Beautiful Boy

di Riccardo Bellini
Beautiful boy - recensione film van groeningen

Tratto dalle autobiografie del giornalista David Sheff e del figlio Nicolas, Beautiful Boy di Felix Van Groeningen racconta il calvario attraverso la tossicodipendenza di un adolescente bello, talentuoso, di buona famiglia (Timothée Chalamet), e l’impotenza di un padre amorevole (Steve Carrell) di fronte alla parabola autodistruttiva del figlio. Tra innumerevoli tentativi di disintossicazione e altrettante ricadute, il viaggio nell’Inferno della droga di Nicolas segue le coordinate di un melodramma familiare, in cui la speranza per la salvezza del ragazzo diventa un orizzonte sempre più nebuloso.

Van Groeningen non ci spiega perché Nic abbia iniziato a drogarsi, né si dimostra interessato a individuare le cause di un malessere che sembra di natura esistenziale e a cui lo stesso ragazzo - appena diciottenne - non sa dare una spiegazione. Il regista belga non vuole sondare le origini della tossicodipendenza, quanto piuttosto esporre gli effetti di quest’ultima all’interno di una famiglia normale. Scelta legittima che se non altro evita a Beautiful Boy il rischio di incappare nella sociologia spicciola, lasciandoci al contrario di fronte a un male di vivere impenetrabile, e forse senza rimedio, che rende ancora più tremenda la lotta dei familiari di Nic. Ma è anche vero che uno sguardo più approfondito e centrato sull’insoddisfazione del ragazzo verso la realtà che lo circonda non avrebbe guastato, irrobustendo per lo meno il personaggio. Quello che invece ci lascia la sceneggiatura di Van Groeningen e Luke Davies al riguardo è una breve sequenza di giovanile furore, sulle note di Territorial Pissing dei Nirvana, e poco altro.

Ma compresi e accettati i suoi intenti, Beautiful Boy ha ben altri problemi di cui preoccuparsi, a cominciare da una ripetitività di situazioni e dialoghi che fanno delle sue due ore una durata davvero eccessiva. Ripetitività che il regista di Alabama Monroe cerca di spezzare inframmezzando la narrazione con frequenti salti temporali, accostando talvolta a un presente di degrado un passato di patinata felicità domestica, ricattatoria negli intenti ma fredda negli esiti - e in tal senso la locandina italiana del film non lasciava presagire nulla di buono. Nic si droga, poi smette di farlo, poi ci ricasca e poi smette ancora e ogni fallimento incide su padre e figlio, caratteri complementari intorno ai quali il film tenta di trovare il proprio cuore pulsante. E i due interpreti fanno del loro meglio. Ottimo come sempre Carrell, perfetto nei panni di personaggi che vivono il proprio dolore in silenzio, interiorizzandolo (Little Miss Sunshine o il recente Benvenuti a Marwen). Buona anche la prestazione della neo-star Chalamet. Ma la loro buona volontà e il loro talento non bastano a rivitalizzare una sceneggiatura tutt’altro che brillante, scritta a quattro mani assieme a Davies, già sceneggiatore di quell’altro mediocre melodramma sulla droga dal titolo Inferno + Paradiso. Nemmeno la regia di Van Groeningen spicca, concedendosi in più punti soluzioni facilmente retoriche, cui contribuiscono un commento sonoro manipolatore e fastidiosamente enfatico.

Beautiful Boy riesce comunque nell’intento di ricordarci che nemmeno l’amore di un padre disposto a tutto pur di salvare il figlio (persino ad assumere egli stesso della metanfetamina per conoscere meglio il nemico) è una garanzia. Il film bilancia l’ondata di retorica che lo contraddistingue mostrandoci i tormenti di un genitore che, ad un certo punto, accetta la dura verità che il cambiamento non può che iniziare da Nicolas stesso. Beautiful Boy è del resto un viaggio nell’incubo che non indora la pillola né vuole illuderci con la promessa di facili soluzioni. Ma l’ingenuità cui Van Groeningen rinuncia con questa scelta non basta comunque a fare del suo film poco più di un cupo monito - ribadito dalla didascalia finale - contro l’uso di sostanze stupefacenti.

Categoria
Felix Van Groeningen Steve Carell Timothée Chalamet 120 minuti
USA 2018
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

American Animals

di Saverio Felici
American Animals - Recensione Film Layton

Due tendenze fondamentali nel cinema americano contemporaneo vanno a fondersi in American Animals, con la volontà da parte di Bart Layton di trovarne il punto di incontro nascosto. Si tratta dell'heist movie (il film action di rapine), e il “tratto da una storia vera“, il marchio exploitation dei derivati dalla cronaca nera o scandalistica. Entrambi i sottogeneri negli ultimi tempi stanno in un certo senso venendo passati al setaccio della parodia e della rielaborazione (viene in mente il famoso incipit dei Fargo di Noah Howley), ma con American Animals si raggiunge forse il livello successivo: la messa in discussione, necessaria e crudele, alla base della fascinazione del genere, e delle rappresentazioni che l'intrattenimento audiovisivo gli regala.


La storia (vera, verissima, ovviamente, come viene ripetuto) di American Animals trova una coppia di giovanotti bianchi di Lexington, Kentucky, impegnati nel primo anno di college. Sono i figli annoiati e privilegiati della classe media americana: quella ricchissima, ossessionata da status sociali ammorbanti (benessere, carriera, mascolinità), potenzialmente letale per dei post-adolescenti affamati di grandezza. Spencer e Warren (Barry Keoghan e Evan Peters, incredibili), anime da artisti sensibili, sognano grandi cose, mentre la grigia routine delle università private li convince di starsi “perdendo qualcosa”. La naturale conclusione, figliata da decenni di cultura pop e modelli ambigui, appare quasi logica: imbarcarsi in un heist spettacolare e ridicolo, insieme ad altri due amici di quartiere, per rubare dalla biblioteca della scuola lo storico volume The Birds of America di James Audubon. Non sanno neanche che sia un ricettatore, ma sono convinti di una cosa: di laureati in economia il mondo è pieno. Per essere ricordati davvero, perché ne valga la pena, è inevitabile l'approdo alla criminalità.

Il bel film di Bart Layton (primo lungo di fiction dopo il non dissimile documentario The Imposter – ma anche qua di fiction si può parlare fino a un certo punto) si sposta dunque sui territori della riflessione meta. Non il racconto di suspense di una missione impossibile (che pure c'è, in bilico tra la tensione estrema e l'autoparodia tragicomica – scuola Breaking Bad), quanto un character study malinconico e complesso. Non certo dedicato ai “ladri” in generale, quanto a chi di questi ladri (o meglio della loro immagine popolare) ne idealizza le gesta e le storie. Dunque, il 99% del pubblico di ogni film del mondo.
Il corto-circuito tra fatti e fiction, racconto e ricordo, eventi e riproduzione, viene cercato proprio rifacendosi alle tecniche del documentario “di ricostruzione”. A metà tra gli speciali di cronaca televisivi e il Ore 15:17 – Attacco al treno di Clint Eastwood (dove gli eroi di un'altra “storia vera“ azzeravano la distanza tra realtà e rappresentazione rimettendo in scena la propria impresa in prima persona), Layton mette i veri autori del furto (oggi trentacinquenni, reduci da sette anni di carcere a testa), a commentare e giudicare le proprie azioni giovanili come inscenate dal cast. Lo fa esplicitando l'incapacità del mezzo-film nell'annullare quella stessa distanza che proprio Eastwood provava invano a colmare: le testimonianze, i punti di vista, le chiavi di lettura del fatto si sovrappongono, e così le immagini che vediamo. Spesso in contraddizione, quasi sempre inaffidabili, le scene di American Animals mettono costantemente lo spettatore di fronte a una scelta: credere o non credere al film, fidarsi o meno di quanto raccontato, accettare o meno la storia dei suoi ambigui protagonisti per come viene riportata.

Nonostante ciò, la bizzarra impostazione narrativa adottata è per lo più una gimmick. L'intuizione più vistosa del film, ma non per questo la più importante; e non sarebbe del tutto corretto limitare i meriti di American Animals alla sua rilettura critica del mito della “storia vera“. Il contrasto tra heist movie e heist effettivo (un contrasto che esiste e vive nella struttura stessa del plot) è comunque funzionale al vero cuore del film. Come i veri noir, American Animals è una grande tragedia esistenziale, che visualizza per noi il tortuoso percorso dei suoi protagonisti per liberarsi da un destino segnato.
In questo caso, il destino è incarnato dall'ideale machista di successo, e da quella stessa società brutale che finirà inevitabilmente per richiudersi su di loro. La glorificazione del criminale e della grande impresa individualista anti-sistema, l'etica della realizzazione e dei self made men spinge il gruppo di annoiati rampolli a cercare una gloria che nella propria mente passa attraverso l'imitazione di quei modelli cool (da Oceans a Tarantino) che non riescono a inquadrare criticamente.
Al netto di una facile chiosa morale affidata ai veri protagonisti (“rubare è sbagliato“, e beh), American Animals porta avanti un discorso profondo su una forma di inadeguatezza giovanile collettiva. Nelle inquadrature dei trucchi sulle facce dei ragazzi, occupati a camuffarsi dietro un improbabile cerone per la grande azione della vita al cuore del sistema educativo USA, maschere ridicole e così chiaramente sbagliate, c'è già tutto ciò di cui parla il film.

Categoria
Bart Layton Barry Keoghan Evan Peters Blake Jenner Ann Dowd Udo Kier 116 minuti
UK, USA 2018
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Climax

di Alessia Astorri
Climax - recensione film gaspar noè

O I Diavoli, probabilmente.

Sofia Boutella sullo sfondo del tricolore rosso-bianco-blu benedice così la performance di un film –ci informa il cartello – «fiero di essere francese». Che cosa vorrà mai dire tutto ciò, se proprio deve voler dire qualcosa? Per fortuna, Gaspar Noè risponde: «quando mi chiedono della religione dico sempre ‘sono ateo e fiero di esserlo’, così ho pensato che fosse divertente dire che è un film francese e fiero di esserlo, perché la gente lo prenderà per ateistico», il che ci ricorda che è sempre bene non fare troppe domande ai registi e non fidarsi troppo delle loro risposte, specialmente se sono franco-argentini estremisti dell’immagine che, messi da parte ordine e virtù, esplorano con il virtuosismo delle riprese il gigantesco disordine dell’esistenza e dei suoi stati alterati. Quello di Noè è cinema del caos – e fiero di esserlo; per riprendere la dichiarazione di Murphy (Karl Glusman) in Love sulla propria vocazione registica «I want to make a movie out of blood, sperm and tears», e non a caso si chiamava Murphy, unica legge possibile del vivere che è «un’impossibilità collettiva» (altro cartello di Climax). Insomma, se il ballerino Omar crede nell’aldilà e immagina il paradiso «tutto al posto giusto, niente caos», al di qua risuona ancora Sartre: «L'enfer c'est les autres». In mezzo, c’è la morte.

Ma procediamo con ordine.
Che nell’universo di Noè può significare anche con i titoli di coda che aprono il film «che avete appena visto», mentre tutto ciò che abbiamo visto è qualcuno che agonizza nella neve, ripreso dall’alto, così in alto che quella camera incorporea di Enter the Void sembra ora divinizzata dalla scoperta del drone. Siamo in Francia nel ‘96, un gruppo di ballerini viene ingaggiato per un tour, seguono le audizioni su schermo, televisivo, incorniciato di libri e VHS disposti ad hoc per essere letti chiaramente (Possession, Suspiria, Le droit du plus fort, Harakiri, Suicide-mode d’emploi, …), come le locandine che arredano i film del regista, espropriando al critico il gusto e il dovere di scovare rimandi e connessioni, con un’esibita cinefilia e con lo svelamento didascalico dei propri temi: insieme all’insistenza sui cartelli, già da Carne, all’illeggibilità dei titoli sincopati (già in Enter the Void), il cui unico scopo è il ritmo nel quale captare qualche informazione (il resto lo fornisce Imdb), forzano la spettatorializzazione, scandiscono la composizione delle immagini come fossero mute, arredano la performance del film che avviene in forma di incidente (per dirlo con Jack, il trieriano architetto che non riesce a costruirsi una casa).

Per questo in Noè non c’è tanto la morte, quanto il morire, «un’esperienza straordinaria» ci informa – il cartello, naturalmente –, come se fosse qualcosa che si può raccontare, e lo è: è cinema. Era dunque il momento che il regista, vocato al rituale e al sensuale, al carnale e al sensoriale, si dedicasse alla danza, fra improvvisazione e coreografia, con un adrenalinico prologo in piano sequenza che preludia all’estenuazione successiva causata dall’incidente di turno, una sangria allucinogena di cui nessuno è al corrente. Sangria, ovviamente, didascalicamente, su una pista rosso sangue invasa di ballerini come se la hall di Shining danzasse. Doveva essere Danger, invece è stato Love; doveva essere Psyche, invece è stato Climax: un’escalation psicotropa. Love era la storia di una storia d’amore, ripensata durante una lunga crisi d’astinenza amorosa (non a caso, lei gli aveva lasciato dell’oppio, qualora non fosse più stata presente); Climax è un’overdose inconsapevole, un atto unico che diventa atto mancato, uno svelamento progressivo di disumanità insita nelle premesse. E tali premesse, più che nell’incipit del film, sono nella filmografia noeniana che è una costellazione di antieroi, di individui fallimentari che portano alla costruzione di una finta morale del “se avessi”, dell’irrealtà del periodo ipotetico: se Alex non fosse uscita da sola, non sarebbe stata aggredita, se Marcus avesse avuto cura di lei, non sarebbe uscita da sola (Irréversible); se Murphy non avesse tradito Electra, Electra non avrebbe tradito Murphy, o viceversa? (Love); se la sangria non fosse stata drogata, se le persone fossero meno cattive, non darebbero il peggio di sé all’occorrenza e la performance sarebbe riuscita. E avremmo potuto evitare di farci un film. Questo intreccio di ipotesi regressive, difatti, non è altro che un giocattolo, un innesco per condurre la visione all’estremo. E la visione e la sensazione sono tutto ciò che conta. Sotto questo aspetto, la New French Extremity di Noè, nel suo spudorato svelarsi, è un rigetto e un’esautorazione, più che un’espressione, di quel nientutto (scomodando, ci perdoni, Gianni Toti) ancora detto “postmoderno”, nel millennio in cui tutto è post-qualcosaltro e al cinema ciò che fa i numeri sono i “re” (dal re-boot al re-make). La costruzione in fieri porta invece all’happening, all’accadimento che presuppone l’imprevisto, quello che in Noè, eternamente incastrato nel tragitto verso lo spegnimento di Hal 9000, è un tunnel rosso. E Noè è un regista del rosso (il primo è stato Ejzenstein, il più grande Kubrick, il più amabilmente pop Almodovar).

L’immediatezza di alcuni codici non ha bisogno di grandi strutture di pensiero, ma di grande disponibilità di sguardo, nella più dispersiva delle epoche, frantumata in infiniti schermi, nessuno realmente osservato. Alors on danse sulla fretta contemporanea, per il tempo di più battiti di ciglia, che vuol dire già tanto, con Selva (Boutella), Psyche, Eva, Cyborg, Rocket e tutto il corpo di ballo, a tempo di vogueing, krumping e waaking, al tempo della trap, là fuori (dal film; magari ad agonizzare nella neve). Questo cinema claustrofobico, incestuoso, orgiastico, estenuato, provocatorio è “solo” un’esperienza, e a volte un esperimento, che per questo ama l’improvvisazione; «non ci sono misfatti, solo fatti» (si autoassolveva l’incipit rovesciato di Irréversible). E se qualcosa va storto, non possiamo certo assolvere, ma almeno risolvere il nascere («un’opportunità unica»), la violenza, l’amore, il caos, lo sfacelo e perfino qualche furberia in un unico possibile, se possibile, calembour: film happens.

Categoria
Gaspar Noé Sofia Boutella Romain Guillermic Souheila Yacoub 90 minuti
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

L'impostore - The Imposter

di Pietro Lafiandra
L'impostore - recensione film

Cos’è? Come lo si riconosce? Chi è l’impostore? Un falso, un bugiardo, un millantatore. Certo, ma c’è di più. Sfogliando le definizioni dei vari dizionari, salta agli occhi un motivo ricorrente con cui l’impostore viene identificato, la peculiarità che può sancire la maggior o minor riuscita del suo inganno: la capacità di sfruttare la credulità altrui, di chiunque con lui entri in contatto o lo stia guardando, lontano o vicino che sia. L’impostore non solo si camuffa e si trasforma, ma fa leva sulle emozioni di chi sta raggirando, sul bisogno di chi assiste alla sua performance di colmare la finzione con i propri significati, di giustificare come reale ciò che reale non è, o non sembra essere.

Chi è quindi l’impostore dell’omonimo, primo lungometraggio di Bart Layton, L'impostore - The Imposter? È forse Frédéric Bourdin, l’uomo con milioni di (o con nessuna) identità che, nonostante i suoi ventiquattro anni e le origini francesi, si finge un giovane scomparso da una famiglia texana all’età di tredici anni, nel 1994, e che viene riaccolto dai suoi stessi parenti nel 1997 senza riserva alcuna? o sono forse gli stessi famigliari, genitori e figli distrutti dalla scomparsa ma che potrebbero aver finto di riconoscere il figlio per nasconderne l’omicidio? o è forse, infine, il cinema stesso l’impostore? la macchina da presa, il montaggio, il sound design, tutti quegli strumenti che permettono al regista di manipolare le emozioni degli spettatori esattamente come Bourdin ha manipolato quelle delle decine e decine di persone che ha imbrogliato nel corso della sua carriera di attore-truffatore?

Il film di Layton è unopera proteiforme che può essere letta come documentario, mockumentary, film d’inchiesta, film narrativo, e che al suo interno contiene una pluralità di forme e stili differenti: ci sono le interviste, le ricostruzioni narrative, il materiale d’archivio audio e il materiale d’archivio video, ci sono tecniche giornalistiche (il recupero di materiali che ricostruiscono l’intera vicenda) e tecniche cinematografiche (carrellate, panoramiche, lyp sinch) ma, soprattutto, c’è un’unica forma fluida in cui si alternano realtà e finzione, dove si può passare da un’intervista alla ricostruzione degli eventi narrati nell’intervista stessa, dall’autodenuncia e la ricostruzione orale all’interpretazione e la ricostruzione visiva. Bourdain, intervistato dal regista, può ricostruire i suoi passi come calarsi nuovamente negli unici panni che abbia mai avuto, quelli degli altri, riabbracciare la sua non-identità e mimare le sue stesse parole registrate su nastro, può vedersi interpretato da un altro uomo, può ricostruire e presentare allo spettatore i metodi della sua interpretazione, quasi che l’intero film sia sviluppato sul modello della masterclass di un attore consumato che ripercorre i suoi primi passi nel mondo della recitazione: lo sviluppo della sue tecniche, l’assunzione di una precisa personalità attoriale, le difficoltà in cui si è imbattuto nel confrontarsi con un nuovo personaggio, molto più giovane di lui ma caratterizzato a tal punto da non suscitare il minimo dubbio in una sorella che gli corre incontro e lo abbraccia, ancora prima di averlo visto in faccia.

Che il rapporto tra il figlio scomparso, Bourdin e la famiglia si declini in un triangolo simil-cinematografico - un triangolo che riproduce il rapporto tra il regista, l’attore feticcio e lo spettatore - è chiarito da Layton con la decisione di inserire un breve estratto di materiale d’archivio, un home movie per la precisione, in cui Nicholas Barclay (il ragazzino) ricorda involontariamente il grado di finzionalità inscindibile dalla presenza di una macchina da presa pronunciando queste parole mentre guarda dritto nell’obiettivo: «io sono il regista». Una frase che induce a una lettura metanarrativa di un’opera che non ha valore unicamente documentaristico ma che, anzi, sembra una riflessione sulla forma e il potere del mezzo cinematografico, sul bisogno del pubblico (la famiglia) di leggere nell’attore feticcio (Bourdin) le tracce biografiche del regista (Nicholas) e di colmare le lacune della narrazione o interpretare la storia (il film) secondo i propri bisogni e desideri: si vede ciò che si vuole vedere.

Categoria
Bart Layton 99 minuti
Regno Unito 2012
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Ofelia non annega

di Arianna Pagliara
Ofelia non annega di Francesca Fini

La performance è azione, gesto simbolico, forma espressiva e comunicativa del qui e ora. Le immagini d'archivio sono invece traccia, sedimento, memoria e quindi essenzialmente passato. In Ofelia non annega la regista e performer Francesca Fini fa dialogare queste due realtà apparentemente quasi antitetiche con equilibrio e fluidità, dando luogo a un suggestivo processo di osmosi per sviluppare una riflessione coerente e suggestiva sul corpo femminile - sempre costretto, tormentato, aggredito - entro la quale la femminilità stessa finisce per configurarsi, per forza di cose, come atto di resistenza. È in questo senso che Ofelia, appunto, non annega: nel suo tentativo reiterato, ostinato e ineludibile di risorgere.

Ma più che personaggio, Ofelia è emblema, sunto, o forse semplicemente segno di uno stato di cose, di uno specifico sentire. Il linguaggio della Fini è stratificato, fantasioso e denso ma al contempo sorprendentemente limpido e conciso: come in un sogno, l'idea si fa immediatamente metafora, l'oggetto si fa immancabilmente simbolo. Ecco allora una gabbia, un occhio dolorosamente cucito con ago e filo, una serie di tentativi disperati di agire nonostante, di agire contro: mangiare un ghiacciolo indossando un burqa, truccarsi con le braccia semibloccate da elettrodi, fino a scrivere, letteralmente, con il sangue, imbevendone un lunghissimo nastro poi inserito in una macchina da scrivere. È il controcanto, quest'ultima eloquente performance, alla tragedia avvenuta nel gennaio del '51 in Via Savoia a Roma, quando settantasette ragazze in coda per un posto da dattilografa rimasero coinvolte nel rovinoso crollo di una scala.

Ma Ofelia non annega è anche visione surrealista pura, nella quale si percepiscono echi di certo cinema underground italiano e si affastellano vertiginosamente citazioni letterarie (Montale, Dante, Coleridge, Piandello, oltre – ovviamente – a Shakespeare) prima ancora che cinematografiche. C'è il futurismo di Marinetti, la poesia epistaltica di Mimmo Rotella e c'è perfino Dalì, a fare capolino, per un istante, in questo caleidoscopio audiovisivo, dove la parola (recitata dalla voce fuori campo oppure scritta disordinatamente su un volto) non è mai secondaria all'immagine. Perché lo sperimentalismo esuberante della Fini, in questo film, non si esaurisce nell'incisivo e perturbante discorso su femminilità/costrizione/violenza ma fa di questo uno spazio permeabile per altre diverse, infinite e complesse riflessioni.

Infine, se è vero che il corpo è spesso l'oggetto sacro - e al contempo sacrificato - al centro della poetica dell'autrice (tanto da divenire passaggio cruciale anche nel bellissimo Hippopoetess, dedicato alla poetessa Amy Lowell) va evidenziato come Ofelia non annega sia anche attenta mappatura di una geografia assolutamente reale che tuttavia quasi trasfigura nel fantastico: la città fantasma di Canale Monterano con le rovine della chiesa di San Bonaventura - ruderi di un sogno passato, Bernini - e poi la futuribile Villa-astronave di Perugini a Fregene - di nuovo ruderi, ma di un mondo misterioso e ancora al di là da venire.

Altro splendente e preziosissimo tassello - assieme a Hippopoetess – del progetto Fuori Norma di Adriano Aprà, Ofelia non annega è insomma un cinema oltre il cinema, vulcanico e incontenibile, multiforme e cangiante, dove si mangiano insetti, ci si ferisce, ci si dipinge addosso e si sogna, nostalgicamente, un mare irraggiungibile, mentre le parole di Montale trasfigurano in un canto arcano e segreto.

Etichette
Categoria
Francesca Fini 90 minuti
Italia, 2016
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Black Mirror - Quinta stagione

di Attilio Palmieri
black mirror quinta stagione recensione

Per diversi anni Black Mirror è stata sinonimo non solo di serialità televisiva di qualità, ma anche di come i prodotti britannici fossero sempre un passettino avanti al resto, soprattutto riguardo alla brutalità senza compromessi con cui analizzavano le parti più contraddittorie dell'animo umano. La creatura di Charlie Brooker nel corso delle sue prime stagioni – più l'eccellente speciale di Natale White Christmas – si è fatta conoscere in tutto il mondo, grazie a un'ironia peculiare e alla capacità di leggere il legame inscindibile tra la nostra società e la pervasività della tecnologia, ragionando episodio dopo episodio su quanto e come questa relazione cambia all'intensificarsi della presenza dei dispositivi tecnologici nelle nostre vite.

Dalla terza stagione Black Mirror è passata dal locale al globale, abbandonando la nicchia perennemente tesa alla sperimentazione di Channel 4 per passare al pubblico sempre più numeroso di Netflix. Questo cambiamento ha innescato un processo di trasformazione della serie ancora in atto, in particolare per l'esigenza di parlare a tutti, diversificare il proprio stile e trasformare alcune caratteristiche produttive come formato e personalità coinvolte.
Gli episodi sono passati da tre a sei per le stagioni terza e quarta, in modo da spaziare di più dal punto di vista dell'esplorazione dei generi; sono comparse star internazionali come Bryce Dallas Howard; le puntate hanno raggiunto il minutaggio di circa un'ora per uniformarsi ai drama targati Netflix; alcuni registi di fama internazionale come Joe Wright sono stati chiamati a dirigere gli episodi. Questo percorso ha visto una tappa sperimentale e contraddittoria con Bandersnatch, episodio interattivo e per questo decisamente innovativo (almeno dal punto di vista dell'esperienza di visione) arrivato alla fine del 2018, che da un lato ha stimolato la curiosità dei fan, dall'altro ha lasciato una leggera delusione perché le principali svolte drammaturgiche non facevano parte di quelle opzionabili dagli spettatori.

La quinta stagione arriva dopo questo percorso, presentandosi per stessa ammissione degli showrunner Charlie Brooker e Annabelle Jones come una diretta prosecuzione del percorso iniziato con Bandersnatch, anche solo per il fatto che sono storie pensate e realizzate contemporaneamente. Allo stesso tempo però, almeno sulla carta,  la serie sembra tornare al passato scegliendo il formato da tre episodi stagionali, dando l'idea di rimediare al rischio di dispersione narrativa corso dalle stagioni precedenti e tornando a un modello in grado di valorizzare di più il singolo tassello narrativo. Questo compromesso però non è bastato a ridare smalto a Black Mirror, che a giudicare da questi episodi appare come una serie senza più nulla di davvero importante da raccontare, cosa che è forse il peggiore dei mali per uno show che faceva dell'urgenza del messaggio (oltre che della qualità con cui veniva veicolato) una delle sue principali caratteristiche.


Questi episodi riprendono in tutto e per tutto lo stile dell'era “americana” della serie creata da Charlie Brooker, ma a differenza delle migliori puntate degli ultimi due anni (San Junipero e USS Callister), non c'è qualcosa di nuovo da raccontare, bensì nel migliore dei casi una buona idea sviluppata in maniera superficiale.
Dal punto di vista promozionale Netflix ha cercato di vendere meglio che poteva quest'annata – come già fatto con Bandersnatch – in particolare puntando sui tre volti che caratterizzano gli episodi: Anthony Mackie (famoso per il ruolo di Falcon negli Avengers), Andrew Scott (conosciuto per il personaggio di Moriarty in Sherlock) e Miley Cyrus (popstar dal successo planetario). Possiamo dire con ragionevole certezza che il comparto attoriale è forse tra le cose più riuscite di questa stagione, perché pur allargando lo spettro agli interpreti meno noti di quelli appena citati, siamo di fronte a una serie di eccellenti interpretazioni, in grado di trasmettere in maniera convincente tutto ciò che la serie vuole raccontare.

E qui arrivano i problemi, perché ciascuno di questi tre episodi è caratterizzato da importanti criticità, tanto da rendere addirittura imbarazzante il paragone con qualsiasi delle stagioni precedenti della serie.
Il secondo episodio, per esempio si allontana completamente dal concept della serie per ragionare sulle conseguenze mortifere che può avere l'attuale legame di dipendenza che esiste tra uomo e tecnologia. Il problema non è tanto la mancanza di immaginazione di un futuro possibile – cosa che da sempre ha caratterizzato la serie rendendola più di una volta profetica – ma la pigrizia con cui la riflessione sul presente viene sviluppata, apparendo scentrata e priva di una reale urgenza. Se non ci fosse la straordinaria interpretazione di Andrew Scott a rapire gli spettatori, infatti, Smithereens sarebbe un episodio estremamente banale, in cui l'effetto domino che si innesca ha ben poco a che vedere con la tecnologia.
Il terzo episodio è quello che ha ricevuto più spazio dal punto di vista promozionale per via della presenza di Miley Cyrus e per certi versi rappresenta la più cocente delle delusioni. Rachel, Jack, and Ashley Too, infatti, si basa su un'idea che al contrario di Smithereens c'entra tantissimo col concept di Black Mirror, così tanto che è stata già ampiamente (e molto meglio) sfruttata in episodi come Be Right Back. Nonostante non sia per nulla originale e sia privo dell'urgenza che ha sempre caratterizzato Black Mirror, questo episodio è anche uno di quelli che riflette meglio lo stato attuale della serie, mostrando un prodotto che non ha più l'obiettivo di angosciare il mondo con racconti sofisticati, inquietanti e – a guardar bene – non adatti a tutti, ma mira a un pubblico molto più ampio, anche a costo di apparire una parodia di se stesso. A questo proposito Rachel, Jack, and Ashley Too può essere visto come un episodio senza alcuna ambizione, senza la voglia di stupire e di rivelare una nuova prospettiva sul contemporaneo e sul futuro, ma anche come una storia compiuta e ben gestita, una sorta di favola sul female empowerment che alla fine lascia gli spettatori col sorriso sulle labbra.
Sulla carta il miglior episodio è il primo Striking Vipers, che gode come gli altri di ottime interpretazioni e in più è supportato da un'idea di partenza estremamente originale, che prova a riflettere sulla moltiplicazione delle identità (in particolare nel passaggio da reale a virtuale) e sui limiti e le contraddizioni della mascolinità tradizionale. Il discorso sulla bromance, sull'omosessualità repressa, sull'amore come sentimento fluido e sul legame tra sentimenti e attrazione sessuale rivelava una vasta quantità di possibili sviluppi, tutti molto interessanti, soprattutto se legati all'intensificazione tecnologica e al mondo dei videogame. Purtroppo però la gran parte delle questioni messe sul tappeto sono state trascurate, perché Brooker ha evitato di ragionare su cose come il cambio di genere nel passaggio da reale a virtuale, sugli effetti di questa trasformazione identitaria nella concezione del sé, sui confini tra sesso reale e sesso virtuale e su tante altre facce dell'intrigante prisma che aveva tra le mani. In maniera molto comoda ed eteronormativa, la riflessione dell'autore si sposta sulla monotonia della coppia etero e sulla salute coniugale che viene garantita attraverso una serie di trasgressioni controllate da parte di entrambe le persone. Una vera occasione sprecata per un'idea di partenza meravigliosa, che in mano a un'autrice come Jill Soloway (solo per fare un esempio) sarebbe potuta sfociare in qualcosa di davvero importante.

Black Mirror sembra essere un brand su cui Netflix vuole ancora investire, perché l'esperimento interattivo è andato molto bene e dal punto di vista promozionale la serie rende ancora tanto. È impossibile però non constatare l'involuzione dello show, soprattutto in un contesto in cui prodotti seriali che trattano temi simili riescono a esprimersi con acutezza infinitamente maggiore, come sta dimostrando in queste settimane Years and Years di Russell T. Davies.

Categoria
Andrew Scott Anthony Mackie Miley Cyrus 5° stagione da 3 episodi
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Selfie

di Samuel Antichi
Selfie di Agostino Ferrente

È certamente vero che ormai le tecnologie dei media digitali oltre ad attivare innovative modalità di partecipazione, interazione, comunicazione, promuovono nuove forme contemporanee di narrazione. Nel momento in cui lo smartphone diventa un’estensione protesica sia del braccio che dell’occhio dell’utente il racconto in prima persona viene risemantizzato in un’enfatica modalità di auto-rappresentazione come nel caso di Selfie (2018) di Agostino Ferrente. Il regista decide di lasciare il potere del racconto per immagini a due ragazzi di sedici anni, Alessandro e Pietro, che devono documentare e testimoniare la propria quotidianità attraverso la pratica del video-selfie. Ferrente decide infatti di affidarsi al racconto in prima persona dei giovani, dal momento che la natura del suo sguardo su una realtà e una dimensione che non gli appartiene ne avrebbe contaminato la rappresentazione. Alessandro e Pietro diventano dunque soggetti/registi, oltre a filmare la realtà che li circonda nel quartiere Traiano di Napoli si posizionano loro stessi sempre di fronte alla camera e al centro dell’evento. Il selfie implica infatti una doppia azione, mostrare o catturare un evento e comunicare qualcosa riguardo a questo nel momento in cui la foto o il video vengono condivisi con altri. Il soggetto/fotografo si presenta come testimone e il suo atto di testimoniare necessita un pubblico. Il significato del sé rappresentato dal selfie è restituito e ottenuto tramite l’interazione tra la persona e lo spazio/evento che si mostra alle spalle.

Nonostante Ferrente abbia il potere, non secondario, delle scelte finali in fase di montaggio, sono Alessandro e Pietro ad avere in mano la macchina da presa (lo smartphone) e sono loro a decidere su cosa concentrarsi, cosa mettere a fuoco, cosa integrare e cosa escludere dalla narrazione. Ferrente certamente vuole che emergano le problematicità di una realtà complicata come quella della periferia di Napoli in cui spesso i giovani abbandonanti da genitori e istituzioni si lascano conquistare dai “soldi facili” e prendono parte ad attività criminose. “Ho anche provato a fare lo spacciatore ma non fa per me” confida Pietro. “Non crediate che tutti si muovano con il macchinone o che abbiano il rolex al polso, ce ne sarà uno così, tutti gli altri sono poveri disperati che cercano di portare il pane a casa” prosegue il ragazzo. Da una parte la realtà criminale rappresentata nel cinema e nella televisione, raccontata dai media d’informazione, dall’altra quella che i giovani vogliono mostrare e restituire. A farsi produttori d’immagini sono due ragazzi con prospettive e intenzioni, apparentemente, diametralmente opposte. Pietro condanna la parte marcia del quartiere e sembra voler realizzare una video inchiesta. Arriva addirittura ad intervistare un ragazzo del quartiere che di spalle e con la voce camuffata dovrebbe raccontare come funziona lo spaccio nel rione. “Perché non lo sai come funziona?” gli risponde contrariato l’intervistato concludendo in questo modo la conversazione. Contrariamente, Alessandro vuole solo mostrare “le cose belle”, “le cose positive” del quartiere così come del loro vivere quotidiano.

A riecheggiare più volte all’interno della narrazione è l’episodio della morte di Davide Bifolco, sedicenne ucciso nel 2014 da un carabiniere perché creduto un pregiudicato in fuga, a cui viene dedicato il film. Il racconto di Alessandro e Pietro cerca di gettare una nuova luce sulla figura del giovane ucciso, vicenda distorta e deformata dai media e dall’opinione pubblica. Pietro e Alessandro incontrano anche i genitori di Davide per parlare della tragica vicenda mentre rivedono le immagini dei telegiornali che trattano l’argomento. Lo sguardo dei media depersonalizza e oggettifica la comunità giovanile di Napoli non attribuendo ai ragazzi alcun valore identitario e strumentalizzando le loro azioni e quello a cui vanno incontro.

La soggettività specifica dei giovani non emerge dal racconto dei media, il cui sguardo egemonico oscura il soggetto altro, così come le immagini realizzate dall’occhio depersonalizzato dei sistemi di video-sorveglianza che vengono inserite nel film come contrapposizione ai video-selfie di Pietro e Alessandro. La realtà catturata dai sistemi robotici di controllo mostra, a distanza, individui senza singolarità, senza un nome e un volto. Dall’altra parte invece, il racconto in prima persona non rimane una modalità di rappresentazione visiva o un semplice strumento mnemonico ma una forma di comunicazione e di formazione identitaria dal momento che il selfie assume il ruolo di lingua parlata nel corrente panorama della comunicazione sociale. Nella relazione e nell’interazione tra il sè e lo spazio geografico e sociale intorno il videoselfie diventa un’esibizione che rende esplicito il valore performativo del processo mnemonico, della trasmissione del ricordo e della creazione di significato.

Categoria
Agostino Ferrente Pietro Orlando Alessandro Antonelli 78 minuti
Italia, 2019
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Serenity

di Emanuele Di Nicola
Serenity di Steven Knight

Il colpo di scena. Uno dei trucchi antichi del cinema, ereditato dalla letteratura, e la più diffusa scelta narrativa per ribaltare le certezze di chi guarda: scardinare una convinzione, mettere in dubbio, costringere alla rilettura a posteriori. Ovviamente, divertire: cambiare improvvisamente sapore perché, come diceva Hitchcock, «il cinema non è una fetta di vita, è una fetta di torta». Non c’è fine al colpo di scena nel cinema del postmoderno: registi ci hanno costruito una carriera o almeno l’innesco, come Shyamalan, autori sotto la copertura del cinema commerciale lo hanno frequentato, come David Fincher. Serenity di Steven Knight si inserisce nella tendenza e pone un problema di senso: la possibilità del colpo di scena oggi.
Siamo a Plymouth Island, non meglio specificata isola dei Caraibi: qui l’ex soldato Baker Dill (Matthew McConaughey) porta i turisti a pesca in mare aperto con la sua imbarcazione (Serenity, appunto) ed è ossessionato dalla sfida di catturare un tonno gigante, più volte preso all’amo e sempre sfuggito. Uno scontro che si rinnova, come Santiago e il marlin ne Il vecchio e il mare - e allo stesso modo il pesce trascina la barca -, fino a sconfinare nella fissazione: «That’s the tuna in your head», gli dice un amico. Il pretesto che accende la miccia è l’arrivo sull’isola di Karen (Anne Hathaway), ex moglie di Baker e madre di suo figlio, con una richiesta particolare: portare a largo il suo nuovo marito Frank (Jason Clarke), alcolizzato e violento, per poi ucciderlo e gettarlo nell’oceano.

Lo sceneggiatore Steven Knight torna alla regia cinematografica sei anni dopo Locke (in mezzo la serialità, soprattutto Taboo da lui interamente scritta) e mette subito in chiaro una cosa: non siamo sul terreno del realismo. In Serenity infatti, sin dall’inizio, la partita si gioca apertamente nel campo dell’immaginazione: lo attestano gli archetipi installati sui personaggi, come il riferimento a Hemingway, i luoghi comuni del contesto (l’isola, l’amico nero, l’amante) e alcuni particolari che denotano una sfacciataggine così esasperata da risultare quasi ammirevole, vedi il tonno gigante chiamato Justice (e dunque, di conseguenza, Baker sta cercando giustizia). L’autore non fa niente per nascondere il suo intento, anzi lo espone: la prova è nel montaggio alternato che presto mostra la vicenda di Baker intrecciata alle immagini di un bambino che, davanti al dramma della madre maltrattata, sceglie di uscire dalla realtà e scappare nella fantasia diventando un giovanissimo programmatore informatico. Vediamo il piccolo Patrick, figlio di Baker, che scrive in codice html: è lampante che ciò che stiamo guardando è un videogioco programmato dal ragazzo, che lo costruisce gradualmente, a questo si devono gli stereotipi che riempiono il racconto (d’altronde Plymouth Island non ricorda forse Monkey Island?). È lui il master che crea la storia e, naturalmente, nella sua testa di bambino i tratti narrativi sono semplici e non strutturati: siamo nel cervello di un giovane che forse ha letto un libro a scuola (Il vecchio e il mare), forse ha visto Audrey Hepburn in Tv (i vestiti della Hathaway, soprattutto il primo), sicuramente è nutrito dei loop e ripetizioni del pop odierno, così si spiega il déjà-vu di Baker che si ritrova sempre allo stesso incrocio. Ma c’è di più: sul primo colpo di scena Knight innesta perfino il secondo, ovvero (spoiler) il protagonista che è morto in Iraq fatto rivivere nel videogioco del figlio.

L’autore lavora in antitesi sull’iperrealismo tentato in Locke, con Tom Hardy solo a bordo della sua macchina, e cesella un mondo inventato come - tutto sommato - già in Taboo che immaginava una Londra dell’Ottocento secondo lui, tra sfondi anneriti e cappelli a cilindro. Qui lo fa corteggiando l’immaginario contemporaneo del mind game movie, che va dalle cosmogonie del Nolan di Interstellar agli easter eggs di Spielberg in Ready Player One, per arrivare all’episodio Bandersnatch di Black Mirror (già giocato e dimenticato), perché Patrick alla fine riscrive il gioco per evitare la “scelta sbagliata”. Tutto questo, però, è anestetizzato, superficiale, automatico e for dummies: dalle smorfie di McConaughey (che sia anch’esso uno stereotipo?) alle svolte improbabili e grottesche, il film si getta nelle braccia dei suoi twist con una fiducia cieca e folle, destinata inevitabilmente al fallimento.

Serenity è stato stroncato all’unanimità dalla critica americana, tranne rare eccezioni («The best bad movie of the year», lo definisce Kristin Iversen nell’articolo In Defense of Serenity). Ma, forse, non è tutta colpa di Steven Knight. Il punto è un altro. E riguarda proprio il colpo di scena: si può rifare oggi, è credibile e opportuno? Nell’ultimo anno del Novecento usciva nelle sale Il sesto senso di M. Night Shyamalan, una rivoluzione per l’epoca (Bruce Willis è morto!), fondativo di quel cinema ma anche datato, non citato tra le vette del magnifico regista: era un’epoca con le Torri gemelle e le monete uniche, prima del digitale e delle “guerre al terrore” (e dei protagonisti morti in Iraq), dove l’incredulità poteva ancora essere sospesa. Oggi anche McConaughey è morto, ma questo non stupisce più nessuno: tutto è già visto e fatto, al tempo dei social network e dei sovranismi, il colpo di scena non può sorprendere davvero. Vent’anni dopo Il sesto senso basta guardare fuori dallo schermo e non c’è una serenity possibile.

Categoria
Steven Knight Matthew McConaughey Anne Hathaway Jason Clarke 106 minuti
USA 2019
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Il traditore

di Matteo Berardini
Il traditore - recensione film Bellocchio

È un maxi-processo quello che si mette in scena: giornalisti e telecamere, flash, microfoni, grandi gabbie colme di corpi, avvocati e magistrati stretti nelle vesti ufficiali, tutto il cerimoniale e la formalità giuridica di un Stato che manifesta e afferma sé stesso attraverso l’esercizio della Legge. Ma qualcosa avviene che stona e sfugge ai codici che quella sede impone, tra le grida dei presenti e sotto gli occhi di decine di poliziotti due degli imputati iniziano a fare l’amore, la forza pubblica interviene mentre una donna urla di lasciarli finire. È il 1986 e Marco Bellocchio filma il suo Diavolo in corpo, intrecciando echi politici e pulsioni psichiche, erotismo e autodistruzione, e in uno dei momenti più belli del film due brigatisti cercano di scardinare con il sesso la loro gabbia istituzionale, mentre il processo si avvia a conclusione grazie alle testimonianze di un pentito. Intanto, fuori dallo schermo, un altro maxi-processo è in corso, non sono terroristi questi ma mafiosi, tra i più importanti e bestiali di Cosa nostra, chiamati a rispondere di fronte lo Stato grazie alla lunga testimonianza del primo pentito di mafia, Tommaso Buscetta, Il traditore. Di nuovo dentro lo schermo, più di venti anni dopo, Bellocchio torna nelle aule di tribunali, torna a corpi in gabbia e palchi istituzionali, ma la lotta politica cede il passo alla farsa, al grottesco susseguirsi di macchiette, esibizionismi, pantomime, derisorie commedie dell’arte, alla sbruffoneria di assassini belluini che pavoneggiano un’autorità indipendente e alternativa a quella statale. I mafiosi si spogliano, mutilano, cuciono la bocca e fingono crisi epilettiche, urlano e scimmiottano, declamano e sbeffeggiano, mentre l’altra faccia di Cosa nostra si percuote il petto e agita le braccia attraverso un coro di mogli piangenti e vestite a lutto. È un vero e proprio teatro, una contro-storia che sbeffeggia l’esercizio del Diritto e la superiorità ubiquitaria della Legge; il tribunale diventa una frontiera dove si combatte per affermare l’esistenza e la necessità dello Stato.

Assieme a Martone, Marco Bellocchio è il solo regista italiano che continua oggi ad affrontare la Storia d’Italia, e lo fa ancora una volta mescolando pubblico e privato, lasciando che l’uno si manifesti nell’altro e viceversa. È come se per il regista di Bobbio non fosse possibile raccontare la macro-Storia senza scoprire la mini-Storia, la traccia biografica di personalità che si intrecciano agli eventi plasmandoli, decretandoli, soccombendovi. Magistralmente Bellocchio riporta alla mente i momenti migliori del cinema civile italiano, l’inchiesta e l’indagine di Rosi, Petri, Lizzani, ma la resurrezione cronachistica non può contenere uno sguardo che sempre resta affamato di ciò che sta oltre la realtà evenemenziale e che vive nella mente e nelle notti dei suoi personaggi. Da qui l’emergere ribollente di sogni e visioni, un magma che come sprazzi di inconscio collettivo porta a galla tanto gli orrori del singolo quanto i bisogni della comunità (la passeggiata finale del Padre-Aldo Moro di Buongiorno, notte). Il traditore è sì la ricostruzione fedele di un momento storico della vita italiana – e per farsi un’idea di quanto lo sia basta vedere pochi minuti del reale confronto in aula tra Buscetta e Pippo Calò – ma anche e ancora una volta la trasfigurazione metafisica di un trauma collettivo, quel nodo metastatico che ancora affligge il paese ma che, con le parole di Giovanni Falcone, «è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine».
Ma la magia sorprendente di questo film – e l’elemento che forse più di altri ne ha decretato lo straordinario successo nelle sale – è il modo in cui per la prima volta Bellocchio mescoli il suo approccio onirico e intimo alla Storia con il genere, e in particolare il gangster movie, che non bisogna aver paura di chiamare in causa in un film così violento, adrenalinico e ritmato, capace di affiancare agli incubi di Buscetta, alle straordinarie composizioni “televisive” delle celle riprese dalle videocamere, o agli affondi grotteschi e così tipici di Bellocchio contro le eminenze grigie del Potere, sequenze clamorose come le minacce di morte in elicottero alla moglie di Buscetta, che sembrano uscire da altre galassie di cinema italiano, oggi sconosciute (sequenze che, bene ribadirlo, non sarebbero state altrettanto potenti senza l’interpretazione davvero gigantesca di Pierfrancesco Favino, corpo possente e voce impastata, meraviglioso pastiche di siciliano e portoghese che è talento puro).

Lontano dal realismo sporco di Garrone o dalla sinfonia pop di Sorrentino (Gomorra, Il Divo), Bellocchio tira fuori alla bellezza di ottant’anni il suo Padrino, ma come il grande uomo di cinema che è ne raffina la dimensione morale, lo scarto umano, costruendo un ritratto complesso e sfaccettato di un traditore capace di denunciare un mondo criminale e sentirsi fino all’ultimo lui il tradito, colui che è stato colpito alla schiena da un sistema dominato da belve in cui non è più in grado di riconoscersi. Il traditore non sposerà mai il punto di vista di Buscetta ma compie lo sforzo estremo di affondare nelle contraddizioni del reale, senza cercare soluzioni facili o consolatorie. È il ritratto di un assassino, di un pentito, di un mafioso, di un uomo che amava e ha perso i suoi figli, un criminale forse etico, certamente sfuggente, figliol prodigo riaccolto e forse anche sfruttato dallo Stato, certamente temuto e odiato dal Potere, attorno al quale Bellocchio costruisce un’epica criminale che si ritaglia, già ora e subito, un posto nella storia del nostro cinema.

Categoria
Marco Bellocchio Pierfrancesco Favino Maria Fernanda Cândido Fabrizio Ferracane Luigi Lo Cascio Fausto Russo Alesi 148 minuti
Italia 2019
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

X-Men - Dark Phoenix

di Matteo Berardini
X-men dark-phoenix recensione film

In tempi di #MeToo e casi Weinstein, in cui la nostra industria culturale è chiamata a confrontarsi con nuove istanze e logiche di rappresentazione (dovendo finalmente rispondere a una complessità del reale non più accantonabile), la saga di Fenice Nera scritta da Chris Claremont nel 1980 rappresenta un materiale dal grande potenziale narrativo e simbolico, un’epopea supereroica incentrata sul potere femmineo e il suo timore da parte maschile, e soprattutto sul controllo cui siamo soggetti fino a che non acquisiamo la possibilità di scrivere la nostra narrazione. Resa orfana dalla débâcle di Bryan Singer (dignitosissimo padre cinematografico dei mutanti Marvel fino al pessimo Apocalisse), la saga degli X-Men torna dopo Conflitto finale a confrontarsi con quella prima, storica, run di Claremont, consapevole della forza del materiale e spinta dalla necessità di chiudere il proprio arco narrativo (sul cui futuro, ora che le proprietà intellettuali della Fox sono state acquistate dalla Disney, è impossibile pronunciarsi). Tuttavia X-Men - Dark Phoenix è se possibile ancora più confuso e inconcludente del precedente Apocalisse, un ibrido mal riuscito tra la spettacolarità della prima trilogia e le ambizioni autoriali dei primi due prequel (X-Men – L’inizio e Giorni di un futuro passato).

Affidato per la regia all’esordiente Simon Kinberg, da tempo impegnato con i mutanti in veste di produttore e sceneggiatore, Dark Phoenix cerca di adattare la sua storia di potere e rapporti tra i sessi alla sensibilità attuale, ma l’unica cosa che riesce a fare è lanciare frecciatine e paralleli casuali riguardo i temi del sessismo e del paternalismo, argomenti che il film cerca di problematizzare senza riuscirci, mai, neanche alla lontana. Della storia di Jean Grey, compagna e allieva fedele il cui potere viene prima limitato dall’esterno e poi, una volta liberato, giudicato eccessivo e incontrollabile, resta soltanto il debole tentativo di raccontare un personaggio vittima dei propri conflitti interiori, contraddizioni e traumi enunciati dalla storia ma mai resi snodi narrativi avvincenti, fondanti. Dark Phoenix arriva a fine corsa nella saga ventennale dei mutanti, e se nel frattempo sono cambiati modelli e linguaggi, equilibri produttivi e proprietà intellettuali, il film accusa il suo essere fuori tempo massimo con un senso di inconcludenza che ne affligge ogni aspetto. Dal cast, svogliato e tirato dentro per meri doveri contrattuali, alle fasi di scrittura e regia, afflitte da una totale carenza di idee, da un vuoto pneumatico in cui, fondamentalmente, non era rimasto più nulla da mostrare o da dire. Il risultato è un film totalmente inerte che manca di qualsiasi epica finale e non riesce a risollevarsi neanche sul piano spettacolare, non avendo basi su cui appoggiarsi o soluzioni visive forti per compensare. Un finale mesto e di certo ingiusto per la bellezza e lo spessore di questi personaggi, tra i più affascinanti dell’universo Marvel, che nel 2000 hanno aperto assieme allo Spider-Man di Raimi la strada del cinecomic ma che oggi riescono soltanto a farci ricordare quanto sia complesso raggiungere i livelli toccati dal Marvel Studios con la chiusura del suo grande ciclo.

Etichette
Categoria
Simon Kinberg Sophie Turner Jessica Chastain James McAvoy Michael Fassbender Jennifer Lawrence Nicholas Hoult Tye Sheridan Evan Peters Kodi Smit-McPhee 114 minuti
USA 2019
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima
Iscriviti a