Mosul

di Matthew Michael Carnahan

Il sorprendente debutto alla regia dello sceneggiatore Carnahan, un war movie hollywoodiano dal cast totalmente mediorientale, girato in lingua madre ma aderente alle più tradizionali e solide regole di genere.

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In arabo il termine “Mosul” significa congiunzione, incontro, nomen omen per una città sfaccettata nata dall’interazione tra popoli e culture diverse. Oggi Mosul si trova nell’Iraq nordoccidentale, poco distante dai confini con la Siria, la Turchia e l’Iran, ed è la terza città del palese dopo Baghdad e Bassora. O almeno lo è fino al 2014, quando i miliziani dello Stato Islamico prendono la città e instaurano un regime brutale lungo tre anni. La città sarà dichiarata libera solo nel luglio del 2017, dopo 40mila vittime lasciate sul campo, devastazione urbana e incalcolabili sofferenze. Una parte di questa storia viene raccontata oggi in Mosul, sorprendente debutto alla regia dello sceneggiatore Matthew Michael Carnahan, che firma un film di genere robusto, tradizionale e assieme profondamente innovativo.

A memoria non è facile trovare un’opera come Mosul, ovvero un film hollywoodiano ad alto budget girato totalmente in lingua madre e interpretato da un cast rigorosamente mediorientale, in gran parte iracheno. Questo perché la brillante intuizione di Carnahan è quella di non snaturare l’identità culturale del racconto e di valorizzare così la specificità locale degli elementi a disposizione e dei temi affrontati. All’origine del film troviamo un reportage scritto dal giornalista Luke Morgelson per il New Yorker, un saggio che affronta l’inedito argomento del team militare Ninevah SWAT, un’unità di polizia irachena che agisce al di fuori degli ordini e compie operazioni di guerriglia contro le forze ISIS occupanti Mosul. L’obiettivo è colpire elementi sensibili, ricoquistare le proprie case e difendere quel che resta delle proprie famiglie, in un tentativo estremo, spesso fatale, di soffocare la presenza di Daesh in città. A riservarsi i diritti di questa ricostruzione arrivano presto i fratelli Russo, proprio quelli di Marvel e degli Anvengers, che decidono di inaugurare la loro personale casa di produzione raccontando la storia dei Ninevah SWAT.

Il percorso di iniziazione, rapido e brutale, di una recluta appena unita alla squadra; il leader carismatico che li guida, pronto a tutto per compiere la missione e assieme proteggere i suoi “figli”; la sporca dozzina di soldati, rinnegati dall’apparato militare ma intenzionati a completare le loro missioni a ogni costo. Il tutto raccontato con lo sguardo adrenalinico e iperrealista del miglior cinema bellico hollywoodiano, che universalizza la storia locale assorbendola nelle griglie rodate del genere. Il risultato è spiazzante e unico: Mosul ha tutto l’aspetto e la struttura del war movie ma l’identità è altra, ed è ancorata a soldati iracheni che combattono per liberare il proprio paese e vogliono farlo da soli, in prima persona, perché «gli Americani si limitano a bombardare ogni cosa, dato non saranno loro a dover ricostruire». Del resto a fare la forza del film, oltre gli indiscutibili meriti tecnici e di regia, è proprio la tenuta umana della squadra protagonista, vicina e assieme lontana, coinvolta in un’ultima missione che svela una natura intima e sentimentale e smorza così la parabola di iniziazione alla violenza che soggiace al racconto.

Affiancato da comparto produttivo di primo livello, a partire dal nostrano dop Mauro Fiore, premio Oscar per Avatar, Carnahan scrive e dirige un film importante, che sfrutta dall’interno le modalità del racconto hollywoodiano per portare alla luce una vicenda e soprattutto un punto di vista che necessita di trovare un suo spazio espressivo. Certo, manico, sguardo e stilemi narrativi sono quelli americani trapiantati sul contesto altro, ma sarebbe davvero anacronistico e limitante leggere in questo una seconda forma di invasione. Meglio piuttosto guardare al film come a un primo cavallo di Troia, a un piccolo gesto alternativo che lavora ben dentro l’immaginario collettivo per farvi nuovo spazio.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 04/09/2019

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