Climax

di Gaspar Noé

«Dio è con noi»

Climax - recensione film gaspar noè

O I Diavoli, probabilmente.

Sofia Boutella sullo sfondo del tricolore rosso-bianco-blu benedice così la performance di un film –ci informa il cartello – «fiero di essere francese». Che cosa vorrà mai dire tutto ciò, se proprio deve voler dire qualcosa? Per fortuna, Gaspar Noè risponde: «quando mi chiedono della religione dico sempre ‘sono ateo e fiero di esserlo’, così ho pensato che fosse divertente dire che è un film francese e fiero di esserlo, perché la gente lo prenderà per ateistico», il che ci ricorda che è sempre bene non fare troppe domande ai registi e non fidarsi troppo delle loro risposte, specialmente se sono franco-argentini estremisti dell’immagine che, messi da parte ordine e virtù, esplorano con il virtuosismo delle riprese il gigantesco disordine dell’esistenza e dei suoi stati alterati. Quello di Noè è cinema del caos – e fiero di esserlo; per riprendere la dichiarazione di Murphy (Karl Glusman) in Love sulla propria vocazione registica «I want to make a movie out of blood, sperm and tears», e non a caso si chiamava Murphy, unica legge possibile del vivere che è «un’impossibilità collettiva» (altro cartello di Climax). Insomma, se il ballerino Omar crede nell’aldilà e immagina il paradiso «tutto al posto giusto, niente caos», al di qua risuona ancora Sartre: «L'enfer c'est les autres». In mezzo, c’è la morte.

Ma procediamo con ordine.
Che nell’universo di Noè può significare anche con i titoli di coda che aprono il film «che avete appena visto», mentre tutto ciò che abbiamo visto è qualcuno che agonizza nella neve, ripreso dall’alto, così in alto che quella camera incorporea di Enter the Void sembra ora divinizzata dalla scoperta del drone. Siamo in Francia nel ‘96, un gruppo di ballerini viene ingaggiato per un tour, seguono le audizioni su schermo, televisivo, incorniciato di libri e VHS disposti ad hoc per essere letti chiaramente (Possession, Suspiria, Le droit du plus fort, Harakiri, Suicide-mode d’emploi, …), come le locandine che arredano i film del regista, espropriando al critico il gusto e il dovere di scovare rimandi e connessioni, con un’esibita cinefilia e con lo svelamento didascalico dei propri temi: insieme all’insistenza sui cartelli, già da Carne, all’illeggibilità dei titoli sincopati (già in Enter the Void), il cui unico scopo è il ritmo nel quale captare qualche informazione (il resto lo fornisce Imdb), forzano la spettatorializzazione, scandiscono la composizione delle immagini come fossero mute, arredano la performance del film che avviene in forma di incidente (per dirlo con Jack, il trieriano architetto che non riesce a costruirsi una casa).

Per questo in Noè non c’è tanto la morte, quanto il morire, «un’esperienza straordinaria» ci informa – il cartello, naturalmente –, come se fosse qualcosa che si può raccontare, e lo è: è cinema. Era dunque il momento che il regista, vocato al rituale e al sensuale, al carnale e al sensoriale, si dedicasse alla danza, fra improvvisazione e coreografia, con un adrenalinico prologo in piano sequenza che preludia all’estenuazione successiva causata dall’incidente di turno, una sangria allucinogena di cui nessuno è al corrente. Sangria, ovviamente, didascalicamente, su una pista rosso sangue invasa di ballerini come se la hall di Shining danzasse. Doveva essere Danger, invece è stato Love; doveva essere Psyche, invece è stato Climax: un’escalation psicotropa. Love era la storia di una storia d’amore, ripensata durante una lunga crisi d’astinenza amorosa (non a caso, lei gli aveva lasciato dell’oppio, qualora non fosse più stata presente); Climax è un’overdose inconsapevole, un atto unico che diventa atto mancato, uno svelamento progressivo di disumanità insita nelle premesse. E tali premesse, più che nell’incipit del film, sono nella filmografia noeniana che è una costellazione di antieroi, di individui fallimentari che portano alla costruzione di una finta morale del “se avessi”, dell’irrealtà del periodo ipotetico: se Alex non fosse uscita da sola, non sarebbe stata aggredita, se Marcus avesse avuto cura di lei, non sarebbe uscita da sola (Irréversible); se Murphy non avesse tradito Electra, Electra non avrebbe tradito Murphy, o viceversa? (Love); se la sangria non fosse stata drogata, se le persone fossero meno cattive, non darebbero il peggio di sé all’occorrenza e la performance sarebbe riuscita. E avremmo potuto evitare di farci un film. Questo intreccio di ipotesi regressive, difatti, non è altro che un giocattolo, un innesco per condurre la visione all’estremo. E la visione e la sensazione sono tutto ciò che conta. Sotto questo aspetto, la New French Extremity di Noè, nel suo spudorato svelarsi, è un rigetto e un’esautorazione, più che un’espressione, di quel nientutto (scomodando, ci perdoni, Gianni Toti) ancora detto “postmoderno”, nel millennio in cui tutto è post-qualcosaltro e al cinema ciò che fa i numeri sono i “re” (dal re-boot al re-make). La costruzione in fieri porta invece all’happening, all’accadimento che presuppone l’imprevisto, quello che in Noè, eternamente incastrato nel tragitto verso lo spegnimento di Hal 9000, è un tunnel rosso. E Noè è un regista del rosso (il primo è stato Ejzenstein, il più grande Kubrick, il più amabilmente pop Almodovar).

L’immediatezza di alcuni codici non ha bisogno di grandi strutture di pensiero, ma di grande disponibilità di sguardo, nella più dispersiva delle epoche, frantumata in infiniti schermi, nessuno realmente osservato. Alors on danse sulla fretta contemporanea, per il tempo di più battiti di ciglia, che vuol dire già tanto, con Selva (Boutella), Psyche, Eva, Cyborg, Rocket e tutto il corpo di ballo, a tempo di vogueing, krumping e waaking, al tempo della trap, là fuori (dal film; magari ad agonizzare nella neve). Questo cinema claustrofobico, incestuoso, orgiastico, estenuato, provocatorio è “solo” un’esperienza, e a volte un esperimento, che per questo ama l’improvvisazione; «non ci sono misfatti, solo fatti» (si autoassolveva l’incipit rovesciato di Irréversible). E se qualcosa va storto, non possiamo certo assolvere, ma almeno risolvere il nascere («un’opportunità unica»), la violenza, l’amore, il caos, lo sfacelo e perfino qualche furberia in un unico possibile, se possibile, calembour: film happens.

Autore: Alessia Astorri
Pubblicato il 13/06/2019
Regia: Gaspar Noé
Durata: 90 minuti

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