Beautiful Things

di Giorgio Sedona
Giorgio Ferrero, Beautiful Things

Le cose sono, come nel classico esempio del bastone del cieco, le protesi che attraverso il corpo costituiscono la nostra mente. […] E questo dimostra sperimentalmente che il nostro Sé è fatto di cose almeno quanto è fatto di interazioni, pensieri, desideri.”  Michele Cometa - Perché le storie ci aiutano a vivere. La letteratura necessaria.

Per Cometa e per la sua disamina sull’evoluzione e costituzione della propriocezione del Sé le cose che dapprima realizziamo come utensili, e che poi acquistiamo in epoca consumistica, quindi che scegliamo di avere, rappresentano noi stessi; hanno vita, hanno un’agency, e sono portatrici di due tipologie di narrazione: narrazione della loro esistenza in quanto cose, e di una narrazione che ci riguarda, che ci autorappresenta. Giorgio Ferrero, e il dop Federico Biasin, tramite il loro sinfonico documentario Beautiful Things, ci riportano l’essenza della filiera consumistica attraverso una magistrale opera sonora che si rappresenta nel perfetto contrappunto tra uomo, merce, immagini, procedure, suono e cose. Ferrero, già compositore per il cinema insieme a Rodolfo Mongitore (Minus & Plus), parte dalla musica per definire un percorso di ideale contrappunto audiovisivo, dividendolo in quattro movimenti e micronarrazioni (Petrolio, Cargo, Metro e Cenere), in grado di raccontare il ciclo vitale degli oggetti e la narrazione di quattro personalità che lavorano nei quattro gradi della filiera. La produzione, e nascita dal Petrolio delle cose, ripresa negli spazi nei deserti texani, tra le rughe di un uomo che non vuole dimenticare il suono ascoltato da bambino, suono di ruggine e piattini percossi. Il trasporto Cargo, il muoversi delle cose nell’ordinabile economia capitalista, raccontato nei desideri di un marinaio e di un matrimonio desiderato ma reso impossibile. La scienza e la coscienza delle cose, il loro risuonare in una gabbia muta, nella camera anecoica, nelle misurazioni ordinate di un metronomo, e nei suoi ricordi incarnati di una madre e di una viola. La fine, l’oblio, il fuoco e la Cenere, la distruzione finale, negli spazi inceneriti di un termovalorizzatore, e nei fantasmi che genera nell’identità del suo esecutore materiale. Capitoli scanditi da un filmino home made che racconta la vita sociale della cosa, le relazioni che istaura con i nostri ambienti e con le nostre tempistiche di vita, un meccanismo narrativo nonché veicolo di un’affezione alla semplicità, al benessere, stessi principi e simboli con i quali Welles aveva caricato il termine “Rosebud”. «Nel finale del film volevo utilizzare come simbolo questa grande distesa di oggetti, a migliaia – e una di queste sarebbe stata Rosebud. Volevo che la macchina da presa mostrasse cose belle, brutte e anche inutili – insomma, tutto quanto può rappresentare vita privata e carriera pubblica. Volevo opere d'arte, ricordi, oggetti a cui il personaggio era sentimentalmente affezionato e cose da nulla.1» Nelle parole di Welles torna il classico esempio del bastone del cieco in precedenza richiamato da Cometa, le cose intese come protesi di un’identità che ci appartiene: cose, belle, brutte e anche inutili ma che ci rappresentano; opere d’arte, ricordi, oggetti a cui siamo affezionati. Gli stessi ricordi che diventano oggetti, nel tentativo registico, pienamente riuscito, di astrarre la materia visiva, focalizzando i ricordi delle quattro persone in immagini suscitate ed incarnate, e dandogli sostanza visiva, peso, anima, aprendo ad un’agency visionaria che giunge ad accomunare le cose ai ricordi. E se nel finale tutto brucia nella naturale parabola discendente della vita (umanamente oggettuale) dell’oggetto, nel mondo altro, nella nostra realtà, il consumismo contenuto nel centro commerciale viene violato da un’accesa danza catartica che disinnesca il senso di oblio merceologico dell’ultimo capitolo, aprendosi al movimento, all’inatteso, all’unione, al colore, alla festa e alla vitalità della relazione tra corpi, musica, suono e danza.

Beautiful Things è una scheggia sonora che folgora la superficie del cinema italiano. Un meraviglioso contrappunto di tuono sonoro e lampo visivo che illumina e scuote, per 94 intensi minuti, l’orizzonte e la visione.

 

Note

1 Dichiarazione di Welles contenuta in Filmidee, 29 Ottobre 2015 e diffusa dall'ufficio stampa della RKO il 15 gennaio 1941. Traduzione di Gabriele Gimmelli. Testo originale disponibile su wellesnet.com.

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Giorgio Ferrero 94 minuti
Italia, 2017
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Il grande inquisitore

di Giacomo Calzoni
Il grande inquisitore - recensione film Reeves

Incomincia con le urla strazianti di una vittima innocente, e finisce allo stesso modo. Il grande inquisitore, terzo e ultimo lavoro di Michael Reeves (1943-1969) prosegue e amplia a dismisura alcune tematiche suggerite già dai precedenti Il lago di Satana e Il killer di Satana per porsi, non senza un velo di genuina (e giovanile) presunzione, come il film della vita dell’autore inglese. Il che può apparire naturalmente una lettura fin troppo facile e di comodo, data la natura tragicamente testamentaria dell’opera: ma se è vero che la morte di Reeves, avvenuta pochi mesi dopo l’uscita nelle sale, ha inevitabilmente contribuito alla statura di culto raggiunta dal film nel corso dei decenni, non per questo va sottovalutata l’importanza de Il grande inquisitore all’interno del multiforme panorama europeo di genere dell’epoca.

Ambientato nell’Inghilterra del XVII secolo, durante la guerra civile che vedeva contrapposti gli eserciti di Cromwell a quelli di Re Carlo I, il film ruota intorno alla controversa figura di Matthew Hopkins, inquisitore che utilizza la sua missione di cacciatore di streghe come pretesto per esercitare al meglio il potere temporale concessogli dal ruolo, sfruttando di fatto l’ignoranza e la superstizione degli abitanti della provincia rurale più povera. Frutto di una coproduzione tra la britannica Tigon e l’American International Pictures di Roger Corman (che impose la presenza di Vincent Price nel ruolo di protagonista, costringendo Reeves a modificare non di poco un copione pensato inizialmente per Donald Pleasence), Il grande inquisitore è un film di rottura con la tradizione classica, quello che arriva a capovolgere gli equilibri più tradizionalisti e conservatori del genere; quasi la chiusura ideale del decennio d’oro del fantastico inglese, appena un attimo prima di intraprendere quella lunga china discendente che lo avrebbe visto soccombere dinanzi all’ondata rivoluzionaria del new horror proveniente da oltreoceano. Quasi, appunto: peccato infatti che qui di fantastico o soprannaturale non ci sia proprio nulla (e chissà come mai il film venga ancora classificato da alcune parti come horror, quando di fatto non lo è), dato che le streghe e il Maligno sono solamente gli spauracchi utilizzati da Hopkins per soddisfare i propri istinti sessuali più brutali. Fortemente osteggiato dalla critica dell’epoca a causa del suo alto tasso di violenza, ma allo stesso tempo rivalutato e riconosciuto come una delle rappresentazioni più realistiche dell’Inghilterra del Seicento, il capodopera di Reeves prende le distanze dal gotico europeo per cercare una strada diversa e del tutto personale, in grado di raccontare il mondo e gli uomini facendo completamente a meno del filtro sporco e scuro garantito dall’appartenenza a un genere.

Fondamentale allora in questo senso la fotografia di John Coquillon, che illumina  molti esterni già utilizzati come set da alcuni film della Hammer (il villaggio dell’impiccagione iniziale, per esempio) per rileggerli in chiave totalmente realista e prosciugata di qualsiasi elemento fantastico. E sempre proseguendo nel paragone con la Hammer (inevitabile dato il contesto storico e geografico, ma allo stesso tempo fuorviante), se i primi quattro film del ciclo di Dracula utilizzavano la figura del vampiro creato da Bram Stoker per mettere alla berlina l’ipocrisia bigotta e puritana della società inglese vittoriana (e quindi, per rimando, anche di quella contemporanea), allo stesso modo Reeves realizza un dramma storico pessimista e spietato che abbraccia una dimensione universale, perfettamente in grado di oltrepassare i confini tra le epoche. Un melò in piena regola che non rifiuta nemmeno la convenzione narrativa dell’amore tragico dei giovani amanti, tipica di molte produzioni horror inglesi e che qui si trasforma nel vero e proprio riflesso di un presente drammatico e oscuro, in netta antitesi con i fasti edonisti della Swinging London.
Si corre spesso e forsennatamente, nel film: si corre per raggiungere un oggetto del desiderio, o nel tentativo di fuggire da un destino scritto da altri e che non si riconosce come proprio. Ma a soli venticinque anni Reeves già credeva in una Storia  dominata dal caos, in cui persino gli uomini e le donne mossi dalle migliori intenzioni si rivelano strumenti manovrati dal Male; quello che rimane, alla fine, è soltanto una natura bellissima e impassibile (il silenzio di Dio) e le urla di chi è condannato a restare vittima sacrificale. Il vaso di Pandora si è spalancato: tutto il folk horror inglese successivo nasce da qui, da Satana in corpo (Cry of the Banshee, 1970, sempre interpretato da Price, quasi un remake ma più ancorato alle regole di genere) fino ai seminali La pelle di Satana (The Blood on Satan’s Claw, 1971) e The Wicker Man (1973), per non parlare, naturalmente, dell’influenza avuta su I diavoli (The Devils, 1971) di Ken Russell. Non è affatto cosa da poco.  

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Michael Reeves Vincent Price Ian Ogilvy Rupert Davies Hilary Dwyer Patrick Wymark 86 minuti
USA, Gran Bretagna 1968
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Il ragazzo che diventerà Re

di Matteo Berardini
Il ragazzo che diventerà re - recensione film cornish

Pubblico negletto quello formato da spettatori in età pre-adolescenziale, specie se parliamo di cinema del fantastico. Tolti i periodici film d’animazione – alcuni dei quali, comunque, pensati per un target  più adulto – resta davvero poco al cinema per i bambini che vanno dagli 8 ai 13 anni, fascia d’età che si pone al confine di quell’esplosione narrativa teen che li sfiora appena senza coinvolgerli pienamente. Sale e librerie sono invase ancora dagli echi del successo di Twilight, ma per quanto riguarda i bambini è dai tempi dei primi Harry Potter che non si vede un prodotto commerciale forte pensato appositamente per loro. È in questa disparita – narrativa e commerciale – che si pone Il ragazzo che diventerà Re, fiaba arturiana dall’afflato fantasy e dalla morale cristallina, racconto di formazione classico e immaginifico che ben si addice all’attivismo giovanile e ambientale di questi giorni.

Scritto e diretto da Joe Cornish, che aspettavamo di nuovo in sala dal 2011, quando uscì il delizioso Attack the Block – Invasione aliena, il film è un tentativo di aggiornare la figura immortale di Artù all’attuale momento storico per mettere in risalto l’importanza di avere leader nobili e sicuri che guidino la comunità. Il ragazzo che diventerà Re mette in campo tanti elementi del Ciclo bretone, da Excalibur alla Tavola rotonda, ma quello a cui guarda Cornish è il cambio generazionale che coinvolgerà le prossime istituzioni europee. Attraverso spade invincibili, magie e creature infernali, il film cerca di promuovere la consapevolezza degli uomini di domani, di cui si sottolineano le responsabilità individuali ma soprattutto le capacità di incidere attivamente nella vita della comunità. Nobili intenti, dai quali però Cornish ricava un film che convince a tratti, sbilanciato nella scrittura e poco incisivo dal punto di vista visivo. Salvo l’ultima mezz’ora, gran finale che accende l’emozione e regala sequenze molto suggestive, Il ragazzo che diventerà Re non riesce a trasformare la reinvenzione del mito in magia sullo schermo; limitato anche da un budget non adeguato, il film cerca di compensare calcando l’aspetto formativo che coinvolge tutti i personaggi, ma viene a mancare un senso dell’epica e del fantastico che possa valorizzare e rilanciare quella crescita morale. In particolare la parte centrale sembra affossarsi per l’assenza di idee; qui il confronto con la figura paterna da parte del protagonista si risolve in un nulla di fatto, mentre tutta l’emozione viene demandata con troppa facilità al grande finale.

Un peccato, perché l’operazione pensata da Cornish (comunque in parte riuscita) è esattamente la cura contro il cinismo di cui oggi abbiamo bisogno; non avremo un altro cult come Attack the Block, ma Il ragazzo che diventerà Re resta un racconto fantastico che senza pudore si pone al livello del suo pubblico così giovane, bambini insicuri e assetati di magia di cui corteggia la fantasia e il senso morale tenendogli la mano, affinché in futuro possano a loro volta volgerla a favore di altri. Proprio come farebbe un cavaliere arturiano, proprio come può fare un vero leader.

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Joe Cornish Louis Ashbourne Serkis Patrick Stewart Rebecca Ferguson 120 minuti
Gran Bretagna 2019
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Stanlio & Ollio

di Matteo Marescalco
Stanlio & Ollio - recensione film Baird

Non c'è niente di più triste dell'ultimo commiato che giunge alla fine di un lungo e duraturo rapporto di amicizia. In fin dei conti, è proprio il rapporto umano tra i due protagonisti il cuore pulsante di Stanlio & Ollio, diretto da Jon S. Baird e scritto da Jeff Pope, lo sceneggiatore di Philomena. I volti e i corpi di Steve Coogan e di John C. Reilly hanno l'ingrato compito di caricare su di sé l'eredità di due miti dell'immaginario collettivo: Stan Laurel e Oliver Hardy, più noti, in Italia, con i nomignoli di Stanlio e Ollio. Prima di ogni altra cosa, è opportuno soffermarsi sulle interpretazioni dei due attori, le cui paralizzate smorfie di tristezza contribuiscono a rendere autentico il tono crepuscolare che pervade il film per tutta la sua durata.

Fin dall'inizio, infatti, ambientato nel 1937, anno in cui Stanlio e Ollio sono all'apice della carriera e ancora sotto contratto con Hal Roach, serpeggia un velo di malinconia, come se i fantasmi dell'invecchiamento e della stanchezza avessero iniziato ad agire anzitempo. Coogan e Reilly vivono sulla scena come un corpo solo, un po' come i due mostri sacri della comicità che impersonano, dando vita ad una particolare sinergia che vive delle reciproche inadeguatezze. Dopo il prologo ambientato negli anni '30, si vola al 1953, anno in cui Laurel e Hardy, sopra i sessant'anni e ormai lontani dalle scene, partono per un tour teatrale in Gran Bretagna con la speranza di rinverdire il loro successo e di girare un nuovo film su Robin Hood. Il pubblico delle esibizioni è tristemente esiguo ma la loro arte riesce ancora a risplendere nelle risate degli spettatori. Tuttavia, fantasmi mai sepolti e i problemi di salute di Oliver minacciano il sodalizio, conducendo all'inevitabile declino umano, fisico e professionale.

Stanlio & Ollio è un biopic esemplare, frutto di un attento lavoro attoriale e di scrittura. Il viale del tramonto appassionato si unisce all'omaggio all'arte comica del duo attraverso una ricostruzione minuziosa del metodo delle gag. Il racconto del peregrinare per l'Inghilterra di Stan e Oliver non può fare a meno di soffermarsi su tutte le presunte situazioni comiche extra-scena, individuando proprio in esse il nucleo primordiale di alcuni sketch del duo. Le trovate della coppia sembrano sempre nascere dalla casualità e da un lampo improvviso che minaccia di scatenare tutta la propria vis comica. Nella sua invisibilità, il decoupage classico sa bene come creare un'operazione sentita e commovente che restituisca i tocchi candidi e la magia di una coppia senza tempo.

Il naturale ed indispensabile contraltare ai tanti momenti comici è la presenza di un senso di disperazione che scaturisce proprio dalla consapevolezza della caducità. Il racconto, in fin dei conti, porta in scena un commiato all'arte e alla vita, un silenzioso addio da nascondere persino a sé stessi. Non era affatto semplice ottenere un insieme così significativo e denso a livello emotivo. Eppure, è proprio grazie alla sua classicità e coerenza che è possibile abbandonarsi ad un film che bagna gli occhi e riscalda il cuore, convenzionale nella struttura ma in grado di restituire la forza dell'immaginario.

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Jon S. Baird Steve Coogan John C. Reilly Danny Huston Shirley Henderson 98 minuti
Canada, Regno Unito, USA 2018
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Senza lasciare traccia

di Tamara Gasparini
Senza lasciare traccia - recensione film Granik

Debra Granik ritorna, otto anni dopo Un gelido inverno, a una storia di marginalità, resistenze e sopravvivenza. Una storia di padri e figlie, di convivenza e divergenza, di bisogni e abbandoni, dentro un’America che sceglie di curare i propri traumi lontano dal progresso, alla ricerca di nuove (e vecchie) frontiere, tra civiltà e wilderness, dove rifondare se stessiSenza lasciare traccia ci immerge nel verde dei boschi del grande Nord Ovest americano, nei dintorni di Portland, e racconta la “disobbedienza civile” del reduce di guerra Will (Ben Foster) e della figlia preadolescente Tom (la nuova scoperta Thomasin Harcourt McKenzie), osservati nel loro simbiotico adattamento a una natura edenica e incontaminata, divenuta, da tempo, casa (per Tom) e rifugio (post-traumatico per Will), fino a che rangers e assistenti sociali non li scoprono per integrarli (invano) in un ordine sociale prestabilito.

Frontiere geografiche e frontiere interiori si mescolano in questo film che è una tenera ballata sulle relazioni umane e sulle corrispondenze tra individui e luoghi in cui vivere. Lo sguardo della Granik si posa amorevolmente sulle figure degli esclusi di questa America remota e poco conosciuta. In Un gelido inverno era una giovanissima Jennifer Lawrence ad agire in un mondo rurale e feroce di povertà atavica, in cui imparare a sopravvivere dopo la scomparsa di un padre finito chissà dove. Nel documentario Stray Dogs i bikers veterani del Vietnam sono outsiders come Will, guastati dalle politiche del paese e troppo fuori controllo per integrarsi (ancora) nella macchina sociale che li ha creati.  

Leave No Trace - ispirato al romanzo My Abandonment (2009) di Peter Rock - respira letterariamente Walt Withman e la vita nei boschi del Walden di Thoreau, ma si nutre anche delle canzoni di Woody Guthrie, degli inni alla libertà del viaggio della cultura beat, del nomadismo hobo e dello spirito pionieristico alla base della fondazione del paese. Si appropria dei miti fondativi della cultura americana senza però romanticizzare nulla. Molto lontano da un film gemellare per tema (ma sensibilmente differente) come Captain Fantastic, più caustico e appariscente, l’opera della Granik si rivolge a uno spaccato umano vicino a certi lavori di Kelly Reichardt (soprattutto Old Joy e Wendy and Lucy) nel trattare un Altrove americano da attraversare per trovare il proprio posto, calando la storia in un minimalismo narrativo privo di climax, senza indicare cosa è giusto, senza eroi e senza antagonisti, al riparo da facili sentimentalismi e lezioni morali.

Lo stile è dimesso, l’occhio della regista, discreto e ravvicinato ai personaggi, aderisce al loro sentire e al respiro della foresta; a tratti ha un incedere documentaristico, come se volesse cogliere, con interesse antropologico, le relazioni all’interno delle comunità più sperdute di un’America viscerale - nascosta allo sguardo di un turista ma profondamente reale - che non cerca un paradiso perduto ma ha smarrito da tempo la fiducia nelle promesse di un sogno (o semplicemente a quel sogno non ha mai creduto).
Padre e figlia non riescono a fare dell’America urbanizzata moderna un posto in cui sentirsi a casa e troveranno durante la fuga da ogni integrazione possibile altri individui come loro. Uomini e donne che vivono in case mobili, senza possedere nulla se un desiderio di isolamento e libertà. Troveranno canzoni intorno al fuoco dove ritrovarsi per stare insieme. Non c’è solitudine, non c’è l’America spietata e crudele di Un gelido inverno qui. C’è il cuore di un paese che viene in soccorso gli uni degli altri, come dentro un alveare.

Il film segue l’evoluzione del legame padre-figlia trasformando il racconto in un coming of age. Mentre Will si porta dentro i disturbi di una guerra che sta ancora combattendo con se stesso, impossibilitato a vivere sotto un tetto che non sia quello della volta celeste delle foreste dell’Oregon, Tom sviluppa un desiderio diverso a quello del genitore che costringerà entrambi a un duro confronto e maturazione.
Leave no trace è una folk song d’amore tra un padre e una figlia - che imparano l’uno dall’altra vicendevolmente ad aiutarsi e lasciarsi liberi di trovare il proprio posto nel mondo - ma anche tra un’autrice e il paesaggio umano che popola i margini, senza urlare denunce ma con sguardo emotivamente e umanamente partecipe.

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Debra Granik Ben Foster Thomasin McKenzie Jeff Kober Dale Dickey 109 min
USA 2018
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Il killer di Satana

di Jacopo Bonanni
Il killer di Satana - recensione film

Prendete un ragazzo precoce di appena vent’anni; inoculategli una passione viscerale per la settima arte e un talento visionario tale da rendergli impreciso il confine tra realtà e finzione; aggiungete un cupo destino di suicidio e malattia; collocate la sua fulminante carriera nell’Inghilterra borghese e benpensante del secondo dopoguerra, pervasa dai fremiti beat e dalle fantasie lisergiche della Swingin London; inquadrate il tutto in un arco di tempo che va dall’epoca appena trascorsa della Nouvelle vague ai vagiti furiosi della New Hollywood; non dimenticate il mondo del “cinema di genere”  in pieno fermento e avrete un’idea di quella miscela esplosiva che ha contribuito a consacrare post-mortem la tormentata figura di Michael Reeves come una vera e propria rockstar nel panorama dell’ horror britannico a cavallo degli anni sessanta.

Morto a soli venticinque anni nel 1969 per un’overdose di barbiturici, alle spalle un trittico di film “maledetti” diventati a pieno titolo dei cult tra gli appassionati, l’inquieto regista inglese incarna la quintessenza del leggendario motto live fast, die young. Un mantra che lo iscrive di diritto – seppure fatalmente in anticipo – nel Club 27 di cui entreranno a far parte altri celebri e talentuosi coetanei (Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin), simboli - a loro volta - di quel mix letale di genio e sregolatezza che ha contraddistinto la “rabbia giovane” di una società in odore di contestazione. Reeves è quello che oggi potremmo definire un enfant prodige a tutti gli effetti; folgorato in tenera età dai lavori rivoluzionari di due autori fuori dagli schemi come Jean-Luc Godard (Fino all’ultimo respiro) e Don Siegel (L’invasione degli ultracorpi) – da cui eredita lo spirito anarchico e radicale – il ragazzo non ancora maggiorenne abbandona gli studi canonici determinato ad impugnare la macchina da presa.

Dopo una serie di acerbi cortometraggi – tra cui spicca il seminale Intrusion del 1961 – l’aspirante regista inizia a collaborare, supportato dello stesso Siegel, come assistente alla regia in alcune piccole produzioni internazionali (The Long Ships, Il castello dei morti vivi, 1964), fino ad approdare finalmente dietro la macchina da presa all’età record di ventidue anni. Reeves esordisce sul grande schermo con Il lago di Satana: un modesto film gotico, nato sulla scia del successo de La maschera del demonio” di Bava, con protagonista – ancora una volta – l’iconica Barbara Steele nel ruolo di una strega rediviva in cerca di vendetta. Sebbene sia ingiusto parlare di una falsa partenza, la pellicola non risulta particolarmente memorabile a causa di un budget ridotto e un script privo di spessore;tuttavia l’opera prima di Reeves viene riscattata da una pregevole confezione estetica, da un’efficace costruzione della tensione ma soprattutto da una rappresentazione scrupolosa della violenza in grado di scioccare lo spettatore, tanto da riscuotere un discreto consenso da parte del pubblico e garantire al regista una seconda possibilità per dimostrare il suo talento ancora inespresso.

La svolta decisiva arriva nel 1967, quando l’amico d’infanzia e collaboratore Tom Burke gli sottopone la promettente sceneggiatura di Terror for Kicks: un torbido fanta-horror scritto insieme a John Burke e palesemente ispirato al film di Kurt Neumann L’esperimento del Dottor. K del 1958. La sceneggiatura del lungometraggio – ribattezzato Il killer di Satana – è stata già approvata dalla Compton Group, un’intraprendente casa di produzione inglese che ha da poco finanziato i primi lavori di Roman Polanski e che lascia carta bianca a Reeves, mettendolo in contatto con una vecchia gloria del cinema horror di nome Boris Karloff.

Nel film il divo ottuagenario interpreta Marcus Monserrat, un malinconico dottore – più simile ad un mago in pensione che ad un accademico istituzionale – che intrappolato in un’epoca che non gli appartiene e deriso dalla comunità scientifica per le sua ardite teorie viene persuaso dalla sinistra moglie Estelle – la mefistofelica Catherine Lacey – a condurre un perverso e mesmerico esperimento cui sta lavorando in segreto da anni. Il piano della diabolica coppia consiste nella possibilità di impossessarsi della volontà di un soggetto mentalmente instabile per “vampirizzarne” l’energia psichica e controllarne a distanza le azioni, grazie ad un avveneristica macchina costruita appositamente dal dottore. Per collaudarla i due lugubri personaggi scelgono di adescare il giovane Mike Roscoe (Ian Ogilvy), un mod annoiato e in cerca di evasione – simile per molti aspetti al viveur di Michael Caine visto nel film Alfie del 1966 – uno scapestrato dongiovanni pronto a sottoporsi volontariamente all’operazione allettato dal miraggio di poter sperimentare «un’estasi senza conseguenze e un piacere senza assuefazione». Ma da sogno psichedelico a bad trip allucinogeno il passo è breve.

Una volta entrati nella mente e nel corpo dell’ignara vittima, i due coniugi paleseranno violentemente le pulsioni contrastanti che li animano: da una parte quella lucida, empatica, paternalista del professore disposto a liberare il ragazzo; dall’altra quella sadica, egoista e matrigna della moglie che, soggiogato il marito, si impadronirà con la forza della coscienza di Mike, ridotto ormai a una marionetta sanguinaria al servizio dei deliri di onnipotenza della decrepita aguzzina. È un caleidoscopio abbagliante di crimini, delitti e soprusi quello a cui assistiamo inermi – come il protagonista – attraverso gli occhi febbrili della videocamera che lo insegue morbosamente, ogni volta che uccide, fino a sprofondare con lui nel turbine di follia e depravazione che divorerà per sempre la sua gioventù. Fino alla conclusione di un finale anticatartico che non risparmierà nessuno dei tre attori invischiati in questo perverso gioco psicologico al massacro.

Colpevolmente dimenticato dalla critica, Il killer di Satana si rivela in realtà un piccolo miracolo all’interno dell’imbolsita produzione inglese di genere degli anni sessanta, divisa ancora tra i film di spionaggio di James Bond e le reiterate pellicole horror della Hammer. La sordida storia della coppia di anziani parassiti, che cercano di cannibalizzare la giovinezza perduta per riscattarsi da un’esistenza frustrata, consumata negli squallidi sobborghi della debordante capitale britannica alle soglie della Summer of Love, possiede un’ ossimorica potenza narrativa che, nelle mani del trasgressivo regista, deflagra in un thriller contorto, scomodo e perturbante sull’infelicità della condizione umana e la caducità della vita. Abbandonate le atmosfere gotiche e messi da parte – per un attimo – gli orrori del passato, Reeves si concentra sugli incubi del presente che lo circonda, girando un film intimo e crepuscolare che sintetizza il disagio esistenziale che avrebbe avvelenato la sua generazione. Figlio insoddisfatto di quei “giovani arrabbiati” appartenenti alla classe media britannica inquadrata dal drammaturgo John Osborne in Ricorda con rabbia del 1956, l’autore conferma la sua visione critica e nichilista del mondo, anticipando alcuni del temi caldi (il dualismo libertà/paura, il conflitto generazionale, la brutalità senza giustificazione) di quel “cinema della crudeltà” che avrebbe influenzato nel giro di qualche anno i cineasti d’oltreoceano, profetizzando il collasso imminente degli ideali utopici di pace amore in favore di quelli più crudi e realisti di violenza e indignazione. Un risultato invidiabile per un regista di ventitré anni che soltanto un anno dopo avrebbe diretto il suo capolavoro: Il grande inquisitore.

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Michael Reeves Boris Karloff Catherine Lacey Ian Ogilvy 85 minuti
Gran Bretagna 1967
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Un’altra vita - Mug

di Emanuele Di Nicola
Un'altra vita - Mug di Malgorzata Szumowska

Cambiare volto è una grande ossessione del cinema. Si tratta di un sogno-incubo, forse, iscritto nello statuto stesso dell’immagine, nelle sue dissolvenze e sovrimpressioni, nella possibilità di far svanire una figura e mostrarne subito un’altra diversa, da sovrapporre, cambiare di continuo. Un’ossessione che dopo un secolo e un quarto non si consuma ma rinnova, slittando dai classici ai contemporanei, da Occhi senza volto di Georges Franju a La pelle che abito di Pedro Almodovar, dal colosso di genere al kitsch sublime, da Face/Off di John Woo a Il volto di un’altra di Pappi Corsicato. E si intitola “volto” anche il film di Malgorzata Szumowska, o meglio “faccia”, in polacco Twarz, nel titolo internazionale Mug e in quello italiano Un’altra vita. A cambiare faccia è qui Jacek (Mateusz Kosciukiewicz), operaio impegnato nella costruzione di un’enorme statua del Cristo in una piccola città della Polonia (“Sarà più grande di quello di Rio”). Jacek è giovane, bello, fan dei Metallica e fidanzato con la sua equivalente Dagmara (Malgorzata Gorol). Per realizzare l’atto di gigantismo della comunità cattolica subisce un incidente sul lavoro: rimasto sfigurato, la chirurgia plastica gli consegna un nuovo volto, deforme e mostruoso, non può parlare ma diventa famoso e inseguito dalla stampa.

È una commedia, il settimo lungometraggio della regista polacca che ha vinto l’Orso d’argento alla Berlinale 2018, ovvero il gran premio della giuria guidata da Tom Tykwer. Ispirata a due eventi reali che l’autrice mescola tra loro (la costruzione della statua di Cristo a Swiebodzin e il primo trapianto di faccia in Polonia), la storia mette in parodia il proprio Paese, attraverso un microcosmo che si apre all’universale e rappresenta un’intera comunità. Regolata da laceranti contraddizioni: molto credente eppure votata al culto dell’immagine, ambiziosa nelle intenzioni ma mediocre nella sostanza, come la parabola di Jacek dimostra. Quando vede il nuovo volto la ragazza lo lascia. La comunità non lo riconosce più e lo rende escluso. Oltre alle parole perfino i suoi cari non sanno accoglierlo pienamente, sono respinti dalla deformità e difficoltà di parola, mentre lui tenta di gestire - con la sorella - l’improvvisa notorietà e volgerla a suo vantaggio.

Szumowska stigmatizza la Polonia cattolica spingendo sul pedale del grottesco: sono ridicole le figure dei preti, pedine tragicomiche che possono compiere un esorcismo come eseguire un’ambigua confessione. Patetica allo stesso modo è la società che concede loro credito acritico, che non mette in discussione. La seconda faccia di Jacek fa allora da grimaldello e forza le ipocrisie, le quali c’erano anche prima ma non venivano notate perché, semplicemente, se ne faceva parte: già all’inizio era assurdo edificare l’immensa statua in mezzo al nulla, la collettività già si reggeva su un equilibrio di facciata. Dopo l’incidente diventa solo più evidente: Jacek è lo stesso metallaro di paese bullo e sboccato, è cambiato il volto ma non la sostanza. La violazione della forma, però, è insopportabile per il mondo intorno: basta un momento e lo sguardo degli altri si è radicalmente modificato, così la loro condotta e la ricaduta su Jacek. Essere deformi è inaccettabile per la devota comunità, che crea dunque il suo “uomo elefante” bevitore e appassionato di heavy metal. È proprio nel discorso sull’immagine che Twarz esce dal particolare: lascia la piccola realtà e ci riguarda direttamente, perché investe il nostro modo di vedere e la disponibilità o meno ad accettare una deviazione dalla norma, un deragliamento dal binario della presunta normalità.

Tutte riflessioni che non sottraggono Un’altra vita dalla sua essenza costante: un racconto sullo stato della Polonia che sempre a essa si riferisce, all’ipocrisia cattolica che costruisce cattedrali nel deserto ma non accorda solidarietà a una vittima. La sua ironia denuncia un limite, un pensiero corto. C’era un film simile alla Berlinale 2019: God Exists, Her Name is Petrunya di Teona Strugar Mitevska, che sposta la questione in Macedonia e la scrive al femminile, ma conferma la medesima sostanza, l’arretratezza di un contesto religioso lì anche maschilista. Szumowska tira i fili della commedia tra assurdità e parolacce, tra hard rock e Gigi D’Agostino (esilarante la base de L’amour toujours che enfatizza l’idillio tra fidanzati), crea facili simboli e metafore, inscena un assedio al supermercato da comicità alla Jerry Lewis (Dove vai sono guai!, 1963), è animata da un furore buñueliano ammazza-preti: raccoglie meno di quello che semina, alla fine, perché il suo cinema è fuori tempo massimo, il dispositivo che propone con entusiasmo è già datato. La satira di costume e l’assurdo politico fanno suonare nella mente parecchie campanelle. Una volta afferrato il messaggio diventa tutto chiaro, evidente. Però il film fa ridere, a tratti molto, e va bene anche così.

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Malgorzata Szumowska Mateusz Kosciukiewicz Malgorzata Gorol 91 minuti
Polonia
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Il lago di Satana

di Leonardo Strano
Il lago di Satana - recensione film michael reeves

Una tensione letteraria e uno sforzo memoriale introducono potenziali sguardi increduli alla storia e all’ambiente de Il lago di Satana di Michael Reeves. Mentre l’erede del Conte Van Helsing racconta del mancato esorcismo di una strega uccisa nella Transilvania del XIX secolo, e della promessa di un ritorno vendicativo da parte della stessa, nei giorni dell’anniversario della sua morte due turisti inglesi piombano nella zona del racconto, ignari del male che da secoli attende e ora incombe su di loro. È questo il presupposto narrativo che introduce una storia di violenza e colpa, attraverso cui il regista inglese inizia la sua trilogia sul male: una spinta di genere semplice, per certi versi grossolana ma anche allo stesso tempo carica di significati nascosti, illuminati a posteriori da un ragionamento in prospettiva.

Malgrado sia facile snobbare la qualità di questo film, è infatti interessante rintracciare nella sua grammatica diversi elementi poi sviluppati dalla breve filmografia successiva del cineasta, che qui era in pura e libera sperimentazione. È quindi possibile fare una dietrologia archeologica sulla messa in scena allo sbando colpevole magari di snaturare il film dalle sue intenzioni narrative ma giustificata dalla ricerca filologica di un quadro più ampio e dall’intensità teorica del regista. In questo film girato a basso costo in Italia, pertanto si propone un discorso sull’esistenza del male nella società contemporanea che per efficacia e ispirazione non solo stupisce ma addirittura supera la cornice narrativa di serie b e il bassissimo costo della produzione – capace comunque di fare sembrare l’Italia rurale tanto inospitale quanto la terra di Dracula.

Il regista ragiona su una modernità che non conosce la storia e cerca di inquadrarsi su una mappa razionale, non comprendendo la possibilità di un percorso fuori dalla mappa, fuori dal senso. La identifica in due protagonisti che non solo scambiano, forti della loro ratio, il misticismo antico per superstizione finalizzata al turismo, ma neanche capiscono l’entità del pericolo. Il film li classifica come vittime inconsapevoli alla cui fine è facile assistere: mentre essi infatti non colgono i segni del male, li coglie invece lo spettatore, che dalla posizione extra-diegetica comprende il presagio contenuto nelle immagini. La tecnica espressiva di Reeves è in questo senso fulminante, perché dall’immagine in quiete propone un ragionamento intelligente sul percorso di svelamento del maligno: permettendo di comprenderne la direzione - nella messa in scena è sempre già dichiarata l’intenzione - e suggerendo comunque la sua natura inarrestabile, il giovane regista comunica al di là dello schermo il percorso di un’entità millenaria che travolge l’uomo sia come forza esterna sia come virus interno non rilevato.

All’interno di una narrazione molto semplice e a tratti sconclusionata, la regia rintraccia il passaggio del male dal paesaggio fisico a quello mentale. Per farlo in primis trasforma, attraverso continui simbolismi, il racconto in una metafora antropologica che vede nel lago della strega il centro logico-geografico di una Storia riscritta. In questo modo delinea il percorso di evoluzione di un male presente nell’aria, concretizzato nelle azioni del passato, rimosso nelle profondità lacustri e nell’inconscio civile, e risvegliato dal confronto con lo specchio del lago, capace di ribaltare e portare a galla la violenza sedimentata nei secoli. Il focus passa poi all’individuo, che sembra civile e invece, quando scatena la violenza repressa, si rivela spietato quanto i diavoli: il film avvicina la violenza del mostro a quella dell’umano mediante il montaggio alternato e trovando nei connotati alienati della protagonista (Barbara Steele) una promessa di metamorfosi. Il racconto è orrorifico perché mette in risalto l’assenza di differenza che intercorre tra l’uomo e il vampiro, universalizzando la natura del male e al contempo suggerendo che la sua entità mistica si è attecchita negli uomini anche nel mondo contemporaneo.

Infine, il film chiude la sua teoria ontologica nel modo migliore: non tanto con la lunga sequenza di inseguimento comico (utile a parodizzare il regime comunista del paese) - posizionata nel terzo atto per alleggerire il dramma e giustificare la risoluzione nel salvataggio romantico -, quanto con le ultimissime inquadrature, che intelligentemente contraddicono la positività dell’ultimo atto. Il finale non salva i personaggi e il mondo dal male, anzi. Dopo aver riscritto la Storia inseguendo il suo percorso, averlo rintracciato nella violenza dell’’uomo e promesso il disastro in continuazione, la chiusura invece di siglare il satanico nei limiti dello schermo e del racconto (con un esorcismo) lo spinge -  con un’inquadratura che sussurra la sua dispersione nel paesaggio e un finale aperto che fa crescere il seme del dubbio – verso il mondo, lasciandolo imprendibile e irrisolto. In questo modo trascende davvero la dinamica narrativa e sposta il discorso al di là dell’orizzonte dell’immagine, promettendo in qualche modo di voler tornare a ragionare al riguardo.

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Michael Reeves Barbara Steele John Karlsen Ian Ogilvy 79 minuti
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Hellboy

di Matteo Berardini
hellboy - recensione film neil marshall

Time to meet the devil, again. A quindici anni dal primo adattamento di Guillermo del Toro, il diavolo rosso di Mike Mignola torna sul grande schermo, e lo fa con un reboot che sta ricevendo schiaffi da tutte le parti: critica, pubblico, aggregatori online, l’Hellboy di Neil Marshall sembrerebbe un’operazione nata male e finita peggio, già sconfitta e dimenticata, eclissata per di più dall’imminente uscita di Avengers Endgame. Il giudizio pare unanime, e schiaccia il film con l’accusa di essere un giocattolone splatter dagli effetti digitali scadenti e l’umorismo sopra le righe, violenza efferata e trama essenziale. Tutto vero, verissimo, e proprio per questo il nuovo Hellboy ci sembra un film da difendere e di cui godere, mani artigliate a un secchio di popcorn, occhi spalancati per l’ennesima bordata di sangue, orecchie catturate dalla doppia cassa metal della colonna sonora: è la serie b bellezza, un adattamento rozzo e sgarbato che irrompe sulla scena del cinecomic come un ospite imbucato e inatteso al ballo del liceo, già ubriaco e molesto, pronto a tirare testate e sbeffeggiare tutti gli invitati vestiti a puntino.

Nel 2008 usciva The Golden Army, il secondo capitolo firmato da del Toro e probabilmente tra i migliori cinecomic di sempre. Nel film il regista messicano riusciva a sfruttare al meglio l’incontro delle sue grandi ossessioni, la passione gotica per il freak e il mondo sotterraneo da una parte e la riflessione umanista sul rapporto tra il mostruoso e la norma dall’altra. Il suo Hellboy è un eroe malinconico e ombroso, tormentato da una doppia natura umano-demoniaca che ciclicamente lo porta a interrogarsi sul proprio ruolo nel mondo e sul concetto stesso di umanità. Nelle mani di Neil Marshall – inizio cinematografico più che promettente con Dog Soldiers e The Descent, prima di smarrirsi e ritornare a colpire solo con pochi, fenomenali, episodi tv di Game of Thrones – il fumetto di Mignola diventa la base per un’operazione radicalmente opposta, che conserva quel tanto di dimensione psicologica necessaria a inquadrare il dilemma del personaggio ma non indugia in crisi e tormenti interiori.

Incarnato a dovere da David Harbour, già sceriffo di Stranger Things, l’Hellboy di Marshall si basa sugli aspetti più irriverenti e stilizzati della saga, che vengono spinti al massimo livello; dimenticate le atmosfere gotiche e lovecraftiane delle prime avventure cartacee, l’inquietudine di un eroe in cerca del suo posto nel mondo, questo è il momento di combattimenti splatter e ritmo heavy metal, spiriti vomitati e demoni giganti, mostruosità disarticolate e streghe cadaveriche. Entriamo in sala temendo l’ennesimo cinecomic squadra e righello, dramma interiore o umorismo ammiccante, e invece Hellboy fa piazza pulita di tutti questi modelli precotti con una spazzata del suo arto gigante, disinteressato a narrazioni di (preteso) alto livello e pronto anzi a sporcarsi le mani con l’eccesso, il gore, l’adrenalina della violenza grafica e stilizzata. Tutto nel film appare sopra le righe, dalla carichissima color correction alla recitazione enfatizzata, dallo svolazzare di frattaglie e materia grigia alla mitragliata di battute bad ass strappate alla serie z degli anni ’80, ma in un cinema blockbuster sempre più plastificato e attento al compitino è una gioia trovare un tale livello di libertà e incoscienza, di divertimento del fare che diventa gioia del vedere. Lasciate perdere aggregatori e incassi deludenti, il film diverrà un piccolo cult.

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Neil Marshall David Harbour Milla Jovovich Ian McShane Sasha Lane 120 minuti
USA 2019
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Oro verde - C'era una volta in Colombia

di Riccardo Bellini
Oro verde - recensione film Guerra

Deserto di Guajira, Nord Colombia. Fine anni Sessanta. I discendenti dei nativi Wayuu vivono ancora in comunità ancorate a una dimensione ancestrale, in cui l’economia è basata sul baratto, si praticano riti propiziatori per scacciare i fantasmi e la famiglia viene prima di ogni altra cosa. Tra questi il giovane Rapayet vorrebbe sposare la bella Zaida e per acquistare la dote richiesta inizia a commerciare marijuana. In pochi anni, diventa un ricco narcotrafficante le cui scelte scatenano un bagno di sangue tra famiglie rivali. A sintetizzarla in questo modo la trama di Oro verde - C’era una volta in Colombia sembra ridursi alla rappresentazione di una società arcaica le cui tradizioni vengono spazzate via dall’avvento della macchina capitalista. Ma il film che inaugura il sodalizio alla regia tra Ciro Guerra e la sua produttrice Cristina Gallego fa di più e ribalta la prospettiva, indirizzando piuttosto lo sguardo sul dramma di un popolo talmente incapace di elaborare le traumatiche trasformazioni operate dal business del narcotraffico, da avvilupparsi in un rapporto soverchiante e alienato con i propri miti.

I registi colombiani declinano il gangster movie secondo un approccio antropologico, ma lo calano in una dimensione spirituale e a tratti allucinata, vero fulcro dell’operazione. Se infatti titolo e sottotitolo italiani sottolineano furbescamente la componente crime - con ovvia strizzata d’occhio a Narcos e affini -, il titolo originale (Pájaros de verano) e quello internazionale (Birds of Passage) pongono invece l’accento sugli aspetti irrazionali e folkloristici. I Pájaros de verano sono infatti uccelli di sventura, presagi tra i tanti che scandiscono la storia di Rapayet e della sua famiglia, fino alla sciagura finale. Tutto il film è così pervaso da un’atmosfera mortuaria e fatalista, che Gallego e Guerra - molto più abile però nel precedente e bellissimo El abrazo de la serpiente a coniugare antropologia e visionarietà - infarciscono con sequenze oniriche di magrittiana ispirazione e un commento sonoro di ineluttabile tragicità. Tutto per arrivare al paradosso del film, mano a mano che il sistema di codici e tradizioni, che prima garantiva la resistenza identitaria di un popolo all’avanzare della modernità, si trasforma al contrario in un caos abbacinante di simbolismi e superstizioni che allentano il legame con la realtà, fino a renderne impossibile la corretta interpretazione.

Personaggio cardine di Oro verde è in tal senso l’anziana Ursula, la saggia vaticinatrice che riesce sì ad avvertire il pericolo proveniente dall’esterno ma finisce con attribuire il declino della famiglia all’infrazione di patti inviolabili e forze oscure, piuttosto che alla corruzione operata da un illusorio e repentino benessere. Sono questi gli anni della bonanza marimbera, il fenomeno che, dalla metà degli anni Settanta, trasformò la Colombia in uno dei massimi Paesi esportatori di marijuana, con conseguenze destinate a riflettersi sull’economia mondiale. Anni in cui gli asini cominciano a essere sostituiti da macchine costose e vendere droga diventa del tutto normale per intere comunità, all’interno delle quali sopravvivono al contempo leggi secolari non scritte da osservare con il più rigoroso e timorato rispetto. Gli anni in cui un antico microcosmo si appresta ad essere svuotato dal suo interno, per essere infine riplasmato e venduto dal mercato globale. Un collasso che è anche quello dell’immaginario, qui indicato dall’azione esercitata sul genere cinematografico: dai brevi squarci semi-documentaristici alla deriva action (tipicamente americana) del finale.

Oro verde mette in scena la storia di un suicidio culturale e morale inevitabile, senza preoccuparsi di approfondire le cause ma concentrandosi piuttosto sulle conseguenze. Lo fa non certo senza limiti, tra cui il rischio di risultare ripetitivo e spesso privo di quella forza visionaria che, qua e là, resta soltanto evocata, non del tutto capace di incidere fino in fondo sull’esperienza spettatoriale. Purtroppo non siamo ai livelli di quel viaggio terribile ed epico attraverso il cuore di tenebra che era El abrazo de la serpiente, in cui la follia prodotta dall’ingerenza occidentale sulle culture aborigene dell’Amazzonia era supportata da una maggiore potenza narrativa ed espressiva, oltre che da una più ricca varietà di temi. Siamo comunque di fronte a un’opera di un certo interesse, capace, almeno nei suoi propositi, di scansare le vie più scontate.

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Ciro Guerra Cristina Gallego Natalia Reyes Jose Acosta Carmina Martinez 125 minuti
Colombia, Danimarca 2018
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