Black Panther

di Ryan Coogler

Il giovanissimo Ryan Coogler conferma le sue qualità realizzando un blockbuster molto personale e avvincente, capace di guardare alla realtà socio-politica di oggi.

Black Panther - recensione film marvel

Un’attesa spasmodica ha anticipato l’uscita di Black Panther, in particolare negli Stati Uniti dove la stampa di settore ha affollato spazi cartacei e web con approfondimenti di ogni genere, tutti volti a sottolineare la capitale importanza del film.

Sono almeno tre le chiavi di lettura con cui intercettare questo ennesimo capitolo del Marvel Cinematic Universe: in primo luogo, come per ogni evento capace di catalizzare l’attenzione mediatica globale in questo modo, Black Panther è utile a fare un bilancio sullo stato del blockbuster contemporaneo; in secondo luogo, il film costituisce una compiuta miscela tra un fenomeno popolare come il comic movie e le istanze politiche che da diversi anni stanno avendo influenza di primo piano su Hollywood; infine, quest’operazione ci permette di valutare in che modo un autore giovane e talentuoso come Ryan Coogler si sia destreggiato all’interno di un sistema fatto di enormi interessi economici (e non solo).

Non è la prima volta che vediamo T’Challa sullo schermo: l’eroe africano ha fatto il suo esordio in Capitan America: Civil War, film nel quale si assiste alla morte di T’Chaka, padre di T’Challa e all’epoca re del Wakanda, in un attentato terroristico durante un incontro delle Nazioni Unite tenutosi a Vienna. Similmente a Spider-Man, quindi, si tratta di supereroi non introdotti attraverso un film a loro dedicato (come è accaduto ai personaggi della Fase Uno) ma fatti esordire in un film collettivo. Questo metodo ha consentito al pubblico di familiarizzare con il personaggio a poco a poco, e quindi agli autori dei film successivi di non essere costretti a realizzare delle origin story tradizionali, utilizzando modelli narrativi meno convenzionali.

A partire da queste basi Ryan Coogler – giovanissimo regista e sceneggiatore, autore di un film indipendente sulla discriminazione razziale (Fruitvale Station) e del rilancio del franchise di Rocky (Creed) – inserisce un doppio incipit che nella sua duplicità intavola già alcuni dei principali discorsi del film: prima vi è la descrizione dello stato di Wakanda, del metallo prezioso custodito dalla popolazione e del ruolo del re; poi, in un contesto metropolitano, nella Oakland del 1992, viene presentato il lato oscuro della riflessione sulla black culture, quello che parla di deportazione, isolamento e abbandono, che si rivelerà cruciale all’evoluzione del film.

Dopo giorni in cui si è parlato dell’arrivo e dell’importanza di un’opera del genere, e dopo meno di una settimana dalla sua uscita, il dibattito è ancora vivissimo e la critica statunitense (come spesso accade nei casi in cui i giudizi sono mediamente molto positivi) viene giudicata dall’esterno e in maniera superficiale come un unico blocco, liquidando la questione in modo un po’ troppo comodo. Come si analizza un film del genere? È qui che si verificano i maggiori fraintendimenti critici. Perché la stampa specializzata è impazzita per Wonder Woman? Perché sta andando in visibilio per Black Panther? Se non sono capolavori di regia e scrittura, allora è perché decine e decine di critici specializzati, e in molti casi estremamente competenti, sono tutti matti? O peggio, al soldo delle produzioni? Ovviamente no.

Si tratta di fenomeni mediali enormi, di cui quello che una volta gli studiosi chiamavano testo cinematografico è solo una parte tra le altre, interna ad una corazzata multimediale che va dal grande al piccolo schermo, dai social network al merchandising, fino ai sempre più sfaccettati e fondamentali discorsi sociali. Quando si parla di questi ultimi non si fa solo riferimento alla critica ufficiale e non ufficiale e alle comunità di fan attive sui forum, ma anche ai rapporti che colossi come Black Panther intessono con le principali questioni di tipo politico-sociale. Il panorama che è seguito alla protesta di OscarSoWhite si rivela un contesto in cui il nuovo film Marvel si muove alla perfezione, un terreno che dopo un anno dall’elezione di Trump, il caso Weinstein e il MeeToo, è fertilissimo per la rivendicazione di spazio e attenzione da parte di voci che per decenni sono state più o meno volutamente marginalizzate, da quelle femminili a quelle delle minoranze etniche.

Se Wonder Woman ha rappresentato un passaggio importantissimo per questo modello cinematografico – ovvero il tanto atteso momento in cui ragazzine pre-adolescenti hanno avuto finalmente l’opportunità di identificarsi in una supereroina, come i loro coetanei maschi hanno fatto da sempre con i numerosi equivalenti maschili – Black Panther è un film rivoluzionario, il punto d’arrivo di un percorso lungo e pieno di insidie, il momento in cui la rappresentazione della cultura black trova finalmente una declinazione concreta e stratificata non solo nel cinema mainstream ma addirittura nel bianchissimo mondo dei supereroi. Non si tratta solo di avere i protagonisti di colore, come è stato per Blade e Catwoman, ma di costruire un intero immaginario legato alle origini della cultura black, incentrato sulla riappropriazione delle radici africane e focalizzato su una riflessione che sia il più possibile articolata e argomentata, nella misura di quanto può esserlo in un comic movie.

Black Panther lavora con ammirevole coerenza verso questo obiettivo, dando vita a un worldbuilding di altissimo livello sorretto da attori neri in quasi tutti i ruoli principali, lavorando con ricerca sui costumi e sulle acconciature (si riprendono tagli di capelli e usanze tradizionali), affidando il coordinamento della colonna sonora a una star della musica nera come Kendrick Lamar, facendo di Wakanda il sogno di un’Africa scampata al colonialismo, e inserendo nella classica parabola del viaggio dell’eroe una serie di dettagli caratterizzanti dal punto di vista identitario.

Black Panther non è solo un film sulla rivendicazione di un’intera cultura d’origine, sul diritto di un popolo ad avere i propri eroi e quello di ragazzini e ragazzine di colore a immedesimarsi in guerrieri e guerriere capaci di menare fortissimo. Il film riesce a essere anche una riflessione fortemente autocritica, capace di utilizzare la figura del villain – spesso il punto debole dei cinecomic Marvel – per ragionare sugli errori commessi dal mondo liberal e in particolare dalla presidenza Obama. In che altro modo interpretare il rapporto tra i due protagonisti? Il tentativo di proteggere il proprio popolo e di portare avanti una serie di nobilissimi ideali da parte di governanti illuminati ha spesso privilegiato il macro e perso di vista il micro, lasciato da parte qualcuno, fino a generare rabbia e scontento tra le classi subalterne. C’è una forte analogia tra l’ascesa del personaggio di Michael B. Jordan e la rabbia e il disagio sociale che hanno portato alla cavalcata di Trump. Il discorso di Black Panther, per quanto inserito in un modello cinematografico che non consente di approfondire più di tanto certe questioni perché obbligato ad assecondare una vasta gamma di obiettivi, in primis quello di intercettare milioni di spettatori, è davvero spietato e maturo. Allo stesso modo vanno analizzate le ultime parole di Killmonger, che di fronte a un gesto di pietà più dovuto che sentito da parte di T’Challa, non solo ne sottolinea l’ipocrisia, ma recupera come ficcante parallelo la condizione dei deportati africani che preferivano morire gettandosi dalle navi pur di non vivere da schiavi.

Black Panther è un film molto efficace e che agisce su un doppio livello. Da una parte si distingue come un ottimo acton movie, una sorta di origin story supereroistica ma priva di tutte le zavorre di questo genere di film, capace di introdurre il contesto rappresentato e i nuovi personaggi parallelamente al racconto di una storia avvincente, in grado di offrire scene spettacolari (ottimo il combattimento finale) e soprattutto di contrapporre al protagonista un cattivo di altissimo livello, talmente stratificato da essere un co-protagonista a tutti gli effetti, carico di dolore, rabbia e giustificata cattiveria.

Dall’altra il film riesce a non soccombere sotto il peso di aspettative altissime, esercitate da un movimento che lo ha proclamato testimone di una rivoluzione culturale molto prima di averne visto una sola immagine. A queste fortissime pressioni Ryan Coogler risponde con una maturità invidiabile per un autore di trentuno anni, riuscendo a gestire duecento milioni di dollari di budget per realizzare un film in grado di essere sia un capitolo avvincente e originale del Marvel Cinematic Universe sia un blockbuster d’autore, per via di una serie di tematiche molto presenti nella sua filmografia e che qui vengono intavolate con precisione ed equilibrio, premiando coloro che hanno avuto la spregiudicatezza di sceglierlo per questo ruolo.

Autore: Attilio Palmieri
Pubblicato il 20/02/2018

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