Dossier Joe Dante / 11 - L'erba del vicino

La sintesi del macroscopico: uno sguardo entomologico sul plastificato provincialismo americano lottizzato tra gli stretti limiti del buon vicinato.

A seguito del mezzo flop produttivo di Explorers (1985) e dopo esser tornato a lavorare con Spielberg con il buon Salto nel buio (Innerspace - 1987), Joe Dante prova a percorrere la strada del buon e cattivo vicinato con L’erba del vicino (The Burbs - 1989). In un’indefinibile ed idilliaca provincia americana, un gruppo di vicini indaga sui nuovi proprietari di una decadente casa che confina con i loro giardini. Dopo la sparizione misteriosa di un loro vicino di vecchia data, il buon vicinato inizia a sospettare dei Klopek, una famiglia di stranieri che ha abitato da poco la vecchia casa. Non rappresentando il genere di persone congrue all’etichetta dell’americano modello, il sospetto sui Klopek aumenterà in base a delle norme di buon vicinato infrante. Questa famiglia non prende parte alle discussioni sociali del vicinato, rimanendo rinchiusa nella loro losca dimora, uscendo solo di notte e producendo strane scariche elettriche dalla cantina. Il sospetto aumenta vedendoli scavare nel proprio giardino fosse grandi tanto da seppellire un corpo umano e buttando enormi sacchi neri della spazzatura e partecipando, ipoteticamente, alla sparizione di un vecchio e schivo vicino. Dante riesce ad iscrivere l’America intera, rappresentata dai suoi sintomatici modelli di americano medio, dentro un piccolo mondo di giardini confinanti e sguardi curiosi. Dal vicino tranquillo ma sospettoso (Tom Hanks), suggestionato dalle atmosfere horror che provengono dalla casa (e dalla televisione) - classico esempio dell’uso della suggestionabilità televisiva – al vicino invadente (Rick Ducommun), un americano beone e ciarliero fino al reduce del vietnam (Bruce Dern), appassionato di armi e tattiche militari, con una milf come moglie, sogno di bellezza americana da copertina di Play Boy. E fin subito chiaro che nel vicinato il sospetto si insinua più nella mente degli uomini che in quella delle donne, da sempre nel cinema di Dante più razionali che istintive, entrando solo successivamente in un gioco riservato solo agli uomini. L’America per Dante è un piccolo Paese abitato dalle propri figure autoctone, una sintesi di mediocrità larga ed indistinta quanto l’insieme di tutti i target televisivi, uno spazio privato lottizzato in giardini che confinano tra loro troppo vicini, tracciando la proprietà privata ed il diritto di privacy; dove tutti si salutano e si sorridono cordialmente solo se restano, al sicuro, all’interno dei propri confini abitativi. Dante racchiude un universo identificandolo attraverso delle maschere/macchiette dell’americano medio. Come in molto suo cinema, cerca, prova e riesce a rimpicciolire una totalità di spazio all’interno di caratteri (personaggi) precisi che ben sintetizzano in caricatura modelli di vita americana. Il suo cinema ha la potenza e dettaglio dello zoom in e out, dal microscopico al macroscopico e viceversa.

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Film racchiuso tra due movimenti di macchina identificativi, realizzati attraverso due meravigliosi aperture che dallo spazio (oltre la totalità del territorio americano) a plongée giungono al limitato spazio dove si sintetizza l’umanità americana, e nel finale tornando in alto (allontanandosi quindi dall’identità miscroscopica di sintesi) in contre-plongèe; prima ed ultima scena attraverso le quali Dante ci avverte che nel film i confini hanno la loro importanza. Tom Hanks, in camicia da notte nella notte del vicinato, prova a varcare con il piede il confine tra il suo bel prato verde e la terra brulla del territorio del vicino, ma un vento minaccioso (o l’alito del diverso/straniero), oscuro presagio di morte caro al cinema horror, lo allontanerà contagiandolo all’idea del sospetto. Dante conosce molto bene tutti i generi e con essi sa ben dialogare, utilizzandoli a proprio piacimento e con molta maestria, costruendo attraverso i loro schematismi pagine di sceneggiatura e minuti di girato. Se nel bel paese plastificato e sano della provincia americana c’è del marcio, questo sarà marchiato sul diverso attraverso le tinte dell’horror, la loro casa, i loro vestiti, le loro abitudini rappresentano il neo putrescente di un genere che il regista conosce e che sempre utilizza. L’ironia della comedy o la scivolosa caduta da slapstick keatoniana sono delle azioni trapuntate nei dialoghi e nei loro rocamboleschi tentativi di invadere la privacy di quel diverso sempre sospettabile. La chiave horror di molte sue messe in scene, aiutata da una scelta musicale d’appartenenza, alzerà i toni comici dell’intera vicenda, inserendosi nei meccanismi narrativi oliati di sano divertimento multigenere. Il sogno che farà Tom Hanks definisce perfettamente il sapiente uso delle tonalità horror, risultando una scena forte e propriamente di genere. La televisione che Hanks guarda trasmette tutti film horror, da L’esorcista di Friedkin a Non aprite quella porta di Hooper, lo zapping riproduzione le sue fantasie di sospetto divenendo fonte assoluta, suprema ed irresistibile di sequenze (nel chiaro omaggio affettivo) coercitive tanto da plasmare il comportamento del protagonista.

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La televisione ed il cinema sono per Dante il potente mezzo di costrizione involontaria della fantasia spettatoriale, un vettore di mesmerizzanti immagini che conducono la vita delle masse. Dante dipinge un’America che non si fida più di nessuno, dove il vicino è lo straniero da sospettare ed indagare, dove la diceria da vicinato è più potente della realtà stessa (anche se il twist finale un po’ perdona il bigottismo dei suoi interpreti, disperdendo l’amarezza morale che avrebbe potuto sottolineare). L’erba del vicino è un chiaro esempio di stilizzazione e critica di un Paese imbambolato, sospettoso dell’altro al di fuori del proprio giardino, una società plastificata ed intontita, sbadata a tal punto da non riconoscere che l’orrore spesso si nasconde per davvero nel vicino di casa. Incantati dal lo stile di vita consumista americano, la massa (e i suoi caricaturali protagonisti) si dimentica dell’orrore che spesso si annida e struttura al di sotto della sua superficie calma e rassicurante. Un film stroncato dalla critica di allora, ma da recuperare, divertente e contestatorio, che bene sintetizza, attraverso l’appiattimento plastico in modelli americani, una società appiattita dai suoi stessi stereotipi.

Autore: Giorgio Sedona
Pubblicato il 20/11/2014

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