Mosul

di Matteo Berardini
mosul recensione film

In arabo il termine “Mosul” significa congiunzione, incontro, nomen omen per una città sfaccettata nata dall’interazione tra popoli e culture diverse. Oggi Mosul si trova nell’Iraq nordoccidentale, poco distante dai confini con la Siria, la Turchia e l’Iran, ed è la terza città del palese dopo Baghdad e Bassora. O almeno lo è fino al 2014, quando i miliziani dello Stato Islamico prendono la città e instaurano un regime brutale lungo tre anni. La città sarà dichiarata libera solo nel luglio del 2017, dopo 40mila vittime lasciate sul campo, devastazione urbana e incalcolabili sofferenze. Una parte di questa storia viene raccontata oggi in Mosul, sorprendente debutto alla regia dello sceneggiatore Matthew Michael Carnahan, che firma un film di genere robusto, tradizionale e assieme profondamente innovativo.

A memoria non è facile trovare un’opera come Mosul, ovvero un film hollywoodiano ad alto budget girato totalmente in lingua madre e interpretato da un cast rigorosamente mediorientale, in gran parte iracheno. Questo perché la brillante intuizione di Carnahan è quella di non snaturare l’identità culturale del racconto e di valorizzare così la specificità locale degli elementi a disposizione e dei temi affrontati. All’origine del film troviamo un reportage scritto dal giornalista Luke Morgelson per il New Yorker, un saggio che affronta l’inedito argomento del team militare Ninevah SWAT, un’unità di polizia irachena che agisce al di fuori degli ordini e compie operazioni di guerriglia contro le forze ISIS occupanti Mosul. L’obiettivo è colpire elementi sensibili, ricoquistare le proprie case e difendere quel che resta delle proprie famiglie, in un tentativo estremo, spesso fatale, di soffocare la presenza di Daesh in città. A riservarsi i diritti di questa ricostruzione arrivano presto i fratelli Russo, proprio quelli di Marvel e degli Anvengers, che decidono di inaugurare la loro personale casa di produzione raccontando la storia dei Ninevah SWAT.

Il percorso di iniziazione, rapido e brutale, di una recluta appena unita alla squadra; il leader carismatico che li guida, pronto a tutto per compiere la missione e assieme proteggere i suoi “figli”; la sporca dozzina di soldati, rinnegati dall’apparato militare ma intenzionati a completare le loro missioni a ogni costo. Il tutto raccontato con lo sguardo adrenalinico e iperrealista del miglior cinema bellico hollywoodiano, che universalizza la storia locale assorbendola nelle griglie rodate del genere. Il risultato è spiazzante e unico: Mosul ha tutto l’aspetto e la struttura del war movie ma l’identità è altra, ed è ancorata a soldati iracheni che combattono per liberare il proprio paese e vogliono farlo da soli, in prima persona, perché «gli Americani si limitano a bombardare ogni cosa, dato non saranno loro a dover ricostruire». Del resto a fare la forza del film, oltre gli indiscutibili meriti tecnici e di regia, è proprio la tenuta umana della squadra protagonista, vicina e assieme lontana, coinvolta in un’ultima missione che svela una natura intima e sentimentale e smorza così la parabola di iniziazione alla violenza che soggiace al racconto.

Affiancato da comparto produttivo di primo livello, a partire dal nostrano dop Mauro Fiore, premio Oscar per Avatar, Carnahan scrive e dirige un film importante, che sfrutta dall’interno le modalità del racconto hollywoodiano per portare alla luce una vicenda e soprattutto un punto di vista che necessita di trovare un suo spazio espressivo. Certo, manico, sguardo e stilemi narrativi sono quelli americani trapiantati sul contesto altro, ma sarebbe davvero anacronistico e limitante leggere in questo una seconda forma di invasione. Meglio piuttosto guardare al film come a un primo cavallo di Troia, a un piccolo gesto alternativo che lavora ben dentro l’immaginario collettivo per farvi nuovo spazio.

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Matthew Michael Carnahan Hayat Kamille Thaer Al-Shayei Waleed Elgadi Anouar H. Smaine 101 minuti
USA 2019
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Atlantis

di Damiano Garofalo
La recensione di Atlantis

Una classica immagine dronica filtrata dai thermal infrared sensors mostra, dall’alto, l’esecuzione e il seppellimento di un soldato ucraino da parte di due militari russi. I sensori, che risaltano il calore dei tre corpi nel buio della notte, dipingono sullo schermo un quadro astratto di macchie rosse e violacee. Siamo in Ucraina orientale, nel pieno della guerra del Donbass, conflitto tutt’ora in corso che, al momento, conta circa 15.000 morti in poco meno di 5 anni. Con questa sequenza si apre Atlantis di Valentyn Vasyanovych, presentato a Venezia 76 nella sezione Orizzonti.
Al contrario di quanto si possa immediatamente pensare, il quarto film del regista ucraino non è un war movie, ma un desolante racconto post-atomico delle scorie rilasciate sul territorio dalla guerra tra russi e ucraini. Atlantis, non a caso, è un film che viene dal futuro: a parte la primissima sequenza, infatti, il film è ambientato nel 2025, e racconta la vita di Sergeij, ex-militare ucraino che soffre di stress post-traumatico e non riesce ad adattarsi alla vita dopo la guerra. Il Donbass è una waste land, un deserto del tutto inadatto alla natura e alla vita umana o animale. La vegetazione non cresce più, le acque sono state contaminate, l’ambiente è intossicato da tonnelalte di rifiuti tossici, le persone sono morte o scappate. L’immaginario post-apocalittico di una nuova Chernobyl nell’Ucraina orientale viene ben reso dai luoghi reali in cui il film è ambientato: si tratta d’immagini provenienti direttamente dalle zone di guerra che, girate nel presente ma collocate narrativamente nel futuro, assumono  una valenza documentale e una resa testimioniale che genera un cortocircuito tra presente, passato e futuro possibile.

Dopo il suicidio di un amico e collega di lavoro, quando la fonderia dove lavora chiude a causa di problemi economici, Sergeij decide di unirsi alla missione volontaria dell’organizzazione no-profit denominata Tulipano Nero, specializzata nella riesumazione e nel recupero dei cadaveri di guerra dalle fosse comuni. Si tratta di corpi di militari e civili ucraini uccisi durante il conflitto, che rappresentano, metaforicamente, il cadavere della storia disseppellito dal velo dell’oblio. Sergeij partecipa agli scavi che resuscitano questi corpi allegorici, alla ricerca di una civiltà scomparsa, l’Atlantis sottomarina che si nasconde negli abissi del passato. In questa operazione archeologica di smaltimento dei “rifiuti” della storia, vaga tra i palazzi distrutti e le macerie delle città, alla ricerca di memorie dal futuro che possano permettergli di sopravvivere al presente. Quando gli chiedono «perché non te ne vai da qui?», lui risponde che non avrebbe nessun posto dove andare, e che quelli come lui sono «diversi», non potrebbeto adattarsi a un ambiente «normale». Sergeij osserva imperterrito la costruzione di un enorme muro divisorio tra i due paesi, segno dell’irrisolutezza e dell’inutilità di questa guerra (e di tutte le altre che si sono susseguite nella storia). Capisce che per lottare contro il disfacimento dell’ambiente e la desolazione dell’umano bisogna far rinascere la vita laddove c’è la morte, infrangendo i muri  e oltrepassando i confini costruiti artificialmente dall’uomo. «Almeno fino ai prossimi cento anni, su questo territorio non ricrescerà più niente», lo avvertono. Ma è proprio nel rapporto con la sua nuova collega Katya, dunque nella rinascita e in un nuovo amore, che Sergeij troverà nutrimento per cambiare il suo (e il nostro) presente.

Composto per lo più da inquadrature fisse e simmetriche, Vasyanovych non cade mai nel rischio di estetizzare all’eccesso la costruzione delle sue immagini. Decide di rimanere molto su Sergeij, che entra ed esce fuori campo, sconfinando le cornici delle inquadrature e rompendo il rigore della forma. In questa direzione, le tre sequenze conclusive rappresentano una rottura del dispositivo fin a quel momento accuratamente costruito. La prima parte dall’ennesima inquadratura fissa del muso di un camion che si ferma per strada, in panne, nel nubifragio. La mdp opera uno zoom in avanti verso il parabrezza coperto dalla pioggia, dietro cui intuiamo un timido approccio tra i due. Vasyanovych, qui, decide di proseguire il suo zoom, rompendo idealmente il confine tra il fuori e il dentro del camion, dove assistiamo a un amplesso, filmato in chiaroscuro con misura e leggerezza. Alla fine della scena, Sergeij apre il portellone posteriore dietro di loro, che affaccia sulla strada di campagna. Il cinema, ancora una volta, permette un attraversamento di confini materiali (i muri, i vetri, le porte, i corpi) e immateriali (il tempo, l’amore, l’umanità). Nella sequenza successiva, i due chiacchierano sul divano di fronte a una tazza di tè. Quando Sergeij  spegne la fiammella che illumina la stanza, il buio circostante viene improvvisamente colorato dalle stesse macchie rosse e violacee della prima sequenza: si tratta, ancora una volta, dei thermal infrared sensors che arrossiscono le temperature dei corpi di Katya e Sergeij, stavolta abbracciati. La struttura circolare combina, in contrappunto, il calore in esaurimento del corpo del cadavere del soldato (prima scena, presente) con quello rigenerante dei corpi vivi degli amanti (penultima scena, futuro). Lo stesso squarcio di speranza sul futuro di un’umanità che torna a vivere, ad amarsi malgrado tutto, riproposto nella brevissima sequenza finale, dove Katya e Sergeij osservano, sui tetti, l’orizzonte delle loro vite: la fonderia, sullo sfondo, in smaltimento, e gli uccelli, in stormi, che torneranno a volare.

Articolo scritto in collaborazione con Cinema e Storia - Rivista di studi interdisciplinari.

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Valentyn Vasyanovych Andriy Rymaruk Liudmyla Bileka Vasyl Antoniak 106 minuti
Ucraina
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No.7 Cherry Lane

di Emanuele Di Nicola
No.7 Cherry Lane - recensione film

Hong Kong, fine anni Sessanta. Ziming è uno studente combattuto tra i sentimenti che nutre per la signora Yu, una donna in esilio da Taiwan a causa del Terrore Bianco, e la sua bellissima figlia Meiling. Il ragazzo impartisce ripetizioni alla figlia e in questo modo si avvicina sia a lei che alla madre...

Con No.7 Cherry Lane Yonfan mette subito sul tavolo i suoi riferimenti: Alla ricerca del tempo perduto, prima di tutto, con il capolavoro proustiano che viene ripetutamente citato dal protagonista, soprattutto in riferimento alle note quaranta pagine che descrivono una notte insonne di Marcel; l'inizio di Anna Karenina di Tolstoj, in cui Anna non appare mai. Qui viene postulato l’assunto di fondo: la pratica della “lentezza come eleganza”, affermata proprio da Ziming, che così chiarisce le regole del racconto. Una “lentezza” raffigurata nel simbolo del gatto grigio, figura fantasmatica e leziosa che attraversa il nostro sguardo al rallentatore.
Il regista sfida la ridondanza letteraria, ma a ben guardare la sua è una forma di onestà: si prenderà il suo tempo, lo sappiamo dall'inizio, e sarà un racconto del ricordo (proustiano, appunto) con tutto ciò che ne consegue. Per esempio la percezione filtrata dalla memoria riscrive la realtà e la drammatizza, non si riferisce al vero svolgimento dei fatti ma alla sua rievocazione nella mente: ecco che lo studente si muove non solo su un terreno plausibile, ma anche tra sogni, immaginazioni, fantasticherie.

Per Yonfan l'animazione è lo spazio del ricordo. Cosi´ si spiega il ricorso a questa tecnica, usata per la prima volta dal regista di Hong Kong: nell'impossibilità di ricostruire le memorie attraverso la finzione tradizionale egli guarda da un´altra parte e lo fa con il disegno. Hong Kong, lo stesso luogo di Wong Kar-wai, si “anima” di manifestazioni maoiste nelle strade, mentre nel privato il giovane allestisce un possibile triangolo con madre e figlia. Wong appare apertamente citato in un incrocio sentimentale in ralenti, a chiasmo, il primo incontro che apre il balletto dei personaggi.

Ma Yonfan fa anche di più: nel riallestire questa società fine anni '60 egli riscrive in animazione i film dell'epoca, quelli che si vedono al cinema, prima in bianco e nero e poi a colori. Meiling chiama sempre la madre “signora Yu”, connotandola come la sua Mrs. Robinson proprio mentre Il laureato di Mike Nichols invade le sale. Il regista non si limita alla realtà, seppure filtrata da un immaginario cine-letterario, ma avvolge l'intreccio in un tratto onirico: ecco che la scena del sogno, con i volti che cambiano, si impone come disvelamento dei veri desideri dei protagonisti; ecco che l'eros prima trattenuto esplode nella memorabile sequenza del sesso con i gatti. Nella non esaltante competizione di Venezia 76, insomma, No.7 Cherry Lane si offre come uno dei titoli più significativi grazie alla forza delle idee, alla sorpresa delle immagini, al discorso visivo peculiare che resta impresso oltre lo schermo.

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Yonfan 125 minuti
Hong Kong 2019
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Wasp Network

di Damiano Garofalo
La recensione di Wasp Network

La Habana, 1990. Il pilota cubano René González (Edgar Ramirez) sequestra un aereo per attraversare il golfo del Messico e raggiungere Miami, dove si trasferisce come dissidente al regime castrista. Lascia a casa la moglie Olga (Penélope Cruz) e una figlia, cui non anticipa la sua fuga da Cuba. Alcuni mesi dopo, stavolta via mare, lo segue Juan Pablo Roque (Wagner Moura), pilota come lui. Entrambi iniziano a frequentare un’organizzazione anti-castrista, per cui compiono una serie di azioni dimostrative per destabilizzare il governo cubano. Tuttavia, nell’apparente ricostruzione armoniosa del loro nuovo american way of life, qualcosa non torna. Quando entra in gioco Manuel Viramontez (Gael Garcia Bernal), un giovane diplomatico cubano inviato a Miami per coordinare una cellula di spie castriste sul territorio nordamericano, i dubbi vengono fugati: René, Juan Pablo e Manuel fanno parte della Wasp Network, letteralmente “rete di vespe”, un  gruppo di agenti segreti castristi addestrati in madrepatria per infiltrare alcune organizzazioni di dissidenti cubani attive negli Stati Uniti, come gli Hermanos al Rescate di Jose Basulto.

«This is based on a true story». Con questa frase in sovrimpressione si apre l’ultimo film di Olivier AssayasWasp Network, presentato in Concorso a Venezia 76. Tratto dal libro di Fernando Morais Os últimos soldados da Guerra Fría: A história dos agentes secretos infiltrados por Cuba em organizações de extrema direita dos Estados Unidos, a sua volta ispirato alle reali operazioni di intelligence e controspionaggio tra Cuba e Stati Uniti negli anni novanta, il film tenta una prima storicizzazione cinematografica della fase terminale della Guerra fredda. Pur mantenendo saldo lo spirito internazionalista che contraddistingue il suo cinema, Assayas osserva la storia tramite la lente d’ingrandimento dell’amore: inteso sia come sentimento relazionale tra uomini e donne (il film ruota prima attorno alla famiglia di René e al suo rapporto, a distanza e poi ricongiunto, con la moglie e le figlia, poi a un matrimonio di circostanza di Juan Pablo con una ragazza locale), sia come spirito di sacrificio nei confronti di un’idea (il socialismo in recessione, più che la dedizione verso la”patria”).

Il cinema, per Assayas, è sempre stato un modo per attraversare i confini: da quelli geopolitici (pensiamo soprattutto alla miniserie Carlos, sempre con Edgar Ramirez protagonista) a quelli tra il mondo dei vivi e l’aldilà (Sils Maria e Personal Shopper), fino a quelli tra realtà e finzione (Double Vies) e alla consueta fluidità dei rapporti umani (Apres Mais). Un cinema apolide, senza fissa dimora, che in Wasp Network valica registri e generi diversi. La spiazzante voce fuori campo che irrompe dopo un’ora di film, a rivelarne in modo manifesto la natura politica, ribalta completamente non solo il senso delle azioni dei personaggi ma, sopratutto, i regimi di verità fin qui instaurati. Si passa da un racconto puramente di finzione a un ibrido tra ricostruzione e documentario, con inserzioni archivistiche e reenactment mediati degli schermi televisivi, intenti a verificare tutte le possibilità di quella «true story» annunciata. Così, come già in Carlos, assieme alla colonna sonora non originale dell’epoca, l’utilizzo del materiale d’archivio, reale o ricostruito, serve a collocare dei confini spaziali, geografici e temporali da far attraversare ai suoi personaggi.

La sequenza in cui due MIG dell’aviazione cubana abbattono tre aerei civili americani, presi in prestito dagli Hermanos al Rescate per compiere una missione dimostrativa non autorizzata sui cieli de La Habana, oltre a richiamare un episodio realmente avvenuto il 24 febbraio 1996, contribuisce all’ulteriore espansione dei registri narrativi e dei generi solcati. Si passa, anche qui, dal cinema ludico e d’intrattenimento (le scene action e thriller, le esplosioni spettacolari, l’utilizzo degli split screen depalmiani) alla tradizione del cinema politico europeo (nella sequenza degli attentati terroristici anti-castristi, La Habana rimanda esplicitamente all’Algeri di Pontecorvo), dalle digressioni più intime sul rapporto tra René, che in carcere decide di non collaborare, e la sua famiglia, “in ostaggio” del governo americano, fino a quello zoom sul fermo-immagine conclusivo che allude, ancora una volta, al cinema di genere e alla serialità televisiva poliziesca degli anni ottanta e novanta. Un film-contenitore, in cui Assayas decide di frullare il suo cinema con tutto quello che gli piace (e lo diverte), senza rinunciare alla solita, recente riflessione teorica sul rapporto tra media e mondo: dai già citati schermi televisivi, che inquadrano la storia e funzionano da contesto, ai cercapersone con cui rintracciarsi a vicenda, fino ad arrivare ai personal computer, entro cui vengono installati chip e virus a fini di sorveglianza, per concludere con l’arrivo dei primi telefoni cellulari.

Il video dell’intervista a Fidel Castro con cui (quasi) si conclude il film ribadisce gli intenti politici del suo autore: il paradosso per cui gli Stati Uniti, «il paese che fa più spionaggio al mondo», accusa di terrorismo Cuba, «il paese più spiato», non lascia spazio ad alcuna ambiguità, invitando gli spettatori a posizionarsi apertamente dalla parte dei subalterni, sconfitti da una storia che, finalmente, possiamo cominciare a rileggere.

Articolo scritto in collaborazione con Cinema e storia. Rivista di studi interdisciplinari.

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Olivier Assayas Penélope Cruz Edgar Ramirez Gael García Bernal Wagner Moura Ana de Armas 123 minuti
Brasile, Francia, Spagna, Belgio
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The Painted Bird

di Damiano Garofalo
La recensione di The Painted Bird

Dopo la crime comedy Mazaný Filip (2003), ispirata ad alcuni racconti di Raymond Chandler, e Tobruk (2008), war movie ambientato in Libia durante la Seconda guerra mondiale, il regista ceco Václav Marhoul presenta in concorso a Venezia 76 il suo terzo lungometraggio, The Painted Bird, tratto dall’omonimo romanzo di Jerzy Kosinski (1965). Il film, girato in pellicola e in bianco e nero, racconta la via crucis di un bambino, apparentemente orfano, errante tra le campagne dell’Est Europa durante il secondo conflitto bellico. La narrazione in capitoli è scandita dai nomi delle persone adulte, civili e militari, che si prendono “cura” di lui nel suo lungo viaggio all’inferno: torturato, perseguitato, picchiato, molestato, stuprato, il piccolo protagonista diventa precocemente adulto in reazione alla sequela di brutalità gratuitamente subite. Dopo aver scoperto, alla fine del film, che entrambi i genitori sono stati deportati, deduciamo l’origine ebraica del bambino dal tatuaggio sull’avambraccio del padre, sopravvissuto all’esperienza del Lager. Nascosto da questi per evitare la deportazione, il piccolo protagonista subirà comunque traumi e persecuzioni da quella società che sta a guardare il disfacimento del mondo.

In piena continuità con la riflessione già proposta da Michael Haneke ne Il nastro bianco, l’ambizione di Marhoul è quella di restituire lo spirito del tempo nel quale l’affermazione del regime nazista, lo scoppio della Seconda guerra mondiale, le persecuzioni che portarono alla Shoah ebbero luogo. Il clima d’intolleranza largamente presente nella società tra le due guerre viene trasposto, in modo fin troppo schematico, nelle efferatezze compiute sul bambino dalle persone che egli incontra sulla sua strada. Anche per questo, la pretesa di distanziarsi dagli stilemi e dai topoi classici degli Holocaust film (bianco e nero a parte) serve all’autore per compiere scientemente un’universalizzazione della storia. La banalizzazione della Shoah, ridotta ad alcune sequenze fuori contesto, ma sempre e comunque ripresa in primo piano (si pensi all’assassinio della donna ebrea e del suo neonato che tentano di fuggire da un treno diretto, probabilmente, verso un campo di sterminio; oppure, ancora, all’assalto dei cosacchi di un villaggio di civili, osservato dagli occhi dei bambini in lacrime), viene accompagnata da una ricerca estetica dell’immagine “perfetta” che non risparmia mai nulla alla visione di ciò che accade.

Con questo non si vuole brandire la spada degli strenui difensori dell’indicibile o dell’irrapresentabile, quanto ribadire la gravità di un’assenza, che aumenta sempre più sequenza dopo sequenza: quella del fuori campo. Tutto ciò non può essere moralmente giustificabile ostentando un presunto realismo, continuamente dissimulato da un dispositivo formale dove nulla sfugge al controllo. Se, da un lato, lo spettatore non viene mai esentato dalla visione di dettagli del tutto irrilevanti delle efferatezze compiute sul bambino (picchiato e bastonato in faccia e sul corpo, sepolto fino al collo e beccato in testa dai merli, lanciato dentro latrine piene di feci, costretto a praticare coiti orali e carnali con uomini e donne, a osservare scene di zoofilia, pestaggi, uccisioni, stupri, torture, molestie), il regista riesce ad allinearsi al punto di vista del protagonista soltanto nei minuti finali. Lo sguardo compiaciuto e distaccato finisce, di conseguenza, per produrre immagini del tutto anestetizzate, incapaci di generare qualsiasi emozione al di fuori della repulsione, dell’insofferenza, del profondo sgomento verso un’operazione cinematograficamente inconcepibile.

Articolo scritto in collaborazione con Cinema e storia. Rivista di studi interdisciplinari.

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Václav Marhoul Petr Kotlár Udo Kier Lech Dyblik Jitka Čvančarová Stellan Skarsgård Harvey Keitel 169 minuti
Repubblica Ceca, Ucraina, Slovacchia
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About Endlessness

di Giulio Casadei
La recensione di About Endlessness

About Endlessness, o gli infiniti capitoli che compongono l’esperienza umana. Lo svedese Roy Andersson torna a Venezia, cinque anni dopo il Leone d’oro vinto per Un Piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza, con un’opera che se da un lato conferma la granitica coerenza formale e tematica del suo cinema, dall’altro segnala uno scarto nei toni e una sorprendente leggerezza. Intendiamoci, l’orizzonte filosofico di Roy Andersson resta pur sempre pessimista. Ce lo dice il bianco cadaverico dei volti dei suoi personaggi, in particolare degli adulti; l’ironia quasi sempre tentata dal cinismo; gli ambienti spogli, grigi e anonimi; il personaggio del prete senza fede, l’unico a tornare più volte nel corso della narrazione. A cambiare è però lo sguardo d’insieme, più aperto ad un'idea di umanità, e soprattutto privo di quell’approccio dimostrativo che limitava l’opera precedente. In About Endlessness non c’è più nulla da dimostrare. La vita umana è presentata attraverso una vasta galleria di personaggi e momenti di per sé quasi mai significativi. Ed è proprio questo il punto. Per Andersson non esiste una gerarchia di valori tra gli eventi storici e le più ordinarie azioni che compiamo giornalmente. Tutto si trova sullo stesso piano: il flusso ininterrotto della storia dell’uomo. Ecco allora Hitler chiuso nel suo bunker e un dentista con problemi di alcolismo. Un condannato a morte che implora la grazia e un gruppo di ragazze che ballano in un bar. Un esercito appena sconfitto e una donna che ama sorseggiare Champagne. Il tutto secondo una logica arbitraria sostenuta però da una sorprendente empatia. Come raramente accaduto nel cinema dell’autore svedese, qui il rigore dello sguardo non si traduce automaticamente in aridità emotiva. Al contrario, nel corso del film emerge una certa, strana dolcezza tanto nei frammenti più lievi (un padre che sotto la pioggia allaccia le scarpe alla figlia, una donna appena scesa dal treno, sorpresa dall’arrivo di un amico, un neonato immortalato dal cellulare della madre, due ragazzi che parlano di termodinamica, ecc…) quanto in quelli potenzialmente cinici (l’uomo triste sull’autobus attaccato da un passeggero ma difeso da un altro, l’uxoricida pentito del folle gesto appena compiuto, il ragazzo che non ha mai conosciuto l’amore, l’avventore di un bar che proclama il suo entusiasmo per la vita, ecc…). Questa sensazione di apertura è ulteriormente avvalorata dalla scelta del narratore esterno che rompe la rigidità del dispositivo, rinviando in un’altra dimensione, più ampia e misteriosa, l’esperienza dell’opera. Quasi tutti gli episodi sono introdotti dalla voce di una donna, novella scheherazade de Le mille e una notte, che esordisce sempre con “ho visto”. Come se tutto il film fosse il frutto di un’unica visione della storia umana poi tradotta in una galassia di microstorie. Tra gli aspetti ricorrenti di questa sorta di libro dell’umanità troviamo la fiducia accordata ai giovani, i soli ad essere letteralmente vivi (in contrapposizione al pallore mortuario degli adulti), e capaci di spezzare la monotonia dell’esistenza. E soprattutto la presenza di scene di guerra e distruzione, che a intervalli irregolari spezzano il flusso più o meno routinario del film. Come se fossero non solo ricordi traumatici incastonati tra le maglie del quotidiano ma anche una possibilità sempre presente nel destino dell’uomo. Possibilità che Andersson riscrive però sotto il segno dell'amore, quando ci mostra una coppia di innamorati, che sembra provenire dallo Chagall di "Sulla città", mentre sorvola abbracciata il cielo sopra una spettrale Colonia rasa al suolo. Il tempo per Andersson è una dimensione reversibile. Potrebbe chiudersi o aprirsi con l'immagine di un uomo con la macchina guasta in aperta campagna o con una coppia che, guardando il panorama, ricorda che un altro settembre è arrivato. 

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Roy Andersson Jan-Eje Ferling Martin Serner Bengt Bergius Tatiana Delaunay 76 minuti
Svezia
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Madre

di Emanuele Di Nicola
Madre - Rodrigo Sorogoyen recensione film

Un bambino si perde su una spiaggia. Una madre smarrisce un figlio. Dieci anni dopo, sulla stessa spiaggia, crede di rivederlo. Una sorpresa del Festival di Venezia arriva dalla sezione Orizzonti: come sempre chiamiamo “sorpresa” ciò che non ci aspettiamo, perché il regista di Madre, lo spagnolo Rodrigo Sorogoyen, riprende il suo corto dallo stesso titolo e lo reinventa cambiandone in maniera inaspettata il registro. Lo spiega lui stesso: «Mi sono allontanato dagli aspetti da thriller del cortometraggio che lo ha preceduto per esplorare la storia intima di una madre anni dopo che ha perso il figlio».

Ecco allora Elena (una magnifica Marta Nieto) che nell'incipit perde la prole: il bambino si trova sulla spiaggia da solo, per negligenza paterna, mentre il cellulare si scarica viene avvicinato da un uomo. È l'ultima notizia conosciuta: vittima di un pedofilo? Non lo sappiamo, ma questo basta per portare Elena alla separazione. L’ellissi ci conduce a lei oggi, barista sulla spiaggia, che “rivede” il figlio perduto nell'adolescente Jean (Jules Porier, non inferiore alla protagonista) e quindi inizia a seguirlo.
È davvero suo figlio? Su questo nodo si sviluppa il racconto. Sorogoyen manovra il film su più confini: Francia e Spagna, con le pedine che si portano dall'una all'altra e il dialogo costantemente bilingue; ragione e follia, perché l'intimo di Elena si muove sempre su una linea sottile e pericolosa; soprattutto amore tra madre-figlio contro rapporto tra amanti. La natura del legame tra Elena e Jean è infatti perennemente ambiguo: a metà tra sentimento e carnalità, tra affinità mentale e contatto fisico.
Ma Madre è anche, soprattutto, un film sulla spiaggia. Ricordate Charlotte Rampling che cerca il marito in Sotto la sabbia di Ozon? È ancora sotto la sabbia che si annida un mistero: qui ciò che è scomparso può tornare sotto altra forma, ciò che abbiamo perso si può forse ritrovare. Basta volerlo vedere: tra le spiagge di Rohmer (Elena, di fatto, vive “á la plage”) e le estati di Kechiche, si dispiega il balletto tra i protagonisti che in un caso diventa perfino letterale, sulle note de L’estate sta finendo.

Affresco di una madre (da titolo: letterale), percorso dal buio verso la luce, thriller mentale e perfino etico, all’ombra del possibile incesto, Madre semina dubbi e sospetti, doppi e ritorni, perdite e risarcimenti (la telefonata finale che “rimborsa” quella iniziale). Peccato solo che voglia smaccatamente chiudere il cerchio, e dunque la fine porta all’esplicito superamento del trauma che si poteva tacere; ma anche così resta un ottimo risultato, un film dall’odore ozoniano.

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Rodrigo Sorogoyen Marta Nieto Julies Porer Anne Consigny Alex Brendemühl Frédéric Pierrot 128 minuti
Francia, Spagna 2019
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Panama Papers

di Matteo Berardini
Panama papers the laundromant recensione film soderbergh netflix

Cosa implica una transazione diretta tra merci o tra beni mediati dal denaro? Oscillazione di potere, dispiego di forza lavoro, interazione umana. In ogni sua forma il denaro è l’esercizio di relazioni sociali, e se nel mondo post-umano di oggi sempre più elementi di linguaggio e di espressione sociale precipitano nel virtuale, nella dialettica dicotomica di 0 e 1 che proietta nell’orizzonte digitale azioni e comunicazioni, perché lo stesso non dovrebbe accadere al denaro? Ecco così che dallo scambio di «mucche e banane» passiamo, stacco di montaggio tra la clava d’osso e l’astronave, all’immaterialità di bond, futures, derivati, ricchezze finanziarie che viaggiano, si moltiplicano e nascondono nelle infinite reti sotterranee dell’economia globalizzata. Sono significati in fuga dai loro significanti, ricchezze virtuali che necessitano per vivere di scatole cinesi altrettanto immateriali che si ripetono come frattali, attraverso le macro e micro economie di tutto il mondo. Partendo dall’inchiesta giornalistica Secrecy World di Jake Bernstein, Steven Soderbergh si getta nella nuova economia virtuale e prende di petto il caso dei Panama Papers, scandalo internazionale ricostruito da questo The Laundromat (Panama Papers), il secondo fenomenale film del regista per quelli di Netflix. Del resto, come spesso accade in Soderbergh e in particolare in quest’ultima straordinaria fase della sua carriera, le forme del racconto non si esauriscono mai in loro stesse ma si aprono a riflessioni, indagini e giochi brillanti sulle cifre più intime del mondo contemporaneo.

The Informant!, Contagion, Effetti collaterali. Sono questi i tre film che lo sceneggiatore di The Laundromat, Scott Z. Burns, ha già scritto per Soderbergh, tre opere vertiginose che dialogano apertamente in questo quarto lavoro dove si fondono cospirazione internazionale, economia infettiva e disfacimento del reale. Soderbergh e Burns si impegnano a ricostruire e illustrare allo spettatore la vasta organizzazione messa in piedi dallo studio legale panamense Mossack Fonseca, al centro dello scandalo giornalistico permesso da una gola profonda nel 2016. Ma questo lavoro d’inchiesta passa attraverso i più limati strumenti del cinema popolare hollywoodiano, similmente a quanto fatto da Adam McKay con La grande scommessa, dove la tradizione del cinema politico americano veniva riletta attraverso la lente comica della frat pack. Rispetto a McKay però Soderbergh non si accontenta di un solo genere di riferimento, e per la sua rivisitazione decide di attraversarne molti mettendo in piedi una giostra metacinematografica capace di unire in modo esilarante riflessione teorica e ricostruzione giornalistica.

Panama Papers è assieme thriller economico e commedia grottesca, pamphlet politico e indagine giornalistica, è cinema eversivo dall’irresistibile carica morale, il tutto attraverso un impianto metalinguistico che sfonda la quarta parete, chiama in causa cast, crew e spettatori, e svela la messinscena cinematografica per interrogarsi sul potere espressivo dell’immagine oggi. Sulla sua capacità di questionare e disvelare il reale dall’interno di un contesto socioculturale sempre più astratto e in costante, frenetico movimento. Perché per quanto si complichi la nostra vita contemporanea, per quanto contraddittorie e schizofreniche e artificiose siano le sue moltiplicazioni, non possiamo sottrarci alla dimensione etica del vivere comune, all’importanza di conservare una bussola morale che passa anzitutto attraverso la scesa in campo del racconto con tutti i suoi elementi. Per questo, per quanto divertente e divertito sia Panama Papers (e lo è davvero molto), esso resta comunque un film di feroce determinazione, che si fa strada nella giungla tassonomica sempre più autoreferenziale dei codici linguistici di oggi (postmoderno, e post-postmoderno, e post-post-moderno, e post-verità e via dicendo) e ne taglia il nodo gordiano senza ulteriori fronzoli e disseminazioni teoriche. La tradizione dell’inchiesta liberal americana di stampo anni ’70  deflagra in un gesto tanto anarchico quanto consapevole, esercitato da un regista che oggi è davvero il più grande insurrezionalista dell’immagine hollywoodiana, il cavallo di Troia che sfregia il volto perfetto dell’industria culturale insinuandosi dentro i codici e le logiche del più rodato spettacolo popolare. Panama Papers è solo l’ultimo esempio (ma uno dei più riusciti) di quanto sia importante questo modo così eversivo e politico e morale di fare cinema. Viviamo nell’era della consapevolezza, sembra dirci Soderbergh; ebbene, usiamola.

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Steven Soderbergh Meryl Streep Antonio Banderas Gary Oldman Jeffrey Wright Robert Patrick Sharon Stone 96 minuti
USA 2019
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Rare Beasts

di Riccardo Bellini
rare beasts - recensione film piper

Mandy, madre single sull’orlo di una crisi di nervi, ha una vita e una famiglia tutt’altro che perfette. Esito di una società ossessionata da una competitività asfissiante, schiacciata tra l’ansia di uniformarsi a un indefinito ideale di successo e la disgregazione dell’unità familiare, il mondo che circonda la donna si compone di una galleria di personaggi bizzarri, fallimentari, costretti a farsi largo nella vita a suon di risibili mantra motivazionali e a confrontarsi con un parentado disfunzionale. In questo caos assurto a grottesco quotidiano, tra derive di un femminismo superficiale e reazionario e infantile misoginia, Mandy si dimena per affermare la propria unicità, unica vera ancora di sopravvivenza. Non è dunque un caso che, fin dai primi spiazzanti dialoghi di Rare Beasts, lungometraggio d’esordio della camaleontica e talentuosa Billie Piper presentato a Venezia alla Settimana Internazionale della Critica, l’attrice, nei panni della protagonista, doni se stessa e il proprio (bellissimo) corpo a una mappatura di tutti quei difetti e peculiarità fisiche che ne determinano la singolarità. 

Freak e profondamente umano, dolce e squisitamente crudele, lucido e deformante Rare Beasts è esattamente come quel corpo che, consapevole di sé, non assomiglia e non vuole assomigliare a nessun altro. Giocando con i registri della commedia romantica per smontarli e rileggerli in chiave personale, il film di Billie Piper è una fiera rivendicazione della propria individualità in una società liquida e nebulosa difficilmente collocabile nel panorama cui ci ha abituato la commedia americana. A partire dai primi minuti, l’umorismo caustico della Piper trasforma l’appuntamento galante tra Mandy e un uomo appena conosciuto in un duello senza esclusione di colpi, in cui entrambi non perdono occasione per insultare l’altro. Uno scambio intriso di vivace cinismo ma magicamente venato da una dolente dolcezza che ci prepara a quanto vedremo da lì in poi. Non dobbiamo confondere questo botta e risposta con il conciliante cliché per cui i due amanti celano il reciproco amore dietro la scorza della conflittualità. Piper gioca su questo modulo ma calca molto di più la mano. Con salace onestà e spirito provocatorio fa dire all’uomo, fervente religioso, che il suo intento è quello di trovare una donna per procreare. Una dichiarazione di intenti per un film che non idealizza l’amore ma ce ne presenta le complesse, spesso assurde, traversie ai giorni nostri, svincolandosi in chiusura dal ricatto del lieto fine.

Imprevedibile come la carriera della regista, ex popstar e poi attrice cinematografica e televisiva, Rare Beasts, colpisce anche per la varietà di toni, per la capacità di mescolare elementi che non si risolvono in un gioco di contrapposizioni ma arrivano spesso a un’efficace compenetrazione, tanto dal punto di vista drammaturgico che da quello visivo. È memorabile a questo proposito la sequenza onirica in cui Mandy rielabora il rapporto problematico con i genitori e l’infanzia segnata da una carenza di attenzioni (il padre, eccentrico donnaiolo alcolizzato, è interpretato da un David Thewlis come al solito impeccabile). Un passato che inevitabilmente lascia solchi indelebili nell’animo di una donna che non ha paura di affermare, in pieno fervore femminista, che lei sì ha bisogno di un uomo, perché fondamentalmente non ne ha mai avuto uno accanto, perché la vera libertà si manifesta anche nella necessità di doversi legare a qualcuno, nell’accettazione dei propri bisogni, nel coraggio di potersi dire individui e non più solo donne o uomini. Nell’avere la forza di essere, nonostante tutto e tutti, bestie rare.

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Billie Piper Billie Piper David Thewlis 87 minuti
Uk 2019
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All This Victory

di Domenico Saracino
all this victory recensione film

Lo si scorge soprattutto nello sguardo, il terrore provato dai cinque protagonisti di All This Victory, film in competizione alla 34esima edizione della Settimana Internazionale della Critica, nell’ambito di Venezia76.
Negli occhi ipnotizzati dalla paura, imbambolati sul vuoto dell’abisso, svuotati di speranza e di luce. A provocarlo sono le bombe e i proiettili che Hezbollah e Israele si scambiano durante la seconda guerra israelo-libanese del 2006, uno dei tanti conflitti che dalla seconda metà degli anni ’70 dilania questa regione del Vicino Oriente.

Approfittando di una breve tregua, Marwan si sposta in un villaggio a sud del Paese, nella speranza di portar via con sé suo padre, ex combattente che continua a vivere ostinatamente in una zona minacciata dalla guerra. Ma le ostilità si riaccendono, le bombe riprendono a cadere e il giovane uomo si ritrova costretto a rifugiarsi in una casa con due anziani amici paterni e una coppia in attesa di un figlio. Nel frattempo la situazione si aggraverà con l’irruzione di un gruppo di soldati israeliani che attireranno il fuoco della controparte araba. Il gruppo è bloccato dietro quattro mura, ridotto alla fame, alla sete e al silenzio, atterrito dagli spari e dalla possibilità di essere scoperto dal nemico o colpito dal fuoco amico. Così non gli resta che rimanere rinchiuso finché all’esterno la situazione non tornerà alla normalità. 

Attraverso un lavoro molto attento al sonoro e a un uso sapiente del fuoricampo, Ahmad Ghossein, alla sua prima regia di un lungometraggio, riesce a trasmettere con grande intensità i pericoli che attanagliano gli innocenti malcapitati. Non ha alcun bisogno di mostrare gli strumenti della distruzione: gli basta far risuonare il rumore sordo delle bombe, riprodurre gli scricchiolii e le vibrazioni provocate dalle detonazioni, dar voce al tamburellare metallico dei fucili d’assalto e delle mitragliatrici. Dei soldati sono sufficienti le ombre, i passi, il silenzio disorientante.
A Ghossein non interessa fare un discorso politico, attribuire colpe o ricostruire i motivi del conflitto. In All This Victory le spiegazioni latitano e domina il silenzio, interrotto da brevi dialoghi e dal frastuono delle armi. Non si vedono divise né schieramenti, e il pericolo è rappresentato allo stesso modo sia dallo straniero (gli israeliani) che dal conterraneo (i guerriglieri di Hezbollah che, inconsapevoli della presenza di altri arabi, attaccano l’area). Per gran parte del runtime il regista rimane ancorato ai volti degli intrappolati – soprattutto a quello di Marwan – affidando al taglio stretto dei primi piani il racconto del terrore provocato dalla guerra, come a voler sottolineare che l’unico modo possibile (o giusto) di raccontarla è attraverso la percezione delle vittime più incolpevoli, ovvero i civili.

Pochi sono i momenti in cui non sono inquadrati, occupati significativamente da immagini brulicanti di vita: brandelli di cielo, una lucertola nell’atto di respirare, il sorgere del sole. Una vitalità quasi elementare, essenziale, che non può certo cancellare la distruzione causata dalla stupidità umana. Cessato finalmente il fuoco, Marwan può sì uscire nuovamente allo scoperto, ma con gli occhi ridotti a pietre madide d’orrore, accecati dal trauma, vagando catatonicamente tra le macerie come qualcuno assorto nel ricordo d’un brutto sogno. Che potrebbe tornare ancora, e ancora.

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Ahmad Ghossein Flavia Bechara Issam Bou Khaled Adel Chahine 93 minuti
Libano, Francia 2019
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