Lee Anne Schmitt - Frontiera e politica dell'immagine

di Lee Anne Schmitt

L’ultimo Pesaro Film Festival ha dedicato una personale a una pioniera della militanza on the road.

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I paesaggi parlano, raccontano, suggeriscono, non smettono di dirci cosa siamo e cosa siamo stati. Lee Anne Schmitt, a cui l’ultimo Festival di Pesaro ha dedicato una personale, lavora da sempre dialogando con il paesaggio americano e nel suo celebre California Company Town (2008) attraversa le citta-azienda della California, luoghi che testimoniano il declino e il fallimento dei progetti industriali, lasciati completamente alla deriva. Lo sguardo della Schmitt, che gira in 16 mm, da sola, percorrendo la desolazione dell’altra California, lontana dallo sbrilluccichio di Los Angeles o dalla coolness di San Francisco, si fa testimone del cambiamento causato dal sogno capitalista che crolla lasciando segni indelebili. Terminato nel 2008, su California Company Town Anne si dedica per circa quattro anni, un film-saggio che punteggia l’orizzonte di quel sogno americano svanito per nostre stesse mani e, come in una sorta di guida turistica, passa di città in città contemplando, con una serie di inquadrature fisse, quanto la natura sia stata deturpata dall’intervento dell’uomo nelle sue deliranti utopie. Uomo e natura che tornano ancora in The Last Buffalo Hunt (2011) realizzato insieme a Lee Lynch, un altro film-saggio che racconta dello sterminio dei bufali da parte dei cacciatori dello Utah, braccatori spietati che provano godimento nel momento in cui la loro preda viene uccisa, eccitazione pari a quella sessuale seguita dagli immancabili scatti con la carcassa dell’animale proprio come i ricchi austriaci di Seidl in Safari. I turisti della caccia mostrano i loro trofei come fossero paia di scarpe di una qualsiasi ragazza appassionata di moda. Alle origini di questo sterminio vi è il razzismo nei confronti dei nativi dello Utah, che proprio dai bufali traevano sostentamento, e di quelle uccisioni viene mostrato lo scuoiamento, il sangue e la crudeltà con cui i cacciatori si accaniscono, galvanizzati dalla carneficina. Come in guerra.

Pur ripercorrendo la storia americana e realizzando un cinema che intavola un discorso politico ampio, la filmografia di Lee Anne Schmitt, come ha affermato la regista stessa, «è un atto autobiografico», in cui la dimensione soggettiva, come in tutti i film-saggio veramente degni di portare questa etichetta, ha una notevole importanza e fa da veicolo per raggiungere i grandi temi cari all'opera dell'autrice. Le tematiche della Schmitt sono il razzismo, la storia americana, la guerra, il capitalismo e le sue conseguenze, l’impatto uomo-natura, problematiche così grandi da spaventare e che sceglie sempre di affrontare nel formato 16 mm, una decisione precisa che «permette un lavoro di osservazione accurato sul tipo di rapporto esistente tra lo sviluppo del paesaggio e le persone che ne sono influenzate, prestandosi a raccontare tematiche storiche e sociali degli Stati Uniti». Anche in Purge This Land (2017), soffermandosi sulle vicende di John Brown, attivista che si batteva per l’abolizione della schiavitù, la Schmitt mescola autobiografia con storia americana e grandi battaglie civili. Il documentario viene dedicato a suo figlio e pone una questione strettamente personale: sposata a un afroamericano (compositore delle musiche del film in questione,) la regista si chiede come potrà mai questo ragazzo vivere da nero negli Stati Uniti.

Il cinema di Lee Anne Schmitt è tutto attraversato dalla profonda dualità tra il soggettivo e l’universale, tra il particolare e il generale, l’uno sempre imprescindibile per l’altro, l’uno punto di partenza per arrivare all’altro. La pacatezza e l’andamento cullante della sua voce, che utilizza in tutti i suoi film, qui la voce di una madre, si rivolge allo spettatore raccontando, descrivendo, contemplando per esortarlo a una più grande riflessione. Il suo cinema fornisce gli strumenti, personali e storici, affinché certe parti di America, certe storie americane, non vengano dimenticate e siano il monito per una militanza continua. Perché questi suicide landscapes, queste terre di confine, topografico e metaforico, che una donna decide di voler raccontare, sono il mondo che spesso si sceglie di non guardare. La Storia come l’autobiografia possono essere entrambi le armi per comprendere, conoscere e ridare dimensione politica e militante all’immagine.

Autore: Andreina Di Sanzo
Pubblicato il 29/07/2019

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