Interstellar

Nolan continua a portare il suo cinema ai confini dell’universo, per un viaggio di grande suggestione ma eccessivo controllo

Per quanto lontano possa spingersi il cinema di Christopher Nolan, i suoi film restano comunque espressioni di un’ossessione ripetuta, esercizi logici ancorati al fascino del tempo/spazio inteso nella sua relatività. Già The Following, Memento, The Prestige vivevano di cose che appaiono ma non sono, illusioni che mettono in discussione l’assodato grazie a trucchi esercitati spesso ad un prezzo terribile. Infine Inception e Interstellar, film pressappoco gemelli, spingono la ricerca della relatività e il cinema in un viaggio verso il confine più estremo, il fondo ultimo del sogno subcosciente o di un gargantuesco buco nero. E in entrambi i sistemi le storie e i personaggi che vi finiscono all’interno devono affrontare l’inarrestabile scorrere del tempo e le responsabilità familiari, un binomio apparentemente impossibile ma sul quale si fondano invece entrambi i film, e con loro il cinema stesso di Nolan.

Il Cobb di Leonardo DiCaprio e il Connor di Matthew McConaughey sono in questo senso incarnazioni diverse di una stessa personalità, cowboy della rete (onirica o interstellare che sia) pronti a raggiungere il confine dell’ignoto pur di ricongiungersi o salvare i propri figli. In questo senso Interstellar, ancor più del gemello, è un film sulla paternità e sul senso di responsabilità che essa implica, e soprattutto sulla tensione catartica al ricongiungimento familiare, all’appianamento di ogni divergenza grazie ad una totale empatia emotiva. L’importanza di questa dimensione personale è talmente evidente (e invadente) in Interstellar da rendere l’amore una costante quantica dell’universo. Essendo il suo un cinema notoriamente freddo e cerebrale, Nolan ci ha abituati poco all’irrompere del sentimento nelle sue costruzioni narrative, e tuttavia (come già anticipava il finale di Inception) Interstellar si prende dei rischi enormi e con ingenua naiveté pone al centro del suo universo filmico l’amore di un padre per sua figlia, costante capace di attraversare le dimensioni e comunicare attraverso lo spazio/tempo.

Viaggio al termine dell’universo, Interstellar cala questa dimensione intimista e familiare in una cornice spaziale di grande respiro, tracciata con tempi e modalità più che insolite per un blockbuster. Lo spazio di Nolan infatti è antispettacolare e silente, lontano dal dinamismo effettistico del Gravity di Cuarón. Per molti aspetti viene invece in mente la fantascienza di Asimov, per il freddo glaciale di un vuoto morto, la certosina cura dei dettagli tecnici, la rappresentazione iniziale di un’umanità ancorata ad una Terra morente e incapace di immaginarsi al di fuori del proprio nido. Mosso da un’incrollabile fiducia nel progresso umano, Nolan ci racconta con inaspettato ottimismo della necessità di lottare e guardare avanti come specie, anche quando le prospettive di sopravvivenza sembrano diradarsi sempre più. Da qui nasce uno degli aspetti più belli di Interstellar, la sua capacità di restituire un senso autentico di avventura ed esplorazione spaziale, il brivido dell’ignoto in un viaggio verso i confini estremi dell’esistente. E in questo viaggio Nolan riesce a costruire momenti di straordinaria suggestione, frammenti vivi di una fantascienza che torna a vivere in ardite manovre spaziali e suggestive panoramiche planetarie. Ed ovviamente a scandire la narrazione è ancora una volta l’ossessione per il tempo, piegato alla relatività di un buco nero e vissuto come nemico da affrontare. In quanto avventura spaziale, Interstellar pone l’uomo contro la natura, sia nelle forme di una Terra morente che in quelle di uno spazio/tempo apparentemente ingovernabile.

Come per Inception anche Interstellar racchiude e palesa pregi e limiti del cinema di Nolan, specie quando il suo sguardo si spinge al limite, nel limbo onirico o dentro la singolarità quantica interna ad un buco nero. Il suo cinema è dotato di questa meravigliosa ambizione, ma ciò che troviamo nel punto più estremo dell’universo è ancora una volta un sistema ordinato. Il grande limite di Interstellar è lo stesso di Inception, l’incapacità di pensare in termini di autentica alterità visiva e narrativa nel momento in cui si è portato il proprio cinema oltre il conoscibile; tanto il sogno quanto lo spazio/tempo quantico vengono così ridotti ad uno schema all’interno del quale tutto trova un senso e una sua quadratura (per di più in termini di già visto). Un meccanismo perfetto che snocciola formule e regole ma denota una grave mancanza di immaginazione filmica, la non-volontà a lasciarsi andare ad una perdita di controllo. E’ un cinema questo che gode di grande talento registico, di suggestioni irresistibili e ambizioni vertiginose, ma in cui anche l’amore, piuttosto che essere elemento impazzito e anarchico, finisce per diventare una grandezza quantificabile.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 05/11/2014

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