismo grottesco), i personaggi, deponenti, si lasciano muovere come pedine del tempo. Non c’è più la furia de L’uomo nell’ombra, c’è la Storia che prosegue in tutta la sua crudeltà. La sua maledizione è quella del continuare. L’intero film è fagocitato dalla centralità della parola, strumento di controllo, di potere e informazione. Ma soprattutto coefficiente di narrazione (il verbo politico è sempre stato narrativo e il caso Dreyfus è esemplare nel dimostrarlo). Tutta questa narrazione, del resto, pare bloccata in posa frontale. Tenta di muoversi sul palco della Storia: ha bisogno di attori, registi e scrittori. Ma soprattutto ha bisogno degli errori.

Mai come in L'ufficiale e la spia Polanski era stato così rosselliniano: bisogna fare luce. È il dovere morale del film. Bisogna illuminare di nuovo le rovine dimenticate, trovare le vie di fuga, dire di no (straordinaria la flânerie finale di Picquart e l’amante che, alla richiesta di matrimonio, risponde un no che suona come un "j'accuse" perché loro non sono fatti così, loro sono diversi). Polanski sa che il tempo non può lasciare la sua presa, che i mostri tornano sempre perché vivono dentro di noi. Sa che si irrigidiscono fino a farsi istituzione, norma vigente, regime sociale. Alcuni personaggi, inquilini del suo cinema, si erano rifuggiati infine nella follia. Oggi non c’è tempo per essere folli ma bisogna rimanere lucidi.
In questa battaglia - perché dalla parola non si fugge - Polanski segue il suo personale dangerous method consapevole che la peste c’è sempre stata, impressa lì nel solco stesso della memoria. O meglio ancora: in un dossier frettoloso e facilmente archiviato dove la Storia è pronta a cadere. Ancora una volta, oggi più che mai, abbiamo bisogno del cinema di Roman Polanski.

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Roman Polanski Jean Dujardin Louis Garrel Emmanuelle Seigner Mathieu Amalric 126 minuti
Francia, Italia 2019
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Il sindaco del Rione Sanità

di Matteo Berardini
il sindaco del rione sanità recensione film martone

Storia di due città, di due mondi e ordini morali: della vita civile e borghese, che è legale ma anche ipocrita e avida; della vita criminale, spesso invisibile alla luce del giorno ma comunque trasversale e presente, geometrica nel suo esercizio piramidale della violenza e della giustizia morale. Da una parte c’è il padre di famiglia, Arturo Santaniello, panettiere in crescita grazie al duro lavoro ma in rotta totale con il figlio, la moglie ammazzata anni addietro per un colpo di pistola partito durante un regolamento di conti nelle strade; dall’altra Antonio Barracano, il Don, l’uomo di potere e fiducia da cui vanno tutti i poveracci e gli ignoranti e i criminali del quartiere, tutti coloro che vivono volenti o nolenti la Napoli malavitosa ma non hanno abbastanza soldi e potere e conoscenze da poter dire la loro sulla giustizia. Così il figlio di Arturo, Rafiluccio, disperato e determinato a uccidere il padre pur di riprendersi quanto gli spetta per diritto naturale. Ma prima di ogni gesto si deve appunto passare per lui, Don Antonio, che come il re Salomone autorizza e decide, si sostituisce a uno Stato che non c’è e rivendica titolo e doveri del giudice morale. Perché lui è Il sindaco del Rione Sanità.

Continua il corpo a corpo tra Mario Martone e la tradizione culturale italiana, quel confronto assetato di verità nuove e bellezze antiche, quell’interrogare i testi, letterari o teatrali che siano, che sono come tesori da riscoprire, voci potenti da riascoltare, testamenti da strappare allo studio polveroso della tradizione e ricondurre al qui e ora. È così che Don Antonio Barracano, vecchio boss di 75 anni creato dal testo di Eduardo De Filippo nel 1960, emanazione ottocentesca di un modo arcaico di intendere il potere camorristico e le sue irrisolte implicazioni morali, rinasce nel corpo trentottenne di Francesco Di Leva – bravissimo, e come lui tutti gli attori del collettivo NEST - Napoli Est Teatro con cui Martone portava sul palco nel 2017 l’adattamento che qui diventa cinema. Il sindaco del Rione Sanità infatti rispetta filologicamente il testo di De Filippo ma lo fa precipitare nell’estetica seriale di Gomorra, specchio di una contemporaneità in cui i boss sono ormai giovanissimi, la violenza dilaga e imbestia, gli abiti sono all’ultima moda e i colpi di pistola si alternano ai versi di una musica rap. Camaleontico, Martone trova per il suo cinema un modo nuovo e vitale di guardare al mondo che lo circonda, di cui evoca storture scomode e irrisolte, mostrando come i due volti di Napoli siano indissolubilmente legati l’uno all’altro. È un rapporto questo che tocca lo Stato e la sua assenza, le connivenze e le concessioni, i fallimenti, e che può risolversi solo temporaneamente con l’esercizio personalistico della giustizia.

Personaggio complesso quello di Don Antonio Barracano, sicuramente discutibile e figlio di una forma diversa di violenza, a cui De Filippo affianca con una struttura duale la figura del medico disilluso, amico di una vita e complice riluttante nel piano di gestione etica del territorio esercitato dal Don. Il dottore infatti è stanco di salvare criminali che ripetutamente, nonostante le indicazioni del Sindaco, tornano a esprimersi con la violenza e l’illegalità. Per questo, nella versione originaria di De Filippo, dopo che Barracano compie la sua ultima cena e si lascia morire per stroncare l’ennesima spirale di sangue e vendette, il medico contravviene alle indicazioni del Don e ne dichiara fallito il progetto, prospettando un’alternativa legale dai tempi certo più lunghi e sofferti ma dai frutti più duraturi. Martone invece, con quello che è l’unico intervento di scrittura sul copione originale, decide di tagliare questa decisione finale e lasciare l’opera in sospeso. Come se, dopo le utopie e le rivoluzioni messe in scena in Capri Revolution, non volesse sigillare del tutto il piano di Barracano e stroncarne così le ambizioni e i sogni pacificatori. Ma le tensioni morali sono ancora tutte lì, infiltrate nel sogno di giustizia e alimentate da un’ambiguità violenta e prevaricatrice.

Con quasi dieci lungometraggi e trenta anni di carriera cinematografica alle spalle, Mario Martone si conferma uno dei registi più importanti del cinema italiano, intellettuale nel senso più vitale e attento e creativo del termine. Il suo cinema, colto e sempre umanissimo, si reinventa ancora una volta e con Il sindaco del Rione Sanità scopre tempi impeccabili da commedia brillante, con un ritmo serrato che alterna battute e picchi drammatici mentre un lavoro attentissimo sui corpi degli attori valorizza ogni sguardo e piccolo gesto.

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Mario Martone Francesco Di Leva Massimilano Gallo Roberto De Francesco 115 minuti
Italia 2019
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Ad Astra

di Giulio Casadei
recensione Ad Astra di James Gray

« Avrei dovuto provare qualcosa » dice con stupore l’astronauta Roy McBride, ripensando ad un incidente che lo ha portato ad un passo dalla morte. Eppure il suo cuore è rimasto impassibile. Ottanta battiti al minuto. Una macchina perfetta, incapace di provare emozioni. Inscalfibile, persino davanti alla fine del proprio matrimonio. Nel lavoro di astronauta non sono ammessi cedimenti. Alla minima incertezza si viene rispediti a casa. Bisogna restare focalizzati sull’obiettivo. Asettici. Freddi. Distaccati. Un controllo estremo del proprio mondo interiore che nasconde, come nel caso di Roy McBride, un’anima inquieta sempre tentata dalla via di fuga. Diviso tra la fedeltà al proprio ruolo, alla propria missione, di diretta emanazione paterna, e il tradimento delle emozioni. Impossibile una sintesi: uno pregiudica l’altro. Ma cosa succede quando entrambi i poli sono riconducibili alla stessa persona, ovvero al proprio padre? Ed è qui che si gioca l’ultimo, magnifico, film di James Gray. Vera e propria summa di tutto il suo cinema. Quasi una “resa dei conti” finale con i propri fantasmi. Ritornano gli aspetti ricorrenti: i vincoli familiari, il senso di appartenenza ad una comunità, l’ossessione che marca a fuoco l’esistenza, i disturbi emotivi e relazionali del protagonista. Ad Astra potrebbe essere considerato come il seguito ideale di Civiltà perduta, la sua versione epurata e astratta. Questa volta dalla parte del figlio, di colui che ha ereditato l’amore per l’avventura, l’esplorazione di mondi e culture sconosciute, dovendo però rinunciare alla presenza del padre, risucchiato nel vortice delle ossessioni. Ed è proprio il figlio a doversi mettere sulle sue tracce per un confronto finale che ha il sapore del bilancio ma che allo stesso tempo offre l’ipotesi di una nuova possibilità. Non è un caso che questa resa dei conti avvenga sul terreno della fantascienza, ovvero con il genere che più di ogni altro assolutizza i termini del discorso, riducendo fino al grado zero il tempo e lo spazio, e costringendo i corpi in un contesto senza vie di fuga. Come un appuntamento inevitabile con il destino. 

Nella ricerca del padre fino ai confini dell’universo, McBride è chiamato ad affrontare la sfida più difficile della sua vita, ovvero spingersi fin dove solo il padre si era spinto, provando ad essere all’altezza delle eccezionali orme paterne che ne hanno fatto una leggenda dell’esplorazione spaziale. Inevitabile il confronto con il lascito del padre: la passione per l’astronautica, l’amore per il cinema classico ed in particolare il musical, una forte etica del lavoro. Ma anche l’aridità dei sentimenti, la solitudine. In questo lento e doloroso viaggio fuori e dentro di sé, McBride è costretto ad affrancarsi progressivamente da tutte le difese erette nel corso degli anni. Far uscire quello che si era cercato di addomesticare, reprimere, attraverso una lingua che possa tradurre concretamente i propri sentimenti, trasformare i monologhi in una lingua condivisa. Si riaffacciano il ricordo della donna amata e altri frammenti di memoria persi nel tempo. Un percorso intimista segnato dalla scoperta della propria vulnerabilità, dall’emersione delle proprie ferite, accompagnato dall’avanzare inesorabile delle lacrime, trattenute fino quasi al finale. 

Ad Astra traccia la parabola di uno sguardo che deve reimparare a vedere e che per farlo ha bisogno della singolarità delle emozioni. Le sole capaci di donare volume, consistenza, profondità alle immagini. Per quanto belli possano essere i pianeti scoperti dal padre, essi non sono niente senza sguardo affettivo. Non hanno luci né ombre. Sono soltanto la traccia inerte di uno sguardo accecato dalle proprie ossessioni e dunque incapace di accettare ciò che le immagini da lui stesso immortalate rivelano in tutta la loro semplicità. Non c’è alcun mistero da svelare, nessun altro pianeta sconosciuto o popolo alieno. Per giungere a questa consapevolezza, McBride deve in qualche modo disimparare la tecnica, superare la fredda prassi scientifica, correndo il rischio di far saltare tutti i parametri, di non essere più in grado di compiere “lucidamente” il proprio lavoro, di non essere più considerato idoneo. Per eguagliare e superare la traiettoria paterna deve rimettere in discussione alcuni principi cardine del suo lavoro, opporre alla possibilità (sempre aperta) della scoperta, la concretezza delle emozioni e delle relazioni. Dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo. Colmare la distanza che ci separa dall’altro. 

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James Gray Brad Pitt Tommy Lee Jones Ruth Negga Liv Tyler Donald Sutherland 124 minuti
USA
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The Perfect Candidate

di Riccardo Bellini
the perfect candidate - recensione film Al Mansour

Maryam è una giovane dottoressa pronta a candidarsi alle elezioni comunali del proprio paese per asfaltare la strada dissestata che, ogni giorno, conduce le ambulanze all'ospedale in cui lavora. Peccato che ci troviamo in Arabia Saudita, dove (nella realtà) soltanto nell'agosto del 2019 è stata abolita la legge che impediva alle donne di viaggiare all'estero senza l'autorizzazione di un "tutore" (la stessa Maryam viene rimandata a casa dall’aeroporto per lo stesso motivo). Figurarsi partecipare da candidate alla vita politica locale. E infatti bastano le dichiarazioni della ragazza per scatenare l'ostilità e l'indignazione dei concittadini, donne comprese. Ma Maryam è decisa ad andare fino in fondo e tentare l'inaudito. Con The Perfect Candidate, Haifaa Al Mansour torna così nella sua terra natale, - dopo gli occidentali Marey Shalley e Nappily Ever After (distribuito da Netflix), - e al cinema di denuncia. Un ritorno che trova una collocazione, all'interno del concorso della 76 Mostra del cinema di Venezia, destinato a suscitare perplessità più che comprensibili.  

In una edizione del Festival inaugurata dalle discutibili dichiarazioni della presidentessa Laura Martel rivolte a Roman Polanski, The Perfect Candidate dimostra quantomeno che, quando si parla di cinema, continueremo a preferire i grandi registi ai talenti mediocri, indipendentemente dal fatto che siano o no brave persone. Come del resto continueremo a ribadire che non bastano buoni sentimenti e nobili intenti per rendere efficace la portata del proprio messaggio. Sono al contrario necessari una visione estetica, un approccio stilistico, o per lo meno la capacità di sviluppare un’idea che non si limiti alle sue premesse essenziali, tutte cose di cui è carente il film di Haifaa Al Mansour. Appiattito da una sceneggiatura con poche intuizioni veramente fortunate (Maryam che per la propria campagna elettorale trae ispirazione dal video di un bifolco repubblicano degli Stati Uniti) e dalla totale assenza di un’autentica componente espressiva, The Perfect Candidate incarna i limiti di un cinema politicamente militante che attenua la forza della propria causa nel momento in cui si disinteressa alla forma.

È interessante il tentativo di accomunare le difficoltà incontrate da Maryam - che si confronta con un ambiente apertamente avverso - a quelle più subdole con cui deve fare i conti il padre, musicista di matrimoni e per questo vittima di pregiudizi classisti da parte della comunità. Soluzione che permette senz’altro di espandere lo sguardo morale verso una società ancora profondamente bigotta e reazionaria, attraverso pochi dialoghi e alcuni dettagli (almeno per quanto riguarda la storia del padre, più didascalica risulta invece la parte di Maryam). Come del resto è apprezzabile il coraggio e la determinazione con cui l’attrice Mila Al Zahrani dà vita alla protagonista. Ma, nella reiterazione delle situazioni e nell’insistenza con cui si afferma lo stesso (importante) messaggio senza la capacità di approfondirlo, anche le idee migliori restano relegate a livello di meri spunti.

Haifaa Al Mansour è una di quelle personalità la cui importanza storica supera quella artistica. Se essa, unica regista dell’Arabia Saudita, è riuscita a scalfire anche in minima parte un sistema oppressivo con il suo esempio lo si deve in primis al coraggio del gesto, all’urgenza di una voce che ha deciso di non assecondare il pensiero egemone. E questo non possiamo sottovalutarlo. Ma nel momento in cui siamo chiamati a valutare l’opera all’interno di un concorso come quello veneziano, allora non possiamo astenerci dal dire che è davvero troppo poco. 

 

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Haifaa Al Mansour Mila Al Zahrani 101 minuti
Arabia Saudita 2019
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Pelikanblut (Pelican Blood)

di Samuele Sestieri
Pelican Blood

Il pellicano resuscita i cuccioli col proprio stesso sangue: dai retaggi cristiani - tracce iconografiche di un passato che non muore mai - alla magia nera il passo sembrerebbe enorme, eppure tutto è possibile nell’opera seconda di Katrin Gebbe.

Pelikanblut (Pelican Blood) inizia come un dramma familiare con mamma Nina Hoss che vive insieme alla figlia adottiva in un allevamento di cavalli. Accoglie in casa la piccola Raya, bambina dal passato traumatico, e fin da subito le dona un amore incondizionato. Ma – come da tradizione – lo sguardo della bambina si fa oscuro, inquieto, custode di segreti inconfessabili. Gradualmente si insinuano tutti i tasselli del più classico degli horror familiari: morsi, schiaffi e dispetti crudeli, terribili disegni sulle pareti, incendi falliti, grida in stile Friedkin, deviazioni scatologiche e il solito armamentario da bimbo malefico.

Pelican Blood ci fa credere, per qualche istante, all’improbabile medico di turno che dispiega tutte le diagnosi psicologiche del caso. Pensiamo di aver inquadrato il film quando ci viene detto – parole, parole, parole! – che  la piccola Raya non prova sentimenti, non conosce né odio né amore. Da quel momento Pelican Blood sembrerebbe procedere in modo programmatico. La madre, come il pellicano del titolo, tenta di far rinascere Raya: le dona tutto l’amore del mondo, la allatta come una neonata, si prende cura della bimba in modo tanto estremo da sfiorare la patologia. L’amore materno, si sa, non conosce confini. Ma poi, all’improvviso, il film inverte la tendenza, scopre che c’è qualcos’altro. Qualcosa che non può essere detto né dimostrato, qualcosa che eccede la teoria e lascia emergere un mondo sommerso e primordiale, quello dei riti e della magia, dei mostri che ci abitano e dei diavoli che non ci hanno mai abbandonati. Esiste un resto e questo resto ritorna finalmente al centro.

Improvvisamente Pelican Blood si fa beffe delle piste costruite fino a quel momento, perfino della relazione amorosa che avrebbe potuto salvare la donna. Si fa beffe delle analisi scientifiche, delle ipotesi cliniche, della logica medica e trasforma la maternità in un viaggio nel tempo.

Pelican Blood ci proietta in un mondo arcaico e notturno dove riaffiorano, come in sogno, antichi rituali dimenticati. Con afflato pagano, il film scivola nei territori oscuri dei culti e delle streghe, degli incantesimi e dei demoni che abitano la carne. Smette di inquadrare il male e si fa piuttosto esperienza del male. Katrin Gebbe  ha il coraggio di disattendere le aspettative, di sfidare il buonsenso, di prendersi il suo tempo – che è un tempo altro, sospeso, malato - ricercando le radici di un genere – l’horror – che troppo spesso ha lasciato fuori casa il suo stesso germe fondativo: l’irrazionale.

Pelican Blood fa del fuoricampo il regno privilegiato del mistero e del soprannaturale, perché il diavolo è invisibile ma si congela negli occhi di chi guarda (magnifici i tre ralenti che suggellano il film prima delle dissolvenze incrociate: lo sguardo contamina il mondo, gli occhi sono il vero agente patogeno, la matrice di ogni orrore). Imprevedibile, Pelican Blood fugge via dalle zone di comfort, diventa film inatteso e un po’ spregiudicato, che non cade nella provocazione grand guignol ma lavora sapientemente sulle atmosfere che lentamente ci avvolgono e spaventano. La paura ritorna a popolare la foresta: nel bosco della nostra infanzia la scienza non può nulla. La mente della bambina diventa un labirinto impossibile da decodificare mentre il corpo si fa ricettacolo del male. L’esorcismo non basta, bisogna tornare al sacrificio animale e alle antiche logiche tribali, al voodoo e alla magia nera. E, soprattutto, bisogno crederci. Pelican Blood in fondo parla di questo: dell’amore come insindacabile atto di fede, gesto esemplare di rivolta a un tempo – il nostro – che ha smesso di credere a tutto ciò che è incredibile. Solo quest’ennesima mother cinematografica può vincere il male perché lei vede le cose che solo i bambini vedono.

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Katrin Gebbe Nina Hoss Yana Marinova Murathan Muslu 121 minuti
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Le verità

di Matteo Berardini
La verite - film koreeda venezia

Fabienne e Lumir, madre e figlia, la prima grande attrice del cinema francese, la seconda sceneggiatrice sposata a un attore americano di serie b con problemi di alcolismo. Una famiglia che ruota attorno al set e alla magia del cinema, e che si riunisce in Francia nella lussuosa casa di Fabienne per festeggiare l’uscita editoriale delle sue memorie. Il titolo è Le verità, il contenuto decisamente meno, come si accorgerà ben presto Lumir. Intanto la figlia di lei guarda estasiata la grande casa della nonna, torreggiante e avvolta da un ricco giardino: «è come un castello!» dice sorpresa e divertita; «sì, ma dietro c’è costruita una prigione», replica la mamma. In questo scambio di battute, che apre il film e torna un’altra volta in corso d’opera, c’è la cifra e il motore primo del cinema intimista di Hirokazu Kore'eda, da sempre interessato a raccontare le intessiture agrodolci della vita famigliare, il doppio volto – costruttivo ma anche opprimente, accogliente ma condizionante – dei legami affettivi e fondanti che costituiscono la vita insieme. Per questo Le verità  è un film che programmaticamente nega sé stesso e gioca con il concetto di verità moltiplicandone i punti di vista, le possibilità, fino a trovare nella mise en abîme del set e della finzione artistica l’esemplificazione ideale dell’aporia intrinseca ai rapporti famigliari, al loro essere allo stesso tempo castello e prigione.

Fresco di Palma d’oro per uno dei suoi film più belli (Un affare di famiglia), Kore'eda si apre per la prima volta alla produzione internazionale, gira in francese e inglese reclutando un cast di divi (Catherine Deneuve, Juliette Binoche, Ethan Hawke) e prende a prestito il titolo di uno dei film più belli di Clouzot, Le verità appunto, feroce atto d’accusa contro l'ipocrisia borghese della Francia anni Sessanta incarnato da Brigitte Bardot.
Qui a tenere banco è invece la Deneuve, sulla quale il regista giapponese – ispirandosi a una sua opera teatrale scritta 15 anni fa – costruisce la figura di una decadente attrice storica del cinema francese, sorta di Norma Desmond circondata da ex mariti, mariti mancati, mariti attuali, un ginepraio di maschi irrisolti e incerti e perpetuamente infantili che fa da controcampo alla centralità femminea del racconto (in particolare nel rapporto madre-figlia) ma che è anche, nella sua sterilità un po’ pigra e superficiale, il primo campanello d’allarme di una generale povertà d’indagine e scavo psicologico.

Afflitto da una frivolezza per cui la leggiadria sotto le righe dei migliori film di Kore'eda trascolora qui in leggerezza e banalità, Le verità chiama a raccolta tre generazioni femminili, nonna, madre e figlia, e di queste cerca di catturare i vari punti di vista senza riuscire però a conquistarne nessuno; nel corso del racconto emergono tracce di quel realismo magico che popola il mondo dell’infanzia, ritornano i fantasmi di traumi e conflittualità insiti nel rapporto madre-figlia, si moltiplicano le asperità egocentriche di una donna matura che sente la vecchiaia e la dismissione del suo ruolo come una minaccia incombente, ma in questo gioco di doppi manca sempre un momento di reale confronto, uno spazio di approfondimento drammatico. Sulla carta tale ruolo dovrebbe essere svolto dalla dimensione meta-testuale della storia, alla quale Kore'eda affida il compito di far emergere e problematizzare i rapporti affettivi, ma vuoi l’affastellarsi di riferimenti cinefili gratuiti, vuoi la volontà di non andare mai a fondo nelle tensioni evocate, preservando un costante tono da commedia brillante, la struttura specchiata del film nel film, che tanto richiama l'ultimo Assayas, non ha il respiro e il coraggio necessari a far cambiare marcia al racconto.

Il risultato non sembra essere né dramma da camera né ricostruzione sotto le righe di universi famigliari complessi (come comunque riuscivano a essere, pur come opere minori, film come Ritratto di famiglia con tempesta); dispiace dirlo, perché comunque il film in piccolo funziona e regala anche momenti di grazia, ma Le verità è un lavoro in tono fortemente minore, che banalizza le tematiche del suo regista e sembra nascere da un patteggiamento tra apertura internazionale e sguardo personale a deciso svantaggio della seconda.

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Hirokazu Kore'eda Catherine Deneuve Juliette Binoche Ethan Hawke Manon Clavel 107 minuti
Francia, Giappone 2019
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