The Raid 2: Berandal

di Gareth Evans

Gareth Evans fa tesoro delle lezioni apprese con il primo "The Raid" con l’intento di superarle sulla lunga distanza.

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Cinema d’azione come luogo del lavoro e della sperimentazione sui corpi, inserito in un contesto da gloriosissimo b-movie di matrice carpenteriana: questo era The Raid: Redemption, un successo planetario (e per molti versi inaspettato) che ha catalizzato l’attenzione generale nei confronti di Gareth Evans, giovane regista gallese trapiantato in Indonesia in grado di sovvertire i canoni del genere. Il film del 2011 arrivava quindi – è il caso di dirlo – con la stessa dirompenza di un pugno in faccia, vero e proprio punto di non ritorno nella messinscena fisica del combattimento e delle arti marziali: senza rinunciare ad alcuni visibili ritocchi in CGI, è vero, ma riuscendo a inserirli alla perfezione all’interno di un discorso comunque coerente e rispettoso sulla coreografia delle arti marziali e sulla fisicità degli attori. Quasi inevitabile, quindi, che le vicende del poliziotto Rama trovassero una prosecuzione attraverso un sequel; quello che forse non tutti si aspettavano, invece, è il taglio completamente differente scelto da Evans. Il quale dimostra un’intelligenza notevole nel rifiutare a priori una ripetizione sterile dello stile e della narrazione del primo film, decidendo di trasformare la vicenda raccontata in epopea. The Raid 2: Berandal fa tesoro delle lezioni impartite da Redemption, con l’intento di superarle sulla lunga distanza: in termini di dimensioni, innanzitutto, attraverso un’ambizione autoriale sotto alcuni versi sorprendente.
Evans pensa, scrive e realizza in grande, e senza timori reverenziali nei confronti di chicchessia moltiplica gli elementi del suo cinema, a partire dalla durata: due ore e mezza contro l’ora e quaranta del capostipite, tanto per cominciare. Ma non è una questione riducibile a un semplice conteggio numerico, perché Berandal vuole muoversi all’interno del genere attraverso tutti i percorsi possibili, espandendoli e spingendoli fino alle estreme conseguenze. Non più unità di luogo e d’azione, e rifiuto totale dei personaggi intesi come caratteri monodimensionali; se Redemption si svolgeva tutto tra i corridoi e le stanze di un condominio nell’arco narrativo di poche ore, Berandal si allarga fino ad aprirsi a squarci e orizzonti inediti: basterebbe la sequenza introduttiva, che comincia in maniera contemplativa su un campo lungo, per capire che stavolta la musica è decisamente cambiata, e che Evans vuole giocare con le aspettative dello spettatore senza mai mancargli di rispetto.

In questo racconto lungo e articolato, ricco di personaggi e situazioni che si evolvono senza soluzione di continuità, le tempistiche si fanno più rarefatte e consapevoli, mettendo insieme un universo narrativo che abbraccia diversi anni della vita del protagonista e proseguendo in maniera paziente e calibrata; senza mai bruciare le tappe ma, al contrario, costruendo una progressione di eventi che porteranno alla resa dei conti finale in un climax figlio di una scrittura densa e consapevole. E poi ovviamente c’è quello che tutti reclamavano a gran voce: i combattimenti, ancora più elaborati e spettacolari, nel segno di un cinema che si schiera in tutto e per tutto dalla parte dello spettatore. Evans (come sempre anche montatore) lavora sugli spazi in maniera sopraffina, reinventandoli: dallo spazio chiuso di un gabinetto ad un’arena fangosa e sporca, passando addirittura per l’abitacolo di un automobile, nessun set sembra in grado di imporgli dei limiti.
A differenza del film precedente, però (e non bisogna avere timore nel dirlo), fa capolino qualche estetismo e qualche ombra di patinatura di troppo, come ad esempio nella già citata sequenza della lotta nel fango, dove l’eccessivo utilizzo del ralenti e della pioggia come effetto ottico conferisce alle immagini un vago sentore di artificio (al punto che il modello di riferimento sembra quello dei fratelli Wachowski nei due seguiti di Matrix); ma è un sospetto che passa in un istante, tanta e tale è la passione conferita nel film. Film che non sempre riesce a giustificare appieno un tale desiderio di grandezza ed imponenza narrativa (questo è il suo secondo difetto), perché non aggiunge nulla a quanto già detto in precedenza da altri, e che rischia quindi di mettere in secondo piano la componente fisica dell’action che invece è il fulcro e il cuore pulsante dell’intero progetto. Ma non si può accusare Evans di peccare per eccesso, perché significherebbe voltare le spalle a un cinema altruista nello spirito e generoso nei mezzi, come pochi altri oggi sembrano in grado di fare.

Autore: Giacomo Calzoni
Pubblicato il 11/08/2014
Indonesia 2014
Regia: Gareth Evans
Durata: 150 minuti

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