Senza lasciare traccia

di Tamara Gasparini
Senza lasciare traccia - recensione film Granik

Debra Granik ritorna, otto anni dopo Un gelido inverno, a una storia di marginalità, resistenze e sopravvivenza. Una storia di padri e figlie, di convivenza e divergenza, di bisogni e abbandoni, dentro un’America che sceglie di curare i propri traumi lontano dal progresso, alla ricerca di nuove (e vecchie) frontiere, tra civiltà e wilderness, dove rifondare se stessiSenza lasciare traccia ci immerge nel verde dei boschi del grande Nord Ovest americano, nei dintorni di Portland, e racconta la “disobbedienza civile” del reduce di guerra Will (Ben Foster) e della figlia preadolescente Tom (la nuova scoperta Thomasin Harcourt McKenzie), osservati nel loro simbiotico adattamento a una natura edenica e incontaminata, divenuta, da tempo, casa (per Tom) e rifugio (post-traumatico per Will), fino a che rangers e assistenti sociali non li scoprono per integrarli (invano) in un ordine sociale prestabilito.

Frontiere geografiche e frontiere interiori si mescolano in questo film che è una tenera ballata sulle relazioni umane e sulle corrispondenze tra individui e luoghi in cui vivere. Lo sguardo della Granik si posa amorevolmente sulle figure degli esclusi di questa America remota e poco conosciuta. In Un gelido inverno era una giovanissima Jennifer Lawrence ad agire in un mondo rurale e feroce di povertà atavica, in cui imparare a sopravvivere dopo la scomparsa di un padre finito chissà dove. Nel documentario Stray Dogs i bikers veterani del Vietnam sono outsiders come Will, guastati dalle politiche del paese e troppo fuori controllo per integrarsi (ancora) nella macchina sociale che li ha creati.  

Leave No Trace - ispirato al romanzo My Abandonment (2009) di Peter Rock - respira letterariamente Walt Withman e la vita nei boschi del Walden di Thoreau, ma si nutre anche delle canzoni di Woody Guthrie, degli inni alla libertà del viaggio della cultura beat, del nomadismo hobo e dello spirito pionieristico alla base della fondazione del paese. Si appropria dei miti fondativi della cultura americana senza però romanticizzare nulla. Molto lontano da un film gemellare per tema (ma sensibilmente differente) come Captain Fantastic, più caustico e appariscente, l’opera della Granik si rivolge a uno spaccato umano vicino a certi lavori di Kelly Reichardt (soprattutto Old Joy e Wendy and Lucy) nel trattare un Altrove americano da attraversare per trovare il proprio posto, calando la storia in un minimalismo narrativo privo di climax, senza indicare cosa è giusto, senza eroi e senza antagonisti, al riparo da facili sentimentalismi e lezioni morali.

Lo stile è dimesso, l’occhio della regista, discreto e ravvicinato ai personaggi, aderisce al loro sentire e al respiro della foresta; a tratti ha un incedere documentaristico, come se volesse cogliere, con interesse antropologico, le relazioni all’interno delle comunità più sperdute di un’America viscerale - nascosta allo sguardo di un turista ma profondamente reale - che non cerca un paradiso perduto ma ha smarrito da tempo la fiducia nelle promesse di un sogno (o semplicemente a quel sogno non ha mai creduto).
Padre e figlia non riescono a fare dell’America urbanizzata moderna un posto in cui sentirsi a casa e troveranno durante la fuga da ogni integrazione possibile altri individui come loro. Uomini e donne che vivono in case mobili, senza possedere nulla se un desiderio di isolamento e libertà. Troveranno canzoni intorno al fuoco dove ritrovarsi per stare insieme. Non c’è solitudine, non c’è l’America spietata e crudele di Un gelido inverno qui. C’è il cuore di un paese che viene in soccorso gli uni degli altri, come dentro un alveare.

Il film segue l’evoluzione del legame padre-figlia trasformando il racconto in un coming of age. Mentre Will si porta dentro i disturbi di una guerra che sta ancora combattendo con se stesso, impossibilitato a vivere sotto un tetto che non sia quello della volta celeste delle foreste dell’Oregon, Tom sviluppa un desiderio diverso a quello del genitore che costringerà entrambi a un duro confronto e maturazione.
Leave no trace è una folk song d’amore tra un padre e una figlia - che imparano l’uno dall’altra vicendevolmente ad aiutarsi e lasciarsi liberi di trovare il proprio posto nel mondo - ma anche tra un’autrice e il paesaggio umano che popola i margini, senza urlare denunce ma con sguardo emotivamente e umanamente partecipe.

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Debra Granik Ben Foster Thomasin McKenzie Jeff Kober Dale Dickey 109 min
USA 2018
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Il killer di Satana

di Jacopo Bonanni
Il killer di Satana - recensione film

Prendete un ragazzo precoce di appena vent’anni; inoculategli una passione viscerale per la settima arte e un talento visionario tale da rendergli impreciso il confine tra realtà e finzione; aggiungete un cupo destino di suicidio e malattia; collocate la sua fulminante carriera nell’Inghilterra borghese e benpensante del secondo dopoguerra, pervasa dai fremiti beat e dalle fantasie lisergiche della Swingin London; inquadrate il tutto in un arco di tempo che va dall’epoca appena trascorsa della Nouvelle vague ai vagiti furiosi della New Hollywood; non dimenticate il mondo del “cinema di genere”  in pieno fermento e avrete un’idea di quella miscela esplosiva che ha contribuito a consacrare post-mortem la tormentata figura di Michael Reeves come una vera e propria rockstar nel panorama dell’ horror britannico a cavallo degli anni sessanta.

Morto a soli venticinque anni nel 1969 per un’overdose di barbiturici, alle spalle un trittico di film “maledetti” diventati a pieno titolo dei cult tra gli appassionati, l’inquieto regista inglese incarna la quintessenza del leggendario motto live fast, die young. Un mantra che lo iscrive di diritto – seppure fatalmente in anticipo – nel Club 27 di cui entreranno a far parte altri celebri e talentuosi coetanei (Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin), simboli - a loro volta - di quel mix letale di genio e sregolatezza che ha contraddistinto la “rabbia giovane” di una società in odore di contestazione. Reeves è quello che oggi potremmo definire un enfant prodige a tutti gli effetti; folgorato in tenera età dai lavori rivoluzionari di due autori fuori dagli schemi come Jean-Luc Godard (Fino all’ultimo respiro) e Don Siegel (L’invasione degli ultracorpi) – da cui eredita lo spirito anarchico e radicale – il ragazzo non ancora maggiorenne abbandona gli studi canonici determinato ad impugnare la macchina da presa.

Dopo una serie di acerbi cortometraggi – tra cui spicca il seminale Intrusion del 1961 – l’aspirante regista inizia a collaborare, supportato dello stesso Siegel, come assistente alla regia in alcune piccole produzioni internazionali (The Long Ships, Il castello dei morti vivi, 1964), fino ad approdare finalmente dietro la macchina da presa all’età record di ventidue anni. Reeves esordisce sul grande schermo con Il lago di Satana: un modesto film gotico, nato sulla scia del successo de La maschera del demonio” di Bava, con protagonista – ancora una volta – l’iconica Barbara Steele nel ruolo di una strega rediviva in cerca di vendetta. Sebbene sia ingiusto parlare di una falsa partenza, la pellicola non risulta particolarmente memorabile a causa di un budget ridotto e un script privo di spessore;tuttavia l’opera prima di Reeves viene riscattata da una pregevole confezione estetica, da un’efficace costruzione della tensione ma soprattutto da una rappresentazione scrupolosa della violenza in grado di scioccare lo spettatore, tanto da riscuotere un discreto consenso da parte del pubblico e garantire al regista una seconda possibilità per dimostrare il suo talento ancora inespresso.

La svolta decisiva arriva nel 1967, quando l’amico d’infanzia e collaboratore Tom Burke gli sottopone la promettente sceneggiatura di Terror for Kicks: un torbido fanta-horror scritto insieme a John Burke e palesemente ispirato al film di Kurt Neumann L’esperimento del Dottor. K del 1958. La sceneggiatura del lungometraggio – ribattezzato Il killer di Satana – è stata già approvata dalla Compton Group, un’intraprendente casa di produzione inglese che ha da poco finanziato i primi lavori di Roman Polanski e che lascia carta bianca a Reeves, mettendolo in contatto con una vecchia gloria del cinema horror di nome Boris Karloff.

Nel film il divo ottuagenario interpreta Marcus Monserrat, un malinconico dottore – più simile ad un mago in pensione che ad un accademico istituzionale – che intrappolato in un’epoca che non gli appartiene e deriso dalla comunità scientifica per le sua ardite teorie viene persuaso dalla sinistra moglie Estelle – la mefistofelica Catherine Lacey – a condurre un perverso e mesmerico esperimento cui sta lavorando in segreto da anni. Il piano della diabolica coppia consiste nella possibilità di impossessarsi della volontà di un soggetto mentalmente instabile per “vampirizzarne” l’energia psichica e controllarne a distanza le azioni, grazie ad un avveneristica macchina costruita appositamente dal dottore. Per collaudarla i due lugubri personaggi scelgono di adescare il giovane Mike Roscoe (Ian Ogilvy), un mod annoiato e in cerca di evasione – simile per molti aspetti al viveur di Michael Caine visto nel film Alfie del 1966 – uno scapestrato dongiovanni pronto a sottoporsi volontariamente all’operazione allettato dal miraggio di poter sperimentare «un’estasi senza conseguenze e un piacere senza assuefazione». Ma da sogno psichedelico a bad trip allucinogeno il passo è breve.

Una volta entrati nella mente e nel corpo dell’ignara vittima, i due coniugi paleseranno violentemente le pulsioni contrastanti che li animano: da una parte quella lucida, empatica, paternalista del professore disposto a liberare il ragazzo; dall’altra quella sadica, egoista e matrigna della moglie che, soggiogato il marito, si impadronirà con la forza della coscienza di Mike, ridotto ormai a una marionetta sanguinaria al servizio dei deliri di onnipotenza della decrepita aguzzina. È un caleidoscopio abbagliante di crimini, delitti e soprusi quello a cui assistiamo inermi – come il protagonista – attraverso gli occhi febbrili della videocamera che lo insegue morbosamente, ogni volta che uccide, fino a sprofondare con lui nel turbine di follia e depravazione che divorerà per sempre la sua gioventù. Fino alla conclusione di un finale anticatartico che non risparmierà nessuno dei tre attori invischiati in questo perverso gioco psicologico al massacro.

Colpevolmente dimenticato dalla critica, Il killer di Satana si rivela in realtà un piccolo miracolo all’interno dell’imbolsita produzione inglese di genere degli anni sessanta, divisa ancora tra i film di spionaggio di James Bond e le reiterate pellicole horror della Hammer. La sordida storia della coppia di anziani parassiti, che cercano di cannibalizzare la giovinezza perduta per riscattarsi da un’esistenza frustrata, consumata negli squallidi sobborghi della debordante capitale britannica alle soglie della Summer of Love, possiede un’ ossimorica potenza narrativa che, nelle mani del trasgressivo regista, deflagra in un thriller contorto, scomodo e perturbante sull’infelicità della condizione umana e la caducità della vita. Abbandonate le atmosfere gotiche e messi da parte – per un attimo – gli orrori del passato, Reeves si concentra sugli incubi del presente che lo circonda, girando un film intimo e crepuscolare che sintetizza il disagio esistenziale che avrebbe avvelenato la sua generazione. Figlio insoddisfatto di quei “giovani arrabbiati” appartenenti alla classe media britannica inquadrata dal drammaturgo John Osborne in Ricorda con rabbia del 1956, l’autore conferma la sua visione critica e nichilista del mondo, anticipando alcuni del temi caldi (il dualismo libertà/paura, il conflitto generazionale, la brutalità senza giustificazione) di quel “cinema della crudeltà” che avrebbe influenzato nel giro di qualche anno i cineasti d’oltreoceano, profetizzando il collasso imminente degli ideali utopici di pace amore in favore di quelli più crudi e realisti di violenza e indignazione. Un risultato invidiabile per un regista di ventitré anni che soltanto un anno dopo avrebbe diretto il suo capolavoro: Il grande inquisitore.

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Michael Reeves Boris Karloff Catherine Lacey Ian Ogilvy 85 minuti
Gran Bretagna 1967
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Un’altra vita - Mug

di Emanuele Di Nicola
Un'altra vita - Mug di Malgorzata Szumowska

Cambiare volto è una grande ossessione del cinema. Si tratta di un sogno-incubo, forse, iscritto nello statuto stesso dell’immagine, nelle sue dissolvenze e sovrimpressioni, nella possibilità di far svanire una figura e mostrarne subito un’altra diversa, da sovrapporre, cambiare di continuo. Un’ossessione che dopo un secolo e un quarto non si consuma ma rinnova, slittando dai classici ai contemporanei, da Occhi senza volto di Georges Franju a La pelle che abito di Pedro Almodovar, dal colosso di genere al kitsch sublime, da Face/Off di John Woo a Il volto di un’altra di Pappi Corsicato. E si intitola “volto” anche il film di Malgorzata Szumowska, o meglio “faccia”, in polacco Twarz, nel titolo internazionale Mug e in quello italiano Un’altra vita. A cambiare faccia è qui Jacek (Mateusz Kosciukiewicz), operaio impegnato nella costruzione di un’enorme statua del Cristo in una piccola città della Polonia (“Sarà più grande di quello di Rio”). Jacek è giovane, bello, fan dei Metallica e fidanzato con la sua equivalente Dagmara (Malgorzata Gorol). Per realizzare l’atto di gigantismo della comunità cattolica subisce un incidente sul lavoro: rimasto sfigurato, la chirurgia plastica gli consegna un nuovo volto, deforme e mostruoso, non può parlare ma diventa famoso e inseguito dalla stampa.

È una commedia, il settimo lungometraggio della regista polacca che ha vinto l’Orso d’argento alla Berlinale 2018, ovvero il gran premio della giuria guidata da Tom Tykwer. Ispirata a due eventi reali che l’autrice mescola tra loro (la costruzione della statua di Cristo a Swiebodzin e il primo trapianto di faccia in Polonia), la storia mette in parodia il proprio Paese, attraverso un microcosmo che si apre all’universale e rappresenta un’intera comunità. Regolata da laceranti contraddizioni: molto credente eppure votata al culto dell’immagine, ambiziosa nelle intenzioni ma mediocre nella sostanza, come la parabola di Jacek dimostra. Quando vede il nuovo volto la ragazza lo lascia. La comunità non lo riconosce più e lo rende escluso. Oltre alle parole perfino i suoi cari non sanno accoglierlo pienamente, sono respinti dalla deformità e difficoltà di parola, mentre lui tenta di gestire - con la sorella - l’improvvisa notorietà e volgerla a suo vantaggio.

Szumowska stigmatizza la Polonia cattolica spingendo sul pedale del grottesco: sono ridicole le figure dei preti, pedine tragicomiche che possono compiere un esorcismo come eseguire un’ambigua confessione. Patetica allo stesso modo è la società che concede loro credito acritico, che non mette in discussione. La seconda faccia di Jacek fa allora da grimaldello e forza le ipocrisie, le quali c’erano anche prima ma non venivano notate perché, semplicemente, se ne faceva parte: già all’inizio era assurdo edificare l’immensa statua in mezzo al nulla, la collettività già si reggeva su un equilibrio di facciata. Dopo l’incidente diventa solo più evidente: Jacek è lo stesso metallaro di paese bullo e sboccato, è cambiato il volto ma non la sostanza. La violazione della forma, però, è insopportabile per il mondo intorno: basta un momento e lo sguardo degli altri si è radicalmente modificato, così la loro condotta e la ricaduta su Jacek. Essere deformi è inaccettabile per la devota comunità, che crea dunque il suo “uomo elefante” bevitore e appassionato di heavy metal. È proprio nel discorso sull’immagine che Twarz esce dal particolare: lascia la piccola realtà e ci riguarda direttamente, perché investe il nostro modo di vedere e la disponibilità o meno ad accettare una deviazione dalla norma, un deragliamento dal binario della presunta normalità.

Tutte riflessioni che non sottraggono Un’altra vita dalla sua essenza costante: un racconto sullo stato della Polonia che sempre a essa si riferisce, all’ipocrisia cattolica che costruisce cattedrali nel deserto ma non accorda solidarietà a una vittima. La sua ironia denuncia un limite, un pensiero corto. C’era un film simile alla Berlinale 2019: God Exists, Her Name is Petrunya di Teona Strugar Mitevska, che sposta la questione in Macedonia e la scrive al femminile, ma conferma la medesima sostanza, l’arretratezza di un contesto religioso lì anche maschilista. Szumowska tira i fili della commedia tra assurdità e parolacce, tra hard rock e Gigi D’Agostino (esilarante la base de L’amour toujours che enfatizza l’idillio tra fidanzati), crea facili simboli e metafore, inscena un assedio al supermercato da comicità alla Jerry Lewis (Dove vai sono guai!, 1963), è animata da un furore buñueliano ammazza-preti: raccoglie meno di quello che semina, alla fine, perché il suo cinema è fuori tempo massimo, il dispositivo che propone con entusiasmo è già datato. La satira di costume e l’assurdo politico fanno suonare nella mente parecchie campanelle. Una volta afferrato il messaggio diventa tutto chiaro, evidente. Però il film fa ridere, a tratti molto, e va bene anche così.

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Malgorzata Szumowska Mateusz Kosciukiewicz Malgorzata Gorol 91 minuti
Polonia
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Il lago di Satana

di Leonardo Strano
Il lago di Satana - recensione film michael reeves

Una tensione letteraria e uno sforzo memoriale introducono potenziali sguardi increduli alla storia e all’ambiente de Il lago di Satana di Michael Reeves. Mentre l’erede del Conte Van Helsing racconta del mancato esorcismo di una strega uccisa nella Transilvania del XIX secolo, e della promessa di un ritorno vendicativo da parte della stessa, nei giorni dell’anniversario della sua morte due turisti inglesi piombano nella zona del racconto, ignari del male che da secoli attende e ora incombe su di loro. È questo il presupposto narrativo che introduce una storia di violenza e colpa, attraverso cui il regista inglese inizia la sua trilogia sul male: una spinta di genere semplice, per certi versi grossolana ma anche allo stesso tempo carica di significati nascosti, illuminati a posteriori da un ragionamento in prospettiva.

Malgrado sia facile snobbare la qualità di questo film, è infatti interessante rintracciare nella sua grammatica diversi elementi poi sviluppati dalla breve filmografia successiva del cineasta, che qui era in pura e libera sperimentazione. È quindi possibile fare una dietrologia archeologica sulla messa in scena allo sbando colpevole magari di snaturare il film dalle sue intenzioni narrative ma giustificata dalla ricerca filologica di un quadro più ampio e dall’intensità teorica del regista. In questo film girato a basso costo in Italia, pertanto si propone un discorso sull’esistenza del male nella società contemporanea che per efficacia e ispirazione non solo stupisce ma addirittura supera la cornice narrativa di serie b e il bassissimo costo della produzione – capace comunque di fare sembrare l’Italia rurale tanto inospitale quanto la terra di Dracula.

Il regista ragiona su una modernità che non conosce la storia e cerca di inquadrarsi su una mappa razionale, non comprendendo la possibilità di un percorso fuori dalla mappa, fuori dal senso. La identifica in due protagonisti che non solo scambiano, forti della loro ratio, il misticismo antico per superstizione finalizzata al turismo, ma neanche capiscono l’entità del pericolo. Il film li classifica come vittime inconsapevoli alla cui fine è facile assistere: mentre essi infatti non colgono i segni del male, li coglie invece lo spettatore, che dalla posizione extra-diegetica comprende il presagio contenuto nelle immagini. La tecnica espressiva di Reeves è in questo senso fulminante, perché dall’immagine in quiete propone un ragionamento intelligente sul percorso di svelamento del maligno: permettendo di comprenderne la direzione - nella messa in scena è sempre già dichiarata l’intenzione - e suggerendo comunque la sua natura inarrestabile, il giovane regista comunica al di là dello schermo il percorso di un’entità millenaria che travolge l’uomo sia come forza esterna sia come virus interno non rilevato.

All’interno di una narrazione molto semplice e a tratti sconclusionata, la regia rintraccia il passaggio del male dal paesaggio fisico a quello mentale. Per farlo in primis trasforma, attraverso continui simbolismi, il racconto in una metafora antropologica che vede nel lago della strega il centro logico-geografico di una Storia riscritta. In questo modo delinea il percorso di evoluzione di un male presente nell’aria, concretizzato nelle azioni del passato, rimosso nelle profondità lacustri e nell’inconscio civile, e risvegliato dal confronto con lo specchio del lago, capace di ribaltare e portare a galla la violenza sedimentata nei secoli. Il focus passa poi all’individuo, che sembra civile e invece, quando scatena la violenza repressa, si rivela spietato quanto i diavoli: il film avvicina la violenza del mostro a quella dell’umano mediante il montaggio alternato e trovando nei connotati alienati della protagonista (Barbara Steele) una promessa di metamorfosi. Il racconto è orrorifico perché mette in risalto l’assenza di differenza che intercorre tra l’uomo e il vampiro, universalizzando la natura del male e al contempo suggerendo che la sua entità mistica si è attecchita negli uomini anche nel mondo contemporaneo.

Infine, il film chiude la sua teoria ontologica nel modo migliore: non tanto con la lunga sequenza di inseguimento comico (utile a parodizzare il regime comunista del paese) - posizionata nel terzo atto per alleggerire il dramma e giustificare la risoluzione nel salvataggio romantico -, quanto con le ultimissime inquadrature, che intelligentemente contraddicono la positività dell’ultimo atto. Il finale non salva i personaggi e il mondo dal male, anzi. Dopo aver riscritto la Storia inseguendo il suo percorso, averlo rintracciato nella violenza dell’’uomo e promesso il disastro in continuazione, la chiusura invece di siglare il satanico nei limiti dello schermo e del racconto (con un esorcismo) lo spinge -  con un’inquadratura che sussurra la sua dispersione nel paesaggio e un finale aperto che fa crescere il seme del dubbio – verso il mondo, lasciandolo imprendibile e irrisolto. In questo modo trascende davvero la dinamica narrativa e sposta il discorso al di là dell’orizzonte dell’immagine, promettendo in qualche modo di voler tornare a ragionare al riguardo.

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Michael Reeves Barbara Steele John Karlsen Ian Ogilvy 79 minuti
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Hellboy

di Matteo Berardini
hellboy - recensione film neil marshall

Time to meet the devil, again. A quindici anni dal primo adattamento di Guillermo del Toro, il diavolo rosso di Mike Mignola torna sul grande schermo, e lo fa con un reboot che sta ricevendo schiaffi da tutte le parti: critica, pubblico, aggregatori online, l’Hellboy di Neil Marshall sembrerebbe un’operazione nata male e finita peggio, già sconfitta e dimenticata, eclissata per di più dall’imminente uscita di Avengers Endgame. Il giudizio pare unanime, e schiaccia il film con l’accusa di essere un giocattolone splatter dagli effetti digitali scadenti e l’umorismo sopra le righe, violenza efferata e trama essenziale. Tutto vero, verissimo, e proprio per questo il nuovo Hellboy ci sembra un film da difendere e di cui godere, mani artigliate a un secchio di popcorn, occhi spalancati per l’ennesima bordata di sangue, orecchie catturate dalla doppia cassa metal della colonna sonora: è la serie b bellezza, un adattamento rozzo e sgarbato che irrompe sulla scena del cinecomic come un ospite imbucato e inatteso al ballo del liceo, già ubriaco e molesto, pronto a tirare testate e sbeffeggiare tutti gli invitati vestiti a puntino.

Nel 2008 usciva The Golden Army, il secondo capitolo firmato da del Toro e probabilmente tra i migliori cinecomic di sempre. Nel film il regista messicano riusciva a sfruttare al meglio l’incontro delle sue grandi ossessioni, la passione gotica per il freak e il mondo sotterraneo da una parte e la riflessione umanista sul rapporto tra il mostruoso e la norma dall’altra. Il suo Hellboy è un eroe malinconico e ombroso, tormentato da una doppia natura umano-demoniaca che ciclicamente lo porta a interrogarsi sul proprio ruolo nel mondo e sul concetto stesso di umanità. Nelle mani di Neil Marshall – inizio cinematografico più che promettente con Dog Soldiers e The Descent, prima di smarrirsi e ritornare a colpire solo con pochi, fenomenali, episodi tv di Game of Thrones – il fumetto di Mignola diventa la base per un’operazione radicalmente opposta, che conserva quel tanto di dimensione psicologica necessaria a inquadrare il dilemma del personaggio ma non indugia in crisi e tormenti interiori.

Incarnato a dovere da David Harbour, già sceriffo di Stranger Things, l’Hellboy di Marshall si basa sugli aspetti più irriverenti e stilizzati della saga, che vengono spinti al massimo livello; dimenticate le atmosfere gotiche e lovecraftiane delle prime avventure cartacee, l’inquietudine di un eroe in cerca del suo posto nel mondo, questo è il momento di combattimenti splatter e ritmo heavy metal, spiriti vomitati e demoni giganti, mostruosità disarticolate e streghe cadaveriche. Entriamo in sala temendo l’ennesimo cinecomic squadra e righello, dramma interiore o umorismo ammiccante, e invece Hellboy fa piazza pulita di tutti questi modelli precotti con una spazzata del suo arto gigante, disinteressato a narrazioni di (preteso) alto livello e pronto anzi a sporcarsi le mani con l’eccesso, il gore, l’adrenalina della violenza grafica e stilizzata. Tutto nel film appare sopra le righe, dalla carichissima color correction alla recitazione enfatizzata, dallo svolazzare di frattaglie e materia grigia alla mitragliata di battute bad ass strappate alla serie z degli anni ’80, ma in un cinema blockbuster sempre più plastificato e attento al compitino è una gioia trovare un tale livello di libertà e incoscienza, di divertimento del fare che diventa gioia del vedere. Lasciate perdere aggregatori e incassi deludenti, il film diverrà un piccolo cult.

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Neil Marshall David Harbour Milla Jovovich Ian McShane Sasha Lane 120 minuti
USA 2019
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Oro verde - C'era una volta in Colombia

di Riccardo Bellini
Oro verde - recensione film Guerra

Deserto di Guajira, Nord Colombia. Fine anni Sessanta. I discendenti dei nativi Wayuu vivono ancora in comunità ancorate a una dimensione ancestrale, in cui l’economia è basata sul baratto, si praticano riti propiziatori per scacciare i fantasmi e la famiglia viene prima di ogni altra cosa. Tra questi il giovane Rapayet vorrebbe sposare la bella Zaida e per acquistare la dote richiesta inizia a commerciare marijuana. In pochi anni, diventa un ricco narcotrafficante le cui scelte scatenano un bagno di sangue tra famiglie rivali. A sintetizzarla in questo modo la trama di Oro verde - C’era una volta in Colombia sembra ridursi alla rappresentazione di una società arcaica le cui tradizioni vengono spazzate via dall’avvento della macchina capitalista. Ma il film che inaugura il sodalizio alla regia tra Ciro Guerra e la sua produttrice Cristina Gallego fa di più e ribalta la prospettiva, indirizzando piuttosto lo sguardo sul dramma di un popolo talmente incapace di elaborare le traumatiche trasformazioni operate dal business del narcotraffico, da avvilupparsi in un rapporto soverchiante e alienato con i propri miti.

I registi colombiani declinano il gangster movie secondo un approccio antropologico, ma lo calano in una dimensione spirituale e a tratti allucinata, vero fulcro dell’operazione. Se infatti titolo e sottotitolo italiani sottolineano furbescamente la componente crime - con ovvia strizzata d’occhio a Narcos e affini -, il titolo originale (Pájaros de verano) e quello internazionale (Birds of Passage) pongono invece l’accento sugli aspetti irrazionali e folkloristici. I Pájaros de verano sono infatti uccelli di sventura, presagi tra i tanti che scandiscono la storia di Rapayet e della sua famiglia, fino alla sciagura finale. Tutto il film è così pervaso da un’atmosfera mortuaria e fatalista, che Gallego e Guerra - molto più abile però nel precedente e bellissimo El abrazo de la serpiente a coniugare antropologia e visionarietà - infarciscono con sequenze oniriche di magrittiana ispirazione e un commento sonoro di ineluttabile tragicità. Tutto per arrivare al paradosso del film, mano a mano che il sistema di codici e tradizioni, che prima garantiva la resistenza identitaria di un popolo all’avanzare della modernità, si trasforma al contrario in un caos abbacinante di simbolismi e superstizioni che allentano il legame con la realtà, fino a renderne impossibile la corretta interpretazione.

Personaggio cardine di Oro verde è in tal senso l’anziana Ursula, la saggia vaticinatrice che riesce sì ad avvertire il pericolo proveniente dall’esterno ma finisce con attribuire il declino della famiglia all’infrazione di patti inviolabili e forze oscure, piuttosto che alla corruzione operata da un illusorio e repentino benessere. Sono questi gli anni della bonanza marimbera, il fenomeno che, dalla metà degli anni Settanta, trasformò la Colombia in uno dei massimi Paesi esportatori di marijuana, con conseguenze destinate a riflettersi sull’economia mondiale. Anni in cui gli asini cominciano a essere sostituiti da macchine costose e vendere droga diventa del tutto normale per intere comunità, all’interno delle quali sopravvivono al contempo leggi secolari non scritte da osservare con il più rigoroso e timorato rispetto. Gli anni in cui un antico microcosmo si appresta ad essere svuotato dal suo interno, per essere infine riplasmato e venduto dal mercato globale. Un collasso che è anche quello dell’immaginario, qui indicato dall’azione esercitata sul genere cinematografico: dai brevi squarci semi-documentaristici alla deriva action (tipicamente americana) del finale.

Oro verde mette in scena la storia di un suicidio culturale e morale inevitabile, senza preoccuparsi di approfondire le cause ma concentrandosi piuttosto sulle conseguenze. Lo fa non certo senza limiti, tra cui il rischio di risultare ripetitivo e spesso privo di quella forza visionaria che, qua e là, resta soltanto evocata, non del tutto capace di incidere fino in fondo sull’esperienza spettatoriale. Purtroppo non siamo ai livelli di quel viaggio terribile ed epico attraverso il cuore di tenebra che era El abrazo de la serpiente, in cui la follia prodotta dall’ingerenza occidentale sulle culture aborigene dell’Amazzonia era supportata da una maggiore potenza narrativa ed espressiva, oltre che da una più ricca varietà di temi. Siamo comunque di fronte a un’opera di un certo interesse, capace, almeno nei suoi propositi, di scansare le vie più scontate.

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Ciro Guerra Cristina Gallego Natalia Reyes Jose Acosta Carmina Martinez 125 minuti
Colombia, Danimarca 2018
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Game of Thrones 8x01 - Winterfell

di Attilio Palmieri
game of thrones - recensione serie tv winterfell

Dalla fine della settima stagione di Game of Thrones è passato più di un anno e mezzo, uno iato temporale mai così lungo per la serie di HBO, che in occasione dell'annata conclusiva ha pensato di prendersi tutto il tempo necessario per evitare di commettere errori e chiudere nel migliore dei modi. È in questa atmosfera di piena bramosia che si presentano gli ultimi episodi, un clima che è sì di festa ma anche di funerale. Si tratta senza dubbio del più importante evento televisivo dell'anno, la cui importanza però è data anche dal fatto che con la conclusione di Game of Thrones finisce un rapporto tra pubblico e televisione che probabilmente non è mai stato così intenso, e che lascerà orfani milioni di fan in tutto il mondo.
All'interno di questo clima la serie tratta dai libri di George R.R. Martin si presenta con tutte le cautele del caso. La premiere Winterfell tradisce in parte il calcolo che sta alla base di ogni scelta ma si dimostra anche preparata ad affrontare gli obblighi dati dalle circostanze, che riducendo il discorso all'osso si riducono a: esaltare gli spettatori con il ritorno di qualcosa di già noto e molto amato, stupirli con sorprese inaspettate, concludere il percorso esponendosi a meno critiche possibili.

A proposito di stupore, il primo colpo di scena arriva ancora prima di entrare nella diegesi narrativa, perché è già la sigla a richiedere attenzione allo spettatore. Contrariamente a tutte le fandonie e alle retoriche da quattro soldi secondo cui le serie televisive necessiterebbero di essere apparentate al cinema per essere legittimate – logica parossistica che arriva a definire Game of Thrones non tanto un prodotto televisivo quanto un film di oltre settanta ore – questo show è un prodotto televisivo a tutti gli effetti e l'importanza conferita alla sigla è una delle tante dimostrazioni. Rispetto alla media degli show – soprattutto quella odierna, che è decisamente contratta rispetto a qualche anno fa – la sigla di Game of Thrones è tra le più lunghe e complesse, e offre ogni volta uno spunto in più sul racconto che anticipa. In questo caso però, dopo sette stagioni di solidissima continuità, la premiere è anticipata da una sigla quasi completamente nuova, che comincia con l'iconica Barriera distrutta e si avventura in spazi chiusi e misteriosi come i sotterranei di Winterfell, che a giudicare dall'importanza ricoperta avranno un ruolo determinante in questi ultimi episodi.

Passando all'episodio, si tratta di cinquanta minuti che scorrono molto rapidamente e in cui si sente in maniera chiara la volontà di fare le cose con precisione, coniugando sia le urgenze legate al disegno complessivo, sia la necessità di non far sembrare i personaggi delle marionette in balia di fattori esterni. Gli autori della serie impostano la premiere realizzando un episodio d'apertura all'insegna dell'equilibrio, che se da una parte può sembrare un democristiano non voler scontentare nessuno, dall'altra si configura la soluzione più idonea, perché le istanze da tenere in considerazione sono tantissime e spiccare su un fronte ma fallire su un altro potrebbe rivelarsi un autogol.
La ragione di una scelta simile va ricercata nelle peculiarità di questo prodotto rispetto al resto della serialità, che lo rende soggetto a prospettive analitiche differenti. Game of Thrones infatti non è uno show che può essere giudicato nella maniera tradizionale, e in questo preciso momento – la premiere della stagione conclusiva – costituisce un oggetto di studio decisamente peculiare. L'inizio della fine di Game of Thrones, infatti, sfugge alle modalità interpretative classiche perché contiene una serie di peculiari variabili e di caratteristiche specifiche che rendono l'analisi del testo estremamente più complessa e meno immediata rispetto al solito.

Da questa settimana si parla prima di tutto della fine di un colosso dell'intrattenimento e l'episodio d'apertura della stagione non può essere visto se non sotto questa luce, ovvero come un tassello narrativo che ha l'obbligo di portare questo enorme universo alla sua conclusione. A conti fatti questa premiere, rimanendo in equilibrio tra le varie storyline, riesce anche a incanalare un plot pachidermico come quello di Game of Thrones in una direzione precisa, che visto il finale dello scorsa annata non può che avere in Winterfell il suo generatore narrativo.  Allo stesso tempo, l’episodio deve anche fronteggiare la richiesta di giustificare gli enormi investimenti produttivi attraverso la realizzazione di momenti spettacolari che soddisfino le aspettative degli spettatori e in questo senso le scene di violenza, le battaglie e soprattutto l'esibizione dei draghi giocano un ruolo importante.

A proposito della necessità di tirare le fila e di fare di questo finale anche una celebrazione della serie stessa, in modo da dare ai fan esattamente ciò che vogliono, l'incipit della premiere dimostra la volontà degli autori di partire dal principio, lì dove tutto ha avuto inizio, riprendendo la sequenza del pilot in cui l'allora giovanissima Arya si spinge in alto per guarda l'arrivo di Cersei e Robert Baratheon. Allo stesso modo stavolta un ragazzino introduce la puntata arrampicandosi su un albero per vedere meglio l'entrata a Winterfell di Jon e Daenerys, accompagnati dall'esercito e dai due giganteschi draghi. Una scelta questa che denota grande intelligenza e idee molto chiare, risultando perfetta per introdurre l'ultimo atto della serie.

La necessità di riassumere uno show di queste dimensioni in un epilogo di soli sei episodi emerge anche attraverso una serie di sequenze che contrastano un po' l'una con l'altra dal punto di vista del registro utilizzato, e che proprio per questo fanno emergere la poliedricità dello show. In particolare tutta la sequenza con Jon e Daenerys a cavallo dei draghi, con la sua lunghezza estenuante, rimanda in maniera precisa alla voglia di accontentare gli amanti del fantasy attraverso l'esibizione della creatura magica per eccellenza della serie: il drago. Inoltre questo segmento narrativo si chiude con un momento ironico per certi versi inaspettato, ovvero quello dell'incrocio di sguardi tra Jon e il drago nel mezzo del bacio con la donna amata. Un momento di gelosia divertente che va ad alleggerire il tono di una serie che altrimenti rischierebbe di venire fagocitata dagli intrighi politici e dalle loro fittissime sottotrame. Come sottolineato giustamente da un ottimo articolo appena uscito su Vulture, è grazie a questa pluralità di registri che Game of Thrones è diventata una serie così apprezzata, capace di sviluppare una tonalità particolare a seconda dei personaggi e delle situazioni rappresentate, senza mai rischiare di diventare una semplice faccenda di battaglie, alleanze e tradimenti.

A proposito della gestione delle aspettative degli spettatori e della necessità di dare in pasto ai fan ciò che questi cercano, il momento del confronto tra Sam e Jon, in cui quest'ultimo viene a sapere finalmente della verità sulle sue origini, è un esempio perfetto di quello che questa premiere fa benissimo: non si tratta di una sorpresa, ma di una verità che il pubblico conosce perfettamente e che deve solo essere comunicata al protagonista nel modo migliore possibile. Per quanto riguarda invece i momenti ad alta spettacolarità, si distingue in maniera particolare l'installazione con i pezzi di Lord Umber, forse l'immagine più bella dell'episodio dal punto di vista della costruzione della tensione e della messa in quadro; una scena che risponde perfettamente alla necessità di stupire a cui si alludeva in precedenza. Tra le cose che tratteniamo da questo momento c'è anche un Night King che pur senza comparire mai fa sentire il suo peso, la sua presenza e anche la sua ironia.

Il lavoro più complicato – e per questo riuscito solo in parte – questa premiere lo deve fare su Cersei, un personaggio la cui traiettoria narrativa è ormai sempre più stretta e non pare avere tanto da fare all'interno dello show se non entrare in collisione con i suoi due fratelli. Per farlo sceglie Bronn, mercenario che è stato in passato al fianco di entrambi e che in questo caso sarà una pedina di cruciale importanza. Questa scelta è molto pericolosa perché potrebbe risultare forzata se non sviluppata bene, ma allo stesso tempo va detto che percorrere questa strada è sicuramente sensato perché utilizzare Bronn si configura forse come il modo migliore per innescare tensioni tra i tre fratelli Lannister.
Ben diverso è il lavoro fatto sulle sorelle Stark: Arya ormai è una donna adulta, pronta per un possibile love affair con Gendry, capace di dire a Jon il giusto grado di verità che gli serve e proiettata verso una stagione da protagonista (sarà interessante il rapporto col Mastino); Sansa invece è ormai una donna matura, che ha dovuto affrontare insidie che avrebbero buttato giù chiunque, uscendone però più forte e più saggia, come fa capire a Tyrion in un fulminante scambio di battute.

Game of Thrones, in conclusione, torna con una premiere molto solida, per forza di cose altamente introduttiva, ma capace di tenere in equilibrio le tante istanze a cui è chiamata a rispondere e mettere le basi per la conclusione definitiva dello show.

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Noi

di Saverio Felici
Noi - recensione film Jordan Peele

Il discorso attorno a Noi (Us) di Jordan Peele va preso alla lontana. Se il regista americano è, come sembra, destinato a essere il portabandiera dell'horror hollywoodiano nell'immediato futuro, è bene chiarire alcuni punti attorno al suo ruolo di autore, e al ruolo del genere stesso nella prospettiva da lui adottata. Sulla trama di Us nulla andrebbe detto, legato com'è il film al concetto di twist. D'altra parte, ogni tipo di considerazione che si muova al di sopra del plot sarebbe incompleta. Limitandosi a quanto desumibile dal trailer: Adelaide (Lupita Nyon'go) è rimasta traumatizzata in tenera età da una visione avuta in un labirinto degli specchi di Santa Cruz. In vacanza insieme ai genitori, si perse nella cadente attrazione sulla spiaggia (“Find Yourself!”), e vagando nel buio vide... se stessa. Trent'anni dopo Adelaide è adulta, e insieme al marito Gabe (Winston Duke) e i due figli adolescenti torna, riluttante, alla casa di famiglia nella località vacanziera californiana. La prima notte, un gruppo di inquietanti figure vestite di rosso assalta la casa con sadici intenti. Sono loro. O meglio, un gruppo di doppelgänger, versioni violente e animalesche di loro stessi, come quella che Adelaide vide da bambina tanti anni prima.

Esiste opera horror che non sia metafora di qualcosa? Ovviamente no. Ogni prodotto artistico-culturale, di qualunque genere, riverbera di significati altri rispetto al visibile. Di più, la pluralità di letture è forse la misura migliore per valutarne la complessità. In tal senso, l'orrore è da sempre cassa di risonanza psicanalitica per l'espressione di malesseri personali e universali; così come la fantascienza, per dire, mette di fronte allo spettatore la realtà presente attraverso una proiezione speculativa della stessa. Che sia voluto o no, che gli autori ci abbiano pensato oppure no.
Il discorso cambia nel momento in cui suddetti autori decidono di esplicitare la valenza simbolica del proprio lavoro, fornendo una “chiave interpretativa” a mo' di libretto di istruzioni. Così facendo, sottraggono l'opera alla sua dimensione “aperta”, riconducendola a una esplicitamente metaforica. Quanto mostrato viene spiegato, le implicazioni sotterranee vengono portate alla luce, e un prodotto potenzialmente complesso finisce inchiodato a una sola, univoca chiave di lettura. In una parola, il regista fa quello che dovrebbe essere il compito dello spettatore (e del critico): interpretare il senso del film.

Nell'horror contemporaneo, questo ricorrere alla metafora analogica è talmente radicato da essersi ormai incanalato in una scuola. “Elevated Horror”, secondo l'espressione coniata da alcuni critici americani senza senso del ridicolo; horror hipster, fighetto, pretenzioso, per i più sarcastici moviegoers. Jordan Peele è senza ombra di dubbio il re di questa forma di fiction scritta, pensata e prodotta per gente a cui l'horror non interessa. Da Babadook a It Follows, da A Ghost Story fino ovviamente a Get Out, e ora Noi: film il cui motore non è mai la rappresentazione dell'irreale, né le meccaniche inconsce della paura; piuttosto un “messaggio” che si vuol comunicare ad un pubblico (e a una critica) bisognoso che si faccia il lavoro di decodifica per lui.
Chiedersi se Us funzioni anche a prescindere dal suo apparato simbolico (si, lo fa – ed è il suo valore più grande) è dunque una domanda a trabocchetto: è lo stesso film a rimbalzare come una falena contro la non sottilissima critique di cui si fa paladino. Us vuole parlare di una cosa sola. Non c'è nulla da interpretare.

I doppelgänger di Noi non sono creature ambigue: l'idea del doppio brutale serve a Peele per innestare su una struttura molto convenzionale da home invasion la più ovvia, banale e già vista delle metafore sulle disparità sociali. Senza scendere in dettagli-spoiler (come hanno notato in molti, c'è un celebre special di Halloween dei Simpson da cui viene ripreso spunto, sviluppo e persino il twist finale), è un film che parla di Noi contro Loro, appunto, dove us (che è anche U.S.) è la società benestante del privilegio e them sono, beh, il nostro doppio “sotterraneo”. Un doppio disperato, gonfio di rancore, imitazione grottesca di ciò che noi siamo per diritto di nascita. Un'idea che ricorda in qualche modo una versione più rozza e retorica del cinema di Romero: qui non è la metafora in sé a stranire (gli zombi del maestro americano in fondo non avevano una valenza molto differente), ma l'urgenza di Peele di esplicitare, sottolineare, e in definitiva limitarne la portata simbolica, riconducendola a un rapporto uno-a-uno tra significante e significato. Un approccio che ha più della parabola che del film, un'idea di “fantastico con la morale” figliata da quel Rod Serling del quale lo stesso Peele si appresta a resuscitare Ai Confini della Realtà – e mai regista di reboot fu più azzeccato. Dunque, spiegoni a ripetizione (uno a metà, un secondo alla fine, entrambi a raccontare la stessa cosa), battute a pennarello rosso (la rivendicazione «Siamo americani!»), e molta paura di farsi capire, o di non farsi prendere sul serio

Eppure, nonostante ciò, Noi è bello. E il merito è proprio del suo regista. Perché rispetto alla infausta corrente critica di cui suo malgrado è stato eletto a messia, Us indica la presenza di un autore a cui il genere piace davvero. Di più, a differenza di altri campioni “elevated”, Peele possiede veramente il senso dell'eerie e del surreale. Se l'apparato simbolico, rozzo a livelli sconfortanti, fa di tutto per soffocare il film, l'occhio e la mano di Peele bastano a fare di Us un prodotto notevole.
Il regista si dimostra capace di gestire l'orrore attraverso non tanto il racconto (i ritmi e le meccaniche dell'home invasion sono rispettati senza guizzi), ma attraverso l'inquadratura pura. I doppelgänger sono il suo vero colpo: “mostri” estremamente sottoutilizzati al cinema, vengono resi attraverso squilibri di movenze, voci innaturali, demarcazione di alcuni lineamenti (occhi, bocca, denti) atti a creare lo squilibrio uncanny che li identifica. Un lavoro eccezionale richiesto agli attori, che rimangono l'arma principale in mano al comico Peele. La decisione, così orgogliosamente difesa dal regista, di utilizzare un cast di protagonisti all-black, rivela inoltre potenzialità cinematografiche talmente inespresse (il lavoro di fotografia sulla pelle nera nel buio è logicamente diverso da quello su attori bianchi: indimenticabile l'utilizzo degli occhi chiari di una bambina in una stanza scura) da farci rendere conto per la prima volta quanto fosse clamorosa questa mancanza etnica nel genere.

Il gran finale di Noi poi tocca livelli scenografici quasi kubrickiani: la resa estetica del mondo para-infernale degli Incatenati è potente, inquietante, e soprattutto non derivativa (a parte i conigli: dopo La Favorita, è il secondo film del 2019 in cui gli adorabili roditori simboleggiano dolore e rimpianti). Mettere in scena un'incubo che non ne ricordi nessun altro è l'attestato del regista horror capace. Sarebbe interessante a questo punto liberare Jordan Peele dall'onere di rivelare grandi realtà sulla società Usa, e lasciarlo libero di mettere in scena le proprie visioni senza bisogno di giustificarsi, e di giustificarle. Se al terzo film riuscirà a portare sullo schermo un'esperienza che non sia un temino su “il Razzismo” o “la Povertà”, potrà finalmente mostrare senza orpelli di cosa è capace.

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Jordan Peele Lupita Nyong'o Winston Duke Elisabeth Moss Tim Heidecker 116 minuti
USA 2019
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Border - Creature di confine

di Pietro Lafiandra
Border - creature di confine - recensione film

Prima che, nella metà dell’Ottocento, Charles Darwin sconvolgesse il panorama sociale con il suo L’origine della specie, infiltrandosi in ambito religioso, scientifico e artistico, l’animale veniva considerato in termini puramente oppositivi all’umano, ricoprendo la funzione di specchio oscuro, ricettacolo di tutti gli istinti più bui (la sessualità degenere, la sopraffazione dell’altro, il desiderio mortifero) — istinti non a caso definiti “bestiali” o, appunto, “animali” — che l’uomo prova ad allontanare dall’idea morale di sé.

Satana raffigurato con corna caprine. Pasifae che, nel mito della nascita del Minotauro, chiede a Dedalo di costruirle un costume da giovenca per dare sfogo ai suoi desideri di zoorastia. Il trattamento riservato ai freaks e ai feral boys per tutto l’Ottocento. La nostra cultura pullula di esempi in cui l’animale viene utilizzato come paragone dispregiativo o considerato strumento demoniaco. Il saggio di Darwin portava implicitamente a una rivalutazione culturale, linguistica, scientifica ecc. dell’animale e del suo rapporto con l’uomo, individuando uno stretto grado di parentela con la bestia e minando quei dogmi e quelle credenze religiose (l’antropocentrismo di matrice cristiana) che costituivano ancora un paradigma dominante. Da quel momento in poi, l’ibrido uomo-animale vedrà una fioritura esponenziale prima in letteratura (Il libro della giungla di Kipling, Il soliloquio di Adamo di Twain ecc.), poi nel fumetto (le ibridazioni genetiche di Spider-Man e Lizard e quelle estetiche di Batman e Catwoman) e infine al cinema (L’esperimento del dottor K di Kurt Neumann, Il mostro della laguna nera di Jack Arnold, Octaman di Harry Essex ecc.), quel medium che permetteva la visualizzazione degli ibridi fino ad allora solo descritti o stilizzati, dando un contributo decisivo al compimento dell’estetica post-umana che ha percorso trasversalmente l’arte novecentesca. Se da un lato ibridare significava caricare l’uomo di poteri a lui sconosciuti (il senso di ragno, l’agilità di Catwoman) dall’altro significava degradare il suo status morale di essere umano (La mosca di Cronenberg, La donna scimmia di Ferreri), avvicinandolo alla bestia.

Nella sceneggiatura di Border – Creature di confine (tratta dall’omonimo racconto breve di Ajvide Lindqvist), si percepisce l’eredità storica dell’ibrido uomo-animale in ogni scena. La seconda opera del regista iraniano-svedese Ali Abbasi, vincitrice del Prix Un Certain Regard all’ultimo Festival di Cannes, è una storia che — come (quasi) tutte le grandi trame — si può riassumere in poche parole: Tina è una donna poliziotto dal volto deforme, dotata di un olfatto prodigioso che le permette di fiutare le emozioni umane. Indagando su un caso di pedofilia, incontra Vore, un uomo che le assomiglia e del quale si innamora.

Dimostrando ancora una volta che semplicità narrativa non significa necessariamente (anzi) “banalità dei contenuti”, Border è capace in meno di due ore di trarre le fila dell’evoluzione cinematografica della chimera umana ibridando a sua volta la maggior parte dei generi cinematografici: un po’ film sul freak (i due protagonisti sono emarginati socialmente a causa del loro aspetto fisico), un po’ fantasy/sci-fi (Vore si definisce un troll ed è in grado di generare autonomamente dei figli), un po’ thriller (Tina collabora con la polizia per la soluzione di un caso di pedofilia), un po’ dramma amoroso e famigliare (la trama principale è costruita sul rapporto d’amore tra Tina e Vore e sul rapporto conflittuale tra la ragazza e il padre), un po’ film supereroistico (nonostante le sue capacità straordinarie, Tina si percepisce un mostro a causa del suo aspetto fisico) e, soprattutto, un po’ body horror. Border è un film sul corpo tout court, sul suo potere distruttivo, sul suo essere oggetto di perversione, strumento di denigrazione e accettazione sociale. Non c’è nulla nel film di Abbasi che non abbia a che fare col corpo. C’è il corpo mutante, il corpo che sanguina, che viene lacerato. C’è il corpo sessuale, erotico in quanto corpo. C’è il corpo come tramite delle emozioni, il corpo che detta la paura durante un temporale, l’attrazione amorosa per il proprio simile, l’odio per il diverso, il corpo che è la sede dei traumi dell’infanzia. Ci sono i drammi del corpo dei bambini che segnano la vita adulta dei protagonisti, quel corpo da cui tutti nel mondo di Border sembrano essere ossessionati. I pedofili che lo vogliono riprendere, gli acquirenti che lo comprano come una merce, il padre e la madre di Tina, che la accudiscono dopo la morte dei suoi genitori naturali desiderando fortemente un figlio, i troll che vengono graffiati e mutilati in infanzia, privati del loro simbolo di appartenenza (la coda) per essere inseriti in società, e Tina stessa, a cui viene letteralmente fatto recapitare da Vore un bambino da accudire nel finale del film, una creatura a lei simile e che possa essere amata di quell’amore disinteressato che a lei è stato negato.

Ad amalgamare una così eterogenea quantità di contenuti lo stile dolce e anti-virtuosistico di Abbasi, composto da grandi primi piani e piani medi e articolato da una macchina da presa spesso statica, capace di inquadrare con lo stesso lucido rispetto e occhio empatico ma mai patetico gli atti d’amore filtrati dalla natura animalesca dei protagonisti, con i loro grugniti, gli sbuffi, la saliva, le mutazioni corporali (a Tina cresce un pene alieno in una sequenza sorprendente che si chiude con una delle scene di sesso più umane ed emotive di cui si abbia memoria) e il corpo livido e tumefatto di un bambino. Questo è il grande pregio della regia e, in generale, del film di Abbasi: la consapevolezza che fare cinema significa lavorare col corpo, la sua presenza e la sua assenza, la sua fioritura e la sua marcescenza, la sua distruzione. La presa di coscienza che tutto può essere mostrato — sarebbe ipocrita e imperdonabile pensare un film sul corpo liquido e sulla violenza insita nella vita organica e avere timore di inquadrare — semplicemente scegliendo la giusta distanza dal corpo, umano o animale che sia.

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Ali Abbasi Eva Melander Eero Milonoff 108 minuti
Danimarca, Svezia 2018
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Cafarnao - Caos e miracoli

di Veronica Vituzzi
Cafarnao - Caos e  miracoli - recensione film

Contro ogni morale comune, in Cafarnao - Caos e miracoli tutto sembra funzionare al contrario: i vivi maledicono la vita, i genitori maledicono i figli, i figli maledicono i genitori. Zain, bambino libanese figlio di una disgraziata coppia di derelitti, non va a scuola ma lavora fin dalla più tenera età. Anche i suoi fratelli procedono sulla stessa china, contribuendo all’economia famigliare nei modi più disparati - legali e no -  mentre le femmine una volta giunte alla pubertà vengono sposate al miglior offerente. I genitori picchiano e insultano i propri figli senza però smettere di metterne al mondo altri, così non ci si stupisce che fin dall’inizio del film si scopra che il protagonista, già in carcere all’età di dodici anni per tentato omicidio, voglia far causa alla madre e al padre per averlo messo al mondo.

«Ma ci sono i bambini: cosa dovrò fare con loro?» chiede Ivan Karamazov al fratello Alioscia ne I fratelli Karamazov, mentre cerca di spiegare il suo rifiuto di Dio. Potrebbe anche accettare un paradiso costruito sulla sofferenza degli adulti, i quali potranno infine trovare sollievo nel regno dei cieli; ma un aldilà edificato sulle lacrime di un singolo bambino, no. Nell’immaginario culturale non ci sono vittime della crudeltà del mondo più ideali, più perfette e dolenti dei bambini. Pertanto non stupisce che l’infanzia sia di frequente utilizzata come mezzo per parlare al cuore di chi rimane sordo alle sofferenze dei grandi, e così in fondo fa anche Nadine Labaki nel suo film, Premio della Giuria a Cannes 2018. Un’opera che rischia di risultare ovvia, scontata agli occhi oramai distaccati e diffidenti di chi osserva velocemente online mille notizie e immagini di guerre, violenze e ingiustizie che scorrono  infinite e uguali sulle  bacheche dei social network.

Labaki punta tutto sugli occhi dei suoi protagonisti, tre innocenti che perfettamente incarnano l’idea comune di vittima:, Zain (uno straordinario Zain Al Rafeea, un autentico ex rifugiato siriano di 12 anni ancora analfabeta al tempo della produzione del film),  Rahil, una madre single etiope immigrata clandestinamente in Libano, e il suo figlioletto Yonas, che ancora non parla e a malapena sa tenersi in piedi, ma balla al ritmo di musica e guarda tutto e tutti con occhi sgranati. Facile espediente per smuovere le coscienze o estremo tentativo per denunciare qualcosa che tutti sanno senza curarsene?

Se c’è una qualità intrinseca in Cafarnao è la capacità di sembrare una cosa, e poi subito dopo un’altra. I temi principali raccontati nella storia sono due, ma alla fine potrebbero essere riuniti in una sola grande accusa rivolta al mondo adulto. Innanzitutto quello individuale dei genitori che procreano bambini secondo un mero atto egoistico, pura acquiescenza alle leggi primordiali della natura per cui l’importante è che la vita continui sempre, che il seme e il sangue vengano perpetuati di padre in figlio, senza alcuno scrupolo. Esistere nonostante tutto, anche nell’incuria, nello sfruttamento e nella sofferenza: Zain contesta questo principio di natura, e rivendica il dovere di una procreazione consapevole, ove i genitori sappiano riconoscere e mettere realmente al primo posto i bisogni fisici e spirituali dei propri figli. È importante notare che in Cafarnao i genitori di Zain sono ex vittime divenute carnefici, creature prodotte dalla povertà che replicano colpevolmente i meccanismi coercitivi che li hanno spezzati fin da piccoli. Ma c’è anche il mondo adulto collettivo, sintetizzato da tutti gli adulti che il ragazzino incontra nel film scansandoli diffidente, oramai conscio dei secondi fini nascosti dietro le loro parole gentili. Un universo riassunto soprattutto nel personaggio invisibile ma presente dello Stato. Nadine Labaki affronta il tema dell’immigrazione clandestina senza didascalie morali né accuse. Semplicemente mostra individui che devono nascondere la propria esistenza per non essere cacciati via, bambini che non esistono per lo stato in quanto mai registrati all'anagrafe, o per l’indifferenza dei genitori o per il timore, come nel caso di Rahil, di perderne la custodia. Senza i documenti non si è persone per lo Stato, eppure Zain e altri come lui devono portare il peso di una vita non richiesta: esistere suo malgrado pur non esistendo per il mondo.

È proprio la potenza degli interrogativi senza risposte, delle immagini devastanti, degli occhi incredibilmente espressivi di Zain, a essere il punto forte e allo stesso tempo quello debole del film. Qual è difatti il rischio più grande che corre un’opera così universale ma anche così specifica? Quello di far seguire alla facile commozione l’indifferenza latente dello spettatore. Difatti l’aspetto relativo al degrado sociale in Beirut, che certamente pretende di essere raccontato, denunciato e discusso, può far credere allo spettatore che in fondo tutto quell’orrore, quella sporcizia e quella povertà non lo riguardi. Che sia disdicevole, indegno e malsano, certo; ma per fortuna noi che guardiamo il film viviamo in una società migliore. E sulla carta è vero, ma è anche vero che l’immigrazione clandestina è oramai tema che scuote il mondo intero, e soprattutto che questa genitorialità problematica, sofferente e impreparata - in un popolazione mondiale di sette miliardi di individui - è argomento che va affrontato coscientemente, senza stereotipi né falsi ideali: perché davvero oltre ogni banalità ogni bambino merita genitori che sappiano crescerlo, perché ci vuole molto più dell’istinto materno/paterno per essere parenti, perché è meglio non mettere al mondo bambini pensando che male che vada la vita è sempre e comunque un dono. Cafarnao è una grande opera se decidiamo che ciò che racconta ci riguarda tutti. Altrimenti è solo un altro bel film strappalacrime. Allo spettatore la scelta.

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Nadine Labaki 120 minuti
Libano 2018
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