Inland (Meseta)

di Juan Palacios

Miraggi dall’entroterra spagnolo, il vincitore del Concorso della 55° edizione della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro.

Inland (Meseta) di Juan Palacios

Il regista basco Jose Palacios ritrae la terra spagnola dell’entroterra tramite l’incanto di una sguardo ondivago, fluentemente marino, lasciando balenare il suo punto di vista tra un personaggio e un altro; ed ecco apparire profili di figure nascenti da una superficie arsa dal sole, come miraggi di identità trasparenti, fantasmi traslucidi di un territorio sconfinato e distante dalle coste, lontano, e lontani, da quella superficie di acqua salata che trasporta uomini, mezzi, pensieri e delusioni. Chi resta all’interno della nazione ha una definizione diversa, non è un’identità mossa, in perpetuo movimento marino, ma è un’anima il cui corpo pesa, radicata nella definizione della sua stessa presenza terrigna, viva su di una terra amica, da seminare e da coltivare. Uomini, donne, bambini, ragazzi che proiettano nello spessore delle ombre, catturate al suo più alto zenit solare, delle opache zone di luce che l’occhio cerca fugacemente di rilevare prima che queste possano dissolversi nell’ondeggiare rarefatto di un abbaglio. È con questo movimento di apparizioni e dissolvenze corporee che Inland (Meseta) traccia, ed individua, delle coordinate umane in congiunzioni geografiche, meridiani e paralleli che nell’intersezioni producono delle storie che sembrano sul punto di scomparire. È proprio al rischio della disgregazione, e della rispettiva scomparsa, che il regista vuole far resistere le immagini attraverso l’uso mnemonico dell’obiettivo e dell’archiviazione audiovisiva: storie, tradizioni, canti, identità culturali e sociali di un altipiano che tende a porgere i suoi abitanti alla funzione sbiadente del sole. Qual è il loro nesso con le dinamiche social, come si realizzano queste identità nella nostra epoca digital? Se da una parte l’utilizzo di strumenti informatici rende esplorabile il territorio, come si deduce dall’uso dell’applicazione Pokémon Go da smartphone nell’episodio delle due ragazze che, attraverso il dispositivo, si dirigono alla scoperta di una mappa geolocalizzata, dall’altra sarà proprio la dimensione ludica della simulazione a far proseguire il lavoro, dal concreto dei campi al lavoro simulato delle trebbiatrici rivissute, risentetizzate, e risemantizzate, su di un televisore post-working. Nodi di una rete che vengono a definirsi sia in una dimensione spaziale, e fisica, sia in una definizione simulata, e virtuale. Motivi questi di una resistenza allo svanire spaziale, oltre che un attrito all’oblio temporale, per una concretizzazione digitale delle loro realtà ed identità in quanto popolazione, e cultura, a cui è necessaria una (ri)combinazione di fattori temporali biologici, come la memoria del ricordo, e di fattori digitali, ludici ed interattivi, per non scomparire del tutto e definitivamente, e quindi per resistere in ombre, almeno, di un miraggio digitale su di una terra a loro appartenuta e vissuta.

Jose Palacios stringe le maglie di un network di identità a prima vista sfibrate ma, se osservate da un punto di vista panoramico - unica focale onnicomprensiva di un territorio posto sull’altipiano di un entroterra – in grado di apparire come nodi di una rete parlante, una stretta maglia di relazioni su di un territorio che lentamente – causa anche l’urbanizzazione – si sta disabitando. E non rimane quindi che contare le case serrate prima di addormentarsi, come praticamente vengono conteggiate dall’ultimo personaggio, ed identità fantasma, dal regista documentato.

Autore: Giorgio Sedona
Pubblicato il 16/06/2019
Spagna, 2019
Regia: Juan Palacios
Durata: 90 minuti

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