Green Fish

di Lee Chang-dong

Un mondo che cambia, un giovane che ritorna, un Paese che si sveglia e non si riconosce più: il primo, fondamentale lungometraggio di Lee Chang-dong ci riporta all'alba idealista del nuovo cinema coreano.

green fish - recensione film lee chang dong

Un soldato passeggia silenzioso per i vagoni di un treno civile. È solo, con pochi bagagli appresso. Qualunque cosa significhi quella divisa militare, è ormai lontana dal presente del ragazzo. Il soldato in congedo si sporge dal finestrino, e respira con il vento in faccia mentre il treno attraversa lentamente un oceano di alberi e luce.


L'aria che respira Mak-dong, il giovane protagonista di Green Fish (Chorok Mulgogi, 1997) non è esprimibile per parole o immagini. È qualcosa di inafferrabile, che permea lo spazio impalpabile tra le inquadrature. Quel non-filmato inclassificabile che costituisce il proverbiale surplus delle parti sommate. È la stessa aria che permea i primissimi film di Kim Ki-duk, di Park Chan-wook, di Bong Joon-ho, e ovviamente più forte che mai il primo lungometraggio di Lee Chang-dong. Erano loro i quattro Evangelisti di quel nuovo cinema sudcoreano, che a partire dalla seconda metà degli anni '90 e attraverso tutto il decennio successivo avrebbe attraversato come una scossa elettrica il midollo intorpidito del cinema indipendente mondiale.
E l'aria dei loro primi film è quella chiara e luminosa dello sguardo che si riapre, il piacere fisico della visione che si allarga in campo lungo abbracciando la totalità di un Paese fino ad allora sbirciato con paura da dietro una finestra chiusa. La gioia trattenuta ma incontenibile di una generazione di artisti al risveglio da un incubo durato quarant'anni; quella di scendere per la prima volta in strada con una cinepresa, e riprendere il mondo intero.

Un clima culturale non diverso da quello dell'Italia neorealista del dopoguerra, doveva respirarsi in Corea del Sud all'inizio degli anni '90. Per la prima volta da Yalta, il popolo coreano si era ritrovato improvvisamente padrone del proprio destino, dopo quattro decenni trascorsi schiavo delle sanguinarie dittature anti-comuniste imposte dal Blocco Occidentale a seguito della scissione dal Nord rosso. Una vittoria senza gioia, una liberazione con il sapore della convalescenza da una malattia mortale: per arrivare alle elezioni democratiche del 1988, che portarono il Presidente eletto Roh Tae-woo ad avviare il processo di democratizzazione del Paese, la nazione aveva dovuto attraversare un calvario lungo quasi mezzo secolo. Massacri di Stato, abolizione dei diritti, manifestazioni e rivolte studentesche represse nel sangue. Un inferno che aveva marchiato a fuoco l'inconscio collettivo di un popolo intero. Contemporaneamente, la brutale trasformazione economica compiuta a cavallo degli anni '70 e '80 aveva stravolto il volto e i costumi di un Paese contadino, avviando una mutazione antropologica e industriale verso una nuova società del benessere di stampo occidentale (altro paragone storico familiare).


Negli anni della Perestrojka, il regime stragista di Chun Doo-huan aveva portato la Corea del Sud sull'orlo della guerra civile: ma lo spauracchio comunista era ormai sconfitto, e con le storiche elezioni democratiche dell'88 si chiuse definitivamente l'era del terrore. A metà del decennio successivo, un popolo cresciuto nell'incubo della dittatura militare e delle esecuzioni di massa si era improvvisamente risvegliato democratico, consumista e americanizzato. Ed è qui che la scuola di Lee e compagni si riscoprì per la prima volta libera di uscire di casa, guardare in faccia la Storia, raccontare i traumi dei loro padri e lo spaesamento della propria generazione.
Un soldato in congedo che si affaccia dal treno che lo sta riportando a casa, e si perde pensieroso tra le montagne che gli bloccano lo sguardo. Chi lo sa cosa c'è nel suo passato. Chi lo sa cosa lo aspetta adesso.

Ogni giovane artista con qualunque tipo di aspirazione sogna di esordire con l'Opera Definitiva, e Lee Chan-dong (in realtà quarantenne, con una solida carriera di scrittore alle spalle) non fa certo eccezione: a cavallo del Millennio, il Grande Romanzo Coreano diventa l'ossessione di questa generazione di film-makers, e Green Fish si ascrive appieno a questo tipo di tendenza. Il giovane soldato in congedo in viaggio verso casa è dunque il ventiseienne Mak-dong (Han Suk-kyu). Esentato dal servizio dopo diversi anni, si prepara a tornare dall'amata famiglia, nella provincia agreste di Seul. Ma molto è cambiato nei pochi anni di leva.
La città della sua infanzia è ora una metropoli; boschi e risaie sono spariti, spazzata via dalle nuove palazzine residenziali e dai quartieri gentrificati di una nuova élite. Il nucleo familiare, un tempo unito, è andato in pezzi: la madre e i quattro fratelli quasi non si frequentano più, impegnati come sono a mantenersi con lavori infernali. Mak-dong rimpiange un'idealizzata gioventù di vita contadina che nella Seul industriale degli anni '90 non esiste più.
Gli unici che sembrano passarsela bene sono una nuova categoria di ricchi, spuntati dal nulla e improvvisamente diventati padroni di questa nuova Corea: sono i gangster capitanati da Bae Tae-gon (Moon Sung-keon), l'uomo che ha guidato e controllato lo sviluppo economico della città, e della di lui donna Mi-ae (Shim Hye-jin). Di questa coppia il protagonista si innamorerà, perso nel sogno di ritrovare l'unità familiare e sociale andata perduta. Fino ad un allegorico sacrificio dal sapore rituale.

Come gli altri Grandi Romanzi dei suoi compatrioti, il Green Fish di Lee vuole intrecciare il privato di un racconto poliziesco con il collettivo di una nazione intera. Dietro le sensuali ombreggiature hard-boiled dei night club, tra le righe roman noir del tragico protagonista, il regista riavvolge i fili di un trauma generazionale: quello dell'avvento della società dei consumi sul substrato sociale preesistente. Un trauma questo, talmente impresso nella psiche di un popolo da riecheggiare prepotente nelle principali filmografie dei futuri Maestri nazionali: dalle bestie umane degli slums di Kim Ki-duk alle famiglie di losers di Bong Joon-ho, il cinema coreano moderno è la storia dei rimasti indietro, dei detriti, dei cadaveri incastrati nelle impalcature di una superpotenza liberista costruita sul sangue.


Significativo in tal senso come Lee basi il proprio film sull'associazione classica "gangster"-"imprenditore", incarnata dal personaggio di Bae Tae-gon, e sul suo percorso di arricchimento alle spalle di una working class impoverita e sconfitta dalla Storia. Si tratta della metafora più rappresentativa del crime, a sua volta il più americano dei sottogeneri narrativi. Il rifarsi ad una tradizione così fortemente occidentale è rivelatoria: non bisogna dimenticare il ruolo che ebbero gli USA nel comprare con il piombo lo sviluppo in chiave capitalista del Paese, attraverso l'appoggio militare ai regimi di Park Chung-hee e di altri mostri del Secolo Breve. Da Gatsby in poi, l'eroe romantico americano è l'uomo che vende l'anima al diavolo per il successo economico: per Lee, quest'uomo è Tae-gon, è Mak-dong stesso, è Seul e la Corea intera.

Green Fish è ancora il film di uno scrittore prima che di un regista. Rispetto al controllo formale che Lee svilupperà a partire dai lungometraggi successivi, per approdare ai trionfi contemporanei di Poetry e Burning, permangono le classiche ingenuità da debuttante. Le armi non sono affilatissime, e l'economia visiva alla base dell'arte cinematografica è spesso tradita in favore dell'accumulo propriamente letterario: ciò si risolve in un'opera prima bulimica, che ammassa mille spunti tutto sommato fine a se stessi senza avere sempre la forza di lasciarli confluire in un insieme unitario (le turbe sessuali del protagonista sono suggerite senza che ciò si rifletta nel suo sviluppo, così come le varie divagazioni dedicate alle vite private di personaggi marginali). Ma a sprigionarsi contagiosa è la gioia e la vitalità di un artista che ha finalmente trovato il mezzo espressivo dei suoi sogni. E la fame di corpi e immagini di un regista che ha aspettato tutta la vita per parlare, e non vuole attendere più.

Autore: Saverio Felici
Pubblicato il 22/09/2019
Corea del Sud 1997
Durata: 111 minuti

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