L'impostore - The Imposter

di Bart Layton

Ricostruendo l'incredibile storia di Frédéric Bourdin, Bart Layton firma un'opera prima metacinematografica che si muove libera tra realtà e finzione.

L'impostore - recensione film

Cos’è? Come lo si riconosce? Chi è l’impostore? Un falso, un bugiardo, un millantatore. Certo, ma c’è di più. Sfogliando le definizioni dei vari dizionari, salta agli occhi un motivo ricorrente con cui l’impostore viene identificato, la peculiarità che può sancire la maggior o minor riuscita del suo inganno: la capacità di sfruttare la credulità altrui, di chiunque con lui entri in contatto o lo stia guardando, lontano o vicino che sia. L’impostore non solo si camuffa e si trasforma, ma fa leva sulle emozioni di chi sta raggirando, sul bisogno di chi assiste alla sua performance di colmare la finzione con i propri significati, di giustificare come reale ciò che reale non è, o non sembra essere.

Chi è quindi l’impostore dell’omonimo, primo lungometraggio di Bart Layton, L'impostore - The Imposter? È forse Frédéric Bourdin, l’uomo con milioni di (o con nessuna) identità che, nonostante i suoi ventiquattro anni e le origini francesi, si finge un giovane scomparso da una famiglia texana all’età di tredici anni, nel 1994, e che viene riaccolto dai suoi stessi parenti nel 1997 senza riserva alcuna? o sono forse gli stessi famigliari, genitori e figli distrutti dalla scomparsa ma che potrebbero aver finto di riconoscere il figlio per nasconderne l’omicidio? o è forse, infine, il cinema stesso l’impostore? la macchina da presa, il montaggio, il sound design, tutti quegli strumenti che permettono al regista di manipolare le emozioni degli spettatori esattamente come Bourdin ha manipolato quelle delle decine e decine di persone che ha imbrogliato nel corso della sua carriera di attore-truffatore?

Il film di Layton è unopera proteiforme che può essere letta come documentario, mockumentary, film d’inchiesta, film narrativo, e che al suo interno contiene una pluralità di forme e stili differenti: ci sono le interviste, le ricostruzioni narrative, il materiale d’archivio audio e il materiale d’archivio video, ci sono tecniche giornalistiche (il recupero di materiali che ricostruiscono l’intera vicenda) e tecniche cinematografiche (carrellate, panoramiche, lyp sinch) ma, soprattutto, c’è un’unica forma fluida in cui si alternano realtà e finzione, dove si può passare da un’intervista alla ricostruzione degli eventi narrati nell’intervista stessa, dall’autodenuncia e la ricostruzione orale all’interpretazione e la ricostruzione visiva. Bourdain, intervistato dal regista, può ricostruire i suoi passi come calarsi nuovamente negli unici panni che abbia mai avuto, quelli degli altri, riabbracciare la sua non-identità e mimare le sue stesse parole registrate su nastro, può vedersi interpretato da un altro uomo, può ricostruire e presentare allo spettatore i metodi della sua interpretazione, quasi che l’intero film sia sviluppato sul modello della masterclass di un attore consumato che ripercorre i suoi primi passi nel mondo della recitazione: lo sviluppo della sue tecniche, l’assunzione di una precisa personalità attoriale, le difficoltà in cui si è imbattuto nel confrontarsi con un nuovo personaggio, molto più giovane di lui ma caratterizzato a tal punto da non suscitare il minimo dubbio in una sorella che gli corre incontro e lo abbraccia, ancora prima di averlo visto in faccia.

Che il rapporto tra il figlio scomparso, Bourdin e la famiglia si declini in un triangolo simil-cinematografico - un triangolo che riproduce il rapporto tra il regista, l’attore feticcio e lo spettatore - è chiarito da Layton con la decisione di inserire un breve estratto di materiale d’archivio, un home movie per la precisione, in cui Nicholas Barclay (il ragazzino) ricorda involontariamente il grado di finzionalità inscindibile dalla presenza di una macchina da presa pronunciando queste parole mentre guarda dritto nell’obiettivo: «io sono il regista». Una frase che induce a una lettura metanarrativa di un’opera che non ha valore unicamente documentaristico ma che, anzi, sembra una riflessione sulla forma e il potere del mezzo cinematografico, sul bisogno del pubblico (la famiglia) di leggere nell’attore feticcio (Bourdin) le tracce biografiche del regista (Nicholas) e di colmare le lacune della narrazione o interpretare la storia (il film) secondo i propri bisogni e desideri: si vede ciò che si vuole vedere.

Autore: Pietro Lafiandra
Pubblicato il 12/06/2019
Regno Unito 2012
Regia: Bart Layton
Durata: 99 minuti

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