La paranza dei bambini

di Alessandro Gaudiano
La paranza dei bambini – recensione film Giovannesi

I cosiddetti bambini de La paranza dei bambini sono sulla soglia dell’età adulta, sul punto di un cambiamento irrevocabile. Nicola (Francesco Di Napoli), Lollipop, Biscottino e gli altri vivono in un limbo di periferia, piccoli teppisti il cui disorientamento è il segno di una sconfitta civile, genitoriale, sociale. Affamati di vita e di soldi, colgono la prima occasione per entrare nel mondo del crimine come piccoli spacciatori. Ma vogliono di più, sempre di più. Il prezzo da pagare, in termini personali e morali, è altissimo.

Dopo Alì ha gli occhi azzurri e Fiore, Claudio Giovannesi riprende la sua incursione nella psiche e nelle emozioni della gioventù, mettendone in scena la forza selvaggia e sincera. Adattando l'omonimo libro di Roberto Saviano, il regista si concentra su ciò che è più in sintonia con la sua idea di cinema: un cinema di corpi e di quieti pedinamenti, sobrio e trattenuto, e per questo tremendamente coinvolgente nei suoi momenti di esplosione e rottura. In equilibrio elegante tra cinema di genere e sguardo da documentarista, La paranza dei bambini mette a fuoco una trasformazione in corso attraverso riti di iniziazione, porte che si aprono, amori e gerarchie famigliari che si ribaltano. La violenza, naturalmente, non manca, ma l’unicità dello sguardo del regista è valorizzata da altri momenti e altre scene: la quiete di una colazione con il fratellino e la lotta per l’ultima crostatina, il momento di dolore successivo al primo omicidio, lo sguardo di una madre impotente. Tappe obbligate di una tragedia già scritta: ogni senso di vittoria sembra effimero e tremendamente ingenuo, e allo spettatore resta negli occhi la consapevolezza che il futuro di Nicola sia ineluttabilmente segnato.

La paranza dei bambini è una parabola criminale in minuscolo. Giovannesi mette in scena l’ascesa di una banda di ragazzini all’interno di un diorama sociale dove il crimine è una carriera, un “mestiere” in grado di elevare dal livello della strada, tanto quanto il mondo dello spettacolo di cui si nutre. Il mito avvelenato della camorra è un abisso da cui attingere per alimentare un immaginario prosciugato, e la camera indugia a lungo sugli oggetti e i luoghi di rito di questa criminalità telegenica e parassitaria, che tutto riduce a superficie, patina estetica: le magliette alla moda, luccicanti, o i morbiti tessuti del teatro San Carlo. I personaggi di questa storia aspirano al potere, ai marchi costosi, all’ingresso in discoteca come rito di passaggio per entrare nell’età adulta. I soldi e le armi sono antidoti per un senso di sconfitta e di miseria che si insinua anche nella messa in scena: tutto, nella Napoli di Giovannesi, incombe e si chiude sui ragazzi, dai palazzi ai vicoli, fino i corpi degli adulti e dei nemici. Nicola arriva a proporre alla sua ragazza di scappare via da Napoli e dalla metropoli, ma anche la sua fuga è una fantasia posticcia, tanto quanto lo spot pubblicitario di una festa perenne sulla spiaggia.

Il confronto con Gomorra parrebbe inevitabile ed è, tutto sommato, giustificato: Giovannesi è coinvolto nella regia della serie televisiva ed è indubbia una certa affinità stilistica e tematica, oltre che di ambientazione. In un certo senso, La paranza dei bambini è uno spin-off di Gomorra che abbandona alcune logiche di genere più vicine all’epica criminale hollywoodiana in favore di uno sguardo intimo sulla giovinezza criminale: ragazzi catturati nell’esatto momento in cui diventano colpevoli e, dunque, adulti loro malgrado. Giovannesi osserva da vicino, cattura le tempeste emotive e la durezza delle scelte, evitando (saggiamente) di sprecare minuti e risorse in un intreccio troppo complesso per puntare su ciò che rende La paranza unico e distinto da Gomorra e altre produzioni di genere. Purtroppo, sotto l’aspetto stilistico questa logica non  è stata rispettata fino in fondo: la fotografia di Daniele Ciprì sembra troppo algida ed elegante per valorizzare lo sguardo del regista, preferendo le tinte di un romanzo criminale qualsiasi.

Al di là di qualche incertezza stilistica, La paranza è un’opera tra le più riuscite del panorama italiano recente e un adattamento impeccabile del libro di Roberto Saviano. Risulta quasi impossibile immaginare un altro nome alla regia di un film come questo: è il segno che Giovannesi è un autore ormai maturo e un nome imprescindibile del cinema italiano.

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Claudio Giovannesi Francesco Di Napoli Viviana Aprea Valentina Vannino Artem Tkachuk Alfredo Turitto 111 minuti
Italia 2018
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High Flying Bird

di Matteo Berardini
High Flying Bird - recensione film soderbergh netfix

Ama il gioco. Segui il gioco. Credi nel gioco. Ma soprattutto rompi il gioco che sta sopra il gioco, il sistema di scambio, interesse, compravendita che soffoca e controlla, pretende e monitora. High Flying Bird è un film sul basket senza il basket, un film in cui anche la parola basketball viene pronunciata al massimo un paio di volte. C’è solo il gioco, the game, e quell’altro gioco di livello superiore rappresentato dall’NBA, entità astratta dalle ricadute concretissime che si è imposta dentro il basket e sopra il basket, ma soprattutto sopra gli atleti. A partire dalle giovani promesse appena uscite dall’università, i rookies, perlopiù afroamericani provenienti dal sottoproletariato metropolitano, ex studenti sopravvissuti grazie a borse di studio o soffocati dal debito scolastico. Ora a un passo dalla carriera professionistica se non fosse per il lockout, lo sciopero generale, il blocco del campionato causato dal mancato accordo tra le parti, tra giocatori e impresari. È un evento raro ma succede, e quando succede si ferma lo sport e si fermano i soldi. Niente partite, niente show, perché ogni performance è controllata dall’NBA, ogni immagine pubblica è proprietà dell’azienda. Difficile per un rookie sentirsi ancora padrone di sé stesso. Che valga forse anche per il mondo del cinema?

Firmata dal giovane Tarell Alvin McCraney, già autore di Moonlight, la sceneggiatura di High Flying Bird è un fuoco di fila di strategie e contrattazioni, uno script parlatissimo e denso che non insegue la ricostruzione complessiva della vicenda ma preferisce una prospettiva più ristretta per mettere in campo una denuncia che ha il sapore della lotta di classe e affonda le sue radici nella storia schiavista e razzista degli Stati Uniti. Al centro del racconto c’è infatti Ray Burke (André Holland) un agente sportivo determinato a risolvere a modo suo il lockout, sfruttando l’enorme potenziale iconico del suo giovane assistito per suggerire un’alternativa al sistema, un ritorno alle origini del gioco e soprattutto alla proprietà di sé stessi. Nelle mani magistrali e ironiche di Steven Soderbergh questo materiale dall’impeto insurrezionale diventa l’occasione per sferrare la stoccata definitiva nei confronti di Hollywood e della sua industria culturale. Guarito dal suo addio al cinema, impegnato da sempre in un 1 vs 1 contro the game on the top of the game, Soderbergh torna a giocare la carta di Unsane in un cortocircuito irresistibile: contro il sistema gira tutto con il suo cellulare, ancora l’Iphone 8, cura fotografia e montaggio, e manda il tutto in distribuzione internazionale su Netflix, dove quelle stesse immagini torneranno a vivere su altri schermi portatili e Iphone, andata e ritorno di un digitale che si smarca dal controllo della tradizionale industria dell’intrattenimento.

Certo, Netflix non è la rivoluzione, o almeno non quella dal basso auspicata dall’identità black di cui è intriso il film, e Soderbergh questo lo sa benissimo, ma comunque ciò non gli vieta di tracciare una direzione, di amplificare il gesto politico, di divertirsi a guardare dal lato il potere affermando comunque la necessità di una rivendicazione economica e identitaria, che passa anzitutto per il corpo e la sua libertà dallo sfruttamento. Per farlo High Flying Bird imbastisce New York come una piccola sinfonia di acciaio e vetro splendente, algide superfici riflettenti che inquadrano, comprimono, intrappolano, dettano il tempo dei tanti dialoghi e accompagnano il farsi del piano di Burke, rivoluzionario sotto l’abito da squalo o viceversa, ma poco importa finché il messaggio – il libro del finale, bellissimo – arriva nelle mani giuste.

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Steven Soderbergh André Holland Zazie Beetz Melvin Gregg Zachary Quinto Kyle MacLachlan 90 minuti
USA 2019
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Wildlife

di Tamara Gasparini
Wildlife - recensione film Dano

C’è qualcosa, nella scena iniziale di Wildlife, nel corpo a corpo padre/figlio, davanti al cortile di casa, mentre giocano a football, che sembra prepararci alle fratture imminenti che il racconto s’appresta a portare allo scoperto. Una sensazione di felicità apparente che dura pochi attimi, scivola nella stasi emotiva di fronte ad una villetta americana come tante e, nel momento in cui i due spariscono per qualche istante dall’inquadratura, un presagio di scollamento, come se una crepa potesse emergere da sotto la superficie. Sullo sfondo di questa America di facciata, di una provincia a prima vista idilliaca, datata 1960 e fatta, in realtà, di piccole convenzionalità borghesi opprimenti nonché di ruoli sociali normati, Paul Dano, al suo esordio dietro la macchina da presa, mette in scena un dramma domestico di tensioni trattenute e lacerazioni interiori, adattando il disfacimento famigliare à la Revolutionary Road al racconto di formazione del quattordicenne Joe (Ed Oxenbould), in precario equilibrio sugli squilibri dell’età e degli affetti, nel tentativo di crescere ed essere uomo.

Tratto dal romanzo omonimo di Richard Ford (1990) e co-sceneggiato da Dano insieme a Zoe Kazan, Wildilife è un film che si racconta piano, senza eccessi; lentamente fa implodere la serenità del nucleo familiare, ne sgretola le sicurezze e i sogni di benessere mentre, a fare da contrappunto simbolico al disastro dei sentimenti, un incendio, poco lontano, devasta i boschi del Montana e rende palpabile quel senso di precarietà del vivere e di minaccia costante.

Fin dalle prime battute l’unità della famiglia ci appare irrigidita nei codici del linguaggio e dei comportamenti; ci si riunisce decorosamente a tavola insieme, si ascolta alla radio il campionato di baseball… ma si ha l’impressione di intravedere delle ombre e percepire un sottile malessere pronto a travolgere tutti. La madre Jeanette (Carey Mullighan) è un ex supplente che ha rinunciato al suo lavoro per occuparsi delle faccende domestiche e seguire il marito, non sempre di buona voglia, di città in città, sempre più a nord - «ogni volta che ci spostiamo fa sempre più freddo» dice - in nome di una pursuit of happiness che sembra costantemente irraggiungibile; Jerry (Jake Gyllenhall) sognava di essere un giocatore di golf ma si trova a lustrare scarpe e pulire i campi dei ricchi, domandando al figlio cosa un uomo è tenuto a fare per occuparsi della propria famiglia secondo le norme morali e sociali del tempo, e un ragazzino, troppo sensibile per adattarsi ai desideri paterni e ai cambiamenti repentini dei genitori, osserva impotente lo sfaldarsi del proprio universo familiare che va in fumo: tutti imprigionati nei loro ruoli e nelle aspettative di qualcun altro, in una realtà dall’aria pesante, soffocante, al pari dell’incendio che divampa oltre l’orizzonte delle case. Quando Jerry perde il lavoro e decide di partire volontario per domare il fuoco il legame della coppia crolla, spingendo Jeanette a rifarsi una vita, uscendo dal grigiore delle mansioni di casa, cercando un lavoro, vestendosi elegante e frequentando un altro uomo, dinanzi allo sguardo dolente del ragazzo.

Wildlife è, di fatto, una struggle for life, che coinvolge tutti e tre i personaggi in egual misura - ognuno impegnato a trovare il proprio destino - ma dove il cambiamento cercato dagli adulti è la sola via di fuga da un’insoddisfazione latente, da uno scacco, da un senso di sconfitta eterna. Il paesaggio suburbano, con le montagne percorse da nuvole di fumo in lontananza, l’iconicità di certi luoghi e i cieli al tramonto, sembra contrapporsi alla grandezza delle aspettative e dei desideri umani. Se il fallimento del sogno americano comincia a sgretolarsi all’interno del nucleo familiare, come il cinema indipendente ci ha spesso ricordato, Paul Dano non forza la regia, la trattiene nel minimalismo del narrato, a una temperatura moderata, facendo esplodere solo la parte conclusiva. Tiene lo sguardo ad altezza del cuore e delle paure di un adolescente e ne fa un racconto sofferto ma composto, segnato da un’equidistanza tra dolore e amore. Ne fa un racconto di sentimenti in continua ebollizione, un racconto di solitudini domestiche e malinconie urbane, come dentro un quadro di Hopper. Non c’è punto di ritorno, non ci sono strade da percorrere per tornare a casa, nemmeno quando, finalmente, la stagione cambia e gli incendi si avviano a spegnersi; solo fughe, come quella di Joe, nella notte, verso nessun luogo preciso. Un po’ perso ma anche consapevolmente più maturo.

Il finale arriva, allora, come uno squarcio a illuminare il quadro scomposto delle loro vite, ormai irrimediabilmente segnate, regalando però l’emozione improvvisa di un bagliore di felicità ritrovata, anche solo per un momento, congelato per sempre nell’istante di una fotografia. Sotto le ceneri dell’incendio emotivo di questo dramma familiare c’è un’umanità pronta a guardare dritto di fronte a sé e a ricominciare a sorridere al divenire.

«Fire can be a positive force,
cleans the underwood
and helps forest to regenerate»

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Paul Dano Jake Gyllenhaal Carey Mulligan Zoe Margaret Colletti Ed Oxenbould 104 minuti
USA 2018
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Love, Death & Robots

di Leonardo Strano
Love, Death & Robots recensione serie miller

Love, Death & Robots sorprende, delude e ammalia a differenti gradi, tra ambizioni affascinanti, metodi comunicativi per certi versi inediti, alcuni salti formali impressionanti e difetti evidenti. A livello contenutistico la prima serie antologica di animazione di Netflix si getta all’inseguimento di una missione enorme: raccontare l’umano che incontra l’altro, la divinità tecnologica, il mostro multiforme e incomprensibile, la forma di progresso verso cui è stregato e per cui tenta azioni estreme. Il soggetto (di genere fantascientifico) è quindi quell’aspetto dell’uomo mosso dal sublime terribile che ammalia e gioca coi sensi e penetra nell’universo conosciuto causando un momento di alterità, un germe mutaforma capace di cambiare le prospettive e sfumare le definizioni per disegnare un paesaggio immerso in colorazioni ambigue. La serie lo racconta adottando a livello formale una prospettiva sempre disomogenea, uno sguardo interessato al tutto ed esaltato dalla dialettica della molteplicità, un unico contenitore di storie diverse, idealmente in grado di moltiplicare i punti di vista su un solo argomento tenendo sempre e comunque conto del punto di fuga su cui allineare l’architettura del progetto narrativo.

L’estrema liquidità del formato dell’originale Netflix è sia il risultato che il punto di partenza di questo ragionamento, perché sono le differenti misure brevi delle puntate (da 6 minuti a 17) che caratterizzano questo esperimento antologico (creato da Tim Miller ma prodotto dalla visionarietà di David Fincher, regista che forse più di altri ha trovato nella rivoluzione digitale un palcoscenico per esprimere le proprie teorie) a permettere di misurarsi con un vero e proprio catalogo narrativo da sfogliare e scomporre, esaminare e sviscerare secondo i ritmi di una pluralità diversamente analizzabile: parcellizzando la visione e centellinando gli impulsi narrativi o compattando e unificando gli episodi in un’esperienza di binge watching contratta in poche ore e a un tempo dilatata verso l’infinitudine degli spunti di riflessione, data la natura difforme e composita di ogni segmento. In ogni caso scegliendo una modalità di rapporto con il contenitore tecnologico, una via ragionata di utilizzo e consumo del formato.

È dalla funzionalità della scatola-vettore e dalla convergenza delle ambizioni con i risultati che consegue la riuscita o la disfatta della serie. A posteriori è facile denotare che i risultati non sono completamente esaltanti, solo vittime di un metronomo qualitativo molto poco costante, perché ottenuti da un organico creativo interessato a temi importanti e molte volte incapace di smarcarsi dalla loro declinazione più scontata e grossolana, quella in grado di intercettare con furbizia la grande utenza attraverso storie brevi e intense ottenute dalla triangolazione di azione, sesso e fantascienza. È nell’analisi dei singoli episodi che emerge la frequente assenza di raffinatezza nella scrittura: nel disegno generale la serie infatti aggancia bene il suo tema portante - la complessità che nasce dal contatto tra uomo e tecnologia -, ma nel piccolo, quando passa in rassegna grandi nodi del contemporaneo (dalla violenza sulle donne all’etica delle intelligenze artificiali, dal razzismo nell’esercito all’ambiguità del progresso) non riesce a delineare discorsi tematici concreti.

Love, Deaths & Robots vince quindi nella misura generale perché pone una grande domanda – dov’è la linea di confine per l’uomo, qual'è la forma della svolta? –  intuendone la complessità e abbracciando la meraviglia del suo mistero, ma perde nella collezione di risposte banali e superficiali, condannate da una brevità il più delle volte inabile a farsi colpo di fulmine sintetico e rivelatore, aforisma concettuale disarmante, perfettamente assimilabile e scevro delle pesanti lungaggini che in più casi caratterizzano la narrativa seriale di “prestigio”. L’esperimento è riuscito a metà, al netto comunque di un’animazione ispirata, sempre in grado di riprodurre a livello formale il contenuto della sua storia, ora con i contorni dolenti del rotoscope, ora con la sgraziata tenacia del fotorealismo, ora con la poetica dell’animazione in due dimensioni.

Restano impresse comunque le immagini di alcuni dei corti più riusciti, a riprova della possibile intensità di una scrittura costretta a costruire fascinazioni centrifughe (perché tese alla continua evasione verso un mondo illimitato) sotto la pressione del limite. Episodi come "Il vantaggio di Sonnie", "Il dominio dello yogurt", "Buona caccia", "La notte dei pesci" e "Dare una mano" sono frammenti di una narrativa di fantascienza ispirata, che sceglie l’orizzonte di un pessimismo occasionalmente contraddetto da un romanticismo speranzoso. Le loro intuizioni narrative sono esaltanti sul piano dell’intrattenimento e lucidi nel ragionamento dei contenuti, la loro animazione è intuizione formale incordata al tono del racconto. Dalla visione delle immagini allora emerge il senso, la vertigine del momento fantascientifico, l’investimento emotivo che esplode dal contatto tra lo sguardo, in affondo sulla superficie digitale, e la narrazione, in emersione dalla profondità della mente dell’autore e dai circuiti del supporto. Qualunque esso sia.

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18 episodi con durata variabile da 6 a 17 minuti
Usa 2019
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La diseducazione di Cameron Post

di Veronica Vituzzi
la diseducazione di cameron post - recensione film

Cameron (Chloë Grace Moretz )è un’adolescente che ha già capito da sola che spesso, a volte quasi sempre, è necessario indossare una maschera per sopravvivere in società. Quando si scopre lesbica e innamorata della sua amica Coley, sa di dover nascondere la cosa alla zia, fanatica religiosa, così mantiene la relazione col suo ragazzo e va con lui al ballo della scuola, facendocisi fotografare insieme, ben truccata e vestita, come fossero la classica giovane coppia eterosessuale, rassicurante e perbene. Senonché la sua segreta, sincera passione per Coley la spinge ad appartarsi con lei in macchina, e le due ragazze vengono colte in flagrante dal fidanzato di Cameron. Alla notizia del peccato mortale commesso dalla nipote, l’inorridita zia decide di spedirla immediatamente niente poco di meno che in un campus religioso di riabilitazione per i giovani deviati dal “peccato” dell’omosessualità. Un posto pieno di persone gentili, che accolgono la ragazza con grandi sorrisi e uno sguardo implacabile. In poche parole, una prigione, dove la tremenda dottoressa Lydia, espressione gentile ma livida, è convinta di aver creato il metodo perfetto per curare l’omosessualità, e ha fatto del fratello Rick, sua prima cavia, la prova vivente della bontà delle sue teorie.

Ci sarebbero molti modi di raccontare cinematograficamente un’esperienza del genere, ma benché La diseducazione di Cameron Post sia tratto dall’omonimo libro di Emily M. Danforth, il suo approccio al racconto non è solo visivo, ma fortemente fisico. Nel film ci sono due modi di vivere il corpo che raccolgono in sé due contrarie visioni della vita: l’adolescenza al suo meglio come periodo in cui si sperimenta ogni cosa senza l’esperienza necessaria per giudicare, fatta di giovani che si baciano, ballano, cantano, piangono e urlano; e quella arresa, impietosa, rigida e controllata degli adulti che vorrebbero cancellare questa fluidità emozionale imperfetta e vitale. Le teorie della dottoressa  Lydia – e di molti altri come lei – concepiscono l’omosessualità come una malattia con sintomi e cause, ma soprattutto rigettano in toto ogni sfumatura, ogni esperimento, ogni dubbio, e con essi, il senso stesso dell’adolescenza, che è un percorso di crescita necessariamente altalenante e dinamico. Difatti i ragazzi che nel film cedono e decidono di convertirsi sono i più solerti e laboriosi, finché quel groviglio di emozioni, impulsi e suggestioni che hanno soffocato dentro non esplode in scene esplosive di desiderio o disperazione. C’è un solo sentimento, così tipico dell’età giovanile, che la dottoressa abbraccia e anzi amplifica: è quello della vergogna per se stessi, così ingigantita da divenire la gabbia che stringe in una morsa i corpi e riduce la loro libertà di movimento nello spazio.

Cameron impara subito a soddisfare le aspettative di chi la circonda, assumendo in pubblico la postura composta di chi si sta controllando ed è sulla difensiva, ma di nascosto si lascia andare con gli amici conosciuti al campo, cosicché il suo corpo ritorna libero, mobile e agile. La ragazza ammette spesso di “non sapere”, non si interroga su Dio né sul proprio orientamento sessuale; vive e basta, con una semplicità che gli adulti non possono perdonarle. Certo, questo continuo passaggio fra un registro comportamentale e un altro, unito al costante sguardo di disapprovazione e distanza di chi non l’accetta, è stremante, perciò il film di Desiree Akhavan cresce gradualmente di intensità insieme alla tensione interiore della protagonista, fino a trovare sfogo nella liberatoria catarsi finale.

Difatti, quasi a voler appropriarsi visivamente della natura intimamente leggera dei suoi personaggi in fuga da una prigione dello spirito e del corpo, La diseducazione di Cameron Post si appropria della loro spontaneità e si fa film ironico, leggero senza esser mai superficiale, che scorre con la medesima vitalità di un corpo in corsa e che allo stesso tempo si irrigidisce  quando tutto intorno alla protagonista sembra volerla soverchiare e in un certo qual modo mutilare e azzittire. Salvo ritrovare comunque, alla fine, il respiro fresco di chi vuole poter amare e muoversi nel mondo in piena libertà.

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Desiree Akhavan Chloë Grace Moretz John Gallagher Jr. Sasha Lane 90 minuti
USA 2018
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Captain Marvel

di Matteo Marescalco
Captain Marvel-recensione film Boden Fleck

Avevamo lasciato il Marvel Cinematic Universe in pieno terremoto editoriale, con un grande villain in grado di affermarsi come il vertice gerarchico e il baricentro di un film che schiudeva inattesi orizzonti narrativi con un punto di non ritorno. Dalla necessità di fermare il suo potere assoluto conseguiva un cliffhanger relativo all'introduzione di un nuovo personaggio: Captain Marvel. Soltanto la sua discesa in campo potrebbe porre fine ai giochi e decretare la conclusione di un universo narrativo che, da ormai 11 anni, ha un'importanza imprescindibile nel campo dell'intrattenimento. E che, da altrettanto tempo, non aveva ancora mai avuto il coraggio di sdoganare un personaggio femminile come assoluto protagonista di un proprio stand-alone, finalmente arrivato, grazie proprio a Captain Marvel, diretto dai due indie Anna Boden e Ryan Fleck.

Dopo la deflagrazione di innumerevoli schegge (il ritorno a casa di Spider-Man, il percorso psichedelico di Doctor Strange, lo scivolamento verso il demenziale di Thor: Ragnarok e il premiato allargamento dei confini culturali e geografici di Black Panther), riunite per l'inevitabile scontro con il più tragico tra i nemici, tocca a un'altra origin-story dal gusto poco tradizionale preparare il campo per il prossimo Endgame. Captain Marvel non è soltanto la prima eroina del MCU ma è anche la più potente nella compagine degli Avengers. La chiamata risolutiva e disperata di Nick Fury poco prima della sua dissolvenza suggeriva il suo valore strategico di arma definitiva.
Kevin Feige e co. provano a ripetere l'operazione Black Panther, gettandosi nuovamente nell'agone del dibattito politico e culturale americano. Il film di Boden e Fleck, infatti, come nella tradizione dei migliori blockbuster, è un enorme contenitore che, al suo interno, contiene particelle in grado di andare verso le più disparate delle direzioni e di prestarsi a diversi percorsi di lettura.

La giovane Carol Denvers (Brie Larson) è già un'abile guerriera quando appare per la prima volta sul grande schermo. Grazie al sostegno del suo comandante Yon-Rogg (Jude Law), impara ad affinare la sua arte, controllando i suoi principali punti deboli: l'emotività e i ricordi del passato, il cui affastellamento, ogni tanto, compromette il suo equilibrio mentale. La ragazza lotta al fianco dei Kree, credendoli la sua razza di appartenenza, ed è dotata di numerosi superpoteri che non sa gestire del tutto e che usa contro gli Skrull, un'infida razza in grado di assumere le sembianze di chiunque veda. Quando, però, la sua squadra finisce vittima di un'imboscata, Carol viene fatta prigioniera dagli Skrull e riesce miracolosamente a fuggire, precipitando su un pianeta sconosciuto: la Terra. Tra cartonati di True Lies e vecchie VHS di action movie ad alto tasso di machismo, la ragazza atterra dentro una videoteca Blockbuster in pieni anni '90. Ad accoglierla sarà un comitato composto dall'agente Coulson e da un giovane Nick Fury, che non ha ancora la minima idea di cosa sia un supereroe né di come utilizzarlo in difesa dello SHIELD.

Più che uno spartiacque sulla questione femminile, Captain Marvel è, prima di tutto, un manifesto sulla questione umana. A differenza di Diana Prince che, in Wonder Woman, scopriva la sua dimensione femminile anche attraverso una relazione sentimentale, per Carol Denvers la parità di genere è un dato già acquisito. Il percorso della ragazza, infatti, consiste in quello che potremmo ribattezzare “viaggio dell'umano”, costellato da aiutanti, mentori e trickster, in cui il problema del condizionamento sulla presa di coscienza delle donne viene nascosto dietro la questione della consapevolezza del potere. Attraverso i suoi ricordi, Carol costruisce una tessitura narrativa che trasforma le debolezze umane in punti di forza su cui edificare la propria caratura caratteriale. Insomma, il punto di essere un eroe non consiste tanto nei superpoteri posseduti ma nella consapevolezza di chi si è. Venire a conoscenza dei propri punti di forza ed essere sicuri di sé, nonostante numerose cadute rovinose, schiude il proprio orizzonte di forza.

D'altronde, il film non si limita ad intervenire sulla questione umana/femminile ma imbastisce anche un ulteriore elemento di riflessione sulla situazione socio-politica contemporanea attraverso un twist narrativo che è opportuno non rivelare. Essere esseri umani vuol dire, in primis, saper ascoltare sé stessi e gli altri perché è sempre l'incontro con il diverso da noi (e il MCU lo insegna al meglio) a custodire infinite potenzialità.

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Anna Boden Ryan Fleck Brie Larson Samuel L. Jackson Ben Mendelsohn Djimon Hounsou Annette Bening Jude Law Clark Gregg 124 minuti
USA 2019
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Pentcho

di Paolo Di Marcelli
pentcho - recensione film cattini

Se è vero che la storia del Pentcho è così folle e incredibile da poter essere raccontata in qualsiasi momento, è altrettanto vero che raccontarla in questi anni assume un significato più importante e necessario. Quella del battello a vapore concepito per brevi gite costiere e che invece attraversò tutto il Danubio fino in Grecia salvando dall’Olocausto più di 500 ebrei è un’avventura a lieto fine che grida vendetta ai porti chiusi, a chi demonizza i soccorsi umanitari ma soprattutto contro chi sbeffeggia le cause dei fenomeni migratori. Sarebbe bello che una copia del documentario girasse per le aule di tutte le quinte superiori permettendo ai ragazzi di capire qualcosa di più del nostro tempo attraverso il passato.

Nel 1940, una nave malmessa carica di slovacchi, cechi e polacchi salpa da Bratislava alla volta della Palestina. La navigazione sul Danubio è difficile, ogni controllo sembra segnare la fine di qualsiasi speranza - sulle prime il capitano spaccia la Pentcho come una nave da crociera – ma ogni volta la (lenta) corsa riparte, arrivano viveri e rifornimenti e l’imbarcazione raggiunge il mare. Succede di tutto: il guasto ai motori, la deriva e l’incidente addosso a una distesa di colata lavica talmente grande da formare un’isola. Per dieci giorni i passeggeri e l’equipaggio vivono come possono fino al salvataggio miracoloso dalla marina italiana, che allora contava degli avamposti in Grecia. Qui viene allestita una tendopoli che assomiglia a un campo profughi fino a quando si ordina il trasferimento in un campo di concentramento nei pressi di Cosenza dove, per fortuna, la prigionia si compie “all’italiana”.

Stefano Cattini prima di tutto intervista alcuni testimoni diretti. Come prevedibile, le parole degli anziani sopravvissuti (si salvarono tutti) sono rotte dall’emozione ed è avvincente osservare come quei fatti abbiano legato indissolubilmente e per sempre centinaia di sconosciuti. Nel 1998, uno di questi documentò con foto e video un viaggio commemorativo nei luoghi della vicenda: Cattini sfrutta questo materiale quasi a costruire un film nel film in un gioco di cornici che dona completezza all’opera. Non mancano, poi, e qui registriamo interessanti analogie antropologiche con l’attualità, le fotografie scattate nei mesi tra il 1940 e il 1941: quelle al battello e che immortalano i dieci giorni terribili sull’isola deserta e desertificata, le istantanee nell’accampamento greco e quelle a Ferramonti, la cui storia meriterebbe di essere approfondita. Se oggi come allora resta immutata la volontà di registrare il ricordo di eventi straordinari, non si può non rimanere tuttavia abbagliati dai sorrisi dei passeggeri anche nei momenti più drammatici e pericolosi: un’apparente incongruenza risolta della voce narrante del regista, mai retorica e anzi molto ispirata, che ci ricorda che in quegli anni di fronte a una macchina fotografica si sorrideva, nonostante tutto.

La parte più interessante del documentario è però quella della regia vera e propria in cui il cinema del reale emerge in tutta la sua apparente semplicità. L’autore mette in scena i luoghi lambiti dal passaggio della nave come se quella natura, i porti, i sobborghi e le costruzioni fossero testimoni silenziosi ma vivi, attenti partecipanti alla storia come se la lunga traversata del Danubio fosse una gara sportiva o meglio ancora un’avventura epica capace di risvegliare la coscienza di quelle rive. Nei punti cruciali del viaggio, poi, Cattini ha l’intuizione di riprendere dalla lunga o media distanza una nave, una chiatta o qualsiasi altra grande imbarcazione solita passare di lì suggerendo un processo di trasfigurazione che risulta credibile e appropriato. Le riprese degli scenari sulla terraferma, infine, testimoniano come i luoghi pur mutando i connotati riescano a mantenere un’anima nobile al servizio della Memoria.

Pentcho, a tratti, si guarda proprio come un film d’avventura di cui si conosce già il finale o almeno sapendo che gli sviluppi saranno tutt’altro che drammatici. Qua e là, tuttavia, emerge tutta la sofferenza di perdere tutto pur di intraprendere un viaggio impossibile che riservi un guizzo di speranza – manca, a ragione, un’enfasi che risulterebbe stucchevole. Il regista racconta la storia di un microcosmo di medici, artigiani, operai, studenti, donne e bambini costretti a partire dopo che le rispettive terre d’origine sono diventate improvvisamente una minaccia mortale. Nei lunghi mesi di navigazione, nelle malattie diffuse sottocoperta e nello spirito di sopportazione di quella gente comune si nasconde un j’accuse civile e politico che meriterebbe un pubblico numeroso.

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Stefano Cattini 80 minuti
ITALIA, UK, 2018
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Gloria Bell

di Emanuele Di Nicola
Gloria Bell di Sebastián Lelio

C’è una profonda differenza tra Gloria, film del 2013 che lanciò il regista cileno Sebastián Lelio, e Gloria Bell, titolo del 2018 che si presenta come remake americano dello stesso cineasta. Il plot naturalmente non cambia: storia di una donna di 58 anni, divorziata e con due figli adulti, che non si rassegna a una stasi sia esistenziale che sentimentale, ma vuole ancora vivere. Frequenta locali e discoteche, ama ballare, si chiama come la canzone di Umberto Tozzi (e la versione inglese di Laura Branigan) che la rappresenta ed è suo correlativo oggettivo nel racconto. Una donna grande che vuole essere libera: contro il pregiudizio, la visione sociale imposta, la convinzione che la gioia della vita a un certo punto finisca. Anche contro i colpi ricevuti, come un divorzio, il suo personaggio è strenuamente ottimista e lotta ancora, racchiuso  in una frase-motto: «Quando il mondo finirà vorrei andarmene ballando». Così Gloria alla soglia dei sessant’anni costruisce una nuova ipotesi sentimentale.

Scambiato erroneamente per remake filologico dell’originale, Gloria Bell segna una distanza a partire dal titolo: Lelio aggiunge il cognome della donna, Bell, assente nel prototipo che era semplicemente Gloria. Un cognome americano. Qui si affaccia la prima divergenza che è già contenuta nella premessa: inscenare un’adulta autonoma e sessualmente attiva in Cile oggi è una storia, farlo negli Stati Uniti un’altra sensibilmente diversa. La Gloria di Paulina Garcia nella società sudamericana viene talvolta guardata con sospetto, addirittura giudicata, offrendosi come “mosca bianca” in uno Stato con una storia e cultura implicita, ma fortemente presente; la Gloria di Julianne Moore nell’America del Nord, ovvero nel cuore dell’Occidente, è una figura tutto sommato “normale”, mimetizzata tra le molte divorziate single, non c’è nulla di strano nella sua vita che al contrario viene lodata o invidiata da chi le sta intorno. La scelta del remake, voluto dalla stessa Moore, è quindi l’occasione per mettere allo specchio Santiago e Los Angeles, l’America latina e gli Stati Uniti, proponendo in entrambi gli scenari lo stesso personaggio, in un trasferimento nient’affatto banale perché si porta dietro anche uno slittamento di senso. Da un Paese in via di sviluppo al ventre del capitalismo, le differenze sono evidenti e riguardano anche la politica, intesa qui come sua assenza.

La Gloria cilena incontra un uomo maturo, Rodolfo, che ha un nebuloso passato militare: impossibile non pensare al colpo di Stato del 1973 e, seppure si mantenga a lato della politica (la vicenda resta principalmente umana), l’ombra del passato e della dittatura militare si allungano ripetutamente sull’intreccio. Non a caso Lelio scrive quel personaggio, lì interpretato da Sergio Hernàndez, attribuendogli l’abitudine di sparare per finta... Con la Gloria americana le cose cambiano. Lo stesso uomo, qui Arnold interpretato da John Turturro, si diverte a sparare perché semplicemente immaturo: è un divorziato con due figlie che non sa gestire, da loro assediato al cellulare, con una tendenza endemica alla fuga. Insomma, se nella scrittura di Rodolfo risuona a tratti l’eco sinistra della Storia, quella di Arnold è un saggio sull’immaturità del maschio occidentale, incapace di rendere indipendente la prole e tutto sommato anche se stesso. È così che Gloria Bell fa un passo diverso non solo nella rappresentazione della donna, ma anche in quella dell’uomo.

Ecco allora che il film del 2018 si smarca dalla lettura politica e sociale e diviene soprattutto racconto sulla possibilità di un amore overage: una storia tra sessantenni, in cui i due poli della coppia non riescono a mettersi d’accordo, per il problema maschile ma anche per il carattere di Gloria che è fallibile e sbaglia qualcosa, per esempio nella cena con l’ex marito. Due anime che non si trovano, in definitiva, e producono l’avvitamento della protagonista su di sé, nella realizzazione che l’unico punto di riferimento è proprio se stessa: ma lei non arretra e anzi rilancia, riaffermando un'essenza e ballando, simbolicamente, la sua canzone omonima. Stesso approdo, come stessi sono i passaggi dei due racconti (la metafora del problema agli occhi, il vedere e l’essere vista), ma una forma sostanzialmente diversa che costruisce anche un’altra sostanza: sarà per questo che Lelio “accende” la versione americana con colori chiari, vivi, dalle fluorescenze dei discopub alla solarità dell’esterno giorno, contro la partitura cilena più scura e crepuscolare. D’altronde le scelte visive dell’autore non sono mai casuali: per esempio il seminudo di Julianne Moore, con il gatto sphynx a coprire le parti intime, quadro mirabile che comprende un intruso “strano”, senza pelo, presenza fantasmatica costante che alla fine si impone. Se Gloria va invano verso emozioni e sentimenti, elementi della vita a cui non vuole rinunciare, c’è anche “qualcuno” che viene verso di lei. Lontano dal semplice rifacimento, Gloria Bell è l’ennesimo tassello logico e coerente nel percorso di Lelio: di fatto accettare l’amore e il sesso a sessant’anni è molto diverso da accettare una natura transgender, come in Una donna fantastica? Forse no, forse riguarda sempre l’essere donna, l’uscita dalle convenzioni, la ricerca della libertà e il senso del nostro stare qui oggi.

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Sebastián Lelio Julianne Moore John Turturro Micheal Cera Caren Pistorius 102 minuti
Stati Uniti
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Ouija - L'origine del male

di Pietro Lafiandra
Ouija - l'origine del male - recensione film flanagan

A cominciare dal logo retrò della Universal Pictures, continuando con i titoli di testa anni ’60, per terminare con le macchie, le bruciature che compaiono sporadicamente ai bordi dell’inquadratura mimando le storture della pellicola. Tutto in Ouija - L’origine del male dialoga con la contraffazione: la forma, i contenuti, la sceneggiatura. Mike Flanagan, chiamato dalla Blumhouse per provare a dare lustro al precedente Ouija, che aveva ricevuto riscontri inversamente proporzionali tra botteghino (positivo) e critica (estremamente negativa), lo dichiara sin dall’inizio. La storia di una famiglia tutta al femminile (una madre e due figlie) che si trova a inscenare sedute spiritiche per racimolare quel tanto che basta per pagare l’affitto della casa dopo la prematura scomparsa del padre, più che con l’elaborazione del lutto e la paura del fallo — temi comunque centrali, anche se solo abbozzati — ha a che fare con il rapporto tra vero e falso.

Lo spettatore viene forzato a uno stato confusionale dalle continue bugie che gli si presentano davanti fino a quando si scopre incapace di capire a chi o cosa credere, trovandosi a dubitare   persino della stessa natura del film: horror o divertissement? Sembra che i personaggi che si muovono in un’inesistente Los Angeles (non a caso, la patria del cinema: il luogo dove finzione e realtà si scambiano informazioni continue) del 1967 non sappiano far altro che mentire per raggiungere i propri scopi, reali o immateriali che siano: Alice, la madre, che truffa i suoi clienti con le patetiche messinscena di sedute spiritiche; il demone che possiede la figlia, che finge di essere il padre defunto; il parroco, che inventa informazioni false per smascherarne la natura. Gli uomini mentono ai fantasmi e i fantasmi mentono agli uomini in quello che diventa un circolo vizioso e virtuoso che può essere dipanato solo con la più classica delle carneficine.

Il grande pregio della sceneggiatura (firmata dallo stesso Flanagan) è quello di concepire l’ouija e, di riflesso, il film che ne porta il nome, non come strumento realmente orrorifico, come tavola per la comunicazione medianica che possa mettere in contatto con un mondo altro, ma come gioco attraverso cui “ci si spaventa da soli” (per dirlo con le parole di Lina, la maggiore delle sorelle). Non a caso la tavoletta ouija che scatenerà le ire dei demoni che infestano da anni la casa in cui abitano le donne viene prelevata dalla protagonista da uno stock di giochi in scatola ed è successivamente a un finta seduta spiritica fatta da Lina con i suoi amici che ha inizio la concatenazione di eventi. È nel continuo dialogo con il cinematografico che vanno ricercati i (non)significati del film, nell’uso della tavola ouija simile all’uso di una macchina da presa che dà vita ai giochi e agli incubi. È guardando all’interno della lente con cui gli spiriti indicano le lettere, come si guarda nel mirino di una telecamera, che i protagonisti vedono gli spiriti muoversi per la casa; spiriti che, di rimando, come lo spettatore voyeur, spiano le azioni che avvengono all’interno della casa da anni.

É all’interno di questa chiave di lettura che va analizzata la grafica del titolo, con la scritta “Ouija” che appare dentro un rettangolo che ricalca, certo, la struttura della tavoletta, ma che è altrettanto simile al mirino della macchina da presa. Tutto nasce dalla tavoletta e finisce con la tavoletta: il gioco per il gioco stesso. Un enunciato che serve a Flanagan per mettere in luce la natura ludica del film horror, i suoi cliché e i suoi aspetti autoreferenziali che, poi, sono quegli aspetti (i ripetuti jump scares, gli effetti speciali curati ma già visti) che finiscono per limitare il film a una canonica produzione horror contemporanea, per quanto avvalorata dallo stile asciutto e certosino del regista. Con questa operazione Flanagan dichiara furbamente di essere pienamente consapevole della natura del lavoro che gli è stato commissionato, lo costruisce come da copione e si diverte con l’etichetta di “mestierante” che gli è stata più volte affibbiata: si sa, nei giochi si usano delle strategie per ottenere il massimo risultato, e queste strategie, in fin dei conti, sono sempre le stesse.

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Mike Flanagan Kate Siegel Elizabeth Reaser Henry Thomas Lin Shaye 99 minuti
USA 2016
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Sex Education

di Stefano Lo Verme
Sex Education - recensione serie tv netflix

L’attenzione al pubblico degli adolescenti, anche e soprattutto in ambito seriale, ha rappresentato da subito una delle chiavi del successo di Netflix: sia nell’acquisto di titoli di catalogo più o meno già noti, sia nella produzione di serie originali in cui il genere teen è stato declinato secondo varie categorie. L’esempio più fortunato rimane senz’altro Stranger Things, fenomeno di massa in grado di fondere teen comedy, horror sci-fi ed effetto-nostalgia degli anni Ottanta, mentre nel filone drammatico ha suscitato un’eco vastissima la prima stagione di Tredici. Nel settore del dramedy più modulato e dal taglio brillante si collocano Atypical e The End of the F***ing World, mentre costituisce un caso a sé l’eccellente American Vandal, in cui il formato del mockumentary funge da veicolo per uno sguardo lucido e satirico sull’universo scolastico. Scorre invece su binari ben più convenzionali una delle recenti novità della scuderia Netflix: Sex Education, serie britannica in otto episodi ideata da Laurie Nunn, con Ben Taylor e Kate Herron alla regia, resa disponibile nel gennaio 2019.

L’ambientazione privilegiata è naturalmente il microcosmo del liceo, con la sua riproposizione di spregiudicati meccanismi sociali e di complesse dinamiche relazionali, e il personaggio focalizzatore è Otis Milburn, che ha il volto del ventunenne Asa Butterfield: un ragazzo timido, pacato e responsabile, che si mantiene ai margini dell’agone scolastico in compagnia del suo miglior amico, Eric Effiong, più spigliato ed esuberante, il quale fatica a conciliare la propria omosessualità con una famiglia religiosa e conservatrice. Ma il tratto distintivo di Otis, benché paralizzato di fronte al sesso e con difficoltà insormontabili nella masturbazione, risiede in un’approfondita conoscenza teorica della sessualità e dei suoi risvolti psicologici: una conoscenza assorbita da sua madre, Jean F. Milburn (ruolo affidato a Gillian Anderson), stimata sessuologa autrice di best-seller e con una vita privata alquanto vivace.

Nella cornice domestica, il conflitto alla base di Sex Education è appunto quello fra un adolescente insicuro come Otis e una figura materna spesso ‘ingombrante’, a cui il giovane rimprovera una mancata riservatezza e lo scarso rispetto nei propri confronti; un conflitto esacerbato in prossimità del finale di stagione, ma ancora in corso di sviluppo. Uno spazio assai più ampio è dedicato alla scuola, teatro di sfide incessanti per Otis ed Eric: due tipici outsider impegnati a farsi accettare dagli altri e ad accettare pienamente se stessi, a dispetto di ipocrisie, pregiudizi e piccole crudeltà dei loro coetanei. In questa prospettiva il modello di riferimento più prossimo di Sex Education non è tanto il già citato Tredici ma piuttosto Glee, teen comedy musicale arrivata esattamente con un decennio d’anticipo: per l’intensa empatia espressa verso i protagonisti, relegati ai gradini più bassi della gerarchia del liceo; per l’approccio sostanzialmente ironico e talvolta sopra le righe della narrazione, in cui i drammi vengono stemperati nella leggerezza e nell’umorismo; e per la tendenza ad allontanarsi da un registro davvero realistico in favore di una comicità che a tratti rasenta quasi la parodia (seppure in misura molto più calibrata di quanto non accadesse in Glee).

A Otis e al suo deuteragonista Eric si aggiunge fin dal pilot un’altra outsider: Maeve Wiley, che dietro l’attitudine punk da scostante bad girl non tarda a rivelare una profonda intelligenza e una sensibilità pari a quella di Otis. I due, infatti, stipuleranno un bizzarro accordo alla radice del titolo stesso della serie: sfruttare le competenze di Otis per fornire ai compagni di scuola un’opportuna “educazione sessuale”, che permetterà loro di affrontare con maggiore consapevolezza i più disparati problemi in campo erotico e affettivo. In ogni episodio, pertanto, Otis si cimenta in qualità di terapeuta del sesso su un caso specifico, dando modo agli autori di portare di volta in volta in primo piano i vari personaggi secondari; personaggi che, tuttavia, appaiono fin troppo vincolati ai classici stereotipi del genere di riferimento, risultando di rado compiuti e credibili.

Nel legame con la tradizione, del resto, è individuabile il principale limite della prima stagione della serie: tanto nella caratterizzazione dei comprimari, quanto in alcune soluzioni narrative forzate o prevedibili. E nell’economia del racconto, ovviamente, un’importanza rilevante è destinata al plot romantico: il sentimento di Otis per Maeve, frenato però dal senso di inadeguatezza del ragazzo e ostacolato dalla concorrenza di un ‘rivale’, il nuotatore Jackson Marchetti. Amori e amicizie, la scuola e la famiglia, il rapporto con gli altri e una rinnovata coscienza di se stessi sono dunque le coordinate di questo coming of age abbastanza canonico ma pur sempre accattivante: Sex Education non avrà l’ambizione di sfidare il paradigma delle serie teen, ma in compenso aderisce a tale paradigma con un funzionale amalgama di furbizia e gradevolezza.

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Asa Butterfield Emma Mackey Ncuti Gatwa Gillian Anderson 1 stagione da 8 episodi
UK 2019
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