Rocketman

di Dexter Fletcher

A differenza di "Bohemian Rhapsody", il nuovo film di Dexter Fletcher persegue l'estetica anti-naturalistica da musical e trasforma il flirt con il fantastico e l'immaginifico nel cuore della messa in scena.

Rocketman-recensione film Dexter Fletcher

Pochi mesi fa usciva al cinema Bohemian Rhapsody, un film talmente ossessionato dalla riproduzione millimetrica della forma del reale da risultare addomesticato e, a tratti, persino anestetizzato. Su questo versante, Dexter Fletcher, regista di Rocketman e mano invisibile dietro Bohemian Rhapsody, sembra aver cercato una cesura netta nei confronti del film precedente. Tanto il biopic sui Queen effettuava un'operazione di mimetismo del reale (per evidente mancanza di carattere), utilizzando le canzoni del gruppo in modo decisamente posticcio, quanto il film su Elton John crea astrazioni visive sfruttando i motivi dell'artista per dar vita a coreografie fantasmagoriche che innestano la musica nel tessuto narrativo di Rocketman.

Come la lunga tradizione del musical ci ha insegnato, ogni canzone nel film di Fletcher porta avanti il racconto e si inserisce come uno strumento in grado di creare compattezza narrativa da un lato e puro artificio estetico dall'altro. È in tal senso che Rocketman decolla come un razzo e si lascia andare al camp e al kitsch più sfrenati. Lustrini, maschere, piume e occhiali a cuore fanno da corollario ad ogni sequenza, che esagera in fatto di superfici pop e sonore da ri-creare. L'enfasi anti-naturalistica è la traiettoria scelta da Fletcher, che si prende svariati rischi seguendo il binomio di magia e sogno del numero musicale e fa tutto ciò ancorando l'estroso all'archetipo.

Tutto, infatti, è ampiamente prevedibile in Rocketman. Non perché, in fin dei conti, si tratti di un biopic seppur poco convenzionale ma perché i numerosi flirt con il fantastico e l'immaginifico sono sviluppati a partire da una serie di tappe ben definite nella vita di Elton John: l'adolescenza da enfant prodige, il rapporto complesso con due figure genitoriali anaffettive, la scoperta del talento, l'incontro col migliore amico-paroliere dei suoi brani, l'ascesa inarrestabile e, come da copione, il tonfo clamoroso. Infine, la consapevolezza di sé e la nuova ascesa. Nulla in questi pilastri della tradizione classica del racconto impedisce al film di sprigionare tutta la sua verve. Anzi, è proprio attorno a essi che regista, sceneggiatori e coreografi costruiscono i numeri più “leggeri” del film, in grado di portare in aria lo spettatore e di farlo fluttuare nell'atmosfera.

Già la sequenza iniziale di Rocketman è un manifesto programmatico di quanto vedremo nel corso dei restanti 120 minuti. Con addosso un abito da diavolo e un vasto assortimento di paillettes e di piume, Taron Egerton nei panni di Elton John attraversa un corridoio per recarsi a un appuntamento di recupero per dipendenti da droghe. Ha così inizio il film, una gigantesca sessione di auto-terapia che John conduce su sé stesso, prendendo per mano lo spettatore e trascinandolo nel suo mondo ai limiti della realtà. Più di una volta, il film si concede una serie di licenze (a partire, appunto, dall'incipit) ma lo fa soltanto in nome di un'idea di spettacolo e di immaginario musicale da creare e rispettare. L'amore, l'ingenuità e la bulimia di vita saturano ogni momento del film e regalano persino attimi di commozione ben congegnati.

Probabilmente, l'esagerato accumulo finisce per saturare qualsiasi spazio del film e per togliere margine di movimento all'immaginazione dello spettatore; però, si tratta di uno di quei casi in cui persino essere intrappolati in un meccanismo spettacolare da togliere il fiato risulta funzionale al racconto portato in scena.

Autore: Matteo Marescalco
Pubblicato il 28/05/2019
Regno Unito 2019
Durata: 121 minuti

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