Benvenuti a Marwen

di Robert Zemeckis

Sul desiderio che vince la paura, sullo stress post-traumatico, sulla perdita di memoria. Quello di Zemeckis è un cinema da sognare a occhi aperti.

BENVENUTIAMARWEN

La paura più grande, a Marwen come nel mondo vero, è quella di rimanere soli. Che siano orfani o conigli, naufraghi o bambole, i personaggi di Zemeckis sono alla perenne ricerca di un contact che li faccia sentire parte di qualcosa. L’intero dramma di Benvenuti a Marwen affonda nel terrore della solitudine, nell’altro come pericolo imminente o fantasia da idealizzare e poi sublimare.

Mark Hogancamp è ubriaco d’amore – come Forrest Gump - ma accecato dalla paura – come Eddie Valiant. Il suo alter-ego è un pupazzo, Hogie, eroico pilota di guerra americano animato dalla motion capture tanto cara al regista. Anche lui cade dal cielo, alla maniera di tanti personaggi di Zemeckis. Hogie ha una spiccata attrazione per le scarpe femminili, capaci di catturare l’essenza delle donne. Appena scampato alla caduta, viene sorpreso da alcuni soldati nazisti. “Non parlo nazista” dirà lui, prima di essere deriso e condannato a morte certa. Hogie però ha un asso nella manica, le sue pupe: un gruppo di bellissime bambole guerrigliere che sterminano i nazisti di turno. Nazisti zombie, per giunta. Poco dopo scopriamo che è Mark Hogancamp, il vero Hogie, a mettere in scena i pupazzi per fotografarli. Nel suo guardino ha perfino creato Marwen, un villaggio in miniatura ispirato a un paesino belga.

Sembrerebbe l’ennesimo film sul filo sottile che separa la realtà dalla finzione se non fosse che a generare Marwen è stato un trauma. In principio, infatti, un pestaggio di natura omofoba da parte di un gruppo di filonazisti che dà vita all’amnesia del protagonista. I calci e i pugni azzerano i suoi ricordi, la memoria scivola via per sempre. Mark una volta disegnava, ora non riesce neppure più a scrivere il suo nome.

Con senso del dolore sincero e mai edulcorato, Zemeckis mette in scena la perdita della memoria e degli affetti. Il trauma è una rimozione forzata dell’identità, una schiavitù psicologica che frena il desiderio e la vita. Mark sostituisce il suo passato rimosso con quello storico della seconda guerra mondiale. Marwen non è infatti l’isola felice, la possibilità d’evasione nel mondo dei sogni, ma un villaggio intriso di sevizie e violenze che reiterano ossessivamente la terribile scena madre della sua vita. Solo le donne sono capaci di salvare Mark dagli abissi cui è stato condannato ("Non lo sai che le donne salveranno il mondo?").

In questo senso Benvenuti a Marwen mette in scena un dolente processo psicoanalitico dove la guerra è prima di tutto contro se stessi e le proprie manie: la dipendenza da oppiacei prende le sembianze dell’affascinante strega Dejah Thoris, il sadismo dei nazisti riflette la violenza degli aggressori. Come Flight, Benvenuti a Marwen è un film sullo stress post-traumatico, sul dolore come propellente esistenziale. Mark non può fare a meno della sofferenza quale parte integrante di un processo terapeutico. L’intero mondo di Marwen, del resto, è un precisa messa in abisso della mente di Mark, costantemente sul punto di vacillare.

Ma il desiderio, alla fine, vince la paura.

Crisi di panico che si trasformano in raffiche di proiettili, incubi rossastri, saturi e deformi che sembrano usciti da fantasie lynchiane. E cosa dire della nuova, affascinante vicina di casa subito trasformata nella bambola più bella? Ancora una volta Zemeckis lavora su un incredibile immaginario di ferite e cicatrici con l’afflato umanista che lo rende – forse insieme solo a Spielberg e Eastwood – uno dei più grandi cinenarratori americani contemporanei. Uno dei pochi in grado di unire lo sguardo classico, debitore di Capra e del cinema hollywoodiano che fu, all’anima sperimentale di chi indaga corpi elastici e cartoonizzati come doppi dei nostri desideri e delle nostre paure più recondite.

Ormai il cinema di Zemeckis è così essenziale da non aver più bisogno di nulla: pensate alla figura della vicina di casa. L’enorme dolore di una madre s’insinua subito nei nostri occhi e nel nostro cuore: nessuna parola, solo due o tre fotografie del figlio perduto. Basta un attimo e abbiamo già la morte nel cuore. Ma poi uno sguardo – quello finale che Mark rivolge alla dolce Roberta – è capace di riaccendere il mondo intero.

Peccato che la critica americana scambi la fede incrollabile nei legami umani in retorica pomposa e stucchevole. Risultato? Ennesimo flop al botteghino ed ennesimo film bellissimo di un regista che non sbaglia un colpo. Speriamo che non lo fermino mai: intanto, anno dopo anno, noi ritorniamo al futuro, come fosse la prima volta.

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 14/01/2019
USA, 2018
Durata: 116 minuti

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